Paolo Pasqualucci :
Riflessioni
sulla Decadenza - I
Continuano ad
ammorbarci con il mito del progresso continuo mentre siamo da tempo immersi, in
Occidente, nella decadenza più profonda.
Queste riflessioni vogliono contribuire alla comprensione delle6 cause
di questo triste e grave fenomeno, per cercare di combatterlo, per quanto
possibile, e, in ogni caso, di come comportarsi nei suoi confronti.
§ 1. Decadenza dei singoli e dei popoli
1. Guardando alla storia,
la decadenza di popoli ed istituzioni sembra inevitabile al pari della
vecchiaia del corpo umano, che si indebolisce nelle malattie, nella sofferenza,
per giungere infine a scomparire nella morte.
La nostra decadenza fisica, in quanto uomini, non è un fatto
accidentale: appartiene alla natura. Tutto ciò che è vivente, in quanto ente
determinato nello spazio e nel tempo, ossia realtà finita, in modo
ordinario si mantiene in un arco che va dall’infanzia alla giovinezza alla
maturità alla vecchiaia all’estinzione completa grazie all’indebolimento
progressivo di tutte le componenti della sua specifica natura.
2. Un processo simile lo
possiamo riscontrare nella vita dei popoli e degli Stati. Come se fossero individui, ben definiti dal
punto di vista sociale e storico, presentano un arco di sviluppo che va appunto
dalla giovinezza alla maturità alla morte.
Il modo di essere di un popolo si presenta connaturato ad una
determinata forma di Stato, che lo caratterizza nella sua individualità
storica. Questa forma non è costante nel
tempo ma tende a mutare nel lungo periodo.
Pensiamo al popolo romano, la cui forma statale è stata inizialmente la
monarchia, soppiantata dalla Repubblica ovvero da una forma oligarchica di
democrazia. La crisi della forma repubblicana
ha portato, dopo guerre civili, alla fondazione dell’impero, inizialmente come
principato: il governo di uno solo, temperato dalla collaborazione (consultiva)
del Senato – successivamente cristallizzatosi nella figura dell’imperatore,
monarca assoluto cui si dovevano onori di tipo divino ancor prma dell’avvento
del Cristianesimo. Uno sviluppo
istituzionale durato quasi mille anni, comprendente fasi di ascesa e decadenza
della vita civile. Non lineare, quindi,
ma ad alti e bassi.
3. La decadenza che ci interessa direttamente non
è quella individuale, intesa cioè quale crisi esistenziale del singolo. È la decadenza dei popoli, degli Stati, delle
istituzioni, dei costumi, della cultura, di un’intera civiltà. È in questa situazione di decadenza che ci
troviamo a vivere, questa è oggi la funesta temperie nella quale dobbiamo
lottare. Ma si può fare un paragone tra la decadenza (psico-fisica) come fatto
naturale cui l’individuo non può sottrarsi e la decadenza dei popoli e degli
Stati? Sono forse questi ultimi da concepirsi
come individui in grande?
In passato ci furono
dispute sulla validità di questo parallelo.
Si negava che lo Stato o lo stesso popolo potessero esser concepiti come
un “uomo in grande” o che il concetto della decadenza intrinseca alla natura
finita dei singoli si potesse applicare alle vicende dei popoli e degli
Stati. Simile prospettiva veniva
liquidata come limitata visione “naturalistica” o “meccanicistica” dei popoli e
degli Stati, non corrispondente al loro autentico essere.
Quali sono allora i
tratti della decadenza dei popoli e degli Stati? Bisognerà cercare di delineare
questi tratti.
4. Una prima domanda è sempre stata la
seguente: la decadenza dei popoli, sino
a che punto dipende dalla decadenza della loro forma di Stato o governo? Questi due aspetti della decadenza si intrecciano
ma non è detto debbano coincidere.
Montesquieu sosteneva che i popoli sono come li fanno le loro leggi o
comunque le loro istituzioni. Il che è
indubbiamente esatto. Ma è anche vero (e
Montesquieu ne era ben conscio) che le leggi e le istituzioni sono fatte dai
popoli e non solo per loro, tant’è vero che istituzioni di un popolo
difficilmente sono imitate con successo presso un altro popolo. Le leggi si
fondano sui costumi, i costumi sulle leggi (vedi il libro XIX de L’Esprit
des Loix).
