Paolo
Pasqualucci
La controversa eredità di Benedetto XVI e Giovanni Paolo II
A
– Bicchiere mezzo pieno : Benedetto XVI
ha ridato cittadinanza alla vera Messa cattolica, di rito romano antico, e alla
Liturgia tradizionale; ha criticato ampiamente il “relativismo” del mondo
moderno, con le sue derive nichilistiche; ha difeso, allo stesso modo di
Giovanni Paolo II suo predecessore, il contributo della Chiesa nella creazione
della civiltà europea; come Giovanni Paolo II ha difeso il matrimonio e la famiglia,
l’etica cristiana; ha ribadito l’antropocentrismo cristiano, come inteso da
Giovanni Paolo II, contrapponendolo all’ateismo e al materialismo,
all’utilitarismo edonistico oggi dominanti
nel pensiero secolare; ha cercato di far pulizia nella Chiesa, cacciandone
numerosi preti indegni…
B
– Bicchiere mezzo vuoto : Benedetto XVI ha
ricondotto sistematicamente il cristianesimo all’ebraismo, la cui missione sembra
ritenere ancora valida; con il suo
predecessore ha creato l’ambigua categoria dei valori giudeo-cristiani; non ha visto la piega eterodossa
nell’antropocentrismo cristiano di Papa Wojtyla, del quale ha continuato il
devastante ecumenismo e la “pastorale del migrante”, che giustifica
l’accoglienza indiscriminata degli irrregolari; ha oscurato la verità cattolica
della “predestinazione alla Gloria” (Rm 9) ; ha contribuito attivamente al compromesso
dottrinale con i luterani sulla Giustificazione, fortemente voluto da Giovanni
Paolo II; ha fatto sparire la nozione del Limbo; ha dato un’interpretazione
“angelicata” del Sacrificio della Santa Croce; ha accettato infine
acriticamente il Vaticano II; ha creato un’enorme confusione sul significato
del papato con il suo “papato emerito” puramente spirituale; ha reinterpretato
l’escatologia cristiana alla luce delle visioni strampalate e surreali di
Teilhard de Chardin…
Prima parte
Considerazioni di carattere introduttivo, seguite
dalla critica messa a fuoco dell’insegnamento di Giovanni Paolo II, al quale si
deve l’errore esiziale dello “integra permanet”: proclamando il Vaticano
II a sorpresa unito il Cristo con l’Incarnazione ad ogni uomo (Gaudium et
spes 22.2), l’immagine e la somiglianza nostra inziale con Dio sarebbe
“rimasta integra”, come se il peccato originale non avesse prodotto alcuna
conseguenza – dottrina nuova e funesta, apertamente contraria al dogma sempre
insegnato e definito da ultimo al Concilio di Trento.
* * *
S
o m m a r i o della Prima Parte : 1.
La nuova “cristologia antropocentrica” di GS 22, fondamento dell’errore di
Giovanni Paolo II. 1.1 Henri de Lubac SI, ispiratore di GS 22,
stravolge san Paolo e altera il senso della vocazione crisiana. 2. La deformazione del concetto di
Incarnazione ripropone in veste nuova un antico errore, già confutato dal Damasceno
e dall’Aquinate. 3. La divinizzazione dell’uomo nella Redemptor
hominis, 13 di Giovanni Paolo II. 4. La Redemptor
hominis, documento disastroso per la nostra fede. 4.1 Un
“umanesimo” non cattolico, senza la fede in Cristo.
Nel mese di gennaio 2025, sul blog cattolico di Maria
Guarini, “Chiesa e Postconcilio”, si sono ripetute discussioni polemiche tra
chi considera Benedetto XVI un papa difensore della fede (allo stesso modo di
Giovanni Paolo II) e chi invece ne vede soprattutto le non piccole ambiguità
dottrinali.
I critici vengono accusati di ingratitudine nei
confronti di un Papa che ha avuto il coraggio di “sdoganare” la S. Messa Ordo
Vetus, mettendosi contro la maggior parte dell’episcopato e dei cardinali.
L’accusa è infondata. Nessuno ce l’ha con Benedetto XVI, i cui meriti non si
possono negare, ma il nostro dovere di milites
Christi non è forse quello di difendere in primo luogo il dogma della fede
senza guardare in faccia a nessuno? Nel
cattolicesimo non è mai valso il principio di compensazione, come se un errore
mantenuto potesse esser compensato da una corretta professione di fede (del
pari, una buona azione non compensa né cancella un peccato non confessato).
Nel caso di Ratzinger-Benedetto XVI l’analisi
spassionata dei suoi testi dottrinali mostra la presenza di una teologia
personale influenzata dalla Nouvelle théologie dei Teilhard de Chardin e
dei de Lubac, teologi censurati e costretti al silenzio sotto Pio XII a causa
degli errori che disseminavano; nonché dalla filosofia esistenzialistica e da autori
quali il pensatore “mistico” israelita Martin Buber, l’inventore della “filosofia del dialogo”. L’onestà critica, prima ancora della fede,
impedisce pertanto di accettare l’immagine di Ratzinger quale integro ed
ortodosso Defensor fidei, restauratore della tradizione della
Chiesa. Ha difeso la tradizione della
Chiesa soprattutto in campo liturgico, come sappiamo, ma comunque sempre dalla
prospettiva dello “indietro non si torna”:
la riabilitazione della mai formalmente abrogata Messa di rito romano antico
(il cui canone risale addirittura ai tempi apostolici) doveva servire soprattutto
a rivitalizzare l’esangue Messa Novus Ordo, afflitta da tutti gli abusi liturgici
possibili; presentati ambedue i riti come se fossero le due facce di una stessa
medaglia - cosa che non sono e non
possono essere.
Rispetto ai suoi due predecessori Papa Francesco ha
iniziato una radicale persecuzione dei
chierici rimasti fedeli alla Messa Ordo Vetus e un’estesa restrizione nella
concessione della liturgia tradizionale; una demolizione sistematica della
morale cristiana e della Costituzione della Chiesa (quest’ultimo aspetto
mediante l’ecumenismo e l’accoglienza indiscriminata sempre più spinti e la
trasformazione prima “amazzonica” e poi “sinodale” della Chiesa). L’errore ecumenista questo Papa l’ha
ereditato dai suoi predecessori, non l’idea di una Chiesa “dal volto
amazzonico” o “sinodale”. Quest’ultima
dovrebbe superare anche solo di fatto la sua struttura gerarchica per
scaturire, come indirizzo, dall’ascolto delle esigenze dei fedeli, dal basso, diventando
in tal modo “inclusiva”, perché così richiederebbero i tempi, supposti
democratici ed ugualitari ma in realtà dominati da élites e gruppi di potere
che pretendono di rappresentare la massa silenziosa, anonima. Papa Francesco,
che mantiene intatto il centralismo pontificio, vuole imporre la nozione della
Chiesa tipica della cosiddetta “teologia della liberazione” nella sua variante
“popular”, fatta mettere in circolazione con il Sinodo dedicato alla
trasformazione in senso “amazzonico”, ossia neo-pagano, della Chiesa: la religione rivelata sostituita da una
“religiosità” che scaturirebbe dal popolo, dal basso, tirandosi dietro le credenze
tradizionali, in pratica le superstizioni del paganesimo del passato, particolarmente orrido
in America centrale e Sud America. La
teologia della liberazione, inoltre, azzera quasi completamente l’etica
cristiana, fondata sulla Rivelazione predicata da Cristo Nostro Signore, e si
mostra indifferente ai peccati della carne, anche i più turpi. Essa vuole trasformare i fedeli in una massa
in preda allo spontaneismo, moralmente amorfa, facilmente guidabile dall’élite
di teologi “novatori” ferreamente inquadrati da un Papa novatore e
rivoluzionario.
Giovanni Paolo II e Benedetto XVI non si sono mai spinti
a questi aberranti eccessi. Sia l’uno che l’altro hanno cercato di difendere
ripetutamente il matrimonio e la famiglia, sia pure alla luce della
rivoluzionaria concezione del matrimonio penetrata nel Vaticano II
(costituzione Gaudium et spes, 48), che ha fatto sparire il concetto
della procreazione ed educazione della prole quale scopo primario del
matrimonio, sua ragion d’essere, l’una e l’altra ora semplice “coronamento”(fastigium)
del matrimonio - una fessura dalla quale
è penetrato ad abundantiam il fumo di Satana nei costumi della
cattolicità.
Tuttavia, certi sottili errori teologici, spesso non
facili a cogliersi, sono indubbiamente penetrati nel loro insegnamento. È questo gravissimo aspetto che non può esser
taciuto, anche se la stragrande maggioranza dei fedeli e dei chierici non ne
vuol sentir parlare. Invece è nostro
dovere parlarne, per render Gloria a Dio, per la salvezza della nostra anima e
di quella di tanti fedeli, che non sono in grado (e non per colpa loro) di
penetrare con le loro forze le radici profonde della crisi. È nostro dovere di milites Christi
anche se la nostra voce non può che
essere attualmente vox clamantis in deserto.
1. La nuova cristologia “antropocentrica” di Gaudium
et spes 22, fondamento dell’errore
di Giovanni Paolo II.
