A sessant’anni dalla fine del Concilio –
III :
Un sacerdote spagnolo si interroga sul disastro postconciliare
di
Paolo Pasqualucci
Del disastro non dà
direttamente la colpa al Concilio ma possiamo dire che lo chiami indirettamente
in causa.
Riassumo il testo pubblicato
da Don Jorge Guadalix, della Diocesi di Madrid sul blog www.infocatolica.com il 25 marzo 2505.
L’articolo si intitola
“Qualcosa non abbiamo capito del Concilio”.
Dopo aver ricordato
che al tempo del Concilio era un giovanissimo religioso che pregava ogni giorno
per la sacra Assise in corso, peraltro senza saper bene cosa fosse un concilio
ecumenico, Don Guadalix, entra nel vivo.
“L’aspettativa era
grande prima del Vaticano II. Alitavano tutte
le speranze. Però, dobbiamo
riconoscerlo, qualcosa è andato storto [algo no salió bien]. Abbiamo lavorato nella Vigna del Signore
facendoci carico di tutte le illusioni del mondo, abbiamo trangugiato la
teologia più rabbiosamente postconciliare e abbiamo offerto la nostra vita per
la causa del Vangelo. Ma è arrivata la primavera?
Non ne sono convinto, per niente
convinto.
Quest’anno sono
sessant’anni dalla fine del Concilio.
Fin adesso ci siamo
arrangiati. I numeri parlano
chiaro. La massiccia secolarizzazione di
religiosi e sacerdoti, soprattutto negli anni Settanta, ci ha sconvolto. La débacle della diminuzione delle vocazioni
al sacerdozio e alla vita monastica è stata dissimulata da un’età media che
aumentava, che aumenta anno per anno, con progressione sempre più accentuata. I decessi degli ultimi anni ci hanno
costretto a chiudere senza posa monasteri, a nascondere la mancanza di
sacerdoti dividendo il numero delle parrocchie, sempre le stesse, con un
divisore clericale scarsissimo. Ci sono
zone della Spagna nelle quali un parroco ha in carico otto, dieci, venti,
trenta parrocchie…o di più […].
Ovviamente, la vita sacramentale è impossibile. Viene sostituita da un povero succedaneo in
mano a qualche laico che fa ogni domenica quel poco che può fare con il poco
che è rimasto […] Il livello della
formazione dei nostri fedeli è preoccupante. Appena un insipido “bisogna
condividere” e una Messa tramutata in “una festa gioiosa [muy alegre]”. Uno
di loro, da anni in contatto con la parrochia con riunioni e relazioni di ogni
tipo, mi diceva che non gli piacevano le Messe, che preferiva le
Eucaristie. Sono penetrati il
relativismo dottrinale, il soggettivismo morale. Abbiamo un cattolicesimo ridotto ai minimi
termini. La disciplina non esiste. E nulla mai cambia”.
In simile situazione,
ovvio che la gioventù viva in gran parte senza la fede, che l’abbia anzi persa,
se mai l’ha veramente avuta.
“Più del 50% dei
giovani spagnoli si dichiarano agnostici o atei. E molti di loro, di sicuro, hanno studiato in
scuole religiose, sono battezzati e hanno fatto la prima comunione. Oggi si battezzano all’incirca meno della
metà dei bambini che nascono. I
matrimoni in chiesa raggiungono appena il 20% del totale. Altro dato rilevabile in qualsiasi
parrocchia: le confessioni sono praticamente
scomparse.
Qualcuno dirà che il
numero non conta, conta la qualità. Al
contrario, il numero ha la sua importanza e alla qualità non credono nemmeno i
più accesi sostenitori del Concilio. Felici tuttavia poiché la Chiesa si è molto
esposta nel sostenere i poveri. Il
problema è che, se si tratta solo di solidarietà, a tal fine non ho bisogno né
della fede né della Chiesa. Né di farmi
sacerdote o religiosa”.
La colpa di tutto
questo sfacelo (comune – ricordo – a quasi tutta l’Europa cattolica e ad ampie
parti delle Americhe) deve allora esser fatta risalire al Concilio? La conclusione di Don Guadalix è
prudente: “I documenti conciliari non sono
male, cominciando dalle grandi costituzioni.
Direi che si presentano molto bene
[Diría que están muy bien].
Ma forse molti utilizzarono il Concilio per fare i propri comodi
propalando uno spirito del Concilio che nessuno ha mai saputo minimamente
spiegare. E a questo fatto si è aggiunto
un evidente abbandono della disciplina ecclesiastica, cosa che ha permesso, in
ossequio alla modernità e alla sua “atmosfera amichevole”, che ognuno dica ciò
che vuole, se la spassi secondo i suoi desideri, viva in accordo con la sua
propria e personale infallibilità [...] Qualcosa non quadra”.[1]
Nell’intenso dibattito
provocato fra i lettori dall’articolo di Don Guadalix, sono apparsi anche
critiche pungenti al Concilio, difeso da alcuni come dottrinalmente
integerrimo. Gli attacchi vertevano in
particolare sulla dichiarazione Nostra aetate sulle religioni non cristiane
e sull’art. 16 della costituzione Lumen gentium sulla Chiesa, che
sembra attribuire ai mussulmani la fede nel nostro stesso Dio e ne apprezza
l’alta considerazione per Abramo, traendo in tal modo in inganno i fedeli sulla
vera natura dell’islam.
Infatti, il Concilio
passa del tutto sotto silenzio il fatto che i seguaci di Maometto, allo stesso
modo degli ebrei, considerano la S.ma Trinità pura idolatria e utilizzano la
figura di Abramo, visto come progenitore degli arabi, per dichiarare falsi sia
ebraismo che cristianesimo: essi
avrebbero adulterato l’insegnamento del Patriarca, che sarebbe stato quello di
un monoteismo assoluto, riportato per l’appunto in auge da Maometto, arabo autodichiaratosi
Profeta e “sigillo” dei Profeti, che tutte le altre religioni (per lui false)
devono riconoscere. Né l’Antico né il Nuovo Testamento nominano mai Maometto,
ma questo, secondo il Corano, perché ebrei e cristiani, invidiosi, ne avrebbero
cancellato il nome: i testi sacri degli
ebrei e dei cristiani sono pertanto falsi, per i musulmani, e non vanno letti.
Queste semplici ed
oggi scomode verità sull’islam sono state ricordate da alcuni lettori, il loro
occultamento dà la misura del grado di mistificazione che si può rintracciare
in alcuni testi conciliari.
Un lettore
sottolineava anche la rappresentazione edulcorata di religioni come la buddista
e l’indù, anch’esse nei fatti assolutamente incompatibili con la nostra. Ricordava come nel buddismo tibetano, seguace
di una certa scuola, ci fosse spazio anche per la magia sessuale, inclusiva di
ogni tipo di diversità.