Concretamente,
l’azione formatrice e pedagogica delle istituzioni è sempre l’azione di una
élite di governo, di una classe dirigente, aristocratica o borghese o popolare
che sia, la quale dirige ed educa il popolo secondo i suoi valori.
Se questi valori
vengono condivisi dal popolo allora prevale l’armonia sociale. Ma il mantenimento dell’ordine dipende sempre
dalla classe dirigente, dalla sua capacità di conservare i propri valori, in
quanto capaci di realizzare il bene comune e non solo di mantenere la classe
dirigente al potere. Onde si può affermare che la decadenza, quando inizia, si
inizia sempre da una crisi di valori che percuote la classe dirigente
cominciando a corromperne gli ideali e i costumi, facendola quindi venir meno
nel suo fondamentale ruolo di esempio di conoscenza e di virtù per il popolo.
5. Il significato del parallelo tra la decadenza
naturale, psico-fisica del soggetto umano individuale e la decadenza del
soggetto collettivo, delle istituzioni da esso create, sino allo Stato, può
essere il seguente: le istituzioni
create dall’uomo, proprio in quanto umane sono fatalmente caduche al
pari degli uomini che le creano.
Trascendono la vita dei singoli, durano per generazioni ma si rivelano anch’esse una realtà finita,
destinata a scomparire nel tempo. Ciò
significa che la decadenza è come tale un fenomeno fisiologico , ad essa
è impossibile sfuggire.
All’ineluttabilità
della decadenza gli uomini hanno invano cercato di porre rimedio col tentare di
escogitare una forma perfetta di Stato ossia di costituzione, tale da
resistere in eterno agli assalti del tempo e alle mutevoli vicende della storia. Ma tale forma non è stato possibile vederla
in azione né elaborarla, come si evince dalla discussione delle varie forme di
costituzione condotta da Aristotele nel II libro della Politica. Dalla sua analisi si deduce che le forme di
costituzione storicamente operanti sono state quasi sempre delle forme miste,
sempre imperfette rispetto all’ideale per quanto efficaci in un’epoca
storica data, anche lunga.
La decadenza appare
simile nei vari popoli e Stati purtuttavia si presenta con caratteristiche
proprie nelle varie forme di Stato.
Sulle diverse forme di decadenza della Res publica si diffonde
notoriamente Platone nel Libro VIII del suo dialogo La Repubblica,
dedicato allo Stato ideale, distinguendole tra di loro. Una cosa essenziale nel ragionamento
platonico è costituita dal nesso tra decadenza di una forma di Stato e la
nascita di una forma nuova, che scaturisce per naturale sviluppo o anche
reazione dalla malattia della precedente. Il concetto fu ripreso da Polibio
nella sua teoria della connessione circolare delle forme classiche di governo,
ognuna delle quali scaturisce dalla decadenza della precedente. Per esempio:
dalla corruzione della democrazia nasce la tirannide, per opporsi alla
quale si afferma una oligarchia, la cui decadenza viene risolta dal passaggio
alla monarchia. La decadenza della
monarchia può far ripartire il ciclo con il riaffermarsi della democrazia.
La polibiana teoria
ciclica delle forme di governo (anakyklosis) fu studiata anche da
Machiavelli, pur nell’ambito di una diversa visione dello Stato e della
politica[1].
§ 2. La decadenza attuale dell’Occidente è
tipica della dissoluzione della democrazia nella licenza e nell’anarchia.
Noi cerchiamo qui di
chiarire concetti che spieghino il principio della decadenza in generale. Tuttavia ci dobbiamo concentrare sul fenomeno
della decadenza come si caratterizza oggi nelle nostre società, tutte democratiche. Si tratta per l’appunto dell’involuzione
radicale della democratica civitas o Respublica euro-americana. La
descrizione che Platone fa della degenerazione della democrazia ateniese del
suo tempo, V secolo a. C., presenta sicuramente aspetti ancor oggi attuali. Questo famoso testo di Platone contiene
alcune tesi inaccettabili, quali ad esempio la comunanza delle donne e
l’allevamento collettivo dei figli, quali modelli di “famiglia” nello Stato
ideale platonico. Ma non dobbiamo
guardare alla parte caduca e persino sconcertante della visione platonica bensì
alla validità di certe sue analisi, capaci di cogliere in profondità gli
aspetti essenziali della realtà e di trarne concetti universali. Ne La Repubblica
si discute anche di altre cose, per esempio del concetto della giustizia,
con pagine belle e profonde, sempre valide.