Come ha dimostrato nei suoi studi lo scomparso teologo
tedesco Johannes Dörmann (1922-2009), nella sua prima enciclica, la Redemptor
hominis, del 4 marzo 1979, nell’art. 13 Giovanni Paolo II insegna un
concetto dell’uomo redento incompatibile con il dogma cattolico. Si tratta del concetto secondo il quale
Cristo, con l’Incarnazione essendosi in certo modo o addirittura simpliciter
“unito ad ogni uomo”, avrebbe già “redento” l’uomo in quanto tale, cioè prima
ancora della redenzione conseguente all’azione salvifica concreta del Verbo incarnatosi
nell’uomo Gesù di Nazareth. L’idea
singolare di questa impura “unione” del divino con l’umano non redento proviene dalla costituzione conciliare Gaudium
et spes, art. 22, dedicato a “Cristo, l’uomo nuovo”.
L’articolo l’introduce nel seguente modo.
“Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il
mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo a se stesso e
gli manifesta la sua altissima vocazione.
Nessuna meraviglia, quindi, che tutte le verità su esposte in lui
trovino la loro sorgente e tocchino il loro vertice” (GS 22.1)[1].
La dottrina di “Cristo nuovo Adamo” è stata come
sappiamo insegnata per divina ispirazione da san Paolo, Rm 5, 12 ss. Con Adamo è entrato nel mondo il peccato, con
il peccato la morte, che si è estesa a tutti gli uomini poiché “tutti hanno
peccato”. Ma per dono divino, in modo
del tutto gratuito, un sol uomo, Gesù Cristo, con la sua obbedienza alla
volontà divina, renderà giusti i peccatori:
Egli, il Figlio di Dio incarnato, è l’uomo nuovo, senza peccato,
“risuscitato dai morti”, che salverà tutti quelli che crederanno in Lui e gli
obbediranno.
L’impostazione di
GS 22.1 non è compatibile con i Sacri Testi e con l’insegnamento tradizionale
della Chiesa. Infatti, Cristo, Figlio di
Dio, è venuto a salvarci dal peccato e dall’eterna dannazione, l’ha detto lui
stesso più volte, affermando inoltre che chi non avrebbe creduto in Lui, il
giorno del Giudizio sarebbe stato trattato peggio di Sodoma e Gomorra (Mc 2,
17; Lc 5, 32; Mt 11, 21 ss). Pertanto,
se si vuol mantenere un senso ortodosso alla frase conciliare, bisogna dire che
la predicazione di Cristo “svela l’uomo a se stesso” nel senso di fargli
prender piena coscienza di quanto egli sia peccatore e ribelle di fronte a Dio,
meritevole di condanna e persino dell’eterna dannazione. Ne consegue che “l’altissima vocazione”
dell’uomo che apparirebbe quale conseguenza di tale “disvelamento” non potrebbe
esser altro che quella del cristiano: se
la nostra “vocazione” consiste nell’essere accolti nel Regno di Dio alla fine
della nostra vita terrena, essa potrà esser soddisfatta solo diventando
cristiani a tutti gli effetti, cioè perseverando sino alla fine della propria
vita nell’osservanza dell’insegnamento di Cristo. E poiché tale “vocazione” riguarda tutti gli
uomini, la Chiesa ha sempre insegnato che la conversione è possibile a livello
individuale anche per l’uomo giusto che si trovi senza sua colpa fuori della Chiesa
e ignori il vero cattolicesimo, creda in Dio e non sia in peccato mortale ma
goda per opera segreta dello Spirito Santo del desiderio del battesimo,
esplicito o addirittura implicito (DS 3866-3873, Decreto del Sant’Uffizio
contro il rigorismo, 8 agosto 1949).
I Padri non hanno sempre contrapposto la dignità del
cristiano a quella del semplice uomo, ribadendo che essa dignità si perde con
il peccare, allo stesso modo di quella dell’uomo? Sin dai tempi dei Romani alla dignitas,
che attiene non all’essenza dell’uomo ma al suo comportamento, si è
contrapposta la indignitas. La
dignità, sin dai tempi di Cicerone, è stata intesa come una qualità che si
attribuisce al soggetto che si comporti in modo da meritare un certo tipo di
lode, quella per l’appunto che definisce un suo atto o il suo stesso modo di
vivere meritevole di stima perché dignitoso. Ma tale qualità si perde, nel comune
giudizio, quando il soggetto si comporta male, in modo per l’appunto indegno.
La dignità, quando c’è, risulta pertanto
da un giudizio di merito dell’opinione altrui sul nostro modo di vivere: esso appare dignitoso in quanto
rispetti ed attui certi valori, dal pudore alle buone maniere al decoro al
rispetto per gli altri alle virtù civili, in definitiva all’onestà come
norma complessiva di vita.
Questa nozione tradizionale della dignità risulta
anche dal famoso elogio di Papa san Leone Magno alla dignità del cristiano,
riportato anche dall’attuale Catechismo della Chiesa Cattolica, nel par.
1691. “Riconosci, o cristiano, la tua
dignità – disse quel grande Pontefice – e, reso consorte della natura divina,
non voler tornare all’antica bassezza con una vita indegna. Ricorda a quale Capo appartieni e di quale
Corpo sei membro. Ripensa che, liberato
dal potere delle tenebre, sei stato trasferito nella luce e nel Regno di Dio”[2].
Si vede chiaramente che qui il Papa contrappone la
vita degna alla vita indegna. La vita
veramente “degna” è quella del cristiano (si intende, che lo sia nei fatti non
a parole); quella “indegna”, è la vita “tornata all’antica bassezza” cioè alla
condizione di peccato dalla quale ci ha salvato la conversione a Cristo; in
sostanza, alla religiosità peccaminosa del paganesimo popolare, intriso di
superstizioni, magia e ampiamente lassista sul piano morale[3].
Invece GS 22.1 enuncia “una altissima vocazione”
dell’uomo che giustificherebbe le “verità sull’uomo” esposte nei paragrafi
precedenti del capitolo cui appartiene GS 22. Questo riferimento e il prosieguo
dell’articolo mostrano senza ombra di dubbio che qui il testo conciliare vuol
dare un fondamento in Cristo alla semplice dignità dell’uomo, l’uomo in quanto
tale, prescindendo completamente dalla sua conversione alla vera fede:
la dignità dell’uomo sarebbe una sua caratteristica ontologica, cioè
appartenente al suo essere stesso, indipendentemente dalla sua volontà e quindi
inerente alla natura in sè di ogni uomo in quanto uomo, derivante dal fatto che
con l’Incarnazione il Cristo si sarebbe in certo modo “unito ad ogni
uomo”. Essendo allora di origine divina,
la dignità di ogni essere umano dovrebbe considerarsi “sublime”. E l’essere umano stesso non si trova ad esser
divinizzato se la natura divina viene ad unirsi a lui in conseguenza
dell’Incarnazione?
Questa visione non è conforme alla dottrina tradizionale
della Chiesa. Essa ricalca le
esternazioni di Henri de Lubac, teologo gesuita giustamente censurato e
silenziato sotto Pio XII per le sue tesi ereticali ed invece incredibilmente
ammesso, unitamente a tutto il resto dell’équipe di teologi in odor di eresia,
al Concilio come perito da Giovanni XXIII; fatto infine cardinale poco prima di
morire proprio da Giovanni Paolo II.
Infatti, come si arriva ad esaltare in questo modo la
“dignità dell’uomo”, in sostanza divinizzandola? Per capirlo, dopo aver sinteticamente accennato
al percorso in base al quale il discorso del Concilio sfocia alla fine in
questa esaltazione, dobbiamo soffermarci un momento sulla peculiare esegesi di
de Lubac.
Vediamo dunque il contesto nel quale si situa il
contestato art. 22 di Gaudium et spes.
Si trova nel cap. I della costituzione, dedicato alla “Dignità della
persona umana” (artt. 12-22). Nel
capitolo si enunciano diverse “verità” sull’uomo. La prima risulta dal fatto che l’uomo, in
quanto “creato ad immagine di Dio”, possiede la sua “dignità e vocazione” (GS
12). Egli è anche succube del male, del
peccato, dal quale “il Signore stesso è venuto a liberarlo, rinnovandolo
nell’intimo e scacciando fuori ‘il principe di questo mondo’[Gv 12, 31], che lo
teneva schiavo del peccato” (GS 13). Del
peccato, però, il testo si limita a dare questa definizione: “il peccato è, del resto, una diminuzione per
l’uomo stesso, in quanto gli impedisce di conseguire la propria pienezza” (GS
13). Non la propria salvezza, la
propria pienezza!! Solo questo sa
dire il Concilio del peccato? Nozione
riduttiva, come ognun può vedere, che occulta il significato profondo del
peccato, l’esser esso violazione dell’Ordine morale stabilito da Dio, grave offesa
a Dio, necessitante pentimento radicale, confessione e mutamento di vita per
salvare il colpevole dall’eterna dannazione.
Comunque sia, la dignità dell’uomo (continua il testo
conciliare) risulta dalla “dignità della sua intelligenza e saggezza”, che lo
conducono “a cercare e ad amare il vero” (GS 15); dalla dignità della propria
“coscienza morale” (GS 16) e dalla
“grandezza della sua libertà”(GS 17). Questa
vera e propria apoteosi della “dignità” e della “grandezza” dell’uomo, alquanto
insolita per la pastorale cattolica, l’art. 21.1 la vuole innestare sulla
dottrina paolina di Cristo quale “nuovo Adamo”.