Sarebbe certamente un gran bene per tutti noi fedeli
se sacerdoti come il coraggioso Padre Guadalix, che non è sicuramente l’unico a
rendersi conto della situazione drammatica nella quale si trova oggi la Chiesa,
trovassero la forza di compiere un ulteriore doloroso passo e chiedessero pubblicamente alle autorità
ecclesiastiche competenti, se una tale, inaudita situazione non imponga di
andarne a ricercare le cause profonde in certi testi conciliari, visto che il
collasso che ha ridotto il cattolicesimo “ai minimi termini” è coinciso con la
riforma totale della Chiesa impostata, auspicata e voluta proprio dal
Vaticano II: un Concilio volutosi solo pastorale che tuttavia ha esplicitamente
introdotto molte “novità” nella Chiesa.
Non per nulla, nel Proemio della famosa dichiarazione Dignitatis
humanae sulla libertà religiosa, una fra le più contestate del Concilio, si
scrive:
“…questo Concilio
Vaticano rimedita la tradizione sacra e la dottrina della Chiesa, dalle quali
trae nuovi elementi in costante armonia con quelli già posseduti [haec
Vaticana Synodus sacram Ecclesiae traditionem doctrinamque scrutatur, ex quibus
nova semper cum veteribus congruentia profert]”.
Di questa necessaria
“congruentia” o armonia tra il nuovo e l’antico, l’amara realtà odierna ci
dimostra che nulla è rimasto, se mai ci sia stata. Basti pensare a quello che è
successo con le riforme liturgiche, a cominciare da quella capitale della Santa
Messa. Chi difende il Concilio fa
giustamente rilevare che le riforme sono andate al di là di quanto propugnato
dalla costituzione Sacrosanctum Concilium sulla sacra Liturgia, che
voleva mantenere sia il latino che il
canto gregoriano né pensava ad un rito completamente nuovo. Ma costoro dimenticano che in quella
costituzione, avversata da tutti i teologi difensori della liturgia
tradizionale, si erano ugualmente introdotti dei princìpi nuovi, non coerenti
con la tradizione e dimostratisi utili agli eversori mentre non mancavano le
ambiguità.
Cito a titolo di
esempio :
L’art. 21 afferma
perentoriamente che “la Santa madre Chiesa desidera fare un’accurata riforma
generale della liturgia. Questa infatti
consta di una parte immutabile, perché di istituzione divina, e di parti
suscettibili di cambiamento, che nel corso dei tempi possono e addirittura
devono variare”. Domanda: un’accurata
riforma generale della liturgia, era davvero necessaria? E quali erano le parti “immutabili” della
stessa? Non lo si chiariva. Inoltre, il criterio della “riforma generale”
doveva esser quello dell’adattamento dalla mentalità moderna: le sante realtà
espresse dai testi e dai riti, si precisava, “siano espresse più chiaramente e
il popolo cristiano possa capirne più facilmente il senso e possa parteciparvi
con una celebrazione piena, attiva e comunitaria”.
Si introduce qui il
criterio inaccettabile (ribadito agli artt. 34 e 50) della semplificazione
del rito al fine di una sua supposta maggior comprensione da parte del popolo,
criterio sempre respinto in passato dal Magistero. Si manifesta un certo sfavore per le Messe
private o senza popolo, alle quali va preferita la celebrazione comunitaria
(art. 27 – l’avversione per le c.d. Messe private o “celebrate in un angolo”,
come dicevano sprezzantemente, era particolarmente forte presso i luterani). Si
afferma che le innovazioni devono scaturire “organicamente” dalle forme
liturgiche esistenti ed esser pertanto precedute da lungo studio (art. 23) e
poi ci si contraddice bellamente all’art. 25 nel quale si ordina che “i libri
liturgici siano riveduti quanto prima”, naturalmente servendosi di persone
competenti e consultando i vescovi. Non
solo la semplificazione del rito ma anche la fretta di tutto rivedere e
riformare, una vera e propria febbre.
Mantenuto sì il latino
ma con ampie concessioni all’uso del vernacolo mentre la figura del sacerdote
comincia già ad esser ambiguamente diminuita a quella di “presidente
dell’assemblea” eucaristica (art. 33). E
nell’art. 48 i fedeli sembrano addirittura prender parte alla consacrazione
dell’Eucaristia: “offrendo la vittima
senza macchia non soltanto per le mani del sacerdote ma insieme con lui,
imparino ad offrire se stessi”. Questo
testo riprende senza dirlo un passo della Mediator Dei di Pio XII ma lo
manipola togliendovi l’avverbio “in certo modo” (quodammodo): per Pio XII, infatti, come per tutta la
dottrina di sempre, l’offerta dei fedeli era fatta solo quodammodo, “in
certo modo”, “in voto”, spiritualmente, e quindi simbolicamente.[2]
Infine, che dire di quella che è forse stata la novità più gravida di
conseguenze negative per la nostra religione, voglio dire l’introduzione del
principio dell’adattamento alle culture locali e della sperimentazione
liturgica, che lasciava alla creatività personale del celebrante margini
ristretti solo in teoria, come si è visto ad abundantiam in tutti questi
anni? Vedi SC artt. 37-40 mentre l’art.
22 riconosceva competenza in liturgia anche alle Conferenze Episcopali, sia
pure “entro limiti determinati”, sulla carta.
L’elenco completo dei
passaggi ambigui, equivoci, o che addirittura sapiunt haeresim del Vaticano
II sarebbe lungo. Sempre a titolo d’esempio
mi limito ad estrarre dalla lista:
le dispute
sull’ambiguo “subsistit in” (Lumen Gentium 8): mentre il testo dello schema di costituzione
dogmatica sulla Chiesa illegalmente rigettato nelle fasi iniziali del Concilio
ribadiva che la Chiesa cattolica è la Chiesa di Cristo, sic et simpliciter,
la nuova costituzione sulla Chiesa affermava invece che la Chiesa di Cristo,
“in questo mondo costituita e organizzata come società, sussiste nella Chiesa
cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con
lui, ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di
santificazione e di verità, che, appartenendo propriamente per dono di Dio alla
Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica” – una definizione
notevolmente contorta, a mio avviso, che, comunque la si voglia giudicare,
costringe a laboriose interpretazioni;
le discussioni su come
debba veramente intendersi la nuova collegialità stabilita in Lumen Gentium 22;
o su quale sia
l’effettivo significato della straordinaria affermazione di Gaudium et spes 22.2,
secondo la quale “con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo
ad ogni uomo”: solo simbolico o sostanziale, ontologico? In quest’ultimo caso (ed è verosimilmente il
caso della prima enciclica di Giovanni Paolo II, Redemptor hominis) saremmo
di fronte ad un errore nella fede, già apparso e controbattuto in secoli
lontani, errore che apre la porta all’eresia della salvezza garantita a tutti
gli uomini senza bisogno della loro conversione a Cristo, eresia oggi
diffusissima.