“SOCRATE. Ora, non nascono in maniera pressappoco
identica la democrazia dall’oligarchia e la tirannide dalla democrazia?
– Come?
-- Quel bene, dissi,
che i cittadini si erano proposti come obiettivo e che comportava
l’instaurazione dell’oligarchia, era la ricchezza eccessiva, non è vero?
– Sì
--A rovinare
l’oligarchia furono dunque l’insaziabilità di ricchezza e la noncuranza del
resto, provocata dall’avarizia.
– È vero, disse.
-- Ora, a distruggere
anche la democrazia non è pure l’insaziabilità di ciò che essa definisce un
bene?
– Secondo te, che cosa
definisce così?
– La libertà,
risposi. In uno Stato democratico
sentirai dire che la libertà è il bene migliore e che soltanto colà dovrebbe
perciò abitare ogni spirito naturalmente libero.
– Sì, ammise, è una
frase molto comune.
– Ebbene, feci, come
or ora stavo per dire, l’insaziabilità di libertà e la noncuranza del resto non
mutano anche questa costituzione e non la preparano a ricorrere fatalmente alla
tirannide?
-- Come? chiese.
– Quando, credo, uno
Stato democratico, assetato di libertà, è alla mercé di cattivi coppieri e
troppo s’inebria di schietta libertà, allora, a meno che i suoi governanti non
siano assai miti e non concedano grande libertà, li pone in stato d’accusa e li
castiga come scellerati e oligarchici.
-- Sì, si comporta così, disse.
-- E coloro,
continuai, che obbediscono ai governanti, li copre d’improperi trattandoli da
gente contenta di essere schiava e buona a nulla, mentre loda e onora
privatamente e pubblicamente i governanti che sono simili ai governati e i
governati che sono simili ai governanti.
Non è inevitabile che in uno Stato siffatto il principio di libertà si
allarghi a tutto?
– Come no?
– E così, mio caro,
dissi, vi nasce l’anarchia e si insinua nelle dimore private e si estende fino
alle bestie.
-- Come possiamo dire
una cosa simile? chiese”[2].
Dunque, in uno Stato
democratico il male nasce quando non si pone un freno alla libertà ed anzi
l’eccesso di libertà domina incontrastato. In effetti, se tutti i cittadini
hanno diritto ad esser liberi come credono, nessuna autorità sarà moralmente
legittimata ad imporre loro il rispetto delle norme, sia delle legge giuridica
che di quella morale. L’autorità
costituita cessa di funzionare, in quanto tale, ossia: viene accettata solo in base alla
convenienza, se si piega ai desideri della massa, composta di individui che si
considerano tutti uguali nella loro pretesa di libertà assoluta. In termini attuali: non più il government come potere
esecutivo ben delineato, i cui decreti possono essere impugnati secondo le
leggi ma vanno obbediti. Al suo posto la
governance, termine intraducibile in italiano, ovvero un governare attraverso
compromessi di ogni ordine e grado, senza mai imporre nulla bensì mediando sempre.
E questa è una
situazione di anarchia, ci spiega Platone.
Può sembrare strano il suo accenno agli animali, coinvolti anche loro
nell’anarchia generale, ossia sempre più liberi, in quanto animali. E tuttavia l’accenno è meno strano di quanto
possa sembrare se solo pensiamo al culto degli animali che la nostra democrazia
decadente ci ha imposto: guai a far del male ad una bestia, si rischiano anni
di galera; sono stati proclamati i “diritti degli animali” (multare in modo
proporzionato chi compie atti di crudeltà sugli animali è giusto, ma non in
base ai loro supposti “diritti”, una vera e propria aberrazione giudica, non
potendo un essere privo di ragione e linguaggio esser titolare di diritti);
libertà di movimento degli animali, anche selvatici e feroci come orsi,
cinghiali, lupi, che si vorrebbe assoluta, anche a danno degli esseri umani, nelle
periferie degli insediamenti a contatto con boschi e foreste abitati da quelle
bestie.
