A sessant'anni dalla fine del Concilio - II : analisi di LG 8.

 

 

A SESSANT’ANNI  DALLA  FINE  DEL  CONCILIO  ECUMENICO VATICANO  SECONDO   -- 

 

II -  Analisi critica di ‘Lumen Gentium” 8, articolo imputato di un inaccettabile concetto “allargato” della Chiesa di Cristo, e del decreto conciliare ‘Unitatis redintegratio” 3, che sanziona l’inclusione delle comunità acattoliche nella Chiesa di Cristo.  Si aggiunge anche il “bilancio” del raffronto tra lo schema di costituzione della Chiesa rigettato (artt. 1-7 di Aeternus Unigeniti) e LG 1-8   --  di Paolo  Pasqualucci.

 

Continuando nella pubblicazione di parti di questo mio libro Unam Sanctam. Studio sulle deviazioni dottrinali nella Chiesa Cattolica del XXI secolo, Solfanelli, 2013, mi addentro ora nell’indagine del problema rappresentato dal famoso “subsistit in”.  Quest’indagine nel mio libro viene così sviluppata: 

1.  Esposizione del passo contenente il “subsistit in” della costituzione Lumen Gentium sulla Chiesa (= LG) 8.2 nella sua interezza, inquadrandolo nel complesso del capitolo I della LG; 

2.  Analisi del rapporto tra la dottrina esposta in LG 8 e quella del decreto Unitatis Redintegratio (=UR) 3, poiché quest’articolo del decreto sull’ecumensimo, per comune riconoscimento, costituisce in pratica l’autentica di LG 8.2;

 3.  Paragone del cap. I di LG con l’equivalente capitolo I dello schema originario “scartato” sulla Chiesa (Aeternus Unigeniti Pater = AeU). Fu “scartato” nella tumultuosa fase iniziale del Concilio, durante la quale i Novatori riuscirono (con la complicità del papa) a far rigettare tutti gli schemi preparati, per riscriverli con commissioni da loro controllate, indicate dalle Conferenze Episcopali.  Lo schema respinto era stato elaborato  sotto la guida del cardinale Alfredo Ottaviani (Prefetto del Sant’Uffizio) e di mons. Sebastiaan Tromp SI, olandese, custodi dell’ortodossia.  Il cap. I di LG si serve del cap. I di questo schema rigettato, utilizzandone degli spezzoni. La comparazione tra i due testi si imponeva al fine di verificare l’esistenza o meno della continuità dottrinale affermata dai settatori del Concilio[1]. 

Un’analisi in parallelo di questi due testi, a quanto ne so, non è mai stata fatta.  Quest’analisi con aggiunta la critica di mons. Gherardini a LG 8 e UR 3 e la mia critica dell’allora professore Karl J. cardinal Becker sostenitore della continuità tra lo schema scartato e l’ecclesiologia di LG, si estendono dal cap. I al cap. X del mio libro (pp. 37-154).   Il cap. XI cambia argomento ed inizia la critica di Gaudium et spes 22.2 che si presenta addirittura con “una nuova dottrina dell’Incarnazione come unione di Cristo ad ogni uomo”.  Il libro consta di venti capitoli.

Data la lunghezza delle analisi e la complessità del tema, mi limito a pubblicare qui  t r e  parti. 

I primi due capitoli del mio libro, seguiti dall’ottavo: 

I. Lumen Gentium 8, imputato di un inaccettabile concetto ‘allargato’ della Chiesa di Cristo – pp. 37-42; 

II.  Unitatis Redintegratio 3, che sanziona l’inclusione delle comunità acattoliche nella Chiesa di Cristo – pp. 43-53;  

III.  Bilancio del raffronto tra AeU 1-7 e LG 1-8 – pp. 107-111.

 Quest’ultima parte costituisce un sintetico bilancio del raffronto tra il primo capitolo di AeU e il primo capitolo di LG, bilancio esposto nel breve capitolo VIII del mio volume.

Può apparire strano pubblicare qui siffatto “bilancio” senza aver prima esposto l’analisi riassunta nel bilancio stesso.  Tuttavia, in tal modo al lettore vengono proposti subito alcuni elementi che possono, io credo, ritenersi  prove del nuovo concetto di Chiesa che la componente novatrice del Concilio mirava ad imporre. 

Ad esempio, la scomparsa dell’aggettivo “militante” dalla definizione della Chiesa.  Mentre il cap. I di AeU si intitolava: De Ecclesiae militantis natura, in modo conforme alla Tradizione, il cap. I di LG titolava:  De Ecclesiae mysterio.  La Chiesa non era più “militante”.  Era soprattutto “un mistero”.  A venti secoli dalla sua fondazione sovrannaturale, si scopriva che la Chiesa doveva ritenersi immersa “nel mistero”.  I dogmi della nostra fede racchiudono profondi misteri ma la natura della Chiesa non ha nulla di “misterioso”:  sappiamo perfettamente Chi l’ha istituita, a qual fine, in che modo, con quali uomini, con quali istruzioni e cosa il fondatore si aspetta da essa.

Altro esempio, estremamente significativo: i riferimenti espliciti al Primato Petrino presenti in AeU sono stati eliminati nella LG.  Prova:

AeU 3.1 scriveva:  “ Pertanto come Mosè chiamò Chiesa di Dio [Dei Ecclesiam] l’Israele secondo la carne che peregrinava nel deserto, così Cristo si riferì all’Israele di Dio che avanzando nell’era presente aspira ad una città futura ed eterna, come alla sua Chiesa, non solo perché l’acquistò con il suo sangue ma anche perché, dopo averla preparata al suo fine con i mezzi opportuni, l’edificò su Pietro (Mt 16, 18) e sui suoi successori, nei quali rimanesse in perpetuo il medesimo Pietro con la sua autorità”.   E perché gli uomini capissero meglio la natura della Chiesa, proseguiva l’articolo, Lui stesso o per mezzo degli Apostoli, la rappresentò con diverse figure e nomi:  “regno, casa di Dio, tempio di Dio, gregge, ovile, sposa di Cristo, colonna e fondamento della verità”.  

Nell’art. 7, AeU affermava di nuovo il Primato Petrino, proclamando che “la Chiesa cattolica romana è il corpo mistico di Cristo”, dal momento che essa è “l’unica vera Chiesa di Cristo”, affidata “a S. Pietro e ai suoi successori, i romani pontefici, al fine di governarla”.   La Chiesa cattolica non sussiste nella Chiesa di Cristo ma è la Chiesa di Cristo e solo essa lo è.  Punto e a capo. Dottrina di sempre, intorbidata dal “subsistit in” di LG 8.2.

La parte finale della citazione iniziale di AeU 3.1 l’ho messa in corsivo e sottolineata:  si tratta, infatti, di un frase che ribadisce il primato di Pietro, del tutto omessa da LG 9.4, che riporta invece il resto del passo, rielaborandolo.  L’art. 9 di LG è il primo del cap. II dedicato al “popolo di Dio”.  Il suo argomento viene indicato, nelle traduzioni, in questo modo:  “Nuova alleanza e nuovo popolo”.  Il passo che ci interessa recita:  “Come già l’Israele secondo la carne peregrinante nel deserto viene chiamato Chiesa di Dio (2 Esd 13, 1;  cfr. Nm 20, 4;  Dt 23, 1 ss.), così il nuovo Israele dell’èra presente, che cammina alla ricerca della città futura e permanente (cfr. Eb 13, 14), si chiama pure Chiesa di Cristo (cfr. Mt 16, 18);  è il Cristo, infatti, che l’ha acquistata col suo sangue (cfr. At 20, 28), riempita del suo Spirito e fornita di mezzi adatti per l’unione visibile e sociale”. 

E questa “Chiesa di Cristo” così concepita ricomprende solo i battezzati, i cattolici?  Prosegue infatti il testo:  “Dio ha convocato tutti coloro che guardano con fede a Gesù [qui in Iesum credentes aspiciunt], autore della salvezza e principio di unità e di pace, e ne ha costituito la Chiesa, perché sia agli occhi di tutti e di ciascuno, il sacramento visibile di questa unità salvifica [“inseparabile unitatis sacramentum”, citaz. di S. Cipriano, in nota].  Dovendosi essa estendere a tutta la terra, entra nella storia degli uomini…”[2] (LG 9.4).

La dizione generica e vaga “tutti coloro che guardano con fede a Gesù” e che costituirebbero la Chiesa di Cristo si può applicare a tutti i cristiani, anche agli eretici e scismatici.  Lo stesso Lutero “non guardava con fede a Gesù”?   Come ha notato qualcuno, qui appare un concetto di Chiesa come popolo di Dio indifferenziato, ricomprendente tutti i cristiani in generale.  Via dunque ogni riferimento alla natura gerarchica della vera Chiesa cattolica, al suo esser fondata sulla roccia rappresentata dal papato, al suo esser “militante” e quindi ordinata al modo di un esercito schierato in battaglia -  battaglia, si intende, contro Satana e i suoi accoliti, contro il principe di questo mondo, che ci tenta in continuazione per la nostra eterna rovina.

Nell’art. 2 di AeU si scrive che il nuovo popolo di Dio, l’Israele non più della carne ma dello spirito, “avanza non come sparpagliata turba [effusa turba] bensì come esercito schierato a battaglia [ut confertum agmen procedit]”.  La simbologia militare risale come sappiamo a san Paolo (Ef 6, 10 ss.).  Ma nella dizione generica e vaga di LG 9.4 non regredisce l’Israele dello spirito a “effusa turba”? 

E non diventa allora difficile, se non impossibile, applicare a questa “turba” includente tutti i cristiani in generale il concetto (che è dogma di fede) secondo il quale solo ed unicamente nella Chiesa cattolica, corpo mistico di Cristo, si può ottenere la salvezza, ad eccezione dei casi puramente individuali di battesimo di desiderio, esplicito ed implicito, al di fuori della stessa?

E mi fermo qui.  In sede di presentazione, mi sembra che gli esempi riportati siano sufficienti a dare un’idea della materia trattata.      

 

* * *

Per maggior chiarezza, ho pensato di far precedere questi tre testi dalla nota “AL  LETTORE”  presente all’inizio del mio libro.  Questa sintetica paginetta vuol far capire lo spirito con il quale il libro è stato scritto e il significato che l’Autore gli attribuisce, che è solo quello di poter contribuire, per quanto sta alle sue limitate capacità, al ristabilimento della dottrina tradizionale della Chiesa, così malamente bistrattata dal Concilio in poi.

Paolo   Pasqualucci,

16 giugno 2025 

 

 

 

AL   LETTORE

Il presente saggio, quali che siano i suoi limiti, vuole offrire un contributo al dibattito attuale sul Concilio Ecumenico Vaticano II. Il cinquantesimo anniversario del suo inizio (11 ottobre 1962) ha visto celebrazioni che ne esaltavano i  supposti grandi vantaggi che ne sarebbero derivati alla Chiesa universale. Tuttavia negli ultimi anni ha preso pubblicamente piede un discorso critico sul Concilio, alimentato da una minoranza di teologi e laici; discorso che, nonostante l’ostilità della maggioranza, schierata a priori con la vulgata dominante, sta trovando un’attenzione un tempo impensabile presso i fedeli.  Non si tratta ovviamente di masse sterminate e tuttavia un certo interesse per “il problema” posto dal Vaticano II comincia a diffondersi.  Di fronte al perdurare ed anzi all’aggravarsi della crisi della Chiesa Cattolica, che covava sotto le ceneri per esplodere con il Vaticano II, si sente sempre più il bisogno di discutere liberamente del Concilio e delle sue conseguenze, e vale sempre meno il ricorso al principio d’autorità per impedire sul nascere ogni discussione, delegittimandola a priori.