Fino a quando si potrà
continuare a sostenere che il Concilio era buono mentre è stato solamente il
Postconcilio ad esser cattivo? Guardiamo
ai concili ecumenici precedenti. Si è
mai visto che dopo di loro si sia scatenato il caos nella Chiesa, provocandone
un crollo addirittura verticale, in tutte le direzioni? Mai.
Dopo il primo Concilio
di Nicea, la fazione ariana reagì e contrattaccò ma alla fine fu dispersa. E lo fu proprio perché durante la crisi la
Chiesa non era mai crollata ma aveva mantenuto una considerevole parte sana,
nei vescovi e nel popolo. Gli ariani
eretici, inoltre, negavano la natura divina di Cristo non attaccavano la morale
cristiana, tranquillamente calpestata da un Papa come Bergoglio, adepto della
“teologia della liberazione”.
Nel caso di importanti
concili dogmatici, come ad esempio quello di Trento, il problema era spesso
rappresentato dalla difficoltà a farne applicare i decreti dalle autorità
civili di vari Paesi cattolici.
Ugualmente, dopo il Vaticano I, diversi sovrani non accettarono di riconoscere
il dogma dell’infallibilità pontificia, stabilito dal concilio stesso. Ma si trattava del ripetersi di una
situazione attinente ai rapporti, spesso difficili, tra autorità ecclesiastiche
e autorità civili.
A volte si è
registrata la temporanea resistenza passiva di una parte del clero a certe
normative volute da un Concilio ecumencio.
Ma anche questo fenomeno tutto sommato normale, tipico della dialettica
interna dell’istituzione ecclesiastica.
I concili ecumenici in
genere facevano chiarezza: ribadivano verità di fede fondamentali, condannavano
gravi errori dottrinali, riformavano la Chiesa del loro tempo colpendone
storture e difetti; insomma attuavano il corretto uso dell’autorità, definendo,
decidendo, spiegando, sanando ed educando.
Ancor oggi grande è il sollievo intellettuale e morale che si prova nel
leggere i decreti del Concilio di Trento e del Vaticano Primo, per la loro
chiarezza e incisività, per la loro sicura e precisa dottrina.
All’opposto, come mai
a partire dal Vaticano II si è intorbidato tutto? Come mai, già i testi di questo Concilio sono
raramente chiari e ti obbligano spesso (come si è visto) ad “interpretare” il
testo, a cercare di capire “quello che ha veramente detto”? Questa constatazione è stata fatta più volte
ma ha trovato risposte vaghe ed insoddisfacenti o, più frequentemente, un muro
di silenzio.
Non ho il dono della
profezia, tuttavia mi sento di dire, sulla base del semplice sensus fidei,
che la Chiesa cattolica non potrà risorgere finché la Gerarchia non avrà avuto
il coraggio di dissolvere il clima d’omertà che circonda il Vaticano II.
5 luglio 2025
[1][1]
Don Jorge Guadalix, Algo no supimos entender del Concilio, https://www.infocatolica.com/blog/cura.php/2503151009-algo-no-supios-entender-del. Traduzione italiana di Paolo
Pasqualucci. L’articolo di Don Guadalix
è stato ripreso dal sito Benoit et moi il 19 marzo 2025. L’autorevole mensile cattolico tedesco Kirkliche
Umschau [Panoramica sulla Chiesa], vicino alla Fsspx, ne ha pubblicato
estratti in un articolo del Giugno 2025, alle pp. 26-27, nel quale riassumeva
anche un articolo di Sandro Magister sulla penetrazione della “cancel culture”
nell’attuale gerarchia cattolica.
[2] Questa la frase della Mediator Dei : “essi offrono il Sacrificio non soltanto per le mani del sacerdote, ma, in certo modo [quodammodo], anche insieme con lui…”. Seguiva un lungo paragrafo nel quale Pio XII spiegava il significato puramente spirituale dell’offerta dei fedeli. Questo paragrafo nella Sacrosanctum Concilium brilla per la sua assenza. Vedi: Pio XII, Enciclica ‘Mediator Dei’ sulla sacra Liturgia, con testo latino a fronte, Vita e pensiero, Milano-Roma, 1956, pp. 76 e 77.
A sessant’anni dalla fine del Concilio –
III :
Un sacerdote spagnolo si interroga sul disastro postconciliare
di
Paolo Pasqualucci
Del disastro non dà
direttamente la colpa al Concilio ma possiamo dire che lo chiami indirettamente
in causa.
Riassumo il testo pubblicato
da Don Jorge Guadalix, della Diocesi di Madrid sul blog www.infocatolica.com il 25 marzo 2505.
L’articolo si intitola
“Qualcosa non abbiamo capito del Concilio”.
Dopo aver ricordato
che al tempo del Concilio era un giovanissimo religioso che pregava ogni giorno
per la sacra Assise in corso, peraltro senza saper bene cosa fosse un concilio
ecumenico, Don Guadalix, entra nel vivo.
“L’aspettativa era
grande prima del Vaticano II. Alitavano tutte
le speranze. Però, dobbiamo
riconoscerlo, qualcosa è andato storto [algo no salió bien]. Abbiamo lavorato nella Vigna del Signore
facendoci carico di tutte le illusioni del mondo, abbiamo trangugiato la
teologia più rabbiosamente postconciliare e abbiamo offerto la nostra vita per
la causa del Vangelo. Ma è arrivata la primavera?
Non ne sono convinto, per niente
convinto.
Quest’anno sono
sessant’anni dalla fine del Concilio.
Fin adesso ci siamo
arrangiati. I numeri parlano
chiaro. La massiccia secolarizzazione di
religiosi e sacerdoti, soprattutto negli anni Settanta, ci ha sconvolto. La débacle della diminuzione delle vocazioni
al sacerdozio e alla vita monastica è stata dissimulata da un’età media che
aumentava, che aumenta anno per anno, con progressione sempre più accentuata. I decessi degli ultimi anni ci hanno
costretto a chiudere senza posa monasteri, a nascondere la mancanza di
sacerdoti dividendo il numero delle parrocchie, sempre le stesse, con un
divisore clericale scarsissimo. Ci sono
zone della Spagna nelle quali un parroco ha in carico otto, dieci, venti,
trenta parrocchie…o di più […].