Ma torniamo al testo. Si continua con la dimostrazione dei vari
aspetti dell’anarchia in cui è decaduta la democrazia.
“Per esempio, risposi,
nel senso che il padre si abitua a rendersi simile al figlio e a temere i
figlioli, e il figlio simile al padre e a non sentire né rispetto né timore dei
genitori, per poter esser libero; e che il meteco si parifica al cittadino e il
cittadino al meteco, e così dicasi per lo straniero.
– Sì, avviene così,
rispose.
– A questo si
aggiungono, ripresi, altre bagattelle, come queste: in un simile ambiente il maestro teme e adula
gli scolari, e gli scolari s’infischiano dei maestri e così pure dei
pedagoghi. In generale i giovani si
pongono alla pari degli anziani e li emulano nei discorsi e nelle opere, mentre
i vecchi accondiscendono ai giovani e si fanno giocosi e faceti, imitandoli,
per non passare da spiacevoli e dispotici.
– Senza dubbio,
disse.
– Però, mio caro, feci
io, l’estremo della libertà cui la massa può giungere in un simile stato si ha
quando uomini e donne comperati sono liberi tanto quanto gli acquirenti. E quasi ci siamo scordati di dire quanto
grandi siano la parificazione giuridica e la libertà nei rapporti reciproci tra
uomini e donne.
– Ebbene, fece, con
Eschilo non ‘diremo quel che è venuto alle labbra’?
– Senza dubbio,
risposi, così dico anch’io. Consideriamo
le bestie soggette agli uomini: nessuno potrà persuadersi, senza farne esperienza,
di quanto siano più libere qui che in un altro Stato. Le cagne, per stare al proverbio, sono
esattamente come le loro padrone; e ci sono cavalli e asini che, abituati a
camminare in piena libertà e solennità, cozzano per le strade contro i
passanti, se non si scansano. E dappertutto
c’è questa libertà […]”[3].
Dunque, l’anarchia
prodottasi con l’eccesso di libertà comporta la crisi della famiglia, il cui
aspetto più evidente è costituito dalla mancanza di rispetto dei figli per i
genitori. Su di essa crisi incide anche
la grande libertà che si instaura nei rapporti tra i sessi, posti ora su un
piano di uguaglianza nella libertà.
Implicita qui la condanna della libertà sessuale, in quanto causa di
corruzione dei costumi. A questo
proposito gioverà ricordare che nel suo ultimo ed incompiuto dialogo, Le
Leggi, Platone condanna senza mezzi termini l’omosessualità, sia maschile
che femminile, quale grave disordine contro natura.
“ ATENIESE. Par difficile, ospiti, che tutto ciò che
riguarda le costituzioni, ancora com’è discorso così come sul piano dei fatti,
riesca in qualche modo ad avere una validità indiscussa. C’è il pericolo, come per i corpi, di non
poter prescrivere a uno di questi una pratica senza che questa stessa risulti
da una parte dannosa, dall’altra utile ai nostri corpi. Perché anche questi “ginnasi” e i “pasti in
comune” sono ora di giovamento in moltissimi casi allo stato ma nelle sedizioni
sono una difficoltà, lo mostrano i figli dei Milesi e dei Beoti e dei
Turii. E ancora pare che quest’uso abbia
corrotta una antica legge di natura che dovrebbe sempre governare i piaceri sessuali
non solo degli uomini ma anche delle bestie.
E di questi mali si
potrebbero accusare primi i vostri stati e tutti gli altri poi che fanno uso
larghissimo dei “ginnasi”; e sia che di
questo argomento si pensi per gioco o seriamente, bisogna riconoscere che tale
piacere sembra esser stato attribuito dalla natura al genere femminile e a
quello dei maschi in quanto fra loro si uniscano per la generazione, ma
l’unione dei maschi coi maschi o delle femmine con le femmine è contro natura [parà physin], atto temerario, creato fin da principio da disordinato piacere”[4].