Il saggio, pensato e scritto dal punto di vista del Cattolico comune e non dello specialista, è basato soprattutto sull’analisi e sul raffronto dei testi, e di testi che credo nessuno abbia mai confrontato tra loro.  È anche un saggio di controversistica cattolica, critico nei confronti delle tesi sostenute dal prof. Pietro Cantoni, nel suo recente libro intitolato:  Riforma nella continuità.  Riflessioni sul Vaticano II e sull’anti-conciliarismo, SugarCo, Milano, 2011, dove “l’anti-conciliarismo” sarebbe la critica al Vaticano II; tesi che partono dal presupposto che il Concilio sia intoccabile perché dotato di una sua propria, peculiare infallibilità. Un’ impostazione del genere, che esprime l’atteggiamento ancora dominante presso l’odierna Gerarchia, non si può accettare nei confronti di un Concilio Ecumenico che non ha dichiarato dogmi né condannato errori, fissando persino per iscritto questa sua desistenza dall’esercizio delle tradizionali facoltà del magistero straordinario della Chiesa, intrinseco ad un Concilio Ecumenico:  definire in modo solenne le verità di fede e condannare gli errori che le insidiano. Le tesi del prof. Cantoni sono dirette specificamente contro gli argomenti di Mons. Brunero Gherardini, decano dei teologi italiani, emerito della Lateranense, il quale, in particolare negli ultimi anni, ha sottoposto i testi del Concilio ad obiettive quanto penetranti critiche alla luce della Tradizione della Chiesa. Inoltre, ha rivolto al Papa una rispettosa supplica affinché egli voglia consentire all’apertura di un dibattito teologico pubblico ed ufficiale sul Concilio stesso, supplica rimasta finora senza risposta.  L’analisi da me condotta trae naturalmente ampio ammaestramento dall’opera di Mons. Gherardini e si riallaccia idealmente a Iota Unum di Romano Amerio, il testo fondamentale, che ha permesso a tanti Cattolici di inquadrare nella giusta luce il Vaticano II.  La mia non è opera che abbia pretese di originalità. Per quanto sta alle mie capacità, è nient’altro che una difesa della dottrina tradizionale della Chiesa, oscurata dal “fumo di Satana” penetrato nella Chiesa stessa sin dall’epoca del Concilio.  Una difesa, pertanto, dell’Unam Sanctam, come recita il nostro Credo.  Alla fine, ne siamo per fede tutti sicuri, con l’aiuto di Dio essa trionferà della pur grave crisi che da più di cinquant’anni l’affligge e la consuma.     

 

 

I. “LUMEN GENTIUM” 8, IMPUTATO DI UN INACCETTABILE CONCETTO “ALLARGATO” DELLA CHIESA DI CRISTO

 

1.  La Chiesa come “mistero” secondo LG 1-8  

L’art. 8 di LG, uno dei testi più spinosi dell’intero Concilio, è l’ultimo del I capitolo di questa costituzione. Il capitolo tratta del “mistero della Chiesa”.  Ne espongo succintamente lo sviluppo.  Si inizia dalla Chiesa intesa come “sacramento di Cristo” (art. 1), espressione non immediatamente comprensibile al comune credente, che comunque vuol connettere in modo nuovo l’idea della Chiesa con quella dell’unità di tutto il genere umano : “E siccome la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano (veluti sacramentum seu signum et instrumentum intimae cum Deo unionis totiusque generis humani unitatis), continuando il tema dei precedenti Concili, intende [la Chiesa] con maggiore chiarezza illustrare ai suoi fedeli e al mondo intero la propria natura e la propria missione universale”[3].  Ciò stabilito, si delinea la Chiesa nel “disegno salvifico universale del Padre” (art. 2), nella “missione del Figlio” (art. 3), nell’azione dello Spirito Santo (art. 4).  La Chiesa qui non è ancora la “Chiesa Cattolica Romana”.  Seguendo l’impostazione dello schema sulla Chiesa rigettato (Aeternus Unigeniti = AeU), la Chiesa Cattolica Romana compare nell’ultimo articolo del capitolo.  Che cos’è allora la Chiesa, in queste battute iniziali della LG, oltre che “sacramento” nel senso appena visto?  È la “Chiesa universale”, degli Eletti, alla fine dei tempi; è in generale “la santa Chiesa”, ma come realtà vista soprattutto nel suo aspetto spirituale, escatologico.  Infatti, essa è composta da coloro che sono stati predestinati dal Padre ad esser adottati come figli (Ef 1, 4-5); essa è quindi “il regno di Cristo già presente nel mistero”, che “per la potenza di Dio cresce visibilmente nel mondo” (LG 3); essa è (di nuovo) la “Chiesa universale” che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (LG 4).  Essa è quindi “il regno di Dio” che si manifesta chiaramente agli uomini nelle parole, nelle opere e nella presenza di Cristo (LG 5).  Si elencano poi le tradizionali “immagini della Chiesa”:  ovile, gregge, podere o campo di Dio, casa di Dio, edificio di Dio, tempio santo, vigna scelta, immacolata sposa dell’Agnello (LG 6).  Si ricorda poi, richiamando l’Enciclica Mystici Corporis di Pio XII (1943) sulla natura della Chiesa, che essa è “corpo mistico di Cristo”, cosa che la rende unita a Cristo, come il corpo al capo (art. 7).  Si giunge, infine, all’art. 8 famoso, che concerne la Chiesa “realtà visibile e spirituale”.  In quest’articolo, sulla falsariga di AeU, si deve  concludere la presentazione del concetto della Chiesa mostrando la connessione tra la Chiesa universale, mistero di Cristo, corpo mistico di Cristo, con la Chiesa cattolica, apostolica, romana.  Dovendo definire con chiarezza la natura della Chiesa (non potuta affrontare dal dogmatico Vaticano I, aggiornatosi nell’estate del 1870 e poi interrotto per l’occupazione di Roma da parte dell’esercito del Re d’Italia, il 20 settembre successivo) bisogna dire con estrema chiarezza se la Chiesa di Cristo è la Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana, come hanno sempre sostenuto i Romani Pontefici e tutta la teologia ortodossa.  Negarlo o dirlo in modo ambiguo equivale a negare o ad oscurare la qualifica di Vicario di Cristo del Sommo Pontefice, la cui autorità verrebbe allora a ridursi  in modo chiaro o ambiguo a quella di semplice Vescovo di Roma.

In 8.1 LG, si ricapitola quanto detto negli articoli precedenti:  Cristo ha costituito la sua Chiesa santa, comunità di fede, di speranza e di carità, quale organismo visibile, e questa “Chiesa terrestre” (non si usa più l’aggettivo tradizionale “militante”) non è cosa diversa dalla Chiesa “arricchita di beni celesti”:  esse sono una sola complessa realtà, che rinvia al mistero del Verbo incarnato, secondo un’analogia proposta dalla dottrina tradizionale.  In 8.2 si passa finalmente alla formulazione di quella che dovrebbe essere l’identità esclusiva ed assoluta di Chiesa di Cristo e Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana.  Ma qui cominciano i problemi.  Vediamo allora questo famoso art. 8.2 nella sua interezza. 

 

2.  L’unica Chiesa di Cristo “sussiste” nella Chiesa cattolica ma non solo. 

“Questa è l’unica Chiesa di Cristo, che nel simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica, e che il Salvatore nostro, dopo la sua risurrezione, diede da pascere a Pietro (Gv 21, 17), affidandone a lui e agli altri apostoli la diffusione e la guida (Mt 28, 18 ss.), e costituì per sempre la colonna e il sostegno della verità (Tm 3, 15).  Questa Chiesa, in questo mondo costituita e organizzata come una società, sussiste nella [subsistit in] Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui, ancorché al di fuori del suo organismo visibile si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità, che, quali doni propri della Chiesa di Cristo [ut dona Ecclesiae Christi propria], spingono verso l’unità cattolica”[4].

È nel secondo periodo del paragrafo che si trova il passaggio incriminato. Nel primo, l’identificazione della Chiesa Cattolica (Romana) con “l’unica Chiesa di Cristo” sembra evidente perché “l’unica Chiesa di Cristo”, che poi si dichiara “sussistere” nella Chiesa Cattolica, è quella che “nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica”, affidata “a Pietro e agli altri apostoli”.  Ora, questa Chiesa professata nel Simbolo, che è quella affidata da Cristo a Pietro e agli altri Apostoli, può essere qualcosa di diverso dalla Chiesa Cattolica Romana, in mente Concilii?  Dal punto di vista cattolico, sembra del tutto legittimo interpretare il testo di LG 8.2 in questo senso, che sembra anche scaturire immediatamente dal suo tenore letterale.

Ma il testo stesso elimina del tutto la possibilità di un’interpretazione diversa?  Vediamo.

All’inizio di LG 8.2, nella frase “Questa è l’unica Chiesa di Cristo etc.”, il “questa” si riferisce a ciò che viene prima non a ciò che segue.  Si riferisce cioè alla Chiesa descritta da LG 8.1, che è la Chiesa “comunità di fede, speranza e di carità” costituita da Cristo come “organismo visibile”, in analogia con il Mistero del Verbo Incarnato.  Questo “organismo visibile” (compaginem visibilem) della Chiesa è composto da una “società” costituita da “organi gerarchici” (organis hierarchicis), dall’”assemblea visibile” (coetus adspectabilis), entità tutte che concorrono a formare la “Chiesa terrestre” (non più “militante”).  La Chiesa “terrestre” costituisce “una sola complessa realtà” con la Chiesa “arricchita di beni celesti”:  esse non sono “due cose diverse” (ivi), rispecchiandosi in esse l’unità stessa delle due nature, umana e divina, del Verbo Incarnato.  È la dottrina ecclesiologica tradizionale, come esposta a partire da Leone XIII (enciclica Satis cognitum, 1896) e in particolare da Pio XII, nella Mystici Corporis (entrambe richiamate in nota dalla LG) e riproposta anche da AeU 6.1, come si vedrà. 

