A sessant’anni dalla fine del Concilio –

III :  Un sacerdote spagnolo si interroga sul disastro postconciliare

di  Paolo  Pasqualucci

 

Del disastro non dà direttamente la colpa al Concilio ma possiamo dire che lo chiami indirettamente in causa.

Riassumo il testo pubblicato da Don Jorge Guadalix, della Diocesi di Madrid sul blog www.infocatolica.com il 25 marzo 2505.

L’articolo si intitola “Qualcosa non abbiamo capito del Concilio”.

Dopo aver ricordato che al tempo del Concilio era un giovanissimo religioso che pregava ogni giorno per la sacra Assise in corso, peraltro senza saper bene cosa fosse un concilio ecumenico, Don Guadalix, entra nel vivo.

 

“L’aspettativa era grande prima del Vaticano II.  Alitavano tutte le speranze.  Però, dobbiamo riconoscerlo, qualcosa è andato storto [algo no salió bien].  Abbiamo lavorato nella Vigna del Signore facendoci carico di tutte le illusioni del mondo, abbiamo trangugiato la teologia più rabbiosamente postconciliare e abbiamo offerto la nostra vita per la causa del Vangelo.  Ma è arrivata la primavera? Non ne sono  convinto, per niente convinto.

Quest’anno sono sessant’anni dalla fine del Concilio.

Fin adesso ci siamo arrangiati.  I numeri parlano chiaro.  La massiccia secolarizzazione di religiosi e sacerdoti, soprattutto negli anni Settanta, ci ha sconvolto.  La débacle della diminuzione delle vocazioni al sacerdozio e alla vita monastica è stata dissimulata da un’età media che aumentava, che aumenta anno per anno, con progressione sempre più accentuata.  I decessi degli ultimi anni ci hanno costretto a chiudere senza posa monasteri, a nascondere la mancanza di sacerdoti dividendo il numero delle parrocchie, sempre le stesse, con un divisore clericale scarsissimo.  Ci sono zone della Spagna nelle quali un parroco ha in carico otto, dieci, venti, trenta parrocchie…o di più […].  Ovviamente, la vita sacramentale è impossibile.  Viene sostituita da un povero succedaneo in mano a qualche laico che fa ogni domenica quel poco che può fare con il poco che è rimasto […]  Il livello della formazione dei nostri fedeli è preoccupante. Appena un insipido “bisogna condividere” e una Messa tramutata in “una festa gioiosa [muy alegre]”. Uno di loro, da anni in contatto con la parrochia con riunioni e relazioni di ogni tipo, mi diceva che non gli piacevano le Messe, che preferiva le Eucaristie.  Sono penetrati il relativismo dottrinale, il soggettivismo morale.  Abbiamo un cattolicesimo ridotto ai minimi termini.  La disciplina non esiste.  E nulla mai cambia”.

In simile situazione, ovvio che la gioventù viva in gran parte senza la fede, che l’abbia anzi persa, se mai l’ha veramente avuta.

“Più del 50% dei giovani spagnoli si dichiarano agnostici o atei.  E molti di loro, di sicuro, hanno studiato in scuole religiose, sono battezzati e hanno fatto la prima comunione.  Oggi si battezzano all’incirca meno della metà dei bambini che nascono.  I matrimoni in chiesa raggiungono appena il 20% del totale.  Altro dato rilevabile in qualsiasi parrocchia:  le confessioni sono praticamente scomparse.

Qualcuno dirà che il numero non conta, conta la qualità.  Al contrario, il numero ha la sua importanza e alla qualità non credono nemmeno i più accesi sostenitori del Concilio. Felici tuttavia poiché la Chiesa si è molto esposta nel sostenere i poveri.  Il problema è che, se si tratta solo di solidarietà, a tal fine non ho bisogno né della fede né della Chiesa.  Né di farmi sacerdote o religiosa”.

La colpa di tutto questo sfacelo (comune – ricordo – a quasi tutta l’Europa cattolica e ad ampie parti delle Americhe) deve allora esser fatta risalire al Concilio?  La conclusione di Don Guadalix è prudente:  “I documenti conciliari non sono male, cominciando dalle grandi costituzioni.  Direi che si presentano molto bene  [Diría que están muy bien].  Ma forse molti utilizzarono il Concilio per fare i propri comodi propalando uno spirito del Concilio che nessuno ha mai saputo minimamente spiegare.  E a questo fatto si è aggiunto un evidente abbandono della disciplina ecclesiastica, cosa che ha permesso, in ossequio alla modernità e alla sua “atmosfera amichevole”, che ognuno dica ciò che vuole, se la spassi secondo i suoi desideri, viva in accordo con la sua propria e personale infallibilità [...] Qualcosa non quadra”.[1]          

 

Nell’intenso dibattito provocato fra i lettori dall’articolo di Don Guadalix, sono apparsi anche critiche pungenti al Concilio, difeso da alcuni come dottrinalmente integerrimo.  Gli attacchi vertevano in particolare sulla dichiarazione Nostra aetate sulle religioni non cristiane e sull’art. 16 della costituzione Lumen gentium sulla Chiesa, che sembra attribuire ai mussulmani la fede nel nostro stesso Dio e ne apprezza l’alta considerazione per Abramo, traendo in tal modo in inganno i fedeli sulla vera natura dell’islam. 

Infatti, il Concilio passa del tutto sotto silenzio il fatto che i seguaci di Maometto, allo stesso modo degli ebrei, considerano la S.ma Trinità pura idolatria e utilizzano la figura di Abramo, visto come progenitore degli arabi, per dichiarare falsi sia ebraismo che cristianesimo:  essi avrebbero adulterato l’insegnamento del Patriarca, che sarebbe stato quello di un monoteismo assoluto, riportato per l’appunto in auge da Maometto, arabo autodichiaratosi Profeta e “sigillo” dei Profeti, che tutte le altre religioni (per lui false) devono riconoscere. Né l’Antico né il Nuovo Testamento nominano mai Maometto, ma questo, secondo il Corano, perché ebrei e cristiani, invidiosi, ne avrebbero cancellato il nome:  i testi sacri degli ebrei e dei cristiani sono pertanto falsi, per i musulmani, e non vanno letti.

Queste semplici ed oggi scomode verità sull’islam sono state ricordate da alcuni lettori, il loro occultamento dà la misura del grado di mistificazione che si può rintracciare in alcuni testi conciliari.   