Si tratta, per l’appunto, della falsa esegesi di un de Lubac, per il
quale il nuovo Adamo “svelerebbe l’uomo a se stesso”, non ovviamente come peccatore
destinato alla riprovazione eterna se non si redime in Cristo ma, all’opposto,
come portatore di una dignità che ne manifesterebbe “l’altissima vocazione”. Una visione radicalmente ottimistica
dell’uomo, dal taglio neo-illuministico, e quindi astratta ed inverosimile, che
di fatto cancella la nozione stessa del peccato originale, con le sue
molteplici conseguenze negative per le facoltà dell’essere umano; visione che
fa mutare di significato all’insegnamento della Chiesa, sostituendo la dignità
supposta sublime dell’uomo alla sua salvezza, quale valore fondamentale che la
Chiesa vuole ora tutelare.
Passiamo dunque al testo di de Lubac.
1.1 De Lubac, ispiratore di GS 22, stravolge san Paolo e altera il senso della
vocazione cristiana.
Questo famoso teologo gesuita ha deformato la testimonianza
di san Paolo sulla sua conversione in seguito all’improvvisa apparizione a lui
di Gesù sulla via di Damasco, narrata in Gal 1, 15-17. Concentrandosi sulla
frase paolina “Colui che mi aveva messo da parte sin dal seno di mia madre e mi
chiamò con la sua grazia, credette di rivelare in me il suo Figlio affinché lo
annunziassi alle Genti [“..et vocavit per gratiam suam, ut revelaret Filium
suum in me, ut evangelizarem in Gentiles”], de Lubac sosteneva che in
questo “rivelare in me” si affermava la presa di coscienza della dignità
sublime dell’uomo.
Scrisse, infatti :
“[…] rivelando il Padre ed essendo rivelato da Lui,
Cristo finisce per rivelare l’uomo a se stesso.
Prendendo possesso dell’uomo, afferrandolo e penentrando fino al fondo
del suo essere, forza anche lui a scendere dentro di sè per scoprirvi regioni
fino ad allora insospettate. Per mezzo
di Cristo la persona è adulta, l’Uomo emerge definitivamente dall’Universo,
prende piena coscienza di sè. D’ora
innanzi, anche prima del grido trionfale:
“agnosce, o christiane, dignitatem tuam”, sarà possibile celebrare la
dignità dell’uomo: “dignitatem
conditionis humanae”. Il precetto del
saggio: “conosci te stesso”, riveste un
nuovo significato”[4].
Dall’interpretazione di de Lubac sembra che il fine
della “chiamata” divina sia stato quello di far prendere a san Paolo coscienza
del proprio io, della sua natura profonda.
In conseguenza di questa presa di coscienza, l’Apostolo avrebbe scoperto
la vocazione a predicare ai Gentili. In
tal modo, la predicazione ai gentili dipenderebbe da una decisione autonoma di
san Paolo, conseguente alla scoperta di sè provocata in lui dalla “chiamata”
divina. Il ruolo fondamentale verrebbe
ad assumerlo non Dio che chiama, ma san Paolo che risponde. Ma le parole stesse
di san Paolo dimostrano l’erroneità dell’interpretazione di de Lubac.
Ciò che l’Apostolo delle Genti ci narra è molto
semplice nella sua linearità. Dio ha
voluto che il Figlio gli si rivelasse sulla via di Damasco, affinché (ut,
in greco hina) egli lo predicasse alle Genti. La posizione della congiunzione finale
“affinché” nel periodo dimostra che la predicazione di san Paolo era
nell’intenzione di Dio che si rivelava a lui nel Figlio; e non, invece,
nell’intenzione di san Paolo, nella sua coscienza di sè. L’affinché indica l’intenzione di Dio, non quella di san
Paolo. L’azione di san Paolo – quello
che lui ha fatto dopo la “chiamata” – viene dopo e non è ovviamentte
retta (nella frase) da alcun affinché:
egli se ne andò subito ”in Arabia”
e dopo un certo tempo ritornò a Damasco, per adempiere al comando divino.
Il cardinale Siri criticò le esternazioni di de Lubac,
il quale considerava “banale” l’interpretazione tradizionale della conversione
di san Paolo. Il cardinale colse subito il punto essenziale :
“Il Padre de Lubac dice che il Cristo, rivelato dal
Padre e rivelato da Lui, finisce di rivelare l’uomo a se stesso. Quale può essere il significato di questa
affermazione? O Cristo è unicamente
uomo, o l’uomo è divino. Tali conclusioni
possono essere espresse non così nettamente, tuttavia determinano sempre questa
nozione del soprannaturale in quanto implicato nella natura umana in sè. E quindi, senza volerlo coscientemente, si
apre il cammino dell’antropocentrismo fondamentale”[5].
L’antropocentrismo “fondamentale” è quello che
concepisce il soprannaturale “in quanto implicato nella natura umana”. Un concetto del genere sembra trovarsi, con
sufficiente chiarezza, nella parte finale dell’opera L’Action, di
Blondel, filosofo cattolico francese in odor di eresia, uno dei maestri di de
Lubac :
“il est
impossible que l’ordre surnaturel soit sans l’ordre naturel auquel il
est nécessaire, et impossible qu’il ne soit pas, puisque l’ordre naturel tout entier
le garantit en l’exigeant”[6].
In effetti, de Lubac, influenzato dal pensiero di
Blondel, nel 1946, nel suo famoso libro sul sovrannaturale, messo all’indice,
aveva sostenuto che:
“l’ordine sovrannaturale è necessariamente implicato
in quello naturale. Come conseguenza di
questo concetto, veniva fatalmente che il dono dell’ordine soprannaturale non
è gratuito perché è debito della
natura. Allora, esclusa la gratuità
dell’ordine soprannaturale, la natura per lo stesso fatto che esiste si
identifica al soprannaturale”[7].
Osservo:
sostenere che il sovrannaturale “è implicato” nella natura umana in
quanto tale, significa annullare l’effettiva differenza tra il sovrannaturale e
la natura, facendo cadere la distinzione tra Dio e il mondo, tra la creatura e
il Creatore, e la conseguente gratuità della Creazione da parte di Dio che non
era obbligato a creare né il mondo né l’uomo.
Di fatto, de Lubac proponeva una concezione di tipo panteistico, del
resto sviluppata in termini ancor più radicali a partire dagli anni venti del
Secolo scorso dal confratello gesuita, il paleontologo Teilhard de Chardin,
anch’egli giustamente costretto al silenzio e impedito dall’insegnare[8].
Ma torniamo al concetto della “dignità dell’uomo”. L’esegesi lubacchiana di Gal 1, 15-16 non è
sostenibile. L’oggetto della Rivelazione
sulla via di Damasco è il Figlio di Dio a Saul il fariseo (la natura
divina di Gesù, che deve esser predicata alla Genti) e non, all’opposto, Saul
a se stesso. Saulo resta puramente
passivo , in tanto frangente, stravolto
e abbacinato per di più, salvo aderire subito dopo con tutto il suo libero
arbitrio alla chiamata divina. Nella
testimonianza diretta dell’Apostolo non c’è nessuna sublime e nascosta dignità
umana che venga alla luce per effetto della Rivelazione sulla via di Damasco.
Per quanto riguarda l’uomo, vale a dire la personalità
di Saulo, c’è solo la riaffermazione della sua pronta obbedienza alla chiamata
divina, avvenuta in modo così straordinario, drammaticamente
sovrannaturale. E quindi, secondo
l’interpretazione tradizionale: non solo
rivelazione sovrannaturale a me (esteriore), ma anche in me
(interiore) come continuità di visione
ed ispirazione da parte di Cristo.
A me,
specifica san Paolo, indegno persecutore, peggiore “dell’aborto”, che tutto ho
lasciato di colpo cioè “senza neppure consultare la carne e il sangue” (Gal 1,
16), per seguire la chiamata di Cristo, da quel momento in me, padrone
della mia anima e del mio intelletto. La
rivelazione di Cristo “in me” fa di colpo apparire la nullità e la miseria di
tutto ciò che è umano, consegnato “alla carne e al sangue”, succube del peccato: “quod Christus venit in hunc mundum peccatores
salvos facere, quorum primus ego eorum” (1 Tm 1, 15). La rivelazione salvifica di Cristo “in me”,
mi rivela a me stesso come il peccatore che io sono, anzi “primo fra i
peccatori”.
Altro che disvelamento della dignità dell’uomo!! La
rivelazione salvifica di Cristo mostra la bontà di Dio che viene a guarire la
nostra miseria morale, la nostra indegnità di esseri umani sempre
succubi del peccato.
Nella prima Epistola a Timoteo, vescovo da lui stesso
consacrato, san Paolo ritorna sul significato della sua conversione (1 Tm,
12-16). Si tratta di un ragionamento del
tutto trascurato da de Lubac et pour cause, possiamo dire.
Dopo aver ricordato che la Legge (giudaica) “è buona
purché se ne faccia un uso legittimo” e che essa punisce tutti i tipi di
peccato, egli introduce il discorso sulla sua conversione.
“Ringrazio colui che mi ha fortificato, cioè Cristo
Gesù, nostro
Signore, per avermi stimato degno di fiducia, chiamando a suo servizio me, che
prima ero un bestemmiatore, un persecutore, un violento. Ma ottenni misericordia perché agivo per
ignoranza, non avendo ancora la fede: la
grazia del Signore ha sovrabbondato in me, con la fede e la carità che è in
Cristo Gesù”. Un violento persecutore della vera Fede e persino un bestemmiatore
della stessa, si definiva san Paolo. Ma era spinto da zelo eccessivo per la
religione ufficiale non da malanimo e forse per questo egli “ottenne
misericordia” presso il Signore:
l’ottenne non per meriti ma per Grazia. Come aveva spiegato nel cap. 9
della Lettera ai Romani, la sua scelta da parte del Signore “sin dal seno di
sua madre” era del tutto unilaterale, e prescindeva da ogni suo possibile
merito. L’agire per ignoranza non può
infatti considerarsi un merito agli occhi di Dio, caso mai solo un’attenuante,
non tale comunque da esimerci dal castigo; dal nostro limitato punto di vista
umano possiamo attribuire alla nostra ignoranza in buona fede unicamente la
capacità di muovere Dio a pietà, non certo di
farci scegliere da Dio per la sua Gloria, scelta che è frutto di una
predestinazione, come illustrato in dettaglio, sempre in Rm 9. Giusto pertanto sottolineare a noi fedeli che
la Grazia aveva “sovrabbondato in me, con la fede e la carità che è in Cristo
Gesù”. Sovrabbondato, perché mi
aveva premiato ben oltre i miei possibili meriti, ammesso che ce ne fossero.