Ma questa Chiesa, introdotta con terminologia del tutto tradizionale, è dunque la Chiesa Cattolica Romana, come esplicitamente affermato dai documenti di Leone XIII, Pio XII e dallo schema “scartato”?  Dovrebbe esserlo.  Ma nel testo di LG 8, per arrivare alla “Chiesa cattolica governata dal successore di Pietro”, c’è un ulteriore passaggio, che manca del tutto nella dottrina precedente e in AeU. Infatti, “l’unica Chiesa di Cristo” presentata correttamente come “Chiesa del Verbo Incarnato” è quella professata dal Simbolo ma la Chiesa professata nel Simbolo è quella di Pietro e degli Apostoli e non ancora quella dei Papi e dei Vescovi “in comunione con loro”.  Quest’ultima compare sulla scena solo grazie al “subsistit in”. Tutte le “confessioni” cristiane e dunque anche tutti gli eretici e gli scismatici dicono di riconoscersi nella Chiesa del Simbolo, che è appunto quella di Pietro e degli Apostoli. Nel IV secolo, all’epoca della professione di fede niceno-costantinopolitana nel Simbolo che è a tutt’oggi il nostro Credo, non avrebbe avuto senso aggiungere “romana” alla dichiarazione “Chiesa […] una, santa, cattolica, apostolica”:  pur essendo già riconosciuto un primato alla Sede di Pietro, la Chiesa universale (“cattolica”, in greco) era ancora unita, i grandi scismi erano di là da venire.  Ma dopo gli scismi ben noti e le ben note eresie, è necessario stabilire quale sia la vera Chiesa di Cristo ovvero quale sia la Chiesa che – unica - ha mantenuto i caratteri della Chiesa professata nel Simbolo, ossia della Chiesa universale.  Noi sappiamo che quest’unica Chiesa è la Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana; e non solo perché si trova a Roma, dove ha subìto il martirio S. Pietro primo Papa e dove sono sempre stati i suoi successori, ma anche perché è l’unica ad aver mantenuto la continuità nella successione apostolica e nella dottrina. E in questa continuità è la sua universalità ossia la sua cattolicità[5].  Pertanto, una nozione di Chiesa di Cristo che possa esser rivendicata anche alle “confessioni” acattoliche (tutte settarie perché scismatiche ed eretiche) non può identificarsi con quella della Chiesa Cattolica autentica, che è la Romana, l’unica rimasta fedele nei secoli al Deposito della Fede.

La Chiesa Cattolica entra dunque nella definizione conciliare di “Chiesa di Cristo visibile” solamente ad opera del “subsistit in”.  La Chiesa di Cristo, “ in questo mondo costituita ed organizzata come società (in hoc mundo ut societas constituta et ordinata)”, la Chiesa di “Pietro e degli altri Apostoli”, sussiste nella Chiesa Cattolica, governata “dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui”.  Abbiamo dunque due entità, una delle quali “sussiste” nell’altra:  la Chiesa di Pietro e degli Apostoli (Chiesa di Cristo) che sussiste nella Chiesa dei successori di Pietro e dei vescovi.  Ma – ed è questa la gran novità del Vaticano II – non sussiste solamente  ed esclusivamente nella Chiesa cattolica (come ci si sarebbe aspettati di leggere, sulla falsariga di AeU, con il quale LG dovrebbe essere in continuità dottrinale); sussiste anche negli “elementi” esterni alla Chiesa cattolica, che, in quanto suoi “doni propri”, appartengono alla Chiesa di Cristo e pertanto “spingono verso l’unità cattolica”.

Dalla Chiesa cattolica, intesa come “societas” si è lasciato poi cadere l’aggettivo “perfetta”, tradizionalmente accostato al termine “società” riferito alla Chiesa, che è sempre stata ritenuta societas perfecta. È questa una conseguenza del “sussistere” della Chiesa di Cristo anche negli “elementi” esterni alla Chiesa cattolica?  

 

3. Qual è la natura degli “elementi” acattolici della Chiesa di Cristo?

Al posto del tradizionale “è”, si è dunque fatto ricorso al semanticamente più complesso “sussiste in”, esteso anche a “parecchi elementi di santificazione e di verità” esterni alla Chiesa cattolica, che devono considerarsi “doni propri della Chiesa di Cristo”, ragion per cui “spingono verso l’unità cattolica”.  A parte la “spinta verso l’unità cattolica” ad opera di questi “elementi”, concetto che (come nota Mons. Gherardini) non sembra del tutto chiaro (perché non si dice “verso la Chiesa cattolica” ma “verso l’unità cattolica”), ciò che più sconcerta (in questa non dogmatica definizione) è la proclamazione dell’esistenza di “elementi di santificazione e di verità” posti al di fuori della Chiesa cattolica, che tuttavia appartengono alla “Chiesa di Cristo”, visto che sono presentati come suoi “doni propri”. Questi “elementi” posti fuori della Chiesa cattolica, che tuttavia appartengono alla Chiesa di Cristo, sono costituiti dai singoli acattolici solamente o dalle loro comunità in quanto tali?  Nel primo caso, si resterebbe sempre nel dogma, potendosi ricondurre questi “elementi” a coloro che, per grazia di Dio, godono del battesimo di desiderio.  Nel secondo, invece, se ne uscirebbe perché la Chiesa di Cristo, oltre alla Chiesa cattolica, verrebbe ad includere anche le “comunità” scismatiche ed eretiche. Ci troveremmo di fronte ad un errore dottrinale terrificante, visto che un concetto allargato di Chiesa di Cristo implica di per sé la negazione del dogma dell’unicità assoluta della Chiesa cattolica, in quanto sola, unica e vera Chiesa di Cristo, al di fuori della quale non c’è salvezza, tranne per l’appunto nei casi puramente individuali di battesimo di desiderio, esplicito o implicito (perché i Papi hanno sempre condannato il rigorismo di chi riteneva erroneamente che gli Acattolici dovessero in quanto tali esser già tutti dannati)[6].  Il testo di LG 8.2 non sembra in grado di chiarire di per sé la questione.  Dal suo tenore non è praticamente possibile capire se gli “elementi” si riferiscano ai singoli o alle comunità eretiche e scismatiche alle quali essi appartengano.

Questo è il grave problema posto da questo famoso passo di LG 8, che tante polemiche ha suscitato. Un’integrazione, che avrebbe dovuto essere anche una chiarificazione in senso ecumenico di LG 8, si trova già nell’art. 15 di LG, dedicato al rapporto tra “i Cristiani non cattolici e la Chiesa”, ove si afferma che “la Chiesa sa di essere per più ragioni congiunta [novit plures ob rationes coniunctam]” ai “non cattolici”, perché esisterebbe “una certa vera unione nello Spirito Santo” [immo vera quaedam in Spiritu Sancto coniunctio] tra “le Chiese o comunità ecclesiali” dei “non cattolici” e “la Chiesa” stessa.  Ma l’articolo non riesce in realtà a chiarire se i “non cattolici” appartengano effettivamente alla “Chiesa”; ragion per cui questa congiunzione risulterebbe da un’”unione nello Spirito Santo” che resta vaga ed indeterminata, essendo essa, del resto, non un’unione e basta ma “una certa unione”, ove il “certo” non è ciò che è certo (e quindi sicuro) ma solo ciò che si esprime in “una qualche unione” poiché questo è il senso, per l’appunto indeterminato, di “quaedam”.  Una chiarificazione risolutiva avrebbe dovuto apportarla il decreto Unitatis redintegratio sull’ecumenismo, promulgato il 21 novembre 1964, lo stesso giorno della Lumen gentium, sempre ed autorevolmente indicato come decreto che costituisce l’applicazione della dottrina di LG 8 all’ecumenismo, in particolare all’art. 3.  Analizziamo dunque quest’articolo[7].

 

 

 

 

 

II.  “UNITATIS REDINTEGRATIO” 3, CHE SANZIONA L’INCLUSIONE DELLE COMUNITÀ ACATTOLICHE NELLA CHIESA DI CRISTO

 

1.     Gli Acattolici diventano in quanto tali “strumenti di salvezza”

L’articolo 3 di questo decreto concerne “le relazioni dei fratelli separati con la Chiesa cattolica”. Dopo aver dichiarato il concetto del tutto nuovo, secondo il quale essi si trovano “in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica”, onde il movimento ecumenico deve mirare appunto a rimuovere gli impedimenti ad una “piena comunione” con essa, così specifica:

“Inoltre, tra gli elementi o beni dal complesso dei quali la stessa Chiesa è edificata e vivificata, alcuni, anzi parecchi ed eccellenti, possono trovarsi fuori dei confini visibili di essa:  la parola di Dio scritta, la vita della grazia, la fede, la speranza e la carità, e altri doni interiori dello Spirito Santo ed elementi visibili.  Tutte queste cose, le quali provengono da Cristo e a lui conducono, appartengono a buon diritto [iure] all’unica Chiesa di Cristo” (UR, 3.2).

    Il testo, dopo aver elencato gli “elementi o beni” che “edificano e vivificano la Chiesa cattolica” e che possono ritrovarsi anche fuori dai confini visibili di essa, dando quindi un contenuto più preciso agli “elementi” di cui all’art. 8.2 LG, afferma che essi “appartengono a buon diritto all’unica Chiesa di Cristo”.  Ma ciò non significa, allora, confermare che gli “elementi” di cui al detto articolo fanno parte della Chiesa di Cristo allo stesso modo della Chiesa cattolica, che sicuramente vi appartiene “di diritto”?  E quindi che la Chiesa cattolica è inclusa sì nella Chiesa di Cristo ma sempre come parte di essa?

Il paragrafo successivo, tra i suddetti “elementi” include anche “non poche azioni sacre”, terminologia che indica, come sappiamo, la Sacra Liturgia.  In queste “Chiese o comunità” non cattoliche esistono, ci si dice, “azioni sacre” che “possono senza dubbio produrre realmente la vita della grazia, e si devono dire atte ad aprire accesso alla comunione della salvezza [ingressum in salutis communionem]” (UR, 3.3).  Da affermazioni del genere, come non ricavare l’idea che le liturgie degli Ortodossi e le “cene” dei Protestanti sono, per il Concilio, “atte ad aprire accesso alla comunione della salvezza”?  Non si giustifica forse su passaggi del genere l’ormai inflazionata pratica delle liturgie “ecumeniche”, nelle quali tutti i culti sono spesso rappresentati, persino quelli non cristiani, per quanto oscura possa essere l’espressione “accesso alla comunione della salvezza”?  Includendovi le “azione sacre”, il testo mostra che gli elementi o beni di cui sopra sono quelli delle comunità, perché “l’azione sacra” che ha luogo mediante la liturgia non può essere individuale.

Ma la conclusione posta alla fine di tutti questi chiarimenti è ancora più forte:  nonostante le loro “carenze”, le “Chiese e comunità separate” vengono utilizzate dallo Spirito Santo “come strumenti di salvezza, la cui forza deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità, che è stata affidata alla Chiesa cattolica [Iis enim Spiritus Christi uti non renuit tamquam salutis mediis, quorum virtus derivatur ab ipsa plenitudine gratiae et veritatis quae Ecclesiae catholicae concredita est]”(UR, 3.4). Non singoli loro componenti, nonostante appartengano a comunità eretiche e scismatiche, ma le comunità stesse, in quanto tali. Come sottrarsi all’impressione vivissima che qui le “Chiese e comunità separate” (che, in quanto utilizzate dallo Spirito Santo come “strumenti di salvezza” derivano la loro “forza” addirittura “dalla stessa pienezza della grazia e  della verità affidata alla Chiesa cattolica”) risultano essere “strumenti di salvezza” proprio in quanto tali, contro tutto l’insegnamento precedente della Chiesa?  Se l’appartenenza alla Chiesa di Cristo fa sì che anche le comunità e Chiese dei non cattolici (le “Chiese” che si autodefiniscono “ortodosse” sono quelle dei grecoscismatici, e “Chiese” sta solo per tradizionale titolo d’onore, mantenuto dalla Chiesa cattolica) siano da considerarsi “strumenti di salvezza”, sia pure gravati da qualche “carenza” (da scisma ed eresia, avversione inveterata per il Papa, per “Roma”, etc.), che cosa ne è del dogma di fede già ricordato, secondo il quale, al di fuori della Chiesa cattolica non può esserci salvezza, se non nei casi individuali di battesimo di desiderio?  Salvezza  ad opera dell’azione insondabile dello Spirito Santo, nonostante l’appartenenza dei salvati ad una setta eretica e/o scismatica (o ad un’altra religione, non rivelata) e non certo grazie a questa appartenenza?