Un lettore sottolineava anche la rappresentazione edulcorata di religioni come la buddista e l’indù, anch’esse nei fatti assolutamente incompatibili con la nostra.  Ricordava come nel buddismo tibetano, seguace di una certa scuola, ci fosse spazio anche per la magia sessuale, inclusiva di ogni tipo di diversità.

 

Sarebbe  certamente un gran bene per tutti noi fedeli se sacerdoti come il coraggioso Padre Guadalix, che non è sicuramente l’unico a rendersi conto della situazione drammatica nella quale si trova oggi la Chiesa, trovassero la forza di compiere un ulteriore doloroso passo e  chiedessero pubblicamente alle autorità ecclesiastiche competenti, se una tale, inaudita situazione non imponga di andarne a ricercare le cause profonde in certi testi conciliari, visto che il collasso che ha ridotto il cattolicesimo “ai minimi termini” è coinciso con la riforma totale della Chiesa impostata, auspicata e voluta proprio dal Vaticano II: un Concilio volutosi solo pastorale che tuttavia ha esplicitamente introdotto molte “novità” nella Chiesa.  Non per nulla, nel Proemio della famosa dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa, una fra le più contestate del Concilio, si scrive: 

“…questo Concilio Vaticano rimedita la tradizione sacra e la dottrina della Chiesa, dalle quali trae nuovi elementi in costante armonia con quelli già posseduti [haec Vaticana Synodus sacram Ecclesiae traditionem doctrinamque scrutatur, ex quibus nova semper cum veteribus congruentia profert]”.

Di questa necessaria “congruentia” o armonia tra il nuovo e l’antico, l’amara realtà odierna ci dimostra che nulla è rimasto, se mai ci sia stata. Basti pensare a quello che è successo con le riforme liturgiche, a cominciare da quella capitale della Santa Messa.  Chi difende il Concilio fa giustamente rilevare che le riforme sono andate al di là di quanto propugnato dalla costituzione Sacrosanctum Concilium sulla sacra Liturgia, che voleva mantenere  sia il latino che il canto gregoriano né pensava ad un rito completamente nuovo.  Ma costoro dimenticano che in quella costituzione, avversata da tutti i teologi difensori della liturgia tradizionale, si erano ugualmente introdotti dei princìpi nuovi, non coerenti con la tradizione e dimostratisi utili agli eversori mentre non mancavano le ambiguità.  

 

 

Cito a titolo di esempio :

L’art. 21 afferma perentoriamente che “la Santa madre Chiesa desidera fare un’accurata riforma generale della liturgia.  Questa infatti consta di una parte immutabile, perché di istituzione divina, e di parti suscettibili di cambiamento, che nel corso dei tempi possono e addirittura devono variare”.  Domanda: un’accurata riforma generale della liturgia, era davvero necessaria?  E quali erano le parti “immutabili” della stessa?  Non lo si chiariva.  Inoltre, il criterio della “riforma generale” doveva esser quello dell’adattamento dalla mentalità moderna: le sante realtà espresse dai testi e dai riti, si precisava, “siano espresse più chiaramente e il popolo cristiano possa capirne più facilmente il senso e possa parteciparvi con una celebrazione piena, attiva e comunitaria”.

Si introduce qui il criterio inaccettabile (ribadito agli artt. 34 e 50) della semplificazione del rito al fine di una sua supposta maggior comprensione da parte del popolo, criterio sempre respinto in passato dal Magistero.  Si manifesta un certo sfavore per le Messe private o senza popolo, alle quali va preferita la celebrazione comunitaria (art. 27 – l’avversione per le c.d. Messe private o “celebrate in un angolo”, come dicevano sprezzantemente, era particolarmente forte presso i luterani). Si afferma che le innovazioni devono scaturire “organicamente” dalle forme liturgiche esistenti ed esser pertanto precedute da lungo studio (art. 23) e poi ci si contraddice bellamente all’art. 25 nel quale si ordina che “i libri liturgici siano riveduti quanto prima”, naturalmente servendosi di persone competenti e consultando i vescovi.  Non solo la semplificazione del rito ma anche la fretta di tutto rivedere e riformare, una vera e propria febbre

Mantenuto sì il latino ma con ampie concessioni all’uso del vernacolo mentre la figura del sacerdote comincia già ad esser ambiguamente diminuita a quella di “presidente dell’assemblea” eucaristica (art. 33).  E nell’art. 48 i fedeli sembrano addirittura prender parte alla consacrazione dell’Eucaristia:  “offrendo la vittima senza macchia non soltanto per le mani del sacerdote ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi”.  Questo testo riprende senza dirlo un passo della Mediator Dei di Pio XII ma lo manipola togliendovi l’avverbio “in certo modo” (quodammodo):  per Pio XII, infatti, come per tutta la dottrina di sempre, l’offerta dei fedeli era fatta solo quodammodo, “in certo modo”, “in voto”, spiritualmente, e quindi simbolicamente.[2] Infine, che dire di quella che è forse stata la novità più gravida di conseguenze negative per la nostra religione, voglio dire l’introduzione del principio dell’adattamento alle culture locali e della sperimentazione liturgica, che lasciava alla creatività personale del celebrante margini ristretti solo in teoria, come si è visto ad abundantiam in tutti questi anni?  Vedi SC artt. 37-40 mentre l’art. 22 riconosceva competenza in liturgia anche alle Conferenze Episcopali, sia pure “entro limiti determinati”, sulla carta.

L’elenco completo dei passaggi ambigui, equivoci, o che addirittura sapiunt haeresim del Vaticano II sarebbe lungo.  Sempre a titolo d’esempio mi limito ad estrarre dalla lista:

 

le dispute sull’ambiguo “subsistit in” (Lumen Gentium 8):  mentre il testo dello schema di costituzione dogmatica sulla Chiesa illegalmente rigettato nelle fasi iniziali del Concilio ribadiva che la Chiesa cattolica è la Chiesa di Cristo, sic et simpliciter, la nuova costituzione sulla Chiesa affermava invece che la Chiesa di Cristo, “in questo mondo costituita e organizzata come società, sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui, ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità, che, appartenendo propriamente per dono di Dio alla Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica” – una definizione notevolmente contorta, a mio avviso, che, comunque la si voglia giudicare, costringe a laboriose interpretazioni;

 

le discussioni su come debba veramente intendersi la nuova collegialità stabilita in Lumen Gentium 22;

 

o su quale sia l’effettivo significato della straordinaria affermazione di Gaudium et spes 22.2, secondo la quale “con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo”: solo simbolico o sostanziale, ontologico?  In quest’ultimo caso (ed è verosimilmente il caso della prima enciclica di Giovanni Paolo II, Redemptor hominis) saremmo di fronte ad un errore nella fede, già apparso e controbattuto in secoli lontani, errore che apre la porta all’eresia della salvezza garantita a tutti gli uomini senza bisogno della loro conversione a Cristo, eresia oggi diffusissima.