Ma quale “fede” e quale
“carità” nel Cristo? La fede professata
dal Signore, nella quale si manifestava la sua carità : ovvero l’intenzione sua
dichiarata, frutto di una carità sovrannaturale, di salvare tutti i peccatori
purché rispondenti al richiamo della sua Grazia, purché insomma desiderosi di
andar incontro a Lui, di seguire i suoi insegnamenti. Ed infatti, continua la prima Lettera a
Timoteo:
“È verità sicura e degna
di essere accettata da tutti senza riserva, che Cristo Gesù è venuto in questo
mondo a salvare i peccatori, del quale il primo sono io. Anzi è
appunto per questo che ho ottenuto misericordia, affinché Cristo Gesù in me,
per primo, avesse a mostrare la sua paziente bontà, sicché servissi d’esempio a
tutti coloro che crederanno in Lui per ottenere la vita eterna” (1 Tm, 16).
Lui, il zelantissimo fariseo, è stato “salvato”
dall’intervento assolutamente unilaterale di Cristo, causato dalla divina
Misericordia, che vuole salvare gli uomini peccatori: lui, “primo tra i peccatori” in quanto
persecutore accanito e acerrimo nemico dei cristiani. La sua conversione (l’aver ottenuto “misericodia”),
spiegava a Timoteo, ha un significato pedagogico, quello di mostrare la
“paziente bontà” di Dio, che sopporta l’iniquo e può indurlo alla conversione,
in modo da costituirlo come “esempio” per tutti coloro che “crederanno in
Cristo per ottenere la vita eterna”.
Siamo lontanissimi dall’esegesi di de Lubac, la cui
arbitrarietà dovrebbe essere evidente a chiunque. L’orizzonte spirituale illustrato
dall’Apostolo delle Genti, del quale lui stesso si considerava il primo
beneficiario, era quello della
conversione dal peccato, della salvezza, della vita eterna garantita da Gesù
Cristo solamente a chi vive da suo fedele discepolo: era il dramma dell’uomo che si trovava di
colpo di fronte all’abisso della propria miseria ed indegnità morale grazie all’intervento
sovrannaturale del Cristo, che gli svelava la sua bassezza e nello stesso tempo
gli mostrava l’unica via per sanarla.
Come ha fatto
de Lubac ad alterare in tal modo la testimonianza paolina, capovolgendola
addirittura, inventandosi una “altissima missione” conforme alla dignità
dell’uomo, che sarebbe stata svelata dall’Apparizione sulla via di
Damasco? Gli antichi dicevano a chi
voleva capire il senso delle azioni umane:
Rèspice finem, guarda al fine.
E qual era il fine di de Lubac?
Con ogni evidenza quello di fondare l’unità del genere umano irredento
come idea-guida della Chiesa, muovendo dalla sua interpretazione eterodossa del
messaggio paolino. Continuava egli
infatti:
“Nella chiamata all’apostolato dei Gentili, come nel
rimprovero che gli aveva fatto sentire Cristo, prendendo su di è le sofferenze
dei suoi, era implicito qualche cosa per mezzo della quale l’uomo terminava
di scoprire le sue dimensioni: per
mezzo della rivelazione cristiana, non solamente s’è approfondito lo sguardo
che l’uomo porta su di sè, ma s’è allargato quello che dirige intorno a
sè. D’ora innanzi l’unità umana è
concepita. L’immagine di Dio, l’Immagine
del Verbo, che il Verbo incarnato restaura, e a cui rende il suo splendore, è
me stesso, ed è l’altro – ed è ogni altro.
È questo punto di me stesso che coincide con ogni altro, è il segno
della nostra comune origine ed è la chiamata al nostro destino comune. È la
nostra unità stessa in Dio”[9].
Difficile negare, a mio avviso, che qui de Lubac cercava
di dimostrare esser stata la predicazione di san Paolo ai Gentili una
realizzazione della “unità umana” già presente nell’immagine del Cristo poiché
il Cristo avrebbe restaurato l’uomo in
generale, in quanto tale: per l’appunto “me stesso e l’altro, ogni altro”
ovvero tutti gli uomini. In tal modo si
sarebbe realizzata addirittura “la nostra unità stessa in Dio” ma senza bisogno
di pentimento e conversione a Cristo, dei quali de Lubac non parla
affatto. E se ne capisce il motivo: la conversione dividerebbe il genere umano in
credenti in Cristo e non credenti, in Eletti e Reprobi, in coloro che invocano
la Grazia e in coloro che la rifiutano – rendendo vana l’idea stessa di unità di tutti gli
uomini in Dio tramite Cristo, un Cristo per l’appunto “cosmico”, quello del
“pancristismo” di Blondel e delle allucinazioni
panteistiche di Teilhard de Chardin.
Possiamo dire che già qui compaia l’errore professato
dal Concilio ovvero l’idea assurda che con l’Incarnazione Cristo si è “unito ad
ogni uomo”, in quanto uomo. Compare in
una forma meno diretta ma non meno sostanziale. La cosa fu notata dal P. Dörmann, il quale scrisse: “Anche per de Lubac il Cristo si è unito
nell’Incarnazione a tutta l’umanità, in modo che tutti gli uomini sono
organicamente legati al Cristo; a
formare, con la Chiesa, un’unità organica.
Per de Lubac i cristiani non sono che le “membri formali” del corpo di
Cristo. Essi hanno il dovere missionario
di rendere accessibile ai non-cristiani la singolarità, a loro sconosciuta, del
cristianesimo”[10]. Dovere, che è cosa ben diversa dalla conversione:
si tratta solo di illustrare una presa
di coscienza, di far loro prender coscienza della loro preesistente unità con
il Cristo preesistente.
Dörmann
trovava perfettamente centrata la critica del cardinale Siri a de Lubac, sopra
ricordata. Non solo, affermò che non ci
si sbagliava a supporre che la formulazione della nozione di rivelazione
proposta da GS 22.2 “risalga, in ultima analisi, a Henri de Lubac”[11]. In effetti, la frase sopra citata di GS 22.1,
quella che introduce la tesi eterodossa fondamentale, è un calco di quella di
de Lubac su san Paolo:
GS 22.1 : “ il
Cristo, rivelando il Padre ed essendo rivelato da Lui, finisce per rivelare
l’uomo a se stesso” –
Cattolicismo : “Rivelando il Padre ed essendo rivelato da
Lui, Cristo finisce per rivelare l’uomo a se stesso”[12].
2. La “cristologia” ereticale di Gaudium et
spes 22.2 - Essa ripropone un antico
errore, già confutato dal Damasceno e dall’Aquinate.
Tutto ciò premesso, torniamo al testo conciliare, che
così continua:
“Egli [il Cristo] è “l’immagine dell’invisibile Iddio”
(Col 1, 15), è l’uomo perfetto che ha restituito ai figli di Adamo la
somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del
peccato. Poiché in lui la natura umana è
stata assunta, senza per questo venire annientata, per ciò stesso essa è stata
anche in noi innalzata a una dignità sublime.
Con l’incarnazione infatti Egli stesso, il Figlio di Dio, si è unito in
certo modo ad ogni uomo […eo ipso etiam in nobis ad sublimem dignitatem
evecta est. Ipse enim, Filius
Dei, incarnatione sua cum omni homine quodamodo Se univit]. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza
d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria vergine, egli si è fatto
veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato”[13].
In questo passo novità sconvolgenti si incrociano con
attribuzioni dogmatiche tradizionali, i cui riferimenti ai Concili del passato
vengono dati in nota. Ma ciò che conta è
costituito dalle novità, che non vengono compensate né tantomeno cancellate
dalle proposizioni dogmaticamente corrette.
La prima novità è costituita dalla fuorviante
rappresentazione delle conseguenze del peccato originale. Come notò nel silenzio generale della Chiesa
“conciliare” il già citato prof. Dörmann,
teologo e accademico (è bene ricordarlo) inserito nell’istituzione
ecclesiastica, del tutto indipendente dalla Fsspx, non è affatto vero che a causa di questo
peccato la nostra “somiglianza con Dio” sia stata resa semplicemente “deforme”,
continuando pertanto a sussistere sia pure in forma imperfetta, deficitaria. La nostra somiglianza, attestata dalla
Genesi, è invece andata p e r d u t a . Si tratta di un dogma della fede, stabilito
dal Concilio di Calcedonia (AD 451) e ribadito dal Tridentino, il quale insegna
che in conseguenza della Caduta Adamo ed Eva hanno perso irrimediabilmente i
doni sovrannaturali ricevuti da Dio all’atto della loro creazione, quando li
creò a sua “immagine e somiglianza” (Gen 1, 26). Ma “il primo uomo Adamo, avendo trasgredito
nel paradiso il comando di Dio, ha perso subito la santità e la giustizia nelle
quali era stato creato [statim sanctitatem et iustitiam, in quo constitutum
fuerat, amisisse], ed è incorso per questo peccato di prevaricazione
nell’ira e nell’indignazione di Dio, e, quindi, nella morte, che Dio gli aveva
minacciato, e, con la morte, nella schiavitù di colui che, in seguito, ebbe il
potere della morte e cioè il demonio [Eb 2, 14]; e Adamo, per quel peccato di
prevaricazione fu peggiorato nell’anima e nel corpo”[14].