Ovviamente, la vita sacramentale è impossibile. Viene sostituita da un povero succedaneo in
mano a qualche laico che fa ogni domenica quel poco che può fare con il poco
che è rimasto […] Il livello della
formazione dei nostri fedeli è preoccupante. Appena un insipido “bisogna
condividere” e una Messa tramutata in “una festa gioiosa [muy alegre]”. Uno
di loro, da anni in contatto con la parrochia con riunioni e relazioni di ogni
tipo, mi diceva che non gli piacevano le Messe, che preferiva le
Eucaristie. Sono penetrati il
relativismo dottrinale, il soggettivismo morale. Abbiamo un cattolicesimo ridotto ai minimi
termini. La disciplina non esiste. E nulla mai cambia”.
In simile situazione,
ovvio che la gioventù viva in gran parte senza la fede, che l’abbia anzi persa,
se mai l’ha veramente avuta.
“Più del 50% dei
giovani spagnoli si dichiarano agnostici o atei. E molti di loro, di sicuro, hanno studiato in
scuole religiose, sono battezzati e hanno fatto la prima comunione. Oggi si battezzano all’incirca meno della
metà dei bambini che nascono. I
matrimoni in chiesa raggiungono appena il 20% del totale. Altro dato rilevabile in qualsiasi
parrocchia: le confessioni sono praticamente
scomparse.
Qualcuno dirà che il
numero non conta, conta la qualità. Al
contrario, il numero ha la sua importanza e alla qualità non credono nemmeno i
più accesi sostenitori del Concilio. Felici tuttavia poiché la Chiesa si è molto
esposta nel sostenere i poveri. Il
problema è che, se si tratta solo di solidarietà, a tal fine non ho bisogno né
della fede né della Chiesa. Né di farmi
sacerdote o religiosa”.
La colpa di tutto
questo sfacelo (comune – ricordo – a quasi tutta l’Europa cattolica e ad ampie
parti delle Americhe) deve allora esser fatta risalire al Concilio? La conclusione di Don Guadalix è
prudente: “I documenti conciliari non sono
male, cominciando dalle grandi costituzioni.
Direi che si presentano molto bene
[Diría que están muy bien].
Ma forse molti utilizzarono il Concilio per fare i propri comodi
propalando uno spirito del Concilio che nessuno ha mai saputo minimamente
spiegare. E a questo fatto si è aggiunto
un evidente abbandono della disciplina ecclesiastica, cosa che ha permesso, in
ossequio alla modernità e alla sua “atmosfera amichevole”, che ognuno dica ciò
che vuole, se la spassi secondo i suoi desideri, viva in accordo con la sua
propria e personale infallibilità [...] Qualcosa non quadra”.[1]
Nell’intenso dibattito
provocato fra i lettori dall’articolo di Don Guadalix, sono apparsi anche
critiche pungenti al Concilio, difeso da alcuni come dottrinalmente
integerrimo. Gli attacchi vertevano in
particolare sulla dichiarazione Nostra aetate sulle religioni non cristiane
e sull’art. 16 della costituzione Lumen gentium sulla Chiesa, che
sembra attribuire ai mussulmani la fede nel nostro stesso Dio e ne apprezza
l’alta considerazione per Abramo, traendo in tal modo in inganno i fedeli sulla
vera natura dell’islam.
Infatti, il Concilio
passa del tutto sotto silenzio il fatto che i seguaci di Maometto, allo stesso
modo degli ebrei, considerano la S.ma Trinità pura idolatria e utilizzano la
figura di Abramo, visto come progenitore degli arabi, per dichiarare falsi sia
ebraismo che cristianesimo: essi
avrebbero adulterato l’insegnamento del Patriarca, che sarebbe stato quello di
un monoteismo assoluto, riportato per l’appunto in auge da Maometto, arabo autodichiaratosi
Profeta e “sigillo” dei Profeti, che tutte le altre religioni (per lui false)
devono riconoscere. Né l’Antico né il Nuovo Testamento nominano mai Maometto,
ma questo, secondo il Corano, perché ebrei e cristiani, invidiosi, ne avrebbero
cancellato il nome: i testi sacri degli
ebrei e dei cristiani sono pertanto falsi, per i musulmani, e non vanno letti.
Queste semplici ed
oggi scomode verità sull’islam sono state ricordate da alcuni lettori, il loro
occultamento dà la misura del grado di mistificazione che si può rintracciare
in alcuni testi conciliari.
Un lettore
sottolineava anche la rappresentazione edulcorata di religioni come la buddista
e l’indù, anch’esse nei fatti assolutamente incompatibili con la nostra. Ricordava come nel buddismo tibetano, seguace
di una certa scuola, ci fosse spazio anche per la magia sessuale, inclusiva di
ogni tipo di diversità.
Sarebbe certamente un gran bene per tutti noi fedeli
se sacerdoti come il coraggioso Padre Guadalix, che non è sicuramente l’unico a
rendersi conto della situazione drammatica nella quale si trova oggi la Chiesa,
trovassero la forza di compiere un ulteriore doloroso passo e chiedessero pubblicamente alle autorità
ecclesiastiche competenti, se una tale, inaudita situazione non imponga di
andarne a ricercare le cause profonde in certi testi conciliari, visto che il
collasso che ha ridotto il cattolicesimo “ai minimi termini” è coinciso con la
riforma totale della Chiesa impostata, auspicata e voluta proprio dal
Vaticano II: un Concilio volutosi solo pastorale che tuttavia ha esplicitamente
introdotto molte “novità” nella Chiesa.
Non per nulla, nel Proemio della famosa dichiarazione Dignitatis
humanae sulla libertà religiosa, una fra le più contestate del Concilio, si
scrive:
“…questo Concilio
Vaticano rimedita la tradizione sacra e la dottrina della Chiesa, dalle quali
trae nuovi elementi in costante armonia con quelli già posseduti [haec
Vaticana Synodus sacram Ecclesiae traditionem doctrinamque scrutatur, ex quibus
nova semper cum veteribus congruentia profert]”.
Di questa necessaria
“congruentia” o armonia tra il nuovo e l’antico, l’amara realtà odierna ci
dimostra che nulla è rimasto, se mai ci sia stata. Basti pensare a quello che è
successo con le riforme liturgiche, a cominciare da quella capitale della Santa
Messa. Chi difende il Concilio fa
giustamente rilevare che le riforme sono andate al di là di quanto propugnato
dalla costituzione Sacrosanctum Concilium sulla sacra Liturgia, che
voleva mantenere sia il latino che il
canto gregoriano né pensava ad un rito completamente nuovo. Ma costoro dimenticano che in quella
costituzione, avversata da tutti i teologi difensori della liturgia
tradizionale, si erano ugualmente introdotti dei princìpi nuovi, non coerenti
con la tradizione e dimostratisi utili agli eversori mentre non mancavano le
ambiguità.