Non sono stati quindi
i Padri della Chiesa, sulla base dei Vangeli e delle Lettere di san Paolo, i
primi a condannare il peccato contro natura proprio perché contro natura, turpe
perversione dei rapporti sessuali naturali tra il maschio e la femmina,
stabiliti dal Creatore, fonte di grave decadenza dei costumi. I “ginnasi” erano soprattutto luoghi per gli
esercizi corporali, addestramento alla lotta, palestre; i “pasti in comune” (sissizie), pasti
pubblici separati per i due sessi, cui essi orano obbligati in Stati come
quello spartiate. Queste attività in
comune, in palestra e nei pasti, dovevano sviluppare un corpo sano, il
cameratismo e lo spirito d’appartenenza alla polis, ma, come faceva notare
l’Ateniese, ad un certo punto favorirono lo sviluppo dell’omosessualità, il che
non era certo nelle intenzioni del legislatore[5]. Si trattava quindi di istituti da prendere
con le molle, dati gli imprevisti effetti negativi.
Ma torniamo ai
caratteri della decadenza della democrazia.
Quando l’anarchia prende il sopravvento in nome della libertà, crolla anche
l’autorità del maestro nei confronti dei suoi scolari. Il rapporto tra giovani e anziani è
rovesciato: essi sono ora su un piano
d’uguaglianza ed anzi gli anziani si danno ad imitare e rincorrere i giovani
nei loro immaturi atteggiamenti. Nello Stato democratico corrotto si tende
persino a far spadroneggiare gli animali, in nome della loro libertà, mentre la
gerarchia sociale viene stravolta dall’uguaglianza di fatto provocata dalla
libertà indiscriminata.
Gli Stati greci, come
in tutto il mondo antico, presentavano divisioni sociali rigide anche se non
insuperabili, almeno in molti di loro.
Accanto ai cittadini, c’erano gli schiavi (“uomini e donne comperati”) e
i meteci. Si trattava di forestieri che
“divenivano ‘coabitanti’, meteci […] mediante un atto di ammissione, al quale
in molti luoghi erano persino obbligati in base alla durata del domicilio,
diversa probabimente secondo i singoli stati. In origine si trattava
esclusivamente di Greci; a partire dal IV secolo ci fu anche una certa
percentuale di non Greci. Venendo
assunti come meteci, i forestieri acquisivano il domicilio, la protezione
legale della loro persona, il diritto di partecipare a culti e feste e la
libertà di esercitare la loro professione; d’altra parte erano obbligati a
versare un modesto testatico e a partecipare agli oneri pubblici, talvolta
anche a prestare servizio militare. Ma
rimanevano non-cittadini, in giudizio erano rappresentati da un cittadino…”[6].
Ora, notava il
protagonista del dialogo platonico, nella decadenza anarchica della democrazia
le differenze tra straniero, meteco, cittadino e persino servo e padrone, erano
di fatto annullate, come se la gerarchia sociale non esistesse più. Ma questo non era ovviamente
ammissibile. Nessuna società può
reggersi senza una struttura sociale gerarchica, mantenuta dal principio
d’autorità, riconosciuto come tale ed effettivamente operante secondo i principi
stabiliti nelle leggi.
Un processo di
dissoluzione sociale e morale del tipo di quello descritto qui da Platone, non
l’abbiamo forse vissuto in tutti questi anni e non lo stiamo ancora
vivendo? Ed anzi, sperimentandolo al
quadrato se non al cubo, anche a causa del progresso materiale che permette
alla malvagità umana di fabbricarsi nuovi ed impensati strumenti per compiere
il male. Ma la natura dell’uomo non sembra esser sempre la stessa? Nel senso che vizi e virtù sono sempre gli
stessi, variando solo la forma della loro attuazione pratica per via del
mutamento delle condizioni materiali di vita nelle varie epoche?
Prima di approfondire
il discorso sulla natura umana che al dunque rimane sempre la stessa, sempre
gravata dalle conseguenze del peccato originale mentre il mondo si dimostra
sempre essere “il Regno del Principe di questo mondo”, completiamo la nostra citazione di Platone.
“SOCRATE. Ecco,
dunque, mio caro, ripresi, qual è a mio parere l’inizio, bello e gagliardo,
donde viene la tirannide.
– Gagliardo, sì,
rispose; ma che cosa viene poi?