Del resto, bisogna pur dire che il semplice credente non riesce a comprendere come possano essersi conservate la “vita della grazia” e le tre virtù teologali (fede, speranza e carità) non  presso individui singoli (cosa certamente possibile con l’aiuto dello Spirito Santo, che scruta  nell’intimo e conosce i cuori) ma presso comunità eretiche e scismatiche in quanto tali, pervicacemente ribelli all’autorità dell’unica legittima Chiesa di Cristo.  Inoltre, il semplice credente vorrebbe sapere quali possibilità di “santificazione” e quali “verità” siano racchiuse nelle dottrine e nel modo di vivere di queste comunità eretiche e scismatiche fieramente avverse al Romano Pontefice e a tutto ciò che è cattolico, nelle quali molti negano il concetto stesso di “santificazione” (preferendovi il blasfemo “pecca fortiter sed crede fortius” di Lutero, pecca fortemente ma credi ancor più fortemente o l’equivalente “simul iustus et peccator”) e propugnano una nozione del tutto soggettiva della verità, compresa quella rivelata.

Per ciò che riguarda in particolare i Protestanti, ripropongo sinteticamente i loro “limiti” come ricordati da Mons. Gherardini, notoriamente uno dei massimi conoscitori delle loro dottrine, in campo cattolico:

nessuna incompatibilità fra vita cristiana ed “eticità” dell’aborto, del divorzio e delle “diversità”;  soppressione d’almeno cinque sacramenti; concezione del sacramento con funzione di segno, ma privo della funzione “produttiva della grazia che significa”;  riduzione dell’eucaristia alla celebrazione del “testamento” di Cristo, che ha termine con la fine della celebrazione stessa;  culto della Sacra Scrittura frastagliato da idee contrastanti sulla sua reale o attuale (anzi attualistica, quella dell’”autopistía”) ispirazione;  assenza d’un vero culto della Madonna così come ai Santi, perché esso sarebbe un furto a Dio e a Cristo; […] non solo assenza, ma negazione dell’ufficio papale e, anche là dove vige [presso gli Anglicani], l’episcopato è ben altro rispetto a quello derivante dalla successione apostolica [etc.]”[8].

 

2.     Una nuova ed inaccettabile dottrina del Battesimo, dovuta al cardinale Bea 

Ma l’elevazione delle “Chiese e comunità separate” a “strumenti di salvezza” non si giova (è stato notato) anche di quella che sembra essere una sostanziale riformulazione della dottrina del battesimo, rispetto a quanto enunciato ad esempio dalla Mystici Corporis ?  Infatti, in UR, 3.1 si scrive che i “fratelli separati” devono considerarsi “cristiani” perché con il battesimo sarebbero stati incorporati a Cristo:  “Nondimeno, giustificati nel battesimo dalla fede, sono incorporati a Cristo [Nihilominus, iustificati ex fide in baptismate, Christo incorporantur] e perciò sono a ragione insigniti del nome di cristiani” (UR, 3.1).  Poche righe prima la loro posizione era stata definita (vedi supra, § 1) come quella di chi si trova in “una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica”.  Ma che significato ha qui l’ “esser incorporati a Cristo”, riferito ai non cattolici?   Semplicemente questo, secondo logica: se il Battesimo ricevuto nelle loro sette li “incorpora a Cristo”, allora vengono in tal modo a far parte della “Chiesa di Cristo”.  E se il battesimo degli eretici e scismatici li fa entrare in quanto tali nella Chiesa di Cristo, allora quest’ultima è più ampia della Chiesa cattolica.  Con tale dottrina, i “fratelli separati” possono esser annoverati tra i membri della Chiesa, indipendentemente dalla professione della vera fede e dall’ubbidienza ai legittimi Pastori!

Quest’idea dell’”incorporazione a Cristo” anche dei “fratelli separati”, il testo del Concilio sembra fondarla sul Magistero precedente grazie a un rimando in nota al Concilio di Firenze del 1439,  del quale si cita un passo dal famoso decreto Pro Armenis che ristabilì l’unità con la Chiesa Armena.  Il rimando è posto subito dopo le parole “sono incorporati a Cristo”.  Ma, andando a rileggere che cosa è scritto in quel decreto si vede che esso illustra (ad edificazione degli Armeni) tutti e sette i Sacramenti, come debbano intendersi per i veri Cattolici, senza far riferimento alcuno al Battesimo degli eretici e al suo significato:  “Primo di tutti i sacramenti è il Battesimo, porta della vita spirituale:  grazie ad esso diveniamo membra di Cristo e parte del Corpo della Chiesa [per ipsum enim membra Christi ac de corpore efficimur Ecclesiae][9].  Coloro che vengono “incorporati a Cristo”, sono qui i Cattolici non gli eretici e gli scismatici.  È legittima, allora, l’estensione del concetto a questi ultimi?   Sembra proprio di no, se si deve mantenere la dottrina della Chiesa, proposta da ultimo nella Mystici Corporis.  Che così insegna:  

   “Tra i membri della Chiesa bisogna annoverare esclusivamente quelli che hanno ricevuto il lavacro di rigenerazione [il Battesimo] e professano la vera fede né dalla compagine di questo corpo si separarono disgraziatamente da sé stessi né per gravissime colpe ne furono separati dalla legittima autorità”(Corsivi miei).  E l’esclusione dalla Chiesa vale per tutti gli eretici e scismatici pubblici, anche se in buona fede (eretici e scismatici in senso materiale, cioè non per via della loro intenzione ma a causa del contenuto oggettivamente infedele di ciò che professano).  Questi ultimi, però, a differenza degli eretici e scismatici in senso formale (che cioè vogliono scientemente esserlo, come un Fozio, un Lutero, un Calvino), sono, per la loro disponibilità a professare la vera fede nella vera Chiesa (votum Ecclesiae), “ordinati da un certo inconsapevole desiderio ed anelito [che solo lo Spirito Santo conosce] al mistico Corpo del Redentore”.  Pertanto, pur essendo fuori della compagine visibile di questo corpo, possono appartenervi invisibilmente e per questa via conseguire la giustificazione e la salvezza.  Essi, tuttavia, restano “privi di quei tanti doni e aiuti celesti che solo nella Chiesa cattolica è dato di godere”.  Per tal motivo Pio XII, come i suoi predecessori, li invitava “ad assecondare gli impulsi interni della grazia e a sottrarsi al loro stato, in cui non possono essere sicuri della propria salvezza” perché “chi abbia ricusato di ascoltare la Chiesa, deve, secondo l’ordine di Dio, ritenersi come etnico e pubblicano [Mt 18, 17]” cioè come nemico e pubblico peccatore: “Rientrino perciò nella cattolica unità [Ingrediantur igitur catholicam unitatem] e tutti uniti a Noi [al Pontefice] nell’unica compagine del Corpo di Gesù Cristo, vengano con Noi all’unico Capo nella società di un gloriosissimo amore”[10]. 

Si vede chiaramente che qui si ha un invito a ritornare all’ovile, con assunzione diretta della responsabilità della scelta che, precisa poi il Papa, deve essere assolutamente libera da costrizione (sponte libenterque).  Il paterno invito è pertanto rivolto a chi si trova del tutto fuori della Chiesa Cattolica Romana, per quanto ad essa ordinato in voto dal Battesimo.  Fuori, perché solo la Chiesa Cattolica Romana è l’unica Chiesa di Cristo:  “Pertanto a definire e descrivere questa verace Chiesa di Cristo (che è la Chiesa santa, cattolica, apostolica, romana), nulla si trova di più nobile, di più grande, di più divino che quell’espressione con la quale essa viene chiamata “il Corpo mistico di Gesù Cristo”; espressione che scaturisce e quasi germoglia da ciò che vien frequentemente esposto nella Sacra Scrittura e nei Santi Padri”[11].

La mutazione dottrinale introdotta dal Concilio, sembra sia dovuta in particolare al cardinale Bea, che, sull’Osservatore Romano del 27 aprile 1962, interpretava la Mystici Corporis come se “l’ordinazione al mistico corpo” dei “separati” dovesse intendersi (in modo nuovo) quale appartenenza, onde la loro situazione di salvezza non sarebbe diversa da quella  dei cattolici[12]. 

Al dettato sconcertante dell’art. 3 UR va poi aggiunto il noto passo di UR 15.1, nel quale, illustrando “la tradizione liturgica e spirituale degli orientali”, meglio noti come Ortodossi (grecoscismatici), si presenta la “celebrazione dell’Eucaristia” quale loro contributo alla crescita della “Chiesa di Dio”(Ecclesia Dei), termine anch’esso tradizionale, che indica sempre la “Chiesa di Cristo”: “Perciò con la celebrazione dell’eucaristia del Signore in queste singole Chiese, la Chiesa di Dio è edificata e cresce, e con la concelebrazione si manifesta la comunione tra di esse [Proinde per celebrationem Eucharistiae Domini in his singulis Ecclesiis, Ecclesia Dei aedificatur et crescit, et per concelebrationem communio earum manifestatur]”.  Se la “Chiesa di Dio”, che è la “Chiesa di Cristo”, è “edificata e cresce” ad opera di queste “Chiese” e la “concelebrazione” ne manifesta “la comunione”, allora esse ne sono parte, così come ne è parte la Chiesa cattolica (Apostolica, Romana). Il passo appare per la verità di un’estrema chiarezza nell’affermare che “queste singole Chiese” non cattoliche concorrono in quanto tali “all’edificazione e alla crescita della Chiesa di Dio”. L’espressione “Chiesa di Dio”, ci informa in nota lo stesso Concilio, è tratta da S. Giovanni Crisostomo, morto verso il 407 AD, qualche secolo prima dello scisma bizantino:  era termine tradizionale, risalente addirittura all’Antico Testamento (vedi infra, cap. IV, § 2), per indicare la Chiesa in quanto tale, nella sua unità, e quindi la Chiesa di Cristo, nella quale era già riconosciuto il Primato di Pietro[13]. 