Cito a titolo di
esempio :
L’art. 21 afferma
perentoriamente che “la Santa madre Chiesa desidera fare un’accurata riforma
generale della liturgia. Questa infatti
consta di una parte immutabile, perché di istituzione divina, e di parti
suscettibili di cambiamento, che nel corso dei tempi possono e addirittura
devono variare”. Domanda: un’accurata
riforma generale della liturgia, era davvero necessaria? E quali erano le parti “immutabili” della
stessa? Non lo si chiariva. Inoltre, il criterio della “riforma generale”
doveva esser quello dell’adattamento dalla mentalità moderna: le sante realtà
espresse dai testi e dai riti, si precisava, “siano espresse più chiaramente e
il popolo cristiano possa capirne più facilmente il senso e possa parteciparvi
con una celebrazione piena, attiva e comunitaria”.
Si introduce qui il
criterio inaccettabile (ribadito agli artt. 34 e 50) della semplificazione
del rito al fine di una sua supposta maggior comprensione da parte del popolo,
criterio sempre respinto in passato dal Magistero. Si manifesta un certo sfavore per le Messe
private o senza popolo, alle quali va preferita la celebrazione comunitaria
(art. 27 – l’avversione per le c.d. Messe private o “celebrate in un angolo”,
come dicevano sprezzantemente, era particolarmente forte presso i luterani). Si
afferma che le innovazioni devono scaturire “organicamente” dalle forme
liturgiche esistenti ed esser pertanto precedute da lungo studio (art. 23) e
poi ci si contraddice bellamente all’art. 25 nel quale si ordina che “i libri
liturgici siano riveduti quanto prima”, naturalmente servendosi di persone
competenti e consultando i vescovi. Non
solo la semplificazione del rito ma anche la fretta di tutto rivedere e
riformare, una vera e propria febbre.
Mantenuto sì il latino
ma con ampie concessioni all’uso del vernacolo mentre la figura del sacerdote
comincia già ad esser ambiguamente diminuita a quella di “presidente
dell’assemblea” eucaristica (art. 33). E
nell’art. 48 i fedeli sembrano addirittura prender parte alla consacrazione
dell’Eucaristia: “offrendo la vittima
senza macchia non soltanto per le mani del sacerdote ma insieme con lui,
imparino ad offrire se stessi”. Questo
testo riprende senza dirlo un passo della Mediator Dei di Pio XII ma lo
manipola togliendovi l’avverbio “in certo modo” (quodammodo): per Pio XII, infatti, come per tutta la
dottrina di sempre, l’offerta dei fedeli era fatta solo quodammodo, “in
certo modo”, “in voto”, spiritualmente, e quindi simbolicamente.[2]
Infine, che dire di quella che è forse stata la novità più gravida di
conseguenze negative per la nostra religione, voglio dire l’introduzione del
principio dell’adattamento alle culture locali e della sperimentazione
liturgica, che lasciava alla creatività personale del celebrante margini
ristretti solo in teoria, come si è visto ad abundantiam in tutti questi
anni? Vedi SC artt. 37-40 mentre l’art.
22 riconosceva competenza in liturgia anche alle Conferenze Episcopali, sia
pure “entro limiti determinati”, sulla carta.
L’elenco completo dei
passaggi ambigui, equivoci, o che addirittura sapiunt haeresim del Vaticano
II sarebbe lungo. Sempre a titolo d’esempio
mi limito ad estrarre dalla lista:
le dispute
sull’ambiguo “subsistit in” (Lumen Gentium 8): mentre il testo dello schema di costituzione
dogmatica sulla Chiesa illegalmente rigettato nelle fasi iniziali del Concilio
ribadiva che la Chiesa cattolica è la Chiesa di Cristo, sic et simpliciter,
la nuova costituzione sulla Chiesa affermava invece che la Chiesa di Cristo,
“in questo mondo costituita e organizzata come società, sussiste nella Chiesa
cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con
lui, ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di
santificazione e di verità, che, appartenendo propriamente per dono di Dio alla
Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica” – una definizione
notevolmente contorta, a mio avviso, che, comunque la si voglia giudicare,
costringe a laboriose interpretazioni;
le discussioni su come
debba veramente intendersi la nuova collegialità stabilita in Lumen Gentium 22;
o su quale sia
l’effettivo significato della straordinaria affermazione di Gaudium et spes 22.2,
secondo la quale “con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo
ad ogni uomo”: solo simbolico o sostanziale, ontologico? In quest’ultimo caso (ed è verosimilmente il
caso della prima enciclica di Giovanni Paolo II, Redemptor hominis) saremmo
di fronte ad un errore nella fede, già apparso e controbattuto in secoli
lontani, errore che apre la porta all’eresia della salvezza garantita a tutti
gli uomini senza bisogno della loro conversione a Cristo, eresia oggi
diffusissima.
Fino a quando si potrà
continuare a sostenere che il Concilio era buono mentre è stato solamente il
Postconcilio ad esser cattivo? Guardiamo
ai concili ecumenici precedenti. Si è
mai visto che dopo di loro si sia scatenato il caos nella Chiesa, provocandone
un crollo addirittura verticale, in tutte le direzioni? Mai.
Dopo il primo Concilio
di Nicea, la fazione ariana reagì e contrattaccò ma alla fine fu dispersa. E lo fu proprio perché durante la crisi la
Chiesa non era mai crollata ma aveva mantenuto una considerevole parte sana,
nei vescovi e nel popolo. Gli ariani
eretici, inoltre, negavano la natura divina di Cristo non attaccavano la morale
cristiana, tranquillamente calpestata da un Papa come Bergoglio, adepto della
“teologia della liberazione”.
Nel caso di importanti
concili dogmatici, come ad esempio quello di Trento, il problema era spesso
rappresentato dalla difficoltà a farne applicare i decreti dalle autorità
civili di vari Paesi cattolici.
Ugualmente, dopo il Vaticano I, diversi sovrani non accettarono di riconoscere
il dogma dell’infallibilità pontificia, stabilito dal concilio stesso. Ma si trattava del ripetersi di una
situazione attinente ai rapporti, spesso difficili, tra autorità ecclesiastiche
e autorità civili.
A volte si è
registrata la temporanea resistenza passiva di una parte del clero a certe
normative volute da un Concilio ecumencio.
Ma anche questo fenomeno tutto sommato normale, tipico della dialettica
interna dell’istituzione ecclesiastica.
I concili ecumenici in
genere facevano chiarezza: ribadivano verità di fede fondamentali, condannavano
gravi errori dottrinali, riformavano la Chiesa del loro tempo colpendone
storture e difetti; insomma attuavano il corretto uso dell’autorità, definendo,
decidendo, spiegando, sanando ed educando.