Ora, in questo testo del dogmatico Concilio di Trento
(1545-47/1551-52/1562-63), da dove risulta che la somiglianza originaria con
Dio sia andata perduta e non sia stata semplicemente deformata? Dalla perdita immediata della “santità
e della giustizia” risultanti dalla grazia santificante che era stata infusa ad
Adamo ed Eva con la creazione, grazia che venne tolta loro per punizione. In aggiunta, dalla perdita dei “doni preternaturali”
costituenti nel loro insieme il “dono dell’integrità”, perdita che ha
sottomesso l’uomo alla concupiscenza, alla sofferenza, alla morte.[15]
La
“somiglianza” con Dio risultava proprio dai doni sovrannaturali. Nello stesso tempo, Adamo ed Eva sono rimasti
“vulnerati” nelle loro caratteristiche umane, trovandosi “peggiorati nell’anima
e nel corpo”. Il libero arbitrio, come chiarisce
il Tridentino, non fu “estinto” ma rimase “attenuato ed indebolito”(sess. VI,
c. I; DS 793/1521). Il peccato dei Progenitori non ha provocato
la distruzione dell’intelligenza, della volontà, della coscienza morale, della
capacità di vedere e fare il bene, non ha fatto regredire l’uomo alla
condizione dell’animale. Tuttavia, ha
tolto alle nostre capacità razionali il potere di dominare senza dura lotta gli
istinti e le passioni, che anzi tendono – come ben sappiamo – a prevalere nei
pensieri e nelle azioni di tutti noi, con il risultato che spesso facciamo il
male anziché il bene che vorremmo (Rm 7, 21-23).
A causa del peccato originale abbiamo dunque perduto
la similitudine (la somiglianza) sovrannaturale con Dio, conservandone in modo
imperfetto l’immagine, il cui ambito non eccede quello della natura.
“Secondo la dottrina cattolica, la similitudo Dei è
andata perduta e l’imago Dei è rimasta deteriorata nei figli di Adamo –
dunque in tutti gli uomini – dal peccato originale. È con l’applicazione dei frutti della
redenzione, nel processo di giustificazione, che la similitudo Dei (gratia
sanctificans) che era stata perduta,
è ridata all’uomo, e che l’imago Dei , deteriorata, è restaurata (gratia
medicinalis).
Il testo conciliare dice, al contrario, che il Cristo
ha restituito a tutti i figli di Adamo la “somiglianza divina” (similitudo)
“alterata (deformata) dal primo peccato”. Così la somiglianza divina non sarebbe stata
perduta per il “primo peccato” ma solamente “alterata” da esso”[16].
Ma un Concilio Ecumenico che però si è voluto
espressamente solo “pastorale”, mi chiedo, può forse cambiare il dogma senza
emanare nuove definizioni dogmatiche: per così dire surrettiziamente,
semplicemente con l’uso di un diverso participio passato? Non può, evidentemente. Né tale surrettizio cambiamento può nel
merito peggiorare la definizione tradizionale di questo dogma, rendendolo
ambiguo quanto al suo significato, aperto a sbocchi ereticali. Noi fedeli abbiamo il dovere di rompere il
fronte dell’omertà ecclesiale, denunciando apertamente questo modo di procedere
non cattolico. Tra l’altro, l’idea di
una somiglianza con Dio che sia “deforme” appare priva di senso e persino
bizzarra: la nostra somiglianza con Dio
grazie ai doni sovrannaturali della “santità” e della “giustizia” o c’è o non
c’è, ma non può essere “deforme” – come se ci potessero essere una santità e
una giustizia “deformi”!
La seconda novità risulta implicitamente dal testo
conciliare ed appare anch’essa incompatibile con il dogma. Infatti, il testo, per come è articolato,
sembra voler dire che Cristo “ha restituito agli uomini la somiglianza con Dio
resa deforme dal peccato” già con il semplice evento della sua Incarnazione,
la quale avrebbe innalzato la natura umana ad una dignità “sublime”. Ma la Grazia santificante ci viene
restituita con il Battesimo per i meriti della Santa Croce e mantenuta se viviamo
cristianamente ossia cercando di osservare in tutto e sino alla fine i
comandamenti di Cristo, venendo in tal modo giustificati. Solo a questo titolo, cioè affidandoci noi
all’amore per il Cristo e alla sua Grazia, saremo amati da Lui e dal Padre e sostenuti
dallo Spirito Santo (“Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo
amerà e verremo a lui e dimoreremo in lui”, Gv 14, 23). L’Incarnazione non ha a che vedere con il
riacquisto della Grazia santificante.
Veniamo ora
alla terza novità, la più radicale di tutte. Perché con l’Incarnazione, secondo
il testo conciliare, ci viene restituita la somiglianza con Dio? Per il
semplice fatto che la natura umana assunta dal Verbo non è stata annientata o
assorbita in quella divina, per ciò stesso è stata innalzata a una
dignità sublime. Solo nell’uomo concreto
Gesù di Nazareth, immune da ogni peccato perché Figlio di Dio? No, anche in noi precisa il
testo. Si tratta di un’affermazione che
fa apparire una dottrina del tutto nuova. E difatti, come viene giustificata? Con
questo ragionamento: “Con l’Incarnazione infatti Egli stesso, il Figlio di Dio,
si è unito in certo modo ad ogni uomo”.
Si noti lo infatti Egli stesso:
l’avverbio ha significato causale, connette la presente frase a quella
precedente, e si associa allo Egli stesso, come a voler conferire particolare
forza al concetto che si vuole esprimere:
Egli stesso, il Figlio di Dio, incarnandosi, si è unito ad ogni
uomo!
Ma il testo dice “in certo modo” si è unito: dobbiamo allora intendere il concetto in
senso solo simbolico? Forse così l’hanno
inteso molti Padri conciliari che hanno votato questa costituzione. Ma è prevalsa invece da decenni
l’interpretazione che vuol intendere quest’unione in senso ontologico, come se
per l’appunto GS 22.2 propugnasse “una unión ontológica pero tambien existencial
con todos los hombres” del Cristo incarnatosi[17].
E l’artefice principale di questa inaccettabile ed
assurda interpretazione, per quanto la cosa possa sembrare incredibile, è stato
proprio Giovanni Paolo II, nei parr. 13 e 14 della sua prima enciclica, la Redemptor
hominis!
3. La
divinizzazione dell’uomo nella Redemptor hominis di Giovanni Paolo II.
L’articolo 13 si trova nel cap. III dell’enciclica,
dedicato al tema: “L’uomo redento e la
sua situazione nel mondo contemporaneo”.
Si noti: non “la redenzione
dell’uomo” bensì “l’uomo redento”. Nella
traduzione in volgare, l’art. 13 viene intitolato “Cristo si è unito ad ogni
uomo”. L’inciso “in certo modo”, di cui
a GS 22.2, è caduto. Nel corpo
dell’articolo riappare ma solo perché il Papa cita espressamente l’Incarnazione
secondo la lettera di GS 22.2. Stabilita
l’esistenza di questa “unione” di Cristo con ogni uomo, il compito della Chiesa
è allora quello di “far sì che una tale unione possa continuamente attuarsi e
rinnovarsi. La Chiesa desidera servire
quest’unico fine: che ogni uomo possa
ritrovare Cristo, perché Cristo possa con ciascuno percorrere la strada della vita,
con la potenza di quella verità sull’uomo e sul mondo, contenuta nel mistero
dell’Incarnazione e della Redenzione, con la potenza di quell’amore che da essa
si irradia”[18].
Si noti il linguaggio generico per ciò che riguarda il
fine ultimo dell’uomo: invece di dire
che l’uomo deve “ritrovare Cristo” per la propria salvezza, convertirsi a Lui
per emendarsi dal peccato e sperare nella vita eterna, avendo come terribile alternativa
solamente la perdizione, il papa si limita a dire che il compito della Chiesa è
solo quello di far sì che Cristo ritrovato possa percorrere con ciascuno di noi
“la strada della vita”, tra l’altro senza specificare di quale “vita” si
tratti.
Comunque sia, si vede come qui l’unione di Cristo “con
ogni uomo” possa ancora intendersi in senso solo spirituale, morale, se essa
significa che grazie ad essa “ogni uomo possa ritrovare [spiritualmente] Cristo
[e quindi convertirsi]”. Ma che
significhi solo questo non lo possiamo dire, anche perché il papa non parla mai
di impellente necessità della conversione individuale a Cristo né della
vita eterna quale fine ultimo sovrannaturale dell’essere umano, possibile unicamente
mediante l’opera della Chiesa, fondata da Cristo esclusivamente a questo scopo
e pertanto condizione indispensabile della nostra salvezza.
Il significato dell’Incarnazione e della Redenzione
viene visto dal Papa sempre e solo nella “potenza dell’amore” di Dio nei confronti
dell’uomo. Egli tace su tutti gli altri
fondamentali significati, a cominciare da quello di attuare esse la
soddisfazione della Giustizia divina nei riguardi dei peccati del mondo e di ottenerci
il perdono per i nostri individuali peccati.