 

Fino a quando si potrà continuare a sostenere che il Concilio era buono mentre è stato solamente il Postconcilio ad esser cattivo?  Guardiamo ai concili ecumenici precedenti.  Si è mai visto che dopo di loro si sia scatenato il caos nella Chiesa, provocandone un crollo addirittura verticale, in tutte le direzioni?  Mai.

Dopo il primo Concilio di Nicea, la fazione ariana reagì e contrattaccò ma alla fine fu dispersa.  E lo fu proprio perché durante la crisi la Chiesa non era mai crollata ma aveva mantenuto una considerevole parte sana, nei vescovi e nel popolo.  Gli ariani eretici, inoltre, negavano la natura divina di Cristo non attaccavano la morale cristiana, tranquillamente calpestata da un Papa come Bergoglio, adepto della “teologia della liberazione”.    

Nel caso di importanti concili dogmatici, come ad esempio quello di Trento, il problema era spesso rappresentato dalla difficoltà a farne applicare i decreti dalle autorità civili di vari Paesi cattolici.  Ugualmente, dopo il Vaticano I, diversi sovrani non accettarono di riconoscere il dogma dell’infallibilità pontificia, stabilito dal concilio stesso.  Ma si trattava del ripetersi di una situazione attinente ai rapporti, spesso difficili, tra autorità ecclesiastiche e autorità civili.

A volte si è registrata la temporanea resistenza passiva di una parte del clero a certe normative volute da un Concilio ecumencio.  Ma anche questo fenomeno tutto sommato normale, tipico della dialettica interna dell’istituzione ecclesiastica.   

I concili ecumenici in genere facevano chiarezza: ribadivano verità di fede fondamentali, condannavano gravi errori dottrinali, riformavano la Chiesa del loro tempo colpendone storture e difetti; insomma attuavano il corretto uso dell’autorità, definendo, decidendo, spiegando, sanando ed educando.  Ancor oggi grande è il sollievo intellettuale e morale che si prova nel leggere i decreti del Concilio di Trento e del Vaticano Primo, per la loro chiarezza e incisività, per la loro sicura e precisa dottrina. 

All’opposto, come mai a partire dal Vaticano II si è intorbidato tutto?  Come mai, già i testi di questo Concilio sono raramente chiari e ti obbligano spesso (come si è visto) ad “interpretare” il testo, a cercare di capire “quello che ha veramente detto”?  Questa constatazione è stata fatta più volte ma ha trovato risposte vaghe ed insoddisfacenti o, più frequentemente, un muro di silenzio.

Non ho il dono della profezia, tuttavia mi sento di dire, sulla base del semplice sensus fidei, che la Chiesa cattolica non potrà risorgere finché la Gerarchia non avrà avuto il coraggio di dissolvere il clima d’omertà che circonda il Vaticano II.

    

 

5 luglio 2025

 



[1][1] Don Jorge Guadalix, Algo no supimos entender del Concilio, https://www.infocatolica.com/blog/cura.php/2503151009-algo-no-supios-entender-del.  Traduzione italiana di Paolo Pasqualucci.  L’articolo di Don Guadalix è stato ripreso dal sito Benoit et moi il 19 marzo 2025.  L’autorevole mensile cattolico tedesco Kirkliche Umschau [Panoramica sulla Chiesa], vicino alla Fsspx, ne ha pubblicato estratti in un articolo del Giugno 2025, alle pp. 26-27, nel quale riassumeva anche un articolo di Sandro Magister sulla penetrazione della “cancel culture” nell’attuale gerarchia cattolica.

[2] Questa la frase della Mediator Dei :  “essi offrono il Sacrificio non soltanto per le mani del sacerdote, ma, in certo modo [quodammodo], anche insieme con lui…”.  Seguiva un lungo paragrafo nel quale Pio XII spiegava il significato puramente spirituale dell’offerta dei fedeli.  Questo paragrafo nella Sacrosanctum Concilium brilla per la sua assenza. Vedi:  Pio XII, Enciclica ‘Mediator Dei’ sulla sacra Liturgia, con testo latino a fronte, Vita e pensiero, Milano-Roma, 1956, pp. 76 e 77. 






























A sessant’anni dalla fine del Concilio –

III :  Un sacerdote spagnolo si interroga sul disastro postconciliare

di  Paolo  Pasqualucci

 

Del disastro non dà direttamente la colpa al Concilio ma possiamo dire che lo chiami indirettamente in causa.

Riassumo il testo pubblicato da Don Jorge Guadalix, della Diocesi di Madrid sul blog www.infocatolica.com il 25 marzo 2505.

L’articolo si intitola “Qualcosa non abbiamo capito del Concilio”.

Dopo aver ricordato che al tempo del Concilio era un giovanissimo religioso che pregava ogni giorno per la sacra Assise in corso, peraltro senza saper bene cosa fosse un concilio ecumenico, Don Guadalix, entra nel vivo.

 

“L’aspettativa era grande prima del Vaticano II.  Alitavano tutte le speranze.  Però, dobbiamo riconoscerlo, qualcosa è andato storto [algo no salió bien].  Abbiamo lavorato nella Vigna del Signore facendoci carico di tutte le illusioni del mondo, abbiamo trangugiato la teologia più rabbiosamente postconciliare e abbiamo offerto la nostra vita per la causa del Vangelo.  Ma è arrivata la primavera? Non ne sono  convinto, per niente convinto.

Quest’anno sono sessant’anni dalla fine del Concilio.

Fin adesso ci siamo arrangiati.  I numeri parlano chiaro.  La massiccia secolarizzazione di religiosi e sacerdoti, soprattutto negli anni Settanta, ci ha sconvolto.  La débacle della diminuzione delle vocazioni al sacerdozio e alla vita monastica è stata dissimulata da un’età media che aumentava, che aumenta anno per anno, con progressione sempre più accentuata.  I decessi degli ultimi anni ci hanno costretto a chiudere senza posa monasteri, a nascondere la mancanza di sacerdoti dividendo il numero delle parrocchie, sempre le stesse, con un divisore clericale scarsissimo.  Ci sono zone della Spagna nelle quali un parroco ha in carico otto, dieci, venti, trenta parrocchie…o di più […].  Ovviamente, la vita sacramentale è impossibile.  Viene sostituita da un povero succedaneo in mano a qualche laico che fa ogni domenica quel poco che può fare con il poco che è rimasto […]  Il livello della formazione dei nostri fedeli è preoccupante. Appena un insipido “bisogna condividere” e una Messa tramutata in “una festa gioiosa [muy alegre]”. Uno di loro, da anni in contatto con la parrochia con riunioni e relazioni di ogni tipo, mi diceva che non gli piacevano le Messe, che preferiva le Eucaristie.  Sono penetrati il relativismo dottrinale, il soggettivismo morale.  Abbiamo un cattolicesimo ridotto ai minimi termini.  La disciplina non esiste.  E nulla mai cambia”.