 

3.     I Cattolici colpevoli della separazione, come gli Acattolici!

 Ma in che senso il Concilio usa il termine “Chiesa di Dio”?  Esso compare anche nel Proemio di UR (UR 1) oltre che in UR 3.1.  Nel Proemio, in modo del tutto inaspettato, le divisioni tra i Cristiani sembrano poste tutte sullo stesso piano, tutte causa allo stesso modo di un unico scandalo, come se non ci fosse stata sempre un’unica Chiesa di Cristo – quella fondata sul primato di Pietro – dalla quale sono state le varie sette, eretiche e scismatiche, via via a staccarsi, per colpa loro (come recita la famosa frase di S. Cipriano di Cartagine: “sono stati loro a staccarsi da noi, non noi da loro”). Inoltre, questo Proemio afferma che presso “i cristiani tra loro separati”(in Christianos inter se disiunctos), il Signore negli ultimi tempi “ha cominciato a effondere l’interiore ravvedimento e il desiderio di unione” (UR, 1.2), includendosi evidentemente anche i Cattolici tra i cristiani “separati” che si stavano ravvedendo, dato che il testo non dice “da noi [Cattolici] separati”, come avrebbe dovuto, per mantenere la continuità con la dottrina precedente!  All’epoca ci sarebbe stato dunque un generale “movimento che si allargava di giorno in giorno per il ristabilimento dell’unità di tutti i cristiani” (ivi). Non so se corrisponda al vero il giudizio qui espresso sulla forza del movimento ecumenico, che era in realtà di élite e di origine protestante-teosofica. Il testo sembra caricare alquanto le tinte.  Ma il punto più importante è un altro: l’ecumenismo non è qui inteso in vista del ritorno alla Chiesa cattolica di eretici e scismatici (come secondo la dottrina tradizionale) ma per “il ristabilimento dell’unità di tutti i cristiani [ad omnium Christianorum unitatem restaurandam]”, ristabilimento che non contempla alcun “ritorno”.  Da siffatta nozione di “ristabilimento”, come non ricavare l’impressione che, per UR 1.2, l’unità della Chiesa al momento non c’era, che la Chiesa Cattolica (Apostolica, Romana) non realizzava in sé stessa l’unità della vera ed unica Chiesa di Cristo!  L’unità non c’era e bisognava ristabilirla, non auspicando la conversione ed il ritorno dei “separati” ma rifondando una “Chiesa di Dio veramente universale”, come se la Chiesa Cattolica Romana al momento esistente non rappresentasse in quanto tale la “Chiesa di Dio” in tutta la sua universalità!

Il concetto espresso da UR 1.2 è ripetuto in modo ancor più forte da UR 24.2, ultimo articolo del Decreto, ove si esalta, come motivo trainante del Concilio, “questo santo proposito di riconciliare tutti i cristiani nell’unità di una sola e unica Chiesa di Cristo [hoc sanctum propositum reconciliandi Christianos omnes in unitate unius unicaeque Ecclesiae Christi]”.  Non esisteva ancora, dunque, una “sola ed unica Chiesa di Cristo”, veramente universale.  Bisognava crearla attraverso la “riconciliazione di tutti i Cristiani” in un’unità superiore, nuova!

 

4.     Un’unità che trascende la Chiesa Cattolica  

Consideriamo bene il testo di UR 1.2.  Chi partecipa a questo movimento ecumenico “per l’unità”? “Tutti quelli che invocano la Trinità e confessano Gesù come Signore e Salvatore, e non solo presi a uno a uno, ma anche riuniti in comunità [sed etiam coetibus congregati], nelle quali hanno ascoltato il Vangelo e che essi chiamano la Chiesa loro e la Chiesa di Dio.  Quasi tutti però, anche se in modo diverso, aspirano a una Chiesa di Dio una e visibile, che sia veramente  universale  [ad Ecclesiam Dei unam et visibilem adspirant, quae sit vere universalis] e mandata al mondo intero, perché questo si converta al Vangelo e così si salvi per la gloria di Dio” (UR, 1.2).  La descrizione delle caratteristiche dei Cristiani che partecipano al movimento ecumenico appare talmente generica da potersi  applicare, come ognun può vedere, a qualsiasi tipo di “denominazione cristiana”, come si dice oggi, copiando dai media anglosassoni.  E a cosa aspira tale movimento, secondo il Concilio?  I suoi membri aspirano (adspirant), cattolici compresi, ad una “Chiesa di Dio una e visibile, che sia veramente universale”!  E se vi aspirano, essa evidentemente ancora non c’è.  Questa “Chiesa di Dio” così intesa è altra cosa rispetto alla “Chiesa di Cristo”?  In realtà essa è solo un ulteriore nome tradizionale della “Chiesa di Cristo”, da intendersi però quest’ultima come esposta da UR 3, ossia della Chiesa di Cristo che ricomprende la Chiesa cattolica e tutte le “Chiese e comunità” cristiane, l’una e le altre in diverso modo “strumenti di salvezza”.  Questa “Chiesa di Cristo” costituisce nello stesso tempo un obiettivo ancora da realizzare nella sua pienezza![14]   

Queste sono notoriamente le gravi questioni poste dal plesso LG 8 – UR 3 ed addentellati. E che le questioni siano gravi lo dimostra, a mio avviso, anche il fatto che l’idea di Chiesa racchiusa in LG 8 non può appoggiarsi ad alcuna delle precedenti definizioni della Chiesa.  Se si guarda lo schema De Ecclesia originario, l’Aeternus Unigeniti “scartato” in Concilio, si vede che la definizione della Chiesa si premura di dire, senza tanti giri di parole, che la sola ed unica Chiesa di Cristo è la  Chiesa Cattolica Romana, appoggiandosi all’autorità del Simbolo Apostolico, di quello Niceno-Costantinopolitano, del Concilio di Trento, di quello Vaticano I, dell’Enciclica Mystici Corporis, dell’Enciclica Humani generis  etc., e stabilendo questa chiarissima connessione:  La Chiesa  come società è il Corpo Mistico di Cristo – La Chiesa Cattolica romana è il Corpo Mistico di Cristo, l’unica che abbia diritto al titolo di “Chiesa”[15].  Stop.

Quale riferimento alle fonti del Magistero troviamo, invece, in LG, 8.2, quale pezza d’appoggio per il “subsistit in”?  Nessuna.  Solo un rinvio ai Concili tridentino e vaticano I, per ricordare che la Chiesa cattolica (nella quale “sussiste” quella di Cristo) è, sull’autorità di quei Concili, “governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui” (vedi nota n. 13 della LG).  E il lettore disattento potrebbe anche credere che l’idea della Chiesa di Cristo che “sussiste nella” Chiesa cattolica sia già menzionata in quei due fondamentali concili dogmatici: il che non è, nel modo più assoluto.

Ma chi difende l’ortodossia di UR 3 oppone in genere quanto vi si trova nell’ultimo e spesso citato paragrafo di questo articolo.

 

5.     Comunione e salvezza piene e non piene, nella confusione dei concetti  

Dopo aver detto che le “Chiese e comunità separate” sono usate anch’esse dallo “Spirito di Cristo” come “strumenti di salvezza”, il Concilio sente il bisogno di precisare, quasi ad attenuare l’impatto della straordinaria affermazione.  Rileva, quindi, che le “comunità e Chiese” dei separati “non godono di quella unità che Gesù Cristo ha voluto elargire a tutti quelli che ha rigenerato e vivificato insieme per formare un solo corpo in vista di una vita nuova, unità attestata dalla sacra Scrittura e dalla veneranda tradizione della Chiesa” (UR 3.5).  E dove la si trova quest’unità, indispensabile alla salvezza?  Nella Chiesa cattolica.

“Infatti, solo per mezzo della cattolica Chiesa di Cristo, che è il mezzo generale della salvezza, si può ottenere tutta la pienezza dei mezzi di salvezza.  In realtà noi crediamo che al solo Collegio apostolico con a capo Pietro il Signore ha affidato tutti i tesori della Nuova Alleanza, al fine di costituire l’unico corpo di Cristo sulla terra, al quale bisogna che siano pienamente incorporati tutti quelli che già in qualche modo appartengono al popolo di Dio”[16]. 

In molti hanno sempre ritenuto che questo fosse un testo chiaro, nel quale si dice finalmente e per due volte che solo ad opera della Chiesa cattolica è possibile ottenere la salvezza.  Ma osserviamo il testo attentamente.  Non godendo dell’unità “elargita” da Cristo ai battezzati, attestata dalla Sacra Scrittura e dalla Tradizione della Chiesa, ne consegue che, come “strumenti di salvezza”, le “Chiese e comunità” dei “separati” non possono offrire  “tutta la pienezza dei mezzi della salvezza”.  Domanda:  la pienezza dei mezzi di salvezza implica la salvezza o la pienezza della salvezza?  Apparendo privo di senso il concetto di una salvezza non piena (perché la salvezza si dà o non si dà, non può essere parziale, non esiste il Paradiso a metà), bisogna allora dire che “la pienezza dei mezzi della salvezza” è concetto che implica la salvezza tout court, senza distinzioni di pieno e non pieno, completo e parziale.  Ma con questa ineccepibile conclusione che cosa resta della qualità di mezzi di salvezza forzatamente non pieni, a causa delle loro “carenze”, attribuita ai “separati”?  Se la salvezza non può che essere piena, come possono essere considerate “strumenti di salvezza” quelle “Chiese e comunità” che dispongono di “strumenti di salvezza” per definizione imperfetti e quindi  esclusi dalla “pienezza”?  Strumenti di salvezza imperfetti o non pieni daranno una salvezza imperfetta o non piena.  Ma questo non si può concedere perché significherebbe ammettere il concetto di una  salvezza non piena, cosa assurda, come si è detto.  In alternativa, bisognerebbe ammettere, allora, che anche gli strumenti di salvezza non pieni possono produrre la salvezza tout court, ossia piena:  cosa parimenti assurda e inconcepibile.

Voler considerare le sette di scismatici ed eretici quali “strumenti di salvezza” non porta dunque ad una contraddizione che sembra insanabile, circa il rapporto tra la nozione di mezzi della salvezza e salvezza?  Ma procediamo.  La pienezza dei mezzi della salvezza  spetta dunque solo alla Chiesa cattolica.  Veramente il testo non dice sic et simpliciter:  “Chiesa cattolica” o, ancor meglio, “Chiesa Cattolica Romana”; dice:  “cattolica Chiesa di Cristo”(per solam enim catholicam Christi Ecclesiam).  C’è una differenza? Forse no. O forse sì. Ci può essere, a mio avviso, nel senso che la “cattolica Chiesa di Cristo” può indicare la Chiesa cattolica in quanto è la componente “cattolica” della Chiesa di Cristo, quella componente che è appunto “mezzo generale” (non l’unico mezzo!) della salvezza perché possiede “la pienezza dei mezzi della salvezza”, al contrario delle “Chiese e comunità” dei “separati”, che pur farebbero parte della Chiesa di Cristo.  In tal modo, il mezzo di salvezza rappresentato dalla Chiesa cattolica non sembra affatto inteso come unico ed esclusivo, l’unico in assoluto, sulla linea della Mystici Corporis.  Esso sarebbe, invece, “generale” rispetto alla parzialità dei mezzi di salvezza pertinenti ai “separati”.  È solo in quanto “mezzo generale [e non unico!] della salvezza” che la Chiesa cattolica ha “tutta la pienezza dei mezzi della salvezza”. 