“Gesù Cristo è la via principale della Chiesa. Egli stesso è la nostra via “alla casa del
Padre”[Gv 14, 1 ss.], ed è anche la via a ciascun uomo. Su questa via che conduce da Cristo all’uomo,
su questa via sulla quale Cristo si unisce ad ogni uomo, la Chiesa non può
esser fermata da nessuno. Questa è
l’esigenza del bene temporale e del bene eterno dell’uomo”[19].
Come intendere qui l’unione? In senso solo spirituale o simbolico? Secondo Dörmann
abbiamo qui già un elemento essenziale del concetto della “redenzione
universale” ossia della erronea concezione di una redenzione già conferita a
tutti dall’Incarnazione in quanto tale.
Tale elemento è costituito dall’espressione “ogni uomo”, che si deve
evidentemente riferire ad ogni uomo esistente sulla faccia della terra,
non al solo cristiano, al convertito, al battezzato, in sostanza al cattolico. L’esigenza del “bene eterno” dell’uomo viene
ora soddisfatta non con la conversione a Cristo bensì con l’unione
di Cristo ad ogni uomo mediante l’Incarnazione!
Vediamo dunque comparire la dottrina spuria di GS
22.2: con l’Incarnazione Cristo si è
unito a ciascun uomo in quanto tale, ontologicamente, senza bisogno di conversioni
e pertanto dell’opera della Chiesa (che ci amministra i Sacramenti) nonché del
contributo del libero arbitrio di ciascuno ad una santificazione personale che
a questo punto non sembra più indispensabile. Ed anzi, nemmeno il battesimo
sembra esser più necessario.
Secondo Dörmann,
si potrebbe parlare qui di una rivelazione sdoppiata. Vale a dire: “una rivelazione interiore, già presente in
ogni uomo in ragione dell’Incarnazione, e una rivelazione esteriore realizzata
dalle parole e dalle azioni di Gesù. La
rivelazione esterna viene indicata come un mezzo attraverso il quale il Cristo
“illumina” l’uomo sul “mistero dell’uomo”, vale a dire sulla realtà
ontologicamente presente in ogni uomo ”dell’esistenza del Cristo”. Essa è il mezzo mediante il quale gli “svela”
o gli fa “prender coscienza” della sua autentica umanità. Ma anche una rivelazione esterna, intesa
quale mezzo per illuminare l’esistenza dell’uomo, ha di per sè un carattere
antropocentrico”[20].
La visione del Papa veniva pertanto a creare un
singolare sdoppiamento tra salvezza come fatto storico e salvezza in senso
ontologico.
“Storicamente l’opera della salvezza è e rimane
quindi l’atto redentore di Gesù Cristo che ci salva, ci redime e soddisfa per
noi. “Ontologicamente”, però, il suo effetto
ai fini della Redenzione e della giustificazione è retroattivo e risale
fino alla creazione dell’uomo, in modo che tutti gli uomini, dall’inizio fino
alla fine del mondo, sono effettivamente redenti e giustificati attraverso la
Croce”[21]. Si può quindi affermare che, in quest’ottica,
abbiamo una redenzione “a priori” che applica per l’appunto “a priori”
(ontologicamente) a ciascun uomo i frutti della Redenzione “a posteriori”. E l’uomo, ciascun uomo, risulta già “redento
e giustificato a priori”[22]. La Chiesa deve ora fargli prender coscienza
di questo fatto, questa sarebbe l’evangelizzazione, come intesa oggi.
Tutta questa singolare costruzione si fonda sull’idea
dell’unione del Verbo con ciascun uomo nell’Incarnazione. Grazie a questa “unione” nell’uomo si deve
ammettere una “eminente dignità” (GS 91, espressamente citato) che la Chiesa
considera suo dovere salvaguardare con tutta la sollecitudine del Buon Pastore. Ma in tal modo, tacendosi sulla natura
peccaminosa dell’uomo e sulla insopprimibile necessità dell’opera salvifica
della Chiesa per la sua salvezza, il compito del Buon Pastore sembra ora essere
soprattutto quello di salvaguardare e difendere l’eminente dignità
dell’uomo, dell’uomo in quanto tale – eminente perché derivante dal fatto
che Cristo, secondo il Concilio, si è con l’Incarnazione unito a ciascun
uomo. La “variazione dottrinale”, per
usare un termine di Amerio, appare qui in tutta la sua devastante portata. Perciò la Chiesa, conclude il Papa sul punto,
citando GS 76, “è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente
della persona umana”[23]. Quest’ultimo riferimento alla “persona umana”
è più vicino al modo tradizionale di esprimersi della Chiesa. Resta però il fatto che questo “carattere”,
come si è visto, è “trascendente” a causa della (supposta) unione del Cristo
“cosmico” con ogni uomo!
Dopo aver introdotto la sua tesi, il Papa prosegue,
approfondendo il concetto dell’uomo. Di
quale uomo si tratta, quando si parla dell’ “uomo redento”? Forse del cristiano, anzi del cattolico?
No. Di un uomo che è sì “estremamente
concreto” secondo il Papa ma solo perché è “ciascun uomo”. E perché “ciascuno”? “Perché ognuno è stato
compreso nel mistero della Redenzione, e con ognuno Cristo si è unito, per
sempre, attraverso questo mistero”[24].
Compreso ognuno nel mistero della Redenzione non
mediante la conversione e la giustificazione bensì unicamente per via
dell’unione di Cristo ad ogni uomo, con l’Incarnazione. Tuttavia, la frase del Papa potrebbe ancora
esser intesa in senso tradizionale, sottolinea Dörmann, se si conferisce all’unione un significato simbolico e non
ontologico, anche se la presenza del “per sempre” sembra voler significare il
carattere ontologico dell’unione.
Lo stesso si potrebbe dire del prosieguo immediato del
ragionamento, nel quale il Papa ci ricorda che ogni uomo è affidato alla
“sollecitudine” della Chiesa “a motivo del mistero della Redenzione”. Questa sollecitudine riguarda “l’uomo
intero”, l’uomo nella sua “unica ed irripetibile realtà umana”. Ma cosa riveli la nozione di “uomo intero”, a
prima vista neutra, lo capiamo subito dopo.
“L’oggetto di questa premura [della Chiesa] è l’uomo
nella sua unica e irripetibile realtà umana, in cui peraltro rimane intatta [integra
permanet] l’immagine e la somiglianza
con Dio stesso [Gn 1, 27]. Il Concilio
indica proprio questo, quando, parlando di tale somiglianza, ricorda che
“l’uomo in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa”(GS,
24). L’uomo, così com’è “voluto” da Dio,
così come è stato da Lui eternamente “scelto”, chiamato, destinato alla grazia
e alla gloria: questo è proprio “ogni” uomo, l’uomo “il più concreto”, “il più
reale”; questo è l’uomo in tutta la
pienezza del mistero di cui è divenuto partecipe in Gesù Cristo, e del quale
diventa partecipe ciascuno dei quattro miliardi di uomini viventi [nel 1979]
sul nostro pianeta, dal momento in cui viene concepito sotto il cuore di sua
madre”.[25]
Tutto questo testo, scrive Padre Dörmann, “potrebbe esser inteso e interpretato nel senso
del dogma cattolico, fino alla frase ove si dice che l’immagine (imago)
e la somiglianza (similitudo) dell’uomo con Dio rimangono intatte”[26].
A partire da questa frase, NO. Affermazione molto grave ma difficilmente
confutabile. Tutte le affermazioni
sull’uomo “concreto” incluso nel mistero della Redenzione e quindi affidato
alle cure della Chiesa e “unito” a Gesù “per sempre”, per quanto insolite ed
ambigue, si potrebbero ancora interpretare in senso ortodosso; ovvero, aggiungo io, in un senso puramente
simbolico, spirituale, morale, come se ancora rinviassero in qualche modo
all’idea tradizionale della missione come conversione. Si ha invece una rottura evidente con il
dogma cattolico là ove il Papa afferma esplicitamente che l’uomo “intero”,
unico ed irripetibile nella sua realtà esistenziale, è quello “in cui permane
intatta l’immagine e la somiglianza con Dio stesso”.
Rimarca Dörmann:
“[…] non si può sostenere che nella “realtà unica ed
impossibile a ripetere” di ogni “uomo reale, concreto, storico permane intatta
l’immagine e la somiglianza con Dio stesso”, dal momento che il dogma del
peccato originale insegna la ferita inferta all’imago e la perdita della
similitudo Dei nella realtà concreta di ogni uomo. La redenzione presuppone la condizione di
peccato nella quale ogni uomo si trova dopo la colpa originale, condizione che
viene cancellata attraverso la giustificazione del peccatore [per la quale
l’Autore rimanda alla sua definizione tridentina]. È evidente che la frase decisiva
dell’Enciclica [il permanere intatto dell’immagine e della somiglianza
dell’uomo con Dio] è inconciliabile con il dogma della Chiesa. Questa affermazione è in diretta
contraddizione con l’insegnamento del Conclio di Trento sulla giustificazione”[27].
L’enciclica wojtyliana, prosegue Dörmann, va al di là di GS 22.2. Si è passati, infatti, dalla similitudo
deformata del testo conciliare alla similitudo quae integra permanet
dell’enciclica. Come a dire: da un
errore ad un altro, peggiore del precedente.