In simile situazione, ovvio che la gioventù viva in gran parte senza la fede, che l’abbia anzi persa, se mai l’ha veramente avuta.

“Più del 50% dei giovani spagnoli si dichiarano agnostici o atei.  E molti di loro, di sicuro, hanno studiato in scuole religiose, sono battezzati e hanno fatto la prima comunione.  Oggi si battezzano all’incirca meno della metà dei bambini che nascono.  I matrimoni in chiesa raggiungono appena il 20% del totale.  Altro dato rilevabile in qualsiasi parrocchia:  le confessioni sono praticamente scomparse.

Qualcuno dirà che il numero non conta, conta la qualità.  Al contrario, il numero ha la sua importanza e alla qualità non credono nemmeno i più accesi sostenitori del Concilio. Felici tuttavia poiché la Chiesa si è molto esposta nel sostenere i poveri.  Il problema è che, se si tratta solo di solidarietà, a tal fine non ho bisogno né della fede né della Chiesa.  Né di farmi sacerdote o religiosa”.

La colpa di tutto questo sfacelo (comune – ricordo – a quasi tutta l’Europa cattolica e ad ampie parti delle Americhe) deve allora esser fatta risalire al Concilio?  La conclusione di Don Guadalix è prudente:  “I documenti conciliari non sono male, cominciando dalle grandi costituzioni.  Direi che si presentano molto bene  [Diría que están muy bien].  Ma forse molti utilizzarono il Concilio per fare i propri comodi propalando uno spirito del Concilio che nessuno ha mai saputo minimamente spiegare.  E a questo fatto si è aggiunto un evidente abbandono della disciplina ecclesiastica, cosa che ha permesso, in ossequio alla modernità e alla sua “atmosfera amichevole”, che ognuno dica ciò che vuole, se la spassi secondo i suoi desideri, viva in accordo con la sua propria e personale infallibilità [...] Qualcosa non quadra”.[1]          

 

Nell’intenso dibattito provocato fra i lettori dall’articolo di Don Guadalix, sono apparsi anche critiche pungenti al Concilio, difeso da alcuni come dottrinalmente integerrimo.  Gli attacchi vertevano in particolare sulla dichiarazione Nostra aetate sulle religioni non cristiane e sull’art. 16 della costituzione Lumen gentium sulla Chiesa, che sembra attribuire ai mussulmani la fede nel nostro stesso Dio e ne apprezza l’alta considerazione per Abramo, traendo in tal modo in inganno i fedeli sulla vera natura dell’islam. 

Infatti, il Concilio passa del tutto sotto silenzio il fatto che i seguaci di Maometto, allo stesso modo degli ebrei, considerano la S.ma Trinità pura idolatria e utilizzano la figura di Abramo, visto come progenitore degli arabi, per dichiarare falsi sia ebraismo che cristianesimo:  essi avrebbero adulterato l’insegnamento del Patriarca, che sarebbe stato quello di un monoteismo assoluto, riportato per l’appunto in auge da Maometto, arabo autodichiaratosi Profeta e “sigillo” dei Profeti, che tutte le altre religioni (per lui false) devono riconoscere. Né l’Antico né il Nuovo Testamento nominano mai Maometto, ma questo, secondo il Corano, perché ebrei e cristiani, invidiosi, ne avrebbero cancellato il nome:  i testi sacri degli ebrei e dei cristiani sono pertanto falsi, per i musulmani, e non vanno letti.

Queste semplici ed oggi scomode verità sull’islam sono state ricordate da alcuni lettori, il loro occultamento dà la misura del grado di mistificazione che si può rintracciare in alcuni testi conciliari.   

Un lettore sottolineava anche la rappresentazione edulcorata di religioni come la buddista e l’indù, anch’esse nei fatti assolutamente incompatibili con la nostra.  Ricordava come nel buddismo tibetano, seguace di una certa scuola, ci fosse spazio anche per la magia sessuale, inclusiva di ogni tipo di diversità.

 

Sarebbe  certamente un gran bene per tutti noi fedeli se sacerdoti come il coraggioso Padre Guadalix, che non è sicuramente l’unico a rendersi conto della situazione drammatica nella quale si trova oggi la Chiesa, trovassero la forza di compiere un ulteriore doloroso passo e  chiedessero pubblicamente alle autorità ecclesiastiche competenti, se una tale, inaudita situazione non imponga di andarne a ricercare le cause profonde in certi testi conciliari, visto che il collasso che ha ridotto il cattolicesimo “ai minimi termini” è coinciso con la riforma totale della Chiesa impostata, auspicata e voluta proprio dal Vaticano II: un Concilio volutosi solo pastorale che tuttavia ha esplicitamente introdotto molte “novità” nella Chiesa.  Non per nulla, nel Proemio della famosa dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa, una fra le più contestate del Concilio, si scrive: 

“…questo Concilio Vaticano rimedita la tradizione sacra e la dottrina della Chiesa, dalle quali trae nuovi elementi in costante armonia con quelli già posseduti [haec Vaticana Synodus sacram Ecclesiae traditionem doctrinamque scrutatur, ex quibus nova semper cum veteribus congruentia profert]”.

Di questa necessaria “congruentia” o armonia tra il nuovo e l’antico, l’amara realtà odierna ci dimostra che nulla è rimasto, se mai ci sia stata. Basti pensare a quello che è successo con le riforme liturgiche, a cominciare da quella capitale della Santa Messa.  Chi difende il Concilio fa giustamente rilevare che le riforme sono andate al di là di quanto propugnato dalla costituzione Sacrosanctum Concilium sulla sacra Liturgia, che voleva mantenere  sia il latino che il canto gregoriano né pensava ad un rito completamente nuovo.  Ma costoro dimenticano che in quella costituzione, avversata da tutti i teologi difensori della liturgia tradizionale, si erano ugualmente introdotti dei princìpi nuovi, non coerenti con la tradizione e dimostratisi utili agli eversori mentre non mancavano le ambiguità.  