– Quell’identico
morbo, dissi, che, sorto nell’oligarchia, l’ha portata a rovina, sorge anche
nella democrazia, nascendo dalla licenza, e, più intenso e forte, la riduce
schiava. In realtà ogni eccesso suole
comportare una grande trasformazione nel senso opposto: così nelle
stagioni come nelle piante e nei corpi e anche, in sommo grado, nelle costituzioni.
– È naturale, disse.
– L’eccessiva libertà,
sembra, non può che trasformarsi in eccessiva schiavitù, per un privato come
per uno Stato.
– È naturale, sì.
-- È naturale quindi,
continuai, che la tirannide non si formi da altra costituzione che la
democrazia; cioè, a mio avviso, dalla somma libertà viene la schiavitù maggiore
e più feroce.
– È logico,
ammise.
-- Però, risposi,
secondo me non domandavi questo. Tu
chiedevi quale sia il morbo che, nascendo identico nella democrazia e
nell’oligarchia, riduce schiava la prima.
– Dici il vero,
ammise.
– Ebbene, ripresi,
parlando di quel morbo intendevo dire la classe degli uomini oziosi e
spendaccioni. Di essi il gruppo più
coraggioso dirige, il più codardo segue;
e sono quelli che paragonavamo a fuchi, gli uni forniti, gli altri
sforniti di pungiglioni.
– E con ragione,
rispose.
– Ora, feci io, questi
due gruppi, quando sorgono, producono turbamenti in qualunque costituzione,
come nel corpo il catarro e la bile…”[7].
Ai tempi di Platone la
decadenza della democrazia dipendeva soprattutto dal pessimo uso della libertà
individuale. Ai nostri, tale decadenza è
peggiore poiché all’ideale della libertà si è affiancato quello dell’uguaglianza,
a partire dalla Rivoluzione Francese.
L’uguaglianza, intesa oggi in modo radicale quale norma di vita di tutti
gli individui liberi che compongono la società, norma che i poteri costituiti
devono rispettare in modo assoluto; tale uguaglianza così male intesa viene a
costituire con l’idea della libertà senza limiti, un cocktail micidiale, cui
nessuna società e Stato sono in grado di resistere.
Dalle osservazioni
sempre attuali di Platone e dall’esperienza storica concreta, possiamo quindi
dedurre che la decadenza di un popolo e di uno Stato, di una società, si inizia
quando il principio ispiratore della costituzione si corrompe. E questa
corruzione si inizia dall’interno.
L’ideale della libertà al pari di quello dell’uguaglianza non sono certo
cattivi in se stessi. Ma, se non vengono
mantenuti entro precisi limiti e disciplinati efficacemente dalle leggi,
entrano in contraddizione con se stessi, provocando effetti pessimi per tutti. La libertà si trasforma allora in licenza, nella
quale prevalgono i più astuti e i più forti, facendo in tal modo sparire anche
l’uguaglianza, trasformata in un grimaldello per imporre privilegi di ogni
tipo, anche sordidi, e distruggere le istituzioni. Le vere vittime di una
situazione del genere sono soprattutto i cittadini più deboli ed indifesi: la vita in generale, anche quella
professionale, diventa una sorta di “guerra per bande”. In una situazione del genere, con l’anarchia
che predomina nella vita pubblica e privata, il collasso finale
dell’ordinamento esistente è solo questione di tempo.
§ 3. Conclusioni provvisorie.
Le prime conclusioni provvisorie
che si possono trarre da queste riflessioni mi sembrano dunque le seguenti:
1. La decadenza
definitiva di una forma di Stato e di un’intera società, con tutti i suoi
valori, è un fenomeno complesso in tutte le sue articolazioni e può prolungarsi
nel tempo: appare tuttavia inevitabile.
Nessuna opera dell’uomo, per quanto geniale e poderosa, è destinata a durare in
eterno.