Ancor oggi grande è il sollievo intellettuale e morale che si prova nel
leggere i decreti del Concilio di Trento e del Vaticano Primo, per la loro
chiarezza e incisività, per la loro sicura e precisa dottrina.
All’opposto, come mai
a partire dal Vaticano II si è intorbidato tutto? Come mai, già i testi di questo Concilio sono
raramente chiari e ti obbligano spesso (come si è visto) ad “interpretare” il
testo, a cercare di capire “quello che ha veramente detto”? Questa constatazione è stata fatta più volte
ma ha trovato risposte vaghe ed insoddisfacenti o, più frequentemente, un muro
di silenzio.
Non ho il dono della
profezia, tuttavia mi sento di dire, sulla base del semplice sensus fidei,
che la Chiesa cattolica non potrà risorgere finché la Gerarchia non avrà avuto
il coraggio di dissolvere il clima d’omertà che circonda il Vaticano II.
5 luglio 2025
[1][1]
Don Jorge Guadalix, Algo no supimos entender del Concilio, https://www.infocatolica.com/blog/cura.php/2503151009-algo-no-supios-entender-del. Traduzione italiana di Paolo
Pasqualucci. L’articolo di Don Guadalix
è stato ripreso dal sito Benoit et moi il 19 marzo 2025. L’autorevole mensile cattolico tedesco Kirkliche
Umschau [Panoramica sulla Chiesa], vicino alla Fsspx, ne ha pubblicato
estratti in un articolo del Giugno 2025, alle pp. 26-27, nel quale riassumeva
anche un articolo di Sandro Magister sulla penetrazione della “cancel culture”
nell’attuale gerarchia cattolica.
[2]
Questa la frase della Mediator Dei :
“essi offrono il Sacrificio non soltanto per le mani del sacerdote, ma,
in certo modo [quodammodo], anche insieme con lui…”. Seguiva un lungo paragrafo nel quale Pio XII
spiegava il significato puramente spirituale dell’offerta dei fedeli. Questo paragrafo nella Sacrosanctum Concilium
brilla per la sua assenza. Vedi: Pio
XII, Enciclica ‘Mediator Dei’ sulla sacra Liturgia, con testo latino a fronte,
Vita e pensiero, Milano-Roma, 1956, pp. 76 e 77.
A sessant’anni dalla fine del Concilio –
III :
Un sacerdote spagnolo si interroga sul disastro postconciliare
di
Paolo Pasqualucci
Del disastro non dà
direttamente la colpa al Concilio ma possiamo dire che lo chiami indirettamente
in causa.
Riassumo il testo pubblicato
da Don Jorge Guadalix, della Diocesi di Madrid sul blog www.infocatolica.com il 25 marzo 2505.
L’articolo si intitola
“Qualcosa non abbiamo capito del Concilio”.
Dopo aver ricordato
che al tempo del Concilio era un giovanissimo religioso che pregava ogni giorno
per la sacra Assise in corso, peraltro senza saper bene cosa fosse un concilio
ecumenico, Don Guadalix, entra nel vivo.
“L’aspettativa era
grande prima del Vaticano II. Alitavano tutte
le speranze. Però, dobbiamo
riconoscerlo, qualcosa è andato storto [algo no salió bien]. Abbiamo lavorato nella Vigna del Signore
facendoci carico di tutte le illusioni del mondo, abbiamo trangugiato la
teologia più rabbiosamente postconciliare e abbiamo offerto la nostra vita per
la causa del Vangelo. Ma è arrivata la primavera?
Non ne sono convinto, per niente
convinto.
Quest’anno sono
sessant’anni dalla fine del Concilio.
Fin adesso ci siamo
arrangiati. I numeri parlano
chiaro. La massiccia secolarizzazione di
religiosi e sacerdoti, soprattutto negli anni Settanta, ci ha sconvolto. La débacle della diminuzione delle vocazioni
al sacerdozio e alla vita monastica è stata dissimulata da un’età media che
aumentava, che aumenta anno per anno, con progressione sempre più accentuata. I decessi degli ultimi anni ci hanno
costretto a chiudere senza posa monasteri, a nascondere la mancanza di
sacerdoti dividendo il numero delle parrocchie, sempre le stesse, con un
divisore clericale scarsissimo. Ci sono
zone della Spagna nelle quali un parroco ha in carico otto, dieci, venti,
trenta parrocchie…o di più […].
Ovviamente, la vita sacramentale è impossibile. Viene sostituita da un povero succedaneo in
mano a qualche laico che fa ogni domenica quel poco che può fare con il poco
che è rimasto […] Il livello della
formazione dei nostri fedeli è preoccupante. Appena un insipido “bisogna
condividere” e una Messa tramutata in “una festa gioiosa [muy alegre]”. Uno
di loro, da anni in contatto con la parrochia con riunioni e relazioni di ogni
tipo, mi diceva che non gli piacevano le Messe, che preferiva le
Eucaristie. Sono penetrati il
relativismo dottrinale, il soggettivismo morale. Abbiamo un cattolicesimo ridotto ai minimi
termini. La disciplina non esiste. E nulla mai cambia”.
In simile situazione,
ovvio che la gioventù viva in gran parte senza la fede, che l’abbia anzi persa,
se mai l’ha veramente avuta.
“Più del 50% dei
giovani spagnoli si dichiarano agnostici o atei. E molti di loro, di sicuro, hanno studiato in
scuole religiose, sono battezzati e hanno fatto la prima comunione. Oggi si battezzano all’incirca meno della
metà dei bambini che nascono. I
matrimoni in chiesa raggiungono appena il 20% del totale. Altro dato rilevabile in qualsiasi
parrocchia: le confessioni sono praticamente
scomparse.
Qualcuno dirà che il
numero non conta, conta la qualità. Al
contrario, il numero ha la sua importanza e alla qualità non credono nemmeno i
più accesi sostenitori del Concilio. Felici tuttavia poiché la Chiesa si è molto
esposta nel sostenere i poveri. Il
problema è che, se si tratta solo di solidarietà, a tal fine non ho bisogno né
della fede né della Chiesa. Né di farmi
sacerdote o religiosa”.
La colpa di tutto
questo sfacelo (comune – ricordo – a quasi tutta l’Europa cattolica e ad ampie
parti delle Americhe) deve allora esser fatta risalire al Concilio? La conclusione di Don Guadalix è
prudente: “I documenti conciliari non sono
male, cominciando dalle grandi costituzioni.
Direi che si presentano molto bene
[Diría que están muy bien].