E secondo me nemmeno l’art. 14 di LG apporta il chiarimento necessario, il raggio di sole che disperde tutte le nubi.  È l’articolo nel quale, rivolgendosi espressamente ai Cattolici, il Concilio afferma che la Chiesa “peregrinante”, fondata da Cristo, è “necessaria alla salvezza”.  Infatti, “Egli stesso, inculcando espressamente la necessità della fede e del battesimo (cfr. Mc 16,16; Gv 3,5), ha nello stesso tempo confermato la necessità della Chiesa [necessitatem Ecclesiae], nella quale gli uomini entrano per il battesimo come per una porta. Perciò non possono salvarsi [salvari non possent] quegli uomini, i quali, pur non ignorando che la Chiesa Cattolica è stata fondata da Dio per mezzo di Gesù Cristo come necessaria [ut necessariam], non vorranno entrare in essa o in essa perseverare”.

Si ricorda qui Mc 16,16, nel quale Nostro Signore afferma categoricamente:  “Chi crederà e si battezzerà, sarà salvo; chi in verità non crederà, sarà condannato”.  E Gv 3,5,  che ribadisce in modo più sfumato il concetto:  “Chi non sarà rinato con l’acqua e lo Spirito Santo non può entrare nel Regno di Dio”.  Tuttavia il testo si limita a dire che la Chiesa Cattolica è “necessaria” alla salvezza; non precisa che solo essa è necessaria ed indispensabile.  È vero che cita due perìcopi che fanno emergere l’esclusività e l’unicità della Chiesa Cattolica per la salvezza.  Ma perché dice poi che quelli che rigettano la Chiesa o i transfughi “non potrebbero salvarsi”?  La traduzione italiana recita “non possono”; quella francese, più correttamente, “ne pourraient pas être sauvés [non potrebbero esser salvati]”, dato che l’originale latino usa l’imperfetto congiuntivo (non possent).  Nostro Signore è stato categorico.  Ha detto “condemnabitur”, traduzione letterale del greco katakrithésetai: “sarà condannato”;  non ha detto:  “sarebbe condannato”. 

Ma, nonostante l’evidente tortuosità della formulazione di UR 3.5 ed i gravi problemi interpretativi che essa fa sorgere, non potremmo considerare ugualmente la “pienezza” ivi proposta come l’equivalente dell’unicità ed esclusività insegnata ad esempio nella Mystici Corporis?  Si potrebbe, a mio modesto avviso,  forzando  il testo, se non fosse per il fatto che “Chiese e comunità” non cattoliche sono senza alcun dubbio incluse, come si è visto, nella Chiesa di Cristo e come tali considerate “strumenti di salvezza”, sia pure afflitti da “carenze”.  Ed una controverità teologica affermata in modo così netto, mi sembra impossibile da aggirare.

Stando così le cose, non mi sembra che l’uso dell’avverbio “solo” apporti la chiarezza necessaria.  Ciò si vede, a mio avviso, anche dall’ultimo passaggio di UR 3.5. Tutti i tesori della Nuova Alleanza (= tutta la pienezza dei mezzi della salvezza) sono stati affidati al solo Collegio apostolico con a capo Pietro (il testo evita però di precisare:  “e quindi alla sola Chiesa Cattolica Apostolica Romana con a capo i successori di Pietro”).  Ma al “Corpo di Cristo sulla terra”, cioè alla Chiesa militante (secondo la definizione tradizionale), come si viene “incorporati”?  Da “ordinati in voto” per opera della Grazia, che ritornano alla vera e unica Chiesa dopo essersi pentiti e aver fatto abiura dei propri errori?  No.  Non si ha alcun ritorno o conversione.  L’eventuale conversione è concepita come una piena incorporazione, che è cosa ben diversa:  il “separato” viene incorporato “pienamente”, dal momento che era già stato incorporato non pienamente con il battesimo (vedi supra, § 2).  In quanto già “incorporati” non pienamente (in “comunione non piena”) “i separati” appartenevano già “in qualche modo” al “popolo di Dio” ossia alla Chiesa di Cristo (nel cap. II della Lumen gentium, la Chiesa visibile è concepita come “popolo di Dio”). 

Come ha sottolineato Mons. Gherardini, il linguaggio di LG e UR, strettamente connessi tra di loro, oltre che  al Decreto Dignitatis humanae sulla libertà religiosa, “è tutto all’insegna del vago:  abbonda l’uso dell’aggettivo “quidam”[un certo, un tale, qualche e simili] che è espressione di radicale insicurezza, e si presume con esso di determinare perfino l’azione dello Spirito Santo o di predisporre un asserto dottrinale (“quaedam in Spirito Sanctu coniunctio [una certa unione nello Spirito Santo]”); “in quadam cum Ecclesia catholica coniunctione [in una certa unione con la Chiesa Cattolica]”; “quaedam immo plurima et eximia elementa extra visibilia Ecclesiae catholicae saepta [”alcuni molteplici e persino ottimi elementi al di fuori del recinto della Chiesa cattolica”]; “ad populum Dei aliquo modo pertinent [appartengono in qualche modo al popolo di Dio]”[17].

 

6.     Quante “Chiese” ci sono, per il Vaticano II ?  

Tutto ciò considerato, possiamo dire che UR 3.5 risolva le ambiguità e le contraddizioni presenti nella definizione (non dogmatica) della Chiesa data dal Vaticano II?  A mio avviso, esso sembra confermare l’interpretazione secondo la quale la “Chiesa di Cristo”, nelle intenzioni del Concilio, include sia la Chiesa cattolica che le “Chiese e comunità” dei “separati”.  La costituzione Lumen gentium  doveva definire la natura della Chiesa, in modo da completare quanto definito come articolo di fede dal Vaticano I sulla figura del Pontefice (dogma dell’infallibilità pontificia quando il Papa dà una definizione solenne in materia di fede e costumi).  Ma essa sembra aver partorito solo un’enorme confusione tra Chiesa di Dio, Chiesa di Cristo, Chiesa cattolica, Comunità e Chiese separate, Popolo di Dio; confusione che coinvolge anche il concetto della salvezza.  Questa è almeno la sensazione di molti credenti, costretti a vedere ora nella Chiesa nient’altro che il terreno  “Popolo di Dio” in “comunione” o “federazione” con tutte le “denominazioni” cristiane (e non), con il Papa come capo carismatico, “uomo di pace”, impegnato in frequenti e mediatici “viaggi di pace”, che garantisce a tutti il Paradiso, perché Dio è Amore e l’Inferno è vuoto.

“L’introduzione del concetto di “piena comunione” è stato decisivo per elevare le confessioni cristiane a una condizione diversa da quella, molto più netta, che la dottrina cattolica aveva sempre riservato a tutto ciò che cattolico non è.  Tanto per intendersi:  non si sarebbe fatto un Concilio come quello di Trento, se non si fosse ritenuta gravemente erronea la posizione di Lutero e del luteranesimo.  Ora, leggendo alcuni dei documenti del Vaticano II, si ricava l’impressione di una nuova ecclesiologia, nella quale si avanza una sorta di “federazione” delle chiese cristiane, all’interno della quale la Chiesa cattolica si riserva una posizione di “pienezza”, ma accanto e insieme al parterre di tutte le altre espressioni della riforma protestante.  A questo scopo è stata coniata l’espressione “Chiesa di Cristo”, la cui ricomposizione logica con la nozione di “Chiesa cattolica” risulta molto complicata.  Si tratta della stessa cosa, o di un’altra?  Quante “Chiese” ci sono, allora?”[18].

In realtà, come si è visto, l’espressione “Chiesa di Cristo” preesisteva, unitamente agli altri termini tradizionali.  Ma è vero che essa sembra qui una novità perché utilizzata in un senso “allargato”, in passato sconosciuto.  E proprio questa sembra esser stata la causa prima della confusione:  l’aver voluto estendere la definizione della “Chiesa di Cristo” sino ad includervi tutti gli acattolici, giocando sull’idea di pienezza e non pienezza, comunione piena e non piena o imperfetta.  Altro motivo di confusione deriva, io credo, dall’aver poi voluto identificare la Chiesa più che con il Corpo Mistico di Cristo con il “popolo di Dio”, come se la parte terrena del Corpo Mistico rappresentata dal popolo dei fedeli potesse diventare il Tutto. A proposito dell’idea della “pienezza” (plenitudo), bisogna ricordare che essa ricorre in S.Paolo, ma di sicuro senza le sfumature indefinibili ed ambigue ad essa attribuite dal Concilio.  Si cita sempre, a questo proposito, Ef 1, 23, uno dei passi fondamentali per il concetto della Chiesa come Corpo Mistico di Cristo, nel quale l’Apostolo ci insegna che Dio “tutto pose sotto i suoi piedi [di Cristo], e Lui costituì capo supremo della Chiesa, che è il corpo di Lui, la pienezza [plenitudo; pléroma, in greco] di Colui che tutto completa in tutti”.  La Chiesa “è piena di Cristo che tutto riempie”.  Come “corpo di Lui” coincide perfettamente con Lui, ne è spiritualmente “la pienezza, dato che i membri sono ciò che completa, il complemento [pléroma, di nuovo] del Capo, come affermava S.Giovanni Crisostomo”[19].  Come inteso da S. Paolo e dai Padri della Chiesa, il concetto della “pienezza” della Chiesa di Cristo in Cristo, in quanto Corpo Mistico di Cristo, non lascia evidentemente spazio alcuno alle unioni o comunioni meno piene o imperfette che dir si voglia con coloro che si trovano fuori della Chiesa. 

Tutto ciò premesso, studiamo adesso in parallelo il primo capitolo dello schema sulla Chiesa ripudiato, Aeternus Unigeniti, e il primo capitolo della LG, che lo ha rielaborato, dedicati entrambi a definire il concetto della Chiesa.  Solo sobbarcandosi a questo lavoro ingrato e faticoso sui testi, credo si possa riuscire a verificare in maniera adeguata l’esistenza  o meno di una continuità nella riforma della dottrina inaugurata dal Vaticano II.

 

III.  BILANCIO DEL RAFFRONTO TRA AeU 1-7 E LG 1-8 

Dalla comparazione dello schema Aeternus Unigeniti 1-7  con la costituzione Lumen Gentium 1-8, cosa concludere?  Abbiamo visto che LG 1-8 rielabora la struttura generale di AeU 1-7, accogliendone delle parti, che ripropongono concezioni tradizionali della Chiesa.  Ma non è certo questo tipo di rielaborazione a costituire i concetti essenziali della dottrina proposta da LG 1-8, che introduce a sua volta elementi nuovi concorrenti tutt+i ad una concezione della Chiesa che sembra alquanto diversa da quella di AeU 1-7:  non più militante ma misterica ossia aperta al soffio di uno Spirito di tipo (cosiddetto) carismatico, che investe anche le “comunità” degli acattolici, in quanto tali.  Possiamo dire, in coscienza, specchiandoci nella nostra fede di Cattolici, della quale Nostro Signore ci chiederà conto, accanto alle nostre opere, non appena moriremo, che la dottrina sulla Chiesa proposta da LG 1-8 si dimostri in perfetta continuità con quella della Chiesa di sempre, proposta da AeU 1-7?  

Guardiamo alle novità esistenti in LG 1-8, poiché sono esse a fare la differenza. 