 

 

Cito a titolo di esempio :

L’art. 21 afferma perentoriamente che “la Santa madre Chiesa desidera fare un’accurata riforma generale della liturgia.  Questa infatti consta di una parte immutabile, perché di istituzione divina, e di parti suscettibili di cambiamento, che nel corso dei tempi possono e addirittura devono variare”.  Domanda: un’accurata riforma generale della liturgia, era davvero necessaria?  E quali erano le parti “immutabili” della stessa?  Non lo si chiariva.  Inoltre, il criterio della “riforma generale” doveva esser quello dell’adattamento dalla mentalità moderna: le sante realtà espresse dai testi e dai riti, si precisava, “siano espresse più chiaramente e il popolo cristiano possa capirne più facilmente il senso e possa parteciparvi con una celebrazione piena, attiva e comunitaria”.

Si introduce qui il criterio inaccettabile (ribadito agli artt. 34 e 50) della semplificazione del rito al fine di una sua supposta maggior comprensione da parte del popolo, criterio sempre respinto in passato dal Magistero.  Si manifesta un certo sfavore per le Messe private o senza popolo, alle quali va preferita la celebrazione comunitaria (art. 27 – l’avversione per le c.d. Messe private o “celebrate in un angolo”, come dicevano sprezzantemente, era particolarmente forte presso i luterani). Si afferma che le innovazioni devono scaturire “organicamente” dalle forme liturgiche esistenti ed esser pertanto precedute da lungo studio (art. 23) e poi ci si contraddice bellamente all’art. 25 nel quale si ordina che “i libri liturgici siano riveduti quanto prima”, naturalmente servendosi di persone competenti e consultando i vescovi.  Non solo la semplificazione del rito ma anche la fretta di tutto rivedere e riformare, una vera e propria febbre

Mantenuto sì il latino ma con ampie concessioni all’uso del vernacolo mentre la figura del sacerdote comincia già ad esser ambiguamente diminuita a quella di “presidente dell’assemblea” eucaristica (art. 33).  E nell’art. 48 i fedeli sembrano addirittura prender parte alla consacrazione dell’Eucaristia:  “offrendo la vittima senza macchia non soltanto per le mani del sacerdote ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi”.  Questo testo riprende senza dirlo un passo della Mediator Dei di Pio XII ma lo manipola togliendovi l’avverbio “in certo modo” (quodammodo):  per Pio XII, infatti, come per tutta la dottrina di sempre, l’offerta dei fedeli era fatta solo quodammodo, “in certo modo”, “in voto”, spiritualmente, e quindi simbolicamente.[2] Infine, che dire di quella che è forse stata la novità più gravida di conseguenze negative per la nostra religione, voglio dire l’introduzione del principio dell’adattamento alle culture locali e della sperimentazione liturgica, che lasciava alla creatività personale del celebrante margini ristretti solo in teoria, come si è visto ad abundantiam in tutti questi anni?  Vedi SC artt. 37-40 mentre l’art. 22 riconosceva competenza in liturgia anche alle Conferenze Episcopali, sia pure “entro limiti determinati”, sulla carta.

L’elenco completo dei passaggi ambigui, equivoci, o che addirittura sapiunt haeresim del Vaticano II sarebbe lungo.  Sempre a titolo d’esempio mi limito ad estrarre dalla lista:

 

le dispute sull’ambiguo “subsistit in” (Lumen Gentium 8):  mentre il testo dello schema di costituzione dogmatica sulla Chiesa illegalmente rigettato nelle fasi iniziali del Concilio ribadiva che la Chiesa cattolica è la Chiesa di Cristo, sic et simpliciter, la nuova costituzione sulla Chiesa affermava invece che la Chiesa di Cristo, “in questo mondo costituita e organizzata come società, sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui, ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità, che, appartenendo propriamente per dono di Dio alla Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica” – una definizione notevolmente contorta, a mio avviso, che, comunque la si voglia giudicare, costringe a laboriose interpretazioni;

 

le discussioni su come debba veramente intendersi la nuova collegialità stabilita in Lumen Gentium 22;

 

o su quale sia l’effettivo significato della straordinaria affermazione di Gaudium et spes 22.2, secondo la quale “con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo”: solo simbolico o sostanziale, ontologico?  In quest’ultimo caso (ed è verosimilmente il caso della prima enciclica di Giovanni Paolo II, Redemptor hominis) saremmo di fronte ad un errore nella fede, già apparso e controbattuto in secoli lontani, errore che apre la porta all’eresia della salvezza garantita a tutti gli uomini senza bisogno della loro conversione a Cristo, eresia oggi diffusissima.

 

Fino a quando si potrà continuare a sostenere che il Concilio era buono mentre è stato solamente il Postconcilio ad esser cattivo?  Guardiamo ai concili ecumenici precedenti.  Si è mai visto che dopo di loro si sia scatenato il caos nella Chiesa, provocandone un crollo addirittura verticale, in tutte le direzioni?  Mai.

Dopo il primo Concilio di Nicea, la fazione ariana reagì e contrattaccò ma alla fine fu dispersa.  E lo fu proprio perché durante la crisi la Chiesa non era mai crollata ma aveva mantenuto una considerevole parte sana, nei vescovi e nel popolo.  Gli ariani eretici, inoltre, negavano la natura divina di Cristo non attaccavano la morale cristiana, tranquillamente calpestata da un Papa come Bergoglio, adepto della “teologia della liberazione”.    

Nel caso di importanti concili dogmatici, come ad esempio quello di Trento, il problema era spesso rappresentato dalla difficoltà a farne applicare i decreti dalle autorità civili di vari Paesi cattolici.  Ugualmente, dopo il Vaticano I, diversi sovrani non accettarono di riconoscere il dogma dell’infallibilità pontificia, stabilito dal concilio stesso.  Ma si trattava del ripetersi di una situazione attinente ai rapporti, spesso difficili, tra autorità ecclesiastiche e autorità civili.

A volte si è registrata la temporanea resistenza passiva di una parte del clero a certe normative volute da un Concilio ecumencio.  Ma anche questo fenomeno tutto sommato normale, tipico della dialettica interna dell’istituzione ecclesiastica.   

I concili ecumenici in genere facevano chiarezza: ribadivano verità di fede fondamentali, condannavano gravi errori dottrinali, riformavano la Chiesa del loro tempo colpendone storture e difetti; insomma attuavano il corretto uso dell’autorità, definendo, decidendo, spiegando, sanando ed educando.  Ancor oggi grande è il sollievo intellettuale e morale che si prova nel leggere i decreti del Concilio di Trento e del Vaticano Primo, per la loro chiarezza e incisività, per la loro sicura e precisa dottrina. 