Ma forse molti utilizzarono il Concilio per fare i propri comodi
propalando uno spirito del Concilio che nessuno ha mai saputo minimamente
spiegare. E a questo fatto si è aggiunto
un evidente abbandono della disciplina ecclesiastica, cosa che ha permesso, in
ossequio alla modernità e alla sua “atmosfera amichevole”, che ognuno dica ciò
che vuole, se la spassi secondo i suoi desideri, viva in accordo con la sua
propria e personale infallibilità [...] Qualcosa non quadra”.[1]
Nell’intenso dibattito
provocato fra i lettori dall’articolo di Don Guadalix, sono apparsi anche
critiche pungenti al Concilio, difeso da alcuni come dottrinalmente
integerrimo. Gli attacchi vertevano in
particolare sulla dichiarazione Nostra aetate sulle religioni non cristiane
e sull’art. 16 della costituzione Lumen gentium sulla Chiesa, che
sembra attribuire ai mussulmani la fede nel nostro stesso Dio e ne apprezza
l’alta considerazione per Abramo, traendo in tal modo in inganno i fedeli sulla
vera natura dell’islam.
Infatti, il Concilio
passa del tutto sotto silenzio il fatto che i seguaci di Maometto, allo stesso
modo degli ebrei, considerano la S.ma Trinità pura idolatria e utilizzano la
figura di Abramo, visto come progenitore degli arabi, per dichiarare falsi sia
ebraismo che cristianesimo: essi
avrebbero adulterato l’insegnamento del Patriarca, che sarebbe stato quello di
un monoteismo assoluto, riportato per l’appunto in auge da Maometto, arabo autodichiaratosi
Profeta e “sigillo” dei Profeti, che tutte le altre religioni (per lui false)
devono riconoscere. Né l’Antico né il Nuovo Testamento nominano mai Maometto,
ma questo, secondo il Corano, perché ebrei e cristiani, invidiosi, ne avrebbero
cancellato il nome: i testi sacri degli
ebrei e dei cristiani sono pertanto falsi, per i musulmani, e non vanno letti.
Queste semplici ed
oggi scomode verità sull’islam sono state ricordate da alcuni lettori, il loro
occultamento dà la misura del grado di mistificazione che si può rintracciare
in alcuni testi conciliari.
Un lettore
sottolineava anche la rappresentazione edulcorata di religioni come la buddista
e l’indù, anch’esse nei fatti assolutamente incompatibili con la nostra. Ricordava come nel buddismo tibetano, seguace
di una certa scuola, ci fosse spazio anche per la magia sessuale, inclusiva di
ogni tipo di diversità.
Sarebbe certamente un gran bene per tutti noi fedeli
se sacerdoti come il coraggioso Padre Guadalix, che non è sicuramente l’unico a
rendersi conto della situazione drammatica nella quale si trova oggi la Chiesa,
trovassero la forza di compiere un ulteriore doloroso passo e chiedessero pubblicamente alle autorità
ecclesiastiche competenti, se una tale, inaudita situazione non imponga di
andarne a ricercare le cause profonde in certi testi conciliari, visto che il
collasso che ha ridotto il cattolicesimo “ai minimi termini” è coinciso con la
riforma totale della Chiesa impostata, auspicata e voluta proprio dal
Vaticano II: un Concilio volutosi solo pastorale che tuttavia ha esplicitamente
introdotto molte “novità” nella Chiesa.
Non per nulla, nel Proemio della famosa dichiarazione Dignitatis
humanae sulla libertà religiosa, una fra le più contestate del Concilio, si
scrive:
“…questo Concilio
Vaticano rimedita la tradizione sacra e la dottrina della Chiesa, dalle quali
trae nuovi elementi in costante armonia con quelli già posseduti [haec
Vaticana Synodus sacram Ecclesiae traditionem doctrinamque scrutatur, ex quibus
nova semper cum veteribus congruentia profert]”.
Di questa necessaria
“congruentia” o armonia tra il nuovo e l’antico, l’amara realtà odierna ci
dimostra che nulla è rimasto, se mai ci sia stata. Basti pensare a quello che è
successo con le riforme liturgiche, a cominciare da quella capitale della Santa
Messa. Chi difende il Concilio fa
giustamente rilevare che le riforme sono andate al di là di quanto propugnato
dalla costituzione Sacrosanctum Concilium sulla sacra Liturgia, che
voleva mantenere sia il latino che il
canto gregoriano né pensava ad un rito completamente nuovo. Ma costoro dimenticano che in quella
costituzione, avversata da tutti i teologi difensori della liturgia
tradizionale, si erano ugualmente introdotti dei princìpi nuovi, non coerenti
con la tradizione e dimostratisi utili agli eversori mentre non mancavano le
ambiguità.
Cito a titolo di
esempio :
L’art. 21 afferma
perentoriamente che “la Santa madre Chiesa desidera fare un’accurata riforma
generale della liturgia. Questa infatti
consta di una parte immutabile, perché di istituzione divina, e di parti
suscettibili di cambiamento, che nel corso dei tempi possono e addirittura
devono variare”. Domanda: un’accurata
riforma generale della liturgia, era davvero necessaria? E quali erano le parti “immutabili” della
stessa? Non lo si chiariva. Inoltre, il criterio della “riforma generale”
doveva esser quello dell’adattamento dalla mentalità moderna: le sante realtà
espresse dai testi e dai riti, si precisava, “siano espresse più chiaramente e
il popolo cristiano possa capirne più facilmente il senso e possa parteciparvi
con una celebrazione piena, attiva e comunitaria”.
Si introduce qui il
criterio inaccettabile (ribadito agli artt. 34 e 50) della semplificazione
del rito al fine di una sua supposta maggior comprensione da parte del popolo,
criterio sempre respinto in passato dal Magistero. Si manifesta un certo sfavore per le Messe
private o senza popolo, alle quali va preferita la celebrazione comunitaria
(art. 27 – l’avversione per le c.d. Messe private o “celebrate in un angolo”,
come dicevano sprezzantemente, era particolarmente forte presso i luterani). Si
afferma che le innovazioni devono scaturire “organicamente” dalle forme
liturgiche esistenti ed esser pertanto precedute da lungo studio (art. 23) e
poi ci si contraddice bellamente all’art. 25 nel quale si ordina che “i libri
liturgici siano riveduti quanto prima”, naturalmente servendosi di persone
competenti e consultando i vescovi. Non
solo la semplificazione del rito ma anche la fretta di tutto rivedere e
riformare, una vera e propria febbre.