2. La decadenza si inizia quasi sempre dall’interno
di una società e di uno Stato, in genere dalla classe dirigente. Tale classe comincia ad un certo punto a non
praticare le virtù che l’avevano innalzata, tende all’egoismo e all’edonismo,
si indebolisce moralmente ed intellettualmente, non riesce più a difendere il
popolo dai nemici interni ed esterni, lascia che i costumi generali si
corrompano ed anzi ne dà essa stessa l’esempio, cosa che comporta la crisi
irreversibile della famiglia, la denatalità, l’inizio dell’estinzione fisica
del popolo – il tutto contrabbandato (nel caso della decadenza delle democrazie)
come progresso della libertà nell’uguaglianza, slogan con il quale, ad esempio,
sono stati imposti alle nostre società democratiche i dogmi della subcultura
femminista. Nel processo di decadenza possono
concorrere cause esterne, quali ad esempio le guerre o le crisi economiche, ma
in genere esse sono con-cause: la
pressione negativa dall’esterno trova spazio all’interno proprio quando
all’interno è già cominciata la decadenza della classe dirigente.
3. La decadenza segna spesso il trapasso da una
forma di Stato ad un’altra, l’affermarsi di forze nuove, il che non significa
necessariamente che in questo trapasso il popolo e lo Stato rinascano a nuova
vita: potrebbero anche cadere sotto un dominatore straniero, portatore di una
nuova forma di governo e artefice del mutamento radicale, anche razziale, del
popolo sottomesso. Pensiamo ad esempio
alla rapidissima ed imprevista espansione mussulmana, nel VII secolo della
nostra èra. I due massimi imperi del
tempo in questa parte del mondo, il bizantino e persiano, si erano reciprocamente
esauriti in lunghissime campagne militari, l’un contro l’altro. Gli eserciti arabi ebbero buon gioco a
sconfiggere entrambi in poche, decisive battaglie. L’impero bizantino riuscì a resistere,
nonostante le grandi mutilazioni territoriali (il Nordafrica e il medio
Oriente, tutti cristiani, furono perduti e l’Islam fece tabula rasa), ed anzi
in un secondo tempo riuscì a bloccare l’avanzata mussulmana vero l’Europa
continentale, passando poi al contrattacco in Anatolia. Invece l’impero persiano crollò
completamente, di schianto, dovette subire l’invasione dei beduini del deserto,
diventò mussulmano, cambiando pertanto cultura e modo di vivere: una mutazione rapida e radicale, che
presuppone un processo di decadenza in atto, anche se non immediatamente apparente.
4. La decadenza di una forma di Stato e di vita
che provoca una rivoluzione dalla quale nasce, sempre ad opera del medesimo popolo,
una nuova forma di Stato e di vita, può presentare un problema dal punto di
vista del concetto della decadenza.
Infatti, qui non abbiamo il crollo definitivo di una civiltà ma solo la
scomparsa di un mondo, rappresentato da certe classi, mondo che era evidentemente
in decadenza, altrimenti avrebbe saputo resistere all’assalto delle forze
eversive. In questo caso, se le forze
eversive rappresentano un mondo sociale nuovo che doveva trovare ad un certo
punto spazio, la decadenza sarebbe solo parziale, riguarderebbe cioè
solo il vecchio mondo roso dalle tarme, che doveva esser spazzato via.
Un esempio
storico: la mancanza di senso della
realtà dimostrato dallo zar Nicola II, di fronte alla crisi irreversibile
dell’autocrazia che la sconfitta militare comportava, sempre più devastante nei
suoi effetti. Vale a dire: Nicola II era anche comandante in capo
dell’esercito. La Duma o Consiglio, un
parlamento su base ristretta convocabile ad nutum del sovrano, creato
dopo la rivoluzione del 1905, Nicola II l’aveva sentito poco e di
malavoglia. In essa predominavano i
monarchici e i liberali fedeli alla monarchia. La guerra aveva creato di fatto
una rappresentanza alla borghesia patriottica, creata dallo sviluppo economico
impostato dagli zar dopo il 1905, ostile alla rivoluzione e ancora dotata di
buon nerbo. Bisognava che lo zar si
rassegnasse a governare di fatto da monarca costituzionale, pur mantenendo le
sue prerogative autoritarie (per esempio, il diritto di veto). Doveva pertanto coinvolgere la Duma nella
direzione della guerra ed eventualmente nella discussione sulla sua
prosecuzione, appoggiarsi ad essa, assieme ad essa affrontare anche la grave
crisi economica connessa alla guerra, sulla quale speculavano a man bassa le
sinistre rivoluzionarie. In tal modo lo zar non sarebbe diventato il capro
espiatorio della crisi e la monarchia,
come istituzione, non ne sarebbe stata travolta. Da un anno almeno i capi della borghesia
russa premevano in questo senso sul sovrano. Essi erano ben decisi ad
appoggiare lo zar, che però avrebbe dovuto mutare atteggiamento ed impostazione
politica, conferire ai rappresentanti borghesi una rappresentanza politica
pubblica, un potere effettivo di governo.