All’opposto, come mai a partire dal Vaticano II si è intorbidato tutto?  Come mai, già i testi di questo Concilio sono raramente chiari e ti obbligano spesso (come si è visto) ad “interpretare” il testo, a cercare di capire “quello che ha veramente detto”?  Questa constatazione è stata fatta più volte ma ha trovato risposte vaghe ed insoddisfacenti o, più frequentemente, un muro di silenzio.

Non ho il dono della profezia, tuttavia mi sento di dire, sulla base del semplice sensus fidei, che la Chiesa cattolica non potrà risorgere finché la Gerarchia non avrà avuto il coraggio di dissolvere il clima d’omertà che circonda il Vaticano II.

    

 

5 luglio 2025

 



[1][1] Don Jorge Guadalix, Algo no supimos entender del Concilio, https://www.infocatolica.com/blog/cura.php/2503151009-algo-no-supios-entender-del.  Traduzione italiana di Paolo Pasqualucci.  L’articolo di Don Guadalix è stato ripreso dal sito Benoit et moi il 19 marzo 2025.  L’autorevole mensile cattolico tedesco Kirkliche Umschau [Panoramica sulla Chiesa], vicino alla Fsspx, ne ha pubblicato estratti in un articolo del Giugno 2025, alle pp. 26-27, nel quale riassumeva anche un articolo di Sandro Magister sulla penetrazione della “cancel culture” nell’attuale gerarchia cattolica.

[2] Questa la frase della Mediator Dei :  “essi offrono il Sacrificio non soltanto per le mani del sacerdote, ma, in certo modo [quodammodo], anche insieme con lui…”.  Seguiva un lungo paragrafo nel quale Pio XII spiegava il significato puramente spirituale dell’offerta dei fedeli.  Questo paragrafo nella Sacrosanctum Concilium brilla per la sua assenza. Vedi:  Pio XII, Enciclica ‘Mediator Dei’ sulla sacra Liturgia, con testo latino a fronte, Vita e pensiero, Milano-Roma, 1956, pp. 76 e 77. 

 

A sessant’anni dalla fine del Concilio –

III :  Un sacerdote spagnolo si interroga sul disastro postconciliare

di  Paolo  Pasqualucci

 

Del disastro non dà direttamente la colpa al Concilio ma possiamo dire che lo chiami indirettamente in causa.

Riassumo il testo pubblicato da Don Jorge Guadalix, della Diocesi di Madrid sul blog www.infocatolica.com il 25 marzo 2505.

L’articolo si intitola “Qualcosa non abbiamo capito del Concilio”.

Dopo aver ricordato che al tempo del Concilio era un giovanissimo religioso che pregava ogni giorno per la sacra Assise in corso, peraltro senza saper bene cosa fosse un concilio ecumenico, Don Guadalix, entra nel vivo.

 

“L’aspettativa era grande prima del Vaticano II.  Alitavano tutte le speranze.  Però, dobbiamo riconoscerlo, qualcosa è andato storto [algo no salió bien].  Abbiamo lavorato nella Vigna del Signore facendoci carico di tutte le illusioni del mondo, abbiamo trangugiato la teologia più rabbiosamente postconciliare e abbiamo offerto la nostra vita per la causa del Vangelo.  Ma è arrivata la primavera? Non ne sono  convinto, per niente convinto.

Quest’anno sono sessant’anni dalla fine del Concilio.

Fin adesso ci siamo arrangiati.  I numeri parlano chiaro.  La massiccia secolarizzazione di religiosi e sacerdoti, soprattutto negli anni Settanta, ci ha sconvolto.  La débacle della diminuzione delle vocazioni al sacerdozio e alla vita monastica è stata dissimulata da un’età media che aumentava, che aumenta anno per anno, con progressione sempre più accentuata.  I decessi degli ultimi anni ci hanno costretto a chiudere senza posa monasteri, a nascondere la mancanza di sacerdoti dividendo il numero delle parrocchie, sempre le stesse, con un divisore clericale scarsissimo.  Ci sono zone della Spagna nelle quali un parroco ha in carico otto, dieci, venti, trenta parrocchie…o di più […].  Ovviamente, la vita sacramentale è impossibile.  Viene sostituita da un povero succedaneo in mano a qualche laico che fa ogni domenica quel poco che può fare con il poco che è rimasto […]  Il livello della formazione dei nostri fedeli è preoccupante. Appena un insipido “bisogna condividere” e una Messa tramutata in “una festa gioiosa [muy alegre]”. Uno di loro, da anni in contatto con la parrochia con riunioni e relazioni di ogni tipo, mi diceva che non gli piacevano le Messe, che preferiva le Eucaristie.  Sono penetrati il relativismo dottrinale, il soggettivismo morale.  Abbiamo un cattolicesimo ridotto ai minimi termini.  La disciplina non esiste.  E nulla mai cambia”.

In simile situazione, ovvio che la gioventù viva in gran parte senza la fede, che l’abbia anzi persa, se mai l’ha veramente avuta.

“Più del 50% dei giovani spagnoli si dichiarano agnostici o atei.  E molti di loro, di sicuro, hanno studiato in scuole religiose, sono battezzati e hanno fatto la prima comunione.  Oggi si battezzano all’incirca meno della metà dei bambini che nascono.  I matrimoni in chiesa raggiungono appena il 20% del totale.  Altro dato rilevabile in qualsiasi parrocchia:  le confessioni sono praticamente scomparse.

Qualcuno dirà che il numero non conta, conta la qualità.  Al contrario, il numero ha la sua importanza e alla qualità non credono nemmeno i più accesi sostenitori del Concilio. Felici tuttavia poiché la Chiesa si è molto esposta nel sostenere i poveri.  Il problema è che, se si tratta solo di solidarietà, a tal fine non ho bisogno né della fede né della Chiesa.  Né di farmi sacerdote o religiosa”.