Il tutto al servizio di una nuova dottrina, che comporta obbiettivamente
la divinizzazione dell’uomo. In effetti,
se ognuno di noi dal momento del suo concepimento “sotto il cuore di sua madre”
ha conservato l’immagine e la somiglianza con Dio, che bisogno ha ciascuno di
noi di esser “redento”? La redenzione
non implica in quanto tale una condizione di peccato per l’appunto da redimere?
L’enciclica sembra proporre apertamente anche l’errata
dottrina cosiddetta dei “cristiani anonimi”, tipico prodotto della Nouvelle
théologie, noto cavallo di battaglia del gesuita tedesco Karl Rahner,
l’epigono di Heidegger in teologia, celebre per le sue fumose quanto eterodosse
teorie. Nel par. 14 dell’enciclica
scrive, infatti, Giovanni Paolo II:
“Quest’uomo è la via della Chiesa, via che corre, in un certo modo, alla
base di tutte quelle vie, per le quali deve camminare la Chiesa, perché l’uomo
– ogni uomo senza eccezione alcuna – è stato redento da Cristo, perché con
l’uomo – ciascun uomo senza eccezione alcuna – Cristo è in qualche modo unito,
anche quando quell’uomo non è di ciò consapevole: ‘Cristo, per tutti morto e risorto, dà sempre
all’uomo” – ad ogni uomo e a tutti gli uomini – “…luce e forza aper rispondere
alla suprema sua vocazione”[28].
La “via della Chiesa” non è l’uomo da redimere,
il peccatore da salvare, ma l’uomo, ogni uomo, che è stato già redento
dall’Incarnazione del Verbo, anche se non lo sa, non ne è cosciente!
Ulteriori rilievi critici:
Il Papa contraddice qui anche il dogma della
predestinazione perché afferma che l’uomo, nel senso di “ogni uomo”, è stato
“eternamente scelto”, chiamato, destinato alla Grazia e alla Gloria. Alla Grazia “sufficiente” sì, lo sappiamo –
così è stato rivelato ed insegnato – ma non a quella “santificante”, riservata
da Dio ai predestinati, a quelli destinati appunto alla Gloria, secondo quanto
ci insegna san, nel cap. 9 della Lettera ai Romani.
La seconda osservazione concerne il riferimento
all’art. 24 della Gaudium et spes, nel quale si afferma che “l’uomo è
l’unica creatura che Dio ha voluto per se stessa”.
Quest’affermazione è stata criticata in particolare da
Romano Amerio, che l’ha considerata teologicamente errata, dal momento che si è
sempre ritenuto aver Dio creato l’intero universo, incluso l’uomo, per la sua
propria Gloria (Prov. 16, 4: Universa
propter semetipsum operatus est Dominus).
Essa mostra un antropocentrismo del tutto fuori luogo. Osservo, inoltre, che appare in contraddizione
con l’idea stessa di una creazione dal nulla:
venendo dal Nulla rispetto a se stesso, l’uomo non poteva possedere ex
sese una qualità tale da indurre Dio a crearlo. Le nobili qualità dell’uomo esistono solo in
quanto Dio le ha pensate e volute per un essere creato da Lui che avesse
l’immagine e la somiglianza con Lui.
Inserendo GS 24 nel suo discorso nel modo che si è
visto, Giovanni Paolo II sembra fornirne quest’interpretazione: scrivendo che “l’uomo sulla terra è la sola
creatura che Dio abbia voluto per se stessa”, il Concilio sembra aver voluto
conferire all’uomo un valore tale da giustificare l’erronea nuova dottrina, secondo
la quale nell’uomo l’immagine e la somiglianza con Dio sono rimaste intatte![29]
Inoltre, terza osservazione, secondo Dörmann, “l’affermazione che per ogni uomo, dal primo
istante della sua esistenza, ‘permane intatta l’immagine e la somiglianza con
Dio stesso’, offre una chiara definizione, in grado di fugare ogni ragionevole
dubbio, della tesi della redenzione universale”[30].
Ossia,
come si è detto, della tesi secondo la quale l’Incarnazione avrebbe già
garantito la “redenzione” ad ogni uomo per il solo fatto di esser uomo.
Una
mutazione di questa portata, il cui gravissimo significato dovrebbe esser
chiaro a tutti, ha comportato, prosegue Dörmann,
un “cambiamento di senso” nel vocabolario teologico tradizionale, che “è
difficile da afferrare” e tuttavia è indubbiamente profondo. Egli apporta due esempi.
Il primo riguarda l’immagine caritatevole della
Chiesa, alla cui “sollecitudine” ogni uomo, ricorda il Papa, è affidato “a
causa del mistero della Redenzione”. Ma
questa “sollecitudine” – questo è il punto – non mira più a fare degli uomini e
dei popoli “discepoli di Cristo” (Mt 28, 18-20). Dal momento che ogni uomo, “dal primo istante
della sua esistenza” lo si concepisce “legato al Cristo da un’unione soprannaturale,
per sempre e in maniera indissolubile, che lo sappia o no e che lo accetti o
no, è allora in un senso del tutto differente da quello fin qui inteso che egli
è affidato alla sollecitudine della Chiesa”[31].
E difatti, ricordiamolo di nuovo, di che cosa appare
“sollecita” la Chiesa (la Gerarchia) di oggi?
Di convertire individui e popoli a Cristo? Nient’affatto. Di renderli edotti mediante il “dialogo” del
fatto che l’Incarnazione con la quale il Figlio di Dio si è “unito ad ogni
uomo” [!], li ha già salvati, perché Dio è “Amore”, onde essi devono concorrere
con tutti i cristiani e tutti gli altri uomini all’istituzione della pace e
della fratellanza universali, all’unità del genere umano!
Il secondo esempio concerne la nozione stessa della
Chiesa, che di fatto non è più la stessa.
“Se il Figlio di Dio – osserva Dörmann – con la sua Incarnazione si è unito per sempre
e in maniera indissolubile a ogni uomo, se “l’esistenza in Cristo” è diventata
la “dimensione” religiosa di ciascun uomo, tutta l’umanità forma allora, nel e
con il Cristo, un’unità organica, un organismo natural-soprannaturale. La Chiesa viene allora a coincidere con
l’umanità, “nel mistero della redenzione” e “dell’uomo”, mentre il “dualismo”
di natura e grazia, Chiesa e umanità, viene superato nel suo stesso
principio. La Chiesa Corpus Christi
Mysticum e l’umanità Corpus Christi Mysticum non si differenziano
più nel loro essere profondo che è “l’esistenza nel Cristo”, ma soltanto
secondo “l’espressione” graduale della forma nella quale si presentano”[32].
Sin da quando era cardinale, sottolinea Dörmann, Giovanni Paolo II ha inteso in senso
antropocentrico la Rivelazione, muovendo proprio da GS 22.2. Secondo la dottrina tradizionale, fondata sul
Vangelo di Giovanni, “la Rivelazione consiste nel fatto che il Figlio di Dio è
divenuto uomo incarnandosi nella Vergine Maria e ha rivelato la gloria
dell’unico Figlio del Padre, in una parola la gloria di Dio”[33]. Invece, Giovanni Paolo II ha sostenuto più
volte che “la Rivelazione si concretizza nel fatto che il Figlio di Dio, mediante la sua Incarnazione, “si è unito a
ogni uomo, è diventato, come Uomo, uno di noi”.
La differenza con la formulazione del Vangelo di
Giovanni balza subito all’occhio: nel concetto wojtyliano della Rivelazione il
fatto interiore dell’unione nascosta del Figlio di Dio con ogni uomo
corrisponde al fatto esteriore dell’Incarnazione del Figlio di Dio, che diventa
uno di noi e ci espone o ci “svela”, in quanto uomo, la nostra propria
umanità”. E proprio qui abbiamo la svolta
antropocentrica.
L’unione del Cristo con ogni uomo attraverso
l’Incarnazione costituisce l’oggetto primario, fondamentale, della nozione di
Rivelazione ed è anche la chiave per la comprensione del “carattere
antropocentrico della Rivelazione”, sostenuto dal Papa polacco sin da quando
era cardinale”[34].
4. La Redemptor
hominis documento disastroso per la nostra fede.
L’analisi a mio avviso impeccabile del prof. Dörmann dimostra come l’inciso eterodosso
sull’Incarnazione come unione di Cristo con ogni uomo, infiltrato nel Concilio,
abbia provocato una variazione nel concetto della Rivelazione incompatibile con
il dogma della fede. A ben vedere,
incompatibile anche con il dogma cristologico in senso stretto definito a Nicea
e Calcedonia, giusta il quale il Figlio di Dio si è incarnato unicamente
nell’individuo storicamente esistito Gesù di Nazareth, ebreo, della stirpe di
Davide, senza per questo “unirsi” a nessun altro uomo. In questo individuo, la natura divina e la
natura umana non si sono unite tra loro ma ipostaticamente ossia nella persona
che è stato l’uomo Gesù di Nazareth, per il censo imperiale romano figlio di
Giuseppe e Maria. L’erronea credenza
nell’unione fra le due nature nel Cristo ha storicamente implicato
l’assorbimento di quella divina in quella umana (eresia ariana) o di quella
umana in quella divina (eresia monofisita).
Non si può pertanto affermare, con GS 22.2, che c’è stata con
l’Incarnazione una unione di nature (poiché altro non può essere), tra
quella divina e quella umana. Qui
l’eresia è di tipo nuovo poiché quest’unione la postula non in Cristo stesso ma
tra la sua natura divina e la natura umana irredenta di ciascun uomo! Come se il Cristo si fosse incarnato
unendosi per ciò stesso ad ognuno di noi e in senso ontologico. Si tratta in realtà di un antico errore
riproposto in forma ammodernata dalla mente contorta dei “nuovi teologi”, già
confutato dal Damasceno nella sua lotta contro gli iconoclasti e successivamente
da san Tommaso[35].