Mantenuto sì il latino
ma con ampie concessioni all’uso del vernacolo mentre la figura del sacerdote
comincia già ad esser ambiguamente diminuita a quella di “presidente
dell’assemblea” eucaristica (art. 33). E
nell’art. 48 i fedeli sembrano addirittura prender parte alla consacrazione
dell’Eucaristia: “offrendo la vittima
senza macchia non soltanto per le mani del sacerdote ma insieme con lui,
imparino ad offrire se stessi”. Questo
testo riprende senza dirlo un passo della Mediator Dei di Pio XII ma lo
manipola togliendovi l’avverbio “in certo modo” (quodammodo): per Pio XII, infatti, come per tutta la
dottrina di sempre, l’offerta dei fedeli era fatta solo quodammodo, “in
certo modo”, “in voto”, spiritualmente, e quindi simbolicamente.[2]
Infine, che dire di quella che è forse stata la novità più gravida di
conseguenze negative per la nostra religione, voglio dire l’introduzione del
principio dell’adattamento alle culture locali e della sperimentazione
liturgica, che lasciava alla creatività personale del celebrante margini
ristretti solo in teoria, come si è visto ad abundantiam in tutti questi
anni? Vedi SC artt. 37-40 mentre l’art.
22 riconosceva competenza in liturgia anche alle Conferenze Episcopali, sia
pure “entro limiti determinati”, sulla carta.
L’elenco completo dei
passaggi ambigui, equivoci, o che addirittura sapiunt haeresim del Vaticano
II sarebbe lungo. Sempre a titolo d’esempio
mi limito ad estrarre dalla lista:
le dispute
sull’ambiguo “subsistit in” (Lumen Gentium 8): mentre il testo dello schema di costituzione
dogmatica sulla Chiesa illegalmente rigettato nelle fasi iniziali del Concilio
ribadiva che la Chiesa cattolica è la Chiesa di Cristo, sic et simpliciter,
la nuova costituzione sulla Chiesa affermava invece che la Chiesa di Cristo,
“in questo mondo costituita e organizzata come società, sussiste nella Chiesa
cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con
lui, ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di
santificazione e di verità, che, appartenendo propriamente per dono di Dio alla
Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica” – una definizione
notevolmente contorta, a mio avviso, che, comunque la si voglia giudicare,
costringe a laboriose interpretazioni;
le discussioni su come
debba veramente intendersi la nuova collegialità stabilita in Lumen Gentium 22;
o su quale sia
l’effettivo significato della straordinaria affermazione di Gaudium et spes 22.2,
secondo la quale “con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo
ad ogni uomo”: solo simbolico o sostanziale, ontologico? In quest’ultimo caso (ed è verosimilmente il
caso della prima enciclica di Giovanni Paolo II, Redemptor hominis) saremmo
di fronte ad un errore nella fede, già apparso e controbattuto in secoli
lontani, errore che apre la porta all’eresia della salvezza garantita a tutti
gli uomini senza bisogno della loro conversione a Cristo, eresia oggi
diffusissima.
Fino a quando si potrà
continuare a sostenere che il Concilio era buono mentre è stato solamente il
Postconcilio ad esser cattivo? Guardiamo
ai concili ecumenici precedenti. Si è
mai visto che dopo di loro si sia scatenato il caos nella Chiesa, provocandone
un crollo addirittura verticale, in tutte le direzioni? Mai.
Dopo il primo Concilio
di Nicea, la fazione ariana reagì e contrattaccò ma alla fine fu dispersa. E lo fu proprio perché durante la crisi la
Chiesa non era mai crollata ma aveva mantenuto una considerevole parte sana,
nei vescovi e nel popolo. Gli ariani
eretici, inoltre, negavano la natura divina di Cristo non attaccavano la morale
cristiana, tranquillamente calpestata da un Papa come Bergoglio, adepto della
“teologia della liberazione”.
Nel caso di importanti
concili dogmatici, come ad esempio quello di Trento, il problema era spesso
rappresentato dalla difficoltà a farne applicare i decreti dalle autorità
civili di vari Paesi cattolici.
Ugualmente, dopo il Vaticano I, diversi sovrani non accettarono di riconoscere
il dogma dell’infallibilità pontificia, stabilito dal concilio stesso. Ma si trattava del ripetersi di una
situazione attinente ai rapporti, spesso difficili, tra autorità ecclesiastiche
e autorità civili.
A volte si è
registrata la temporanea resistenza passiva di una parte del clero a certe
normative volute da un Concilio ecumencio.
Ma anche questo fenomeno tutto sommato normale, tipico della dialettica
interna dell’istituzione ecclesiastica.
I concili ecumenici in
genere facevano chiarezza: ribadivano verità di fede fondamentali, condannavano
gravi errori dottrinali, riformavano la Chiesa del loro tempo colpendone
storture e difetti; insomma attuavano il corretto uso dell’autorità, definendo,
decidendo, spiegando, sanando ed educando.
Ancor oggi grande è il sollievo intellettuale e morale che si prova nel
leggere i decreti del Concilio di Trento e del Vaticano Primo, per la loro
chiarezza e incisività, per la loro sicura e precisa dottrina.
All’opposto, come mai
a partire dal Vaticano II si è intorbidato tutto? Come mai, già i testi di questo Concilio sono
raramente chiari e ti obbligano spesso (come si è visto) ad “interpretare” il
testo, a cercare di capire “quello che ha veramente detto”? Questa constatazione è stata fatta più volte
ma ha trovato risposte vaghe ed insoddisfacenti o, più frequentemente, un muro
di silenzio.
Non ho il dono della
profezia, tuttavia mi sento di dire, sulla base del semplice sensus fidei,
che la Chiesa cattolica non potrà risorgere finché la Gerarchia non avrà avuto
il coraggio di dissolvere il clima d’omertà che circonda il Vaticano II.
5 luglio 2025
[1][1]
Don Jorge Guadalix, Algo no supimos entender del Concilio, https://www.infocatolica.com/blog/cura.php/2503151009-algo-no-supios-entender-del. Traduzione italiana di Paolo
Pasqualucci. L’articolo di Don Guadalix
è stato ripreso dal sito Benoit et moi il 19 marzo 2025. L’autorevole mensile cattolico tedesco Kirkliche
Umschau [Panoramica sulla Chiesa], vicino alla Fsspx, ne ha pubblicato
estratti in un articolo del Giugno 2025, alle pp. 26-27, nel quale riassumeva
anche un articolo di Sandro Magister sulla penetrazione della “cancel culture”
nell’attuale gerarchia cattolica.
[2]
Questa la frase della Mediator Dei :
“essi offrono il Sacrificio non soltanto per le mani del sacerdote, ma,
in certo modo [quodammodo], anche insieme con lui…”. Seguiva un lungo paragrafo nel quale Pio XII
spiegava il significato puramente spirituale dell’offerta dei fedeli. Questo paragrafo nella Sacrosanctum Concilium
brilla per la sua assenza. Vedi: Pio
XII, Enciclica ‘Mediator Dei’ sulla sacra Liturgia, con testo latino a fronte,
Vita e pensiero, Milano-Roma, 1956, pp. 76 e 77.
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