Nicola II era
intelligente e capiva perfettamente i problemi.
Purtroppo, era un indeciso. Si lasciava influenzare dalla moglie,
tedesca, ferrea sostenitrice sino all’ultimo della necessità di mantenere
intatta l’autocrazia, senza alcun compromesso.
E così fu. Alla fine Nicola II
ebbe un ripensamento e accennò ad aderire alla proposte dei liberali ma era
troppo tardi: le cose al fronte andavano
sempre peggio mentre già cominciavano gli scioperi e gli ammutinamenti che lo
avrebbero costretto ad abdicare.
Sia lui che il fratello,
il Granduca Nicola, anch’egli poi assassinato dai bolscevichi, i quali, per
volontà di Lenin, sterminarono meticolosamente tutta la famiglia regnante,
compresi i parenti più lontani, davano l’impressione di vivere in un altro
mondo, pur capendo la gravità dei problemi e la necessità di risolverli. Qui appunto si può parlare di una forma di
decadenza che si manifestava soprattutto nella paralisi spirituale e
nell’incapacità a decidere da parte dei membri più rappresentativi della classe
dirigente. L’atmosfera surreale che regnava nelle alte sfere zariste, sin
dall’inizio della Grande Guerra, la rende bene Solgenitzin nel suo famoso primo
romanzo del ciclo storico sulla rivoluzione russa: Agosto 1914.
Tutti questi aspetti
potranno esser (si spera) approfonditi in séguito. Fin d’ora annoto che un posto a parte
meriterà l’analisi della presente decadenza della religione cattolica, della
Chiesa, inusitata per la profondità e l’estensione del tradimento della fede
che essa rivela. Un’analisi a parte,
essendo la Chiesa cattolica un’istituzione di origine divina, il che rende il
discorso sulla sua decadenza assai più complesso.
Paolo Pasqualucci,
17 marzo 2025,
Festa di S.
Patrizio, Patrono dell’Irlanda.
[1]
Vedi: Gennaro Sasso, La teoria
dell’anacyclosis, in: ID., Studi
su Machiavelli, Morano, Napoli, 1967, pp. 161-222.
[2]
Platone, La Repubblica, in ID., Opere,
II vol., Laterza, Bari, 1966, pp.390-391, (VIII 561, 562). Tr. it. di
Franco Sartori.
[3]
Op. cit., pp. 391-392 (VIII, 563, 564).
[4]
Platone, Leggi, in ID., Opere, Laterza, Bari, 1966, vol. II, p.
624 (I, 634), tr. it. di Attilio Zadro.
[5]
Presso gli Spartani, “era permesso amare ragazzi di buon temperamento, ma era
considerato disonorevole avere dei contatti fisici con loro, perché questo
significava amare il corpo e non l’anima.
Chiunque fosse accusato di avere rapporti poco onesti con un ragazzo,
era privato per sempre dei diritti civili” (Plutarco, Le virtù di Sparta,
Introduzione di Dario Del Corno, tr. it. di Dario Del Corno e Giuseppe Zanetto,
Adelphi, Milano, 20052, p. 146.
[6]
Victor Ehrenberg, Lo Stato dei Greci, tr. it. di Ervino Pocar, La Nuova
Italia, 1967, 1980, p. 57. Meteco
era colui che praticava la metoichia, che significava “cambiar casa, oikia”;
il métoikos si trasferiva in terra straniera e vi veniva accolto a certe
condizioni, come co-abitante.
[7]
Platone, La Repubblica, tr. it. cit., p. 392 (VIII, 564). In nota il traduttore cita un antico
proverbio greco: “I fuchi mangiano le
fatiche altrui” (ivi, p. 393; VIII, 565).
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