L’unica interpretazione logicamente sostenibile di
questa singolare “unione” tra il divino e l’umano in tutti noi, può essere a
mio avviso solo quella simbolico-poetica, per quanto azzardato sia qui
il simbolismo che si è voluto creare.
Non si vede, infatti, come l’unione delle due nature senza reciproca
commistione nella persona dell’uomo Gesù o unione ipostatica, fatto unico e
definito nel tempo, limitato al soggetto concreto Gesù di Nazareth, possa
essersi attuata anche come unione “ontologica” del Verbo con ogni uomo. E non solo con gli uomini del tempo di Gesù
ma anche con tutti quelli che sono venuti prima
e sono venuti dopo. Per quelli
venuti prima, tale “unione” prescinde allora dall’Incarnazione, che resta un
evento accaduto nel tempo, finito, circoscritto ad un solo uomo. Quindi:
da un lato deriva necessariamente dall’Incarnazione, tale unione;
dall’altro ne prescinde completamente, essendo dovuta al Cristo cosiddetto
“cosmico”, sul tipo di quello inflazionato da Blondel e Teilhard de
Chardin. Ma anche per gli uomini venuti dopo
Cristo, l’Incarnazione non è un fatto del passato, definito e concluso? Non esistendo più come realtà attuale, come
può essa provocare l’unione di Cristo
con ogni uomo vissuto dopo Cristo? Si tratta, come ognun può vedere, di una concezione
confusa e contraddittoria, oltre che errata nei suoi presupposti, che
consistono nel dichiarar avvenuta ed anzi sempre presente un’unione “ontologica”
della natura divina del Verbo con quella umana di ciascuno di noi, a
prescindere da ogni conversione a Cristo.
Va inoltre notato:
la redenzione è un processo che presuppone un soggetto (uomo o donna) da
redimere, il quale nello stesso tempo sia capace di contribuire all’opera della
Grazia in lui. Presuppone pertanto un
soggetto cosciente, capace di usare la ragione e dotato di forza di
volontà. Presuppone in somma quelle
caratteristiche razionali racchiuse nel concetto di libero arbitrio. Come può dunque avvenire ad insaputa dello
stesso redimendo, anonimamente? O, se si
vuole usare la terminologia tradizionale, in senso solo oggettivo cioè
per l’azione in sè del Cristo e persino prima di incarnarsi? Eliminare la componente soggettiva della
Redenzione (il nostro consapevole contributo ad essa) oltre che contrario al
dogma, lo è al più elementare buonsenso:
ci troviamo per l’appunto nel regno dell’irrazionale, dell’illogicità
più completa.
Il cattivo seme gettato nel Concilio ha fatto nascere
una gramigna velenosa molto difficile da estirpare. Si è intorbidato l’insegnamento ortodosso
circa l’uomo nel suo rapporto con Dio dopo la Caduta e il concetto stesso di
unione ipostatica, ora imbastardito da quest’impossibile idea di un’unione del
Cristo “cosmico” con ogni uomo in quanto tale, ancora “irredento”. Ne è seguito un insegnamento addirittura contrario al dogma, come si è
visto dai testi di Giovani Paolo II, avendo esso riproposto come nulla fosse
l’uomo quale intatta “immagine e somiglianza di Dio”.
Tutta la teologia ortodossa sulla Caduta, con la
distinzione capitale tra “immagine” e “somiglianza”, e quindi tra Natura e
Grazia, è andata perduta per la dottrina che viene attualmente insegnata, che è
quella diffusa dal Concilio e dalla Redemptor
hominis. Non per nulla, del
Purgatorio e dell’Inferno, così come del dogma del peccato originale, si sono
perse le tracce. Quando uno muore, oggi,
non si dice che “è andato al Giudizio”; si dice, invece, che “è andato alla
Casa del Padre”, come se appunto fosse stato già “redento” dall’Incarnazione
del Figlio. Del giudizio dell’anima
individuale subito dopo la morte, che (è dogma di fede – Eb 9, 27) si troverà
immediatamente di fronte il Cristo Giudice in tutta la sua tremenda,
sovrannaturale Maestà, nessuno parla più: una delle tante (ostiche) verità “di fede
divina e cattolica” che sono state lasciate cadere nell’oblìo. L ‘ uomo contemporaneo ne è terrorizzato e
non vuol nemmeno sentirle nominare.
Bisogna pur dire la verità: la Reremptor hominis è stata una
sciagura per la nostra fede. Avrebbe
potuto cominciare a porre riparo ai guasti provocati dal Concilio, e proprio da
GS 22, se ne avesse fornito un’interpretazione puramente simbolica, cui tutti
avrebbero dovuto attenersi. Ma Giovanni Paolo II era convinto che nel
Vaticano II fosse addirittura risuonata la voce dello Spirito Santo: “Possiamo – nonostante tutta la debolezza
umana e tutte le deficienze accumulatesi nei secoli passati – non aver fiducia
nella grazia di Nostro Signore, quale si è rivelata, nell’ultimo tempo,
mediante la parola dello Spirito Santo, che abbiamo sentito durante il
Concilio?”[36].
All’opposto, l’enciclica
si è impegnata al massimo per costruire una nozione della Redenzione incentrata
sull’uomo, antropocentrica, facendo chiaramente capire che la famigerata
“unione di Cristo con ogni uomo” doveva, contro ogni logica, esser intesa in
senso ontologico. Un errore nella fede
chiaro e lampante.
Quest’enciclica, ancor oggi portata in palmo di mano
da chi vede in Giovanni Paolo II e Benedetto XVI due integerrimi difensori del
Deposito della Fede, bisogna ripeterlo con il prof. Dörmann, ha aperto la porta all’errore della Redenzione
universale, errore che altera il significato stesso della Redenzione cristiana
e rappresenta oggettivamente una gravissima eresia.
4.1 Un
“umanesimo” non cattolico, senza la fede in Cristo.
Se vogliamo considerare l’enciclica nel suo insieme,
dobbiamo innanzitutto dire che il suo spirito non è cattolico nell’ottimismo
di tipo umanistico che la pervade. Nel
contesto storico di quegli anni la cosa era meno percepibile. Esisteva ancora la contrapposizione massiccia
tra Unione Sovietica comunista e libero Occidente, il comunismo e i suoi
alleati politico-culturali erano in piena offensiva a casa nostra e su vari
piani, non escluso il terrorismo alimentato su vasta scala dalla c.d. “sinistra
extraparlamentare”. Bene faceva dunque
il Papa a rivendicare l’umanità dell’uomo e i diritti umani contro il totalitarismo
russo e cinese, a contrapporre al materialismo marxista e di tanta parte della
cultura occidentale (già inquinata dalla Rivoluzione Sessuale) la natura divina
dell’uomo, creato da Dio
inizialmente a sua immagine e
somiglianza.
E difatti, l’enciclica si soffermava ampiamente sui
problemi dell’uomo contemporaneo, sottolineando come il grande suo progresso
materiale e nella conoscenza non si potesse separare da un adeguato progresso
spirituale, impossibile senza il concorso di Cristo e quindi della Chiesa (RH
15 e 16). Anzi, solamente con l’aiuto
dell’uno e dell’altra l’uomo
contemporaneo poteva sperare di guarire dalle sue angosce e malattie morali e di
rendere la vita sulla terra “più umana” e “più degna dell’uomo”[37]. Oltre ai valori sociali sempre mantenuti dal
cristianesimo (giustizia sociale, principio di solidarietà, soccorso alla
povertà), bisognava “stabilire, accettare e approfondire il senso della responsabilità
morale, che l’uomo deve far suo”[38]. A questo proposito, il Papa ribadiva che:
“noi cristiani in particolare dobbiamo sempre
ricordare la scena del giudizio finale [extremi iudicii imaginem],
secondo le parole di Cristo riportate nel Vangelo di Matteo [Mt 25, 42-43]. Questa scena escatologica [hoc
eschatologicum spectaculum] dev’esser sempre “applicata” alla storia
dell’uomo, dev’esser sempre fatta “metro” degli atti umani, come uno schema
essenziale di un esame di coscienza per ciascuno e per tutti: ‘Ho avuto fame, e non mi avete dato da
mangiare…; ero nudo, e non mi avete vestito…; ero in carcere, e non mi avete
visitato’. Queste parole acquistano una
maggior carica ammonitrice se pensiamo che, invece del pane e dell’aiuto
culturale ai nuovi stati e nazioni che si stanno destando alla vita
indipendente, vengono offerti, talvolta in abbondanza, armi moderne e mezzi di
distruzione…”[39].
Riapparve dunque l’escatologia tradizionale nel
discorso del Papa. Egli ammonì
soprattutto i cristiani, ricordando loro la “responsabilità morale” nei confronti
degli altri uomini, alle cui necessità si doveva provvedere nel modo giusto,
fornendo per esempio ai popoli e Stati nuovi pane e non armi da guerra, con le
quali sterminarsi a vicenda. Il “giudizio
finale”, come testimoniato da Matteo nel celebre passo del cap. 25 del suo
Vangelo, riguarda soprattutto il nostro comportamento verso il prossimo: è una “scena escatologica” che dobbiamo
sempre tener presente per applicarla come “metro di giudizio” alla storia
dell’uomo ed anche come schema dell’esame di coscienza individuale, cui ciascuno
di noi è sempre tenuto in