1. Vengono accuratamente eliminati tutti i riferimenti di AeU al Primato di Pietro.  Non acquista rilievo il ruolo dei “praepositi” da Cristo sub Petro sin dall’inizio della Ecclesia Dei alla predicazione e al governo della Chiesa. Esso viene ricordato solo in LG 8.2 ma nella Chiesa cattolica dimidiata dal subsistit in. Si ha anche un accenno in LG 7.3, ove si dice che tra i doni dello Spirito “eccelle quello degli apostoli, alla cui autorità lo stesso Spirito sottomette anche i carismatici (1 Cr 14)”.  Si tratta di un riconoscimento generico.  Gli apostoli sono comunque presentati qui come collegio, senza un capo, una gerarchia. 

2. Il Corpo Mistico appare incentrato soprattutto su Cristo, che “ha redento l’uomo e l’ha trasformato in una nuova creatura” già prima della Pentecoste, con la sua Morte e Resurrezione, poste sullo stesso piano quanto al loro significato salvifico. 

3. Il rapporto tra Cristo e lo Spirito Santo nel Corpo Mistico non appare ben delineato come in AeU e risulta anche ambiguo.  Non si ripete che i doni dello Spirito Santo avvengono “secondo la misura di Cristo”. Inoltre, si indebolisce il nesso tra lo Spirito Santo e la Verità Rivelata, visto che lo Spirito Santo si limiterebbe ad introdurci a “tutta la verità”:  prospettiva che di fatto si presta a mettere tra parentesi il dogma del compimento della Rivelazione con la morte dell’ultimo Apostolo e ad aprire la strada all’ambiguo concetto di “tradizione vivente” di cui all’art. 8 della costituzione “dogmatica” Dei Verbum.  La forte enfasi posta sull’opera dello Spirito Santo, che viene però tendenzialmente intesa come l’avvento di un “carisma” che riposa su sé stesso, ha dato ad alcuni la sensazione della presenza di un certo “gioachimismo” negli articoli 2-4 della LG, come se in questi ultimi si riflettesse la ben nota, visionaria tripartizione delle epoche del mondo in età del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: quest’ultima, secondo l’abate calabrese, avrebbe inaugurato un’epoca ultima e definitiva di libertà spirituale, nella quale si sarebbe effusa maggiormente la Grazia. In quest’Età dello Spirito avremmo avuto “la perfetta intelligenza” delle cose, la “libertà”, la “contemplazione”, “l’amicizia”, il mondo sarebbe ringiovanito:  in pratica, la realizzazione (sia pure del tutto spirituale) del Regno di Dio in questo mondo.  Quest’impressione, dell’affermazione di una natura “trinitaria” della Chiesa intessuta alle visioni “trinitarie” del tutto personali di Gioacchino da Fiore, deriva anche dalla presentazione ed esaltazione del Vaticano II quale autentica “Nuova Pentecoste”, quasi il Concilio dovesse inaugurare una nuova Età dello Spirito, foriera di trionfi per la Chiesa ed apportatrice di pace al mondo intero.

4.  Nelle “immagini della Chiesa” si accentua il lato “mistico” o “spirituale” (“pneumatico”) a scapito di quello sociale (della Ecclesia societas, gerarchicamente ordinata) e a scapito dell’idea del carattere “militante” della Chiesa visibile, che scompare completamente, con tutte le sue immagini tradizionali della Chiesa e del credente, come se la Chiesa non avesse nel mondo – regno del Principe di questo mondo - un avversario formidabile contro il quale dover lottare, per strappargli le anime. 

5.  Non appare ben delineato il rapporto con il Sovrannaturale e la concezione del Regno di Dio appare ambigua; non è messo in rilievo l’insegnamento tradizionale secondo il quale si entra nel Regno solo dopo esser stati “pesati, contati, divisi” dal Cristo giudice subito dopo la morte e nemmeno che l’alternativa alla conversione a Cristo è solo la dannazione eterna. Quest’ultima verità di fede è ricordata in modo evidente da AeU quando riporta l’affermazione di Nostro Signore: “chi non sarà battezzato non si salverà”. 

6. LG fa intravedere un’immagine di tipo esistenziale della Chiesa, quale potrebbe concepirla la sensibilità decadente del Secolo ateo e miscredente:  la Chiesa come realtà sempre imperfetta, sempre alla ricerca della “pienezza” della verità, “esule” da Dio e che si piange addosso i propri peccati grazie all’arbitraria attribuzione dei peccati e delle imperfezioni dei membri della Chiesa alla Chiesa stessa.  L’immagine esistenziale della Chiesa non è in grado di distinguere tra l’immacolata Sposa di Cristo ed i suoi membri, tra il peccato nella Chiesa ed il peccato della Chiesa, che non può aver luogo.  E non sembra nemmeno in grado di concepire ancora la Chiesa cattolica come unica Arca della Salvezza. 

7.  Si ha una falsa rappresentazione del rapporto tra la Chiesa e l’Ebraismo, dando ad intendere che entrambi sarebbero già stati “riconciliati” dalla Croce di Cristo.  Cade l’immagine della Chiesa come unico “vero Israele dello spirito”, assai nitida in AeU, e viene di fatto oscurata la teologia della sostituzione.

8.  Giustificandosi con una lettura molto dubbia di S. Tommaso, si delinea il tentativo di ancorare i Sacramenti anche alla Resurrezione del Signore, di legittimarli cioè anche come manifestazione del Cristo glorioso, cui si vuole attribuire efficacia sacramentale uguale a quella della Passione, cosa che inclina in senso protestante il significato della S. Messa. 

 

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Nell’ambito di un’impostazione del genere, come stupirsi allora della definizione di Chiesa cattolica che appare nell’articolo 8 della LG, corroborato da UR 3 e UR 15.1?  Il “sussistere” in essa di una Chiesa di Cristo che “sussiste” anche negli “elementi”  rappresentati da “Chiese e comunità” acattoliche, appare il coronamento inevitabile della concezione  “aperta” e “spirituale” della Chiesa, “esistenziale”, incentrata sul Cristo il cui “mistero pasquale” avrebbe già redento gli uomini, che si delinea nei primi sette articoli di questa costituzione conciliare “dogmatica”.  Lo studio fin qui fatto ci permette anche di comprendere meglio, io credo, il significato che si tende a conferire oggi al termine “Chiesa” in ambito cattolico.  Quando si nomina “la Chiesa” i più intendono, in modo più o meno consapevole, la Chiesa di Cristo, nel senso di LG 8.2 e UR 3, della quale la Chiesa Cattolica in senso proprio è solo una parte, come si è visto.  I cattolici più anziani e legati al senso della Tradizione, quando sentono dire o leggono “Chiesa” nei documenti ecclesiastici ufficiali di oggi, credono istintivamente che ci si riferisca sempre alla Chiesa Cattolica Romana, unica vera Chiesa di Cristo.  Ma così non è.  La “Chiesa” dei documenti è in genere la “Chiesa di Cristo” come concepita dal Vaticano II.

E conta poco, a mio avviso, la replica secondo la quale è indubbio che per il Concilio la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa Cattolica onde quest’ultima è la sola Chiesa di Cristo, come si è sempre creduto.  Questa replica si basa più su ciò che si dovrebbe capire dai verbali del Concilio che sull’analisi letterale dei documenti conciliari alla fine approvati (sul punto, vedi infra, cap. X).  Conta poco, poiché l’analisi accurata dei testi fa vedere, come credo risulti dal presente lavoro, che la “sussistenza” della Chiesa di Cristo anche nelle “Chiese e comunità” degli Acattolici in quanto tali, costituisce la premessa “teologica” che la mens progressista del Concilio si è voluta dare al fine di aprire il “dialogo ecumenico” con gli Acattolici stessi.  Sembra essersi di fatto instaurato un regime della doppia verità, della quale nessuno sembra accorgersi, nel senso che vengono ritenuti veri ed applicati nella prassi entrambi questi asserti, tra loro inconciliabili alla luce non solo del Deposito della Fede ma anche della logica più elementare: 1) la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa Cattolica Romana, necessaria alla salvezza, unica Chiesa di Cristo;  2) la Chiesa di Cristo sussiste anche nelle Chiese e Comunità che si trovano al di fuori della Chiesa Cattolica Romana, nonostante le loro “carenze”.  E queste “carenze” (non si può dimenticarlo) sono il risultato di eresie e scismi!   Tutto ciò non è come dire che la Chiesa Cattolica Romana è l’unica Chiesa di Cristo e nello stesso tempo non lo è?

Si può forse negare che ci sia stato un mutamento semantico profondo?  Il lemma “Chiesa”, in bocca a preti e fedeli, non ha più il significato di una volta.  È la Chiesa “aperta” e “in ascolto dello Spirito”, cosiddetta “dell’Amore”, “allargata” a tutti gli Acattolici, “solidale” con tutti ed anzi con tutta l’umanità.  Essa non vuole apparire come qualcosa di separato dal mondo, come “segno di contraddizione”, vuole immergersi nell’umanità del mondo, non per convertirla a Cristo ma per collaborare con essa alla costruzione di un mondo che si vuole “migliore”, sposandone per quanto possibile i “valori”.  Per questo è stata abolita la talare, l’abito delle suore è stato reso simile a quello delle crocerossine, e comunque molti preti e suore hanno abolito  qualsiasi segno esteriore dell’appartenenza alla Chiesa Cattolica Romana, quasi ne provassero vergogna. Per questo si è voluto che i seminaristi non studiassero più in un collegio separato, in un ambiente lontano dalle seduzioni del mondo, favorevole al raccoglimento e alla preghiera, ai difficili studi, allo spirito di disciplina e di corpo, all’esercizio dell’autorità.  E si comprende come una Gerarchia che vede la Chiesa di Cristo anche in tutti gli Acattolici in quanto tali senta la necessità di ancorare i Sacramenti al Cristo glorioso; in particolare l’Eucaristia, perché così piace ai Protestanti ed evita l’’incomodo di innalzare la Santa Croce di fronte alle altre religioni, che tutte la avversano.  O di dichiarare sempre “imperfetta” la sua santità.  Come può, del resto,  essere perfetta se ora “la Chiesa di Cristo” sussiste anche in chi professa il “pecca fortemente ma credi ancor più fortemente”?  Come può essere la stessa Chiesa di AeU e in somma la medesima Chiesa Cattolica Romana di sempre, se ora la sua Gerarchia desiste dal convertire chicchesia, negligendo quindi esplicitamente il comandamento dato da Nostro Signore agli Apostoli e ai loro successori:  “Rendete miei discepoli tutti i popoli”?  E che conto fa essa del grave ammonimento:  “ma colui che mi rinnegherà davanti agli uomini, sarà rinnegato dinanzi agli Angeli di Dio” (Lc 12, 9)?

Come ha egregiamente messo in rilievo Mons. Gherardini, attirandosi le ire dei difensori del presente stato di cose, l’idea di Chiesa proposta dal Vaticano II, assai più che dal Magistero precedente, deriva dal nuovo intreccio costituito da “ecumenismo” e “libertà religiosa”.  Improntando l’idea di Chiesa a questi due “ideali”, entrambi presi a prestito dalla filosofia moderna e dalle utopie di Protestanti e Teosofi, si è giunti addirittura a costruire e a vivere un “esser Chiesa” (come dicono oggi) che esclude in quanto tale la conversione! 