La colpa di tutto questo sfacelo (comune – ricordo – a quasi tutta l’Europa cattolica e ad ampie parti delle Americhe) deve allora esser fatta risalire al Concilio?  La conclusione di Don Guadalix è prudente:  “I documenti conciliari non sono male, cominciando dalle grandi costituzioni.  Direi che si presentano molto bene  [Diría que están muy bien].  Ma forse molti utilizzarono il Concilio per fare i propri comodi propalando uno spirito del Concilio che nessuno ha mai saputo minimamente spiegare.  E a questo fatto si è aggiunto un evidente abbandono della disciplina ecclesiastica, cosa che ha permesso, in ossequio alla modernità e alla sua “atmosfera amichevole”, che ognuno dica ciò che vuole, se la spassi secondo i suoi desideri, viva in accordo con la sua propria e personale infallibilità [...] Qualcosa non quadra”.[1]          

 

Nell’intenso dibattito provocato fra i lettori dall’articolo di Don Guadalix, sono apparsi anche critiche pungenti al Concilio, difeso da alcuni come dottrinalmente integerrimo.  Gli attacchi vertevano in particolare sulla dichiarazione Nostra aetate sulle religioni non cristiane e sull’art. 16 della costituzione Lumen gentium sulla Chiesa, che sembra attribuire ai mussulmani la fede nel nostro stesso Dio e ne apprezza l’alta considerazione per Abramo, traendo in tal modo in inganno i fedeli sulla vera natura dell’islam. 

Infatti, il Concilio passa del tutto sotto silenzio il fatto che i seguaci di Maometto, allo stesso modo degli ebrei, considerano la S.ma Trinità pura idolatria e utilizzano la figura di Abramo, visto come progenitore degli arabi, per dichiarare falsi sia ebraismo che cristianesimo:  essi avrebbero adulterato l’insegnamento del Patriarca, che sarebbe stato quello di un monoteismo assoluto, riportato per l’appunto in auge da Maometto, arabo autodichiaratosi Profeta e “sigillo” dei Profeti, che tutte le altre religioni (per lui false) devono riconoscere. Né l’Antico né il Nuovo Testamento nominano mai Maometto, ma questo, secondo il Corano, perché ebrei e cristiani, invidiosi, ne avrebbero cancellato il nome:  i testi sacri degli ebrei e dei cristiani sono pertanto falsi, per i musulmani, e non vanno letti.

Queste semplici ed oggi scomode verità sull’islam sono state ricordate da alcuni lettori, il loro occultamento dà la misura del grado di mistificazione che si può rintracciare in alcuni testi conciliari.   

Un lettore sottolineava anche la rappresentazione edulcorata di religioni come la buddista e l’indù, anch’esse nei fatti assolutamente incompatibili con la nostra.  Ricordava come nel buddismo tibetano, seguace di una certa scuola, ci fosse spazio anche per la magia sessuale, inclusiva di ogni tipo di diversità.

 

Sarebbe  certamente un gran bene per tutti noi fedeli se sacerdoti come il coraggioso Padre Guadalix, che non è sicuramente l’unico a rendersi conto della situazione drammatica nella quale si trova oggi la Chiesa, trovassero la forza di compiere un ulteriore doloroso passo e  chiedessero pubblicamente alle autorità ecclesiastiche competenti, se una tale, inaudita situazione non imponga di andarne a ricercare le cause profonde in certi testi conciliari, visto che il collasso che ha ridotto il cattolicesimo “ai minimi termini” è coinciso con la riforma totale della Chiesa impostata, auspicata e voluta proprio dal Vaticano II: un Concilio volutosi solo pastorale che tuttavia ha esplicitamente introdotto molte “novità” nella Chiesa.  Non per nulla, nel Proemio della famosa dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa, una fra le più contestate del Concilio, si scrive: 

“…questo Concilio Vaticano rimedita la tradizione sacra e la dottrina della Chiesa, dalle quali trae nuovi elementi in costante armonia con quelli già posseduti [haec Vaticana Synodus sacram Ecclesiae traditionem doctrinamque scrutatur, ex quibus nova semper cum veteribus congruentia profert]”.

Di questa necessaria “congruentia” o armonia tra il nuovo e l’antico, l’amara realtà odierna ci dimostra che nulla è rimasto, se mai ci sia stata. Basti pensare a quello che è successo con le riforme liturgiche, a cominciare da quella capitale della Santa Messa.  Chi difende il Concilio fa giustamente rilevare che le riforme sono andate al di là di quanto propugnato dalla costituzione Sacrosanctum Concilium sulla sacra Liturgia, che voleva mantenere  sia il latino che il canto gregoriano né pensava ad un rito completamente nuovo.  Ma costoro dimenticano che in quella costituzione, avversata da tutti i teologi difensori della liturgia tradizionale, si erano ugualmente introdotti dei princìpi nuovi, non coerenti con la tradizione e dimostratisi utili agli eversori mentre non mancavano le ambiguità.  

 

 

Cito a titolo di esempio :

L’art. 21 afferma perentoriamente che “la Santa madre Chiesa desidera fare un’accurata riforma generale della liturgia.  Questa infatti consta di una parte immutabile, perché di istituzione divina, e di parti suscettibili di cambiamento, che nel corso dei tempi possono e addirittura devono variare”.  Domanda: un’accurata riforma generale della liturgia, era davvero necessaria?  E quali erano le parti “immutabili” della stessa?  Non lo si chiariva.  Inoltre, il criterio della “riforma generale” doveva esser quello dell’adattamento dalla mentalità moderna: le sante realtà espresse dai testi e dai riti, si precisava, “siano espresse più chiaramente e il popolo cristiano possa capirne più facilmente il senso e possa parteciparvi con una celebrazione piena, attiva e comunitaria”.

Si introduce qui il criterio inaccettabile (ribadito agli artt. 34 e 50) della semplificazione del rito al fine di una sua supposta maggior comprensione da parte del popolo, criterio sempre respinto in passato dal Magistero.  Si manifesta un certo sfavore per le Messe private o senza popolo, alle quali va preferita la celebrazione comunitaria (art. 27 – l’avversione per le c.d. Messe private o “celebrate in un angolo”, come dicevano sprezzantemente, era particolarmente forte presso i luterani). Si afferma che le innovazioni devono scaturire “organicamente” dalle forme liturgiche esistenti ed esser pertanto precedute da lungo studio (art. 23) e poi ci si contraddice bellamente all’art. 25 nel quale si ordina che “i libri liturgici siano riveduti quanto prima”, naturalmente servendosi di persone competenti e consultando i vescovi.  Non solo la semplificazione del rito ma anche la fretta di tutto rivedere e riformare, una vera e propria febbre. 