“Dal vincolo che stringe insieme ecumenismo e libertà religiosa […] sarebbe poi scaturita la rinuncia al proselitismo, alla missione evangelicamente attiva, alla conversione.  Teresa di Calcutta poté per questo dichiarare di non aver mai invitato nessuno dei diseredati da lei accuditi a convertirsi; ed un prestigioso cardinale, arcivescovo d’una grande diocesi, raccontò d’aver diassuaso alla conversione l’ebreo che gli aveva confidato questo desiderio.  Ambedue, evidentemente, s’eran collocati sulla lunghezza d’onda del messaggio conciliare che, a base della moralità pubblica e privata oltre che della c.d. nuova evangelizzazione, poneva l’elefantiasi dei diritti della persona umana, non l’indiscutibilità dei diritti di Dio e della sua Parola.  Come se questa Parola non avesse stabilito la dipendenza della libertà dalla verità (Gv 8,32), la coincidenza della fede e della conversione (cf. Mc 1,15), l’obbligo dell’annuncio salvifico a tutte le genti (Mt 28, 18-20).  Un capovolgimento radicale era stato operato…”[20].  Ad opera di quale “Spirito”, dobbiamo chiederci noi semplici credenti, e trarne le dovute conclusioni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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[1] Sull’inizio tumultuoso del Concilio, macchiato da gravi illegalità, il cui scopo era emarginare la componente fedele alla Tradizione, sorretta dalla Curia, e far prevalere nelle Commissioni quella “novatrice”, mi sia permesso rinviare al mio libro:  Paolo Pasqualucci, Il Concilio parallelo. L’inizio anomalo del Vaticano II, Fede & Cultura, Verona, 2014, pp. 123.  Il Concilio “parallelo” era quello che Giovanni XXIII riuscì a far prevalere su quello legittimo, preparato dalla Curia con tutti i crismi in tre anni di duro lavoro, tollerando le iniziative illegali dei Novatori e manovrando egli stesso in appoggio alle medesime.

[2] LG 9.4.  La citazione di S. Cipriano di Cartagine ( AD 258) non deve trarre in inganno l’ignaro lettore.  Nel suo famoso opuscolo De unitate Ecclesiae, il santo martire sosteneva un concetto rigidamente ortodosso di unità della Chiesa, fondata esplicitamente sul primato petrino e sull’accettazione unanime dell’insegnamento di tutti gli Apostoli :  “..et primatus Petro datur ut una Christi ecclesia et cathedra una monstretur.  Et pastores sunt omnes, et grex unus ostenditur, qui ab apostolis omnibus unanimi consensione pascatur, ut ecclesia Christi una monstretur”.  Gli scismatici sono colpevoli, essendosi tolti essi stessi volontariamente dalla Chiesa, la cui unità rimane comunque intonsa:  Non enim nos ab illis, sed illi a nobis recesserunt”. (Testo latino in appendice a:  La celebre contesa fra S. Stefano e S. Cipriano per Vincenzo Tizzani dell’Ordine de’ Canonici R.R. Laterani, arciv. di Nisibi, Roma, 1862, pp.  334-355; p.337, p. 344, p. 339 per la dizione “hoc unitatis sacramentum”, intesa l’unità sempre nel senso qui esposto).   

[3] LG 1.  Per il testo italiano ho tenuto presente:  I Documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II.  Costituzioni-Decreti-Dichiarazioni, tr.it., Edizioni Paoline, Milano, 1980.  Per il testo latino:  Concilii Oecumenici Vaticani II.  Constitutiones – Decreta – Declarationes, cur. Florentio Romita, Desclée ac Socii, Romae, 1967.  Per la traduzione francese:  Concile oecuménique Vatican II. Constitutions – Décrets – Déclarations, Éd. du Centurion, Paris, 1967. Per la traduzione italiana dei Sacri Testi: le edizioni della S. Bibbia curate da Giuseppe Ricciotti (Salani, Firenze, 1954) e dalla Conferenza Episcopale Italiana (Edizioni Paoline, 1963 e 1983).  Per i Sacri Testi in greco e latino:  la Vulgata-Clementina (B.A.C., 1965), il Novum Testamentum Graece et Latine nell’ediz. Nestle-Aland, United Bible Societies, London, 1963-69²²;  The Greek New Testament, a cura di K. Aland, M. Black, C.M. Martini, B.M. Metzger, A. Wikgren, United Bible Societies, 1983³, con il relativo Commentario. Le traduzioni di passi degli schemi preparatori sono mie, così come quelle di S. Tommaso e dei brani in latino nell’art. del cardinale Becker.  Tra i lessici, mi sono affidato a FRANCISCO ZORELL S.I., Lexicon Graecum Novi Testamenti, Lethielleux, Paris, 1904, rist. anast. ed. del 1961³, Biblical Institute Press, Rome, 1978 (= LGNT).  Ho inoltre tenuto presente:  M.J, ROUËT DE JOURNEL S.I. (a cura di), Enchiridion Patristicum, Herder, Barcinonae-Romae, 1981, 25 ediz. (= EP); L’Enchiridion Symbolorum del Denzinger nell’edizione aggiornata dal Schönmetzer (XXXVI) dopo il Vaticano II (= DS); FRANCESCO SPADAFORA (a cura di), Dizionario Biblico, Studium, Roma, 1963³(= DB).  E per i riferimenti filologici i ben noti vocabolari GEORGES-CALONGHI per il latino e GEMOLL per il greco, tr. it. e aggiunte di D. Bassi ed E. Martini.

[4] C, 40. Nell’originale:  “Haec Ecclesia, in hoc mundo ut societas constituta et ordinata, subsistit in Ecclesia catholica, a successore Petri et Episcopis in eius communione gubernata, licet extra eius compaginem elementa plura sanctificationis et veritatis inveniantur, quae ut dona Ecclesiae Christi propria, ad unitatem catholicam impellunt”.  La traduzione italiana sviluppa il concetto, senza alterarlo, mi sembra:  “..che, appartenendo per dono di Dio alla Chiesa di Cristo, spingono etc.”.

[5] “Cattolico, cioè universale, non è ciò che in un dato momento viene “in ogni luogo” da tutti creduto, come può accadere in un Concilio, ma ciò che da sempre e ovunque è creduto da tutti. “Sempre” significa senza interruzioni, senza equivoci, senza contraddizioni.  “Cattolico, ossia universale – spiega Mons. Gherardini – e quindi oggetto d’un consenso sostanzialmente identico in ogni angolo della terra, senza soluzione alcuna di continuità, da parte dei cristiani d’ieri, oggi e domani””(ROBERTO DE MATTEI, Apologia della Tradizione.  Poscritto a Il Concilio Vaticano II.  Una storia mai scritta, Lindau, Torino, 2011, pp. 137-8).

[6] DS 3866-3873.

[7] Ho ripreso qui la critica all’art. 15 di LG sviluppata da Mons. Gherardini in: D, 202-5, nel cap. 8 dell’opera, intitolato:  Ecumenismo o sincretismo?  L’Autore mette in rilievo come manchi una dimostrazione dell’assunto proposto dall’articolo, a cominciare dalla non correttezza della citazione a sostegno, che si è voluta trovare nell’Epistola Apostolica Praeclara gratulationis di Leone XIII, del 20.6.1894.  Di contro agli elementi comuni tra noi e i non cattolici, l’Autore ribadisce le enormi differenze che persistono non solo sul piano teologico ma anche sul piano etico, soprattutto per quanto concerne i Protestanti:  “nessuno dovrebbe dimenticar i limiti entro i quali è ­ridotta la Fede dei Riformati e dei loro epigoni” (op. cit., p. 203). Su questi “limiti”, vedi infra, cap. II, § 1.

[8] D, 203-4.  L’autopistía è la fede prodotta dal soggetto stesso, la fede del tutto individualistica dei Protestanti, quella del “libero esame” individuale delle Scritture.

[9] DS 696/1314.

[10] AAS 35 (1943) 242-3; DS 2290/3821.  La traduzione italiana è quella apparsa su L’Osservatore Romano del 4.7.1943, pubblicata a parte:  PIO XII, Enciclica “Mystici Corporis” sul Corpo Mistico di Cristo, Vita e Pensiero, Milano-Roma, 1959, p. 21, 82.

[11] Ivi, p. 15 tr. it.  Per la coincidenza  perfetta ed assoluta di Chiesa di Cristo e Chiesa cattolica, il testo cita in nota la costituzione dogmatica De fide catholica, cap. I, promulgata dal Vaticano I.  Per la libertà con la quale devono avvenire la conversione e il ritorno:  ivi, pp. 82-3 e DS 2290/3822. Nel DS non sono riuscito a trovare il passo che ho appena citato nel testo (sull’identità perfetta e assoluta di Chiesa di Cristo e Chiesa Cattolica Romana), nella scelta di passi della Mystici Corporis.

[12] Su quest’ultimo punto:  AMERIO, Iota Unum, p. 466 (§ 246); VELATI, Un indirizzo a Roma, cit., p. 107, con le fonti ivi riprodotte in nota.

[13] HUBERT  JEDIN, Breve storia dei Concili.  I venti concili ecumenici nel quadro della storia della Chiesa, tr. it. di Nerina Beduschi, Herder, Roma, 1960, p. 28, 32 (per il riconoscimento del Primato di Pietro). 

[14] L’appiattimento della Chiesa Cattolica sulle altre “Chiese e comunità”, come se la nostra fede non si distinguesse da quella dei cosiddetti “fratelli separati”, è stato colto e criticato da Mons. Gherardini in relazione al Proemio della costituzione Sacrosanctum Concilium  sulla Liturgia e ad UR 1 (Quod et tradidi vobis, cit., pp. 373-5).  Sul punto, il prof. Cantoni accusa Mons. Gherardini di aver troncato le citazioni dai due testi conciliari nel punto più conveniente alle sue tesi (C, 34-6).  Ma il prosieguo dei testi citati non mostra in realtà nulla di diverso, procedendo sempre nella stessa direzione. Non c’è mai l’affermazione della superiorità della nostra religione cattolica (unica rimasta fedele al dogma) né quella della necessità del ritorno dei “separati”, dopo aver abiurato i loro errori.  Non c’è perché “la Chiesa” ivi menzionata è la “Chiesa di Cristo” nel senso del Concilio non la Chiesa Cattolica Romana nel senso tradizionale del termine.  E in questa “Chiesa di Cristo” in tal modo concepita si ha appunto l’appiattimento.

[15] Si controlli lo schema De Ecclesia “scartato” al cap. I, di 7 paragrafi più le note, intitolato:  “De Ecclesia militantis natura”. Sul punto, vedi infra, capp. III e IV.

[16] UR 3.5 : “Per solam enim catholicam Christi Ecclesiam, quae generale auxilium salutis est, omnis salutarium mediorum plenitudo attingi potest.  Uni nempe Collegio apostolico cui Petrus praeest credimus Dominum commisisse omnia bona Foederis Novi, ad constituendum unum  Christi corpus in terris, cui plene incorporentur oportet omnes, qui ad populum Dei iam aliquo modo pertinent”.

[17] D, 205.

[18] ALESSANDRO GNOCCHI – MARIO PALMARO, La Bella Addormentata etc., cit., p. 192.

[19] LGNT, alla voce pléroma.

[20] D, 187.

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