Mantenuto sì il latino ma con ampie concessioni all’uso del vernacolo mentre la figura del sacerdote comincia già ad esser ambiguamente diminuita a quella di “presidente dell’assemblea” eucaristica (art. 33).  E nell’art. 48 i fedeli sembrano addirittura prender parte alla consacrazione dell’Eucaristia:  “offrendo la vittima senza macchia non soltanto per le mani del sacerdote ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi”.  Questo testo riprende senza dirlo un passo della Mediator Dei di Pio XII ma lo manipola togliendovi l’avverbio “in certo modo” (quodammodo):  per Pio XII, infatti, come per tutta la dottrina di sempre, l’offerta dei fedeli era fatta solo quodammodo, “in certo modo”, “in voto”, spiritualmente, e quindi simbolicamente.[2] Infine, che dire di quella che è forse stata la novità più gravida di conseguenze negative per la nostra religione, voglio dire l’introduzione del principio dell’adattamento alle culture locali e della sperimentazione liturgica, che lasciava alla creatività personale del celebrante margini ristretti solo in teoria, come si è visto ad abundantiam in tutti questi anni?  Vedi SC artt. 37-40 mentre l’art. 22 riconosceva competenza in liturgia anche alle Conferenze Episcopali, sia pure “entro limiti determinati”, sulla carta.

L’elenco completo dei passaggi ambigui, equivoci, o che addirittura sapiunt haeresim del Vaticano II sarebbe lungo.  Sempre a titolo d’esempio mi limito ad estrarre dalla lista:

 

le dispute sull’ambiguo “subsistit in” (Lumen Gentium 8):  mentre il testo dello schema di costituzione dogmatica sulla Chiesa illegalmente rigettato nelle fasi iniziali del Concilio ribadiva che la Chiesa cattolica è la Chiesa di Cristo, sic et simpliciter, la nuova costituzione sulla Chiesa affermava invece che la Chiesa di Cristo, “in questo mondo costituita e organizzata come società, sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui, ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità, che, appartenendo propriamente per dono di Dio alla Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica” – una definizione notevolmente contorta, a mio avviso, che, comunque la si voglia giudicare, costringe a laboriose interpretazioni;

 

le discussioni su come debba veramente intendersi la nuova collegialità stabilita in Lumen Gentium 22;

 

o su quale sia l’effettivo significato della straordinaria affermazione di Gaudium et spes 22.2, secondo la quale “con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo”: solo simbolico o sostanziale, ontologico?  In quest’ultimo caso (ed è verosimilmente il caso della prima enciclica di Giovanni Paolo II, Redemptor hominis) saremmo di fronte ad un errore nella fede, già apparso e controbattuto in secoli lontani, errore che apre la porta all’eresia della salvezza garantita a tutti gli uomini senza bisogno della loro conversione a Cristo, eresia oggi diffusissima.

 

Fino a quando si potrà continuare a sostenere che il Concilio era buono mentre è stato solamente il Postconcilio ad esser cattivo?  Guardiamo ai concili ecumenici precedenti.  Si è mai visto che dopo di loro si sia scatenato il caos nella Chiesa, provocandone un crollo addirittura verticale, in tutte le direzioni?  Mai.

Dopo il primo Concilio di Nicea, la fazione ariana reagì e contrattaccò ma alla fine fu dispersa.  E lo fu proprio perché durante la crisi la Chiesa non era mai crollata ma aveva mantenuto una considerevole parte sana, nei vescovi e nel popolo.  Gli ariani eretici, inoltre, negavano la natura divina di Cristo non attaccavano la morale cristiana, tranquillamente calpestata da un Papa come Bergoglio, adepto della “teologia della liberazione”.    

Nel caso di importanti concili dogmatici, come ad esempio quello di Trento, il problema era spesso rappresentato dalla difficoltà a farne applicare i decreti dalle autorità civili di vari Paesi cattolici.  Ugualmente, dopo il Vaticano I, diversi sovrani non accettarono di riconoscere il dogma dell’infallibilità pontificia, stabilito dal concilio stesso.  Ma si trattava del ripetersi di una situazione attinente ai rapporti, spesso difficili, tra autorità ecclesiastiche e autorità civili.

A volte si è registrata la temporanea resistenza passiva di una parte del clero a certe normative volute da un Concilio ecumencio.  Ma anche questo fenomeno tutto sommato normale, tipico della dialettica interna dell’istituzione ecclesiastica.   

I concili ecumenici in genere facevano chiarezza: ribadivano verità di fede fondamentali, condannavano gravi errori dottrinali, riformavano la Chiesa del loro tempo colpendone storture e difetti; insomma attuavano il corretto uso dell’autorità, definendo, decidendo, spiegando, sanando ed educando.  Ancor oggi grande è il sollievo intellettuale e morale che si prova nel leggere i decreti del Concilio di Trento e del Vaticano Primo, per la loro chiarezza e incisività, per la loro sicura e precisa dottrina. 

All’opposto, come mai a partire dal Vaticano II si è intorbidato tutto?  Come mai, già i testi di questo Concilio sono raramente chiari e ti obbligano spesso (come si è visto) ad “interpretare” il testo, a cercare di capire “quello che ha veramente detto”?  Questa constatazione è stata fatta più volte ma ha trovato risposte vaghe ed insoddisfacenti o, più frequentemente, un muro di silenzio.

Non ho il dono della profezia, tuttavia mi sento di dire, sulla base del semplice sensus fidei, che la Chiesa cattolica non potrà risorgere finché la Gerarchia non avrà avuto il coraggio di dissolvere il clima d’omertà che circonda il Vaticano II.

    

 

5 luglio 2025

 



[1][1] Don Jorge Guadalix, Algo no supimos entender del Concilio, https://www.infocatolica.com/blog/cura.php/2503151009-algo-no-supios-entender-del.  Traduzione italiana di Paolo Pasqualucci.  L’articolo di Don Guadalix è stato ripreso dal sito Benoit et moi il 19 marzo 2025.  L’autorevole mensile cattolico tedesco Kirkliche Umschau [Panoramica sulla Chiesa], vicino alla Fsspx, ne ha pubblicato estratti in un articolo del Giugno 2025, alle pp. 26-27, nel quale riassumeva anche un articolo di Sandro Magister sulla penetrazione della “cancel culture” nell’attuale gerarchia cattolica.

[2] Questa la frase della Mediator Dei :  “essi offrono il Sacrificio non soltanto per le mani del sacerdote, ma, in certo modo [quodammodo], anche insieme con lui…”.  Seguiva un lungo paragrafo nel quale Pio XII spiegava il significato puramente spirituale dell’offerta dei fedeli.  Questo paragrafo nella Sacrosanctum Concilium brilla per la sua assenza. Vedi:  Pio XII, Enciclica ‘Mediator Dei’ sulla sacra Liturgia, con testo latino a fronte, Vita e pensiero, Milano-Roma, 1956, pp. 76 e 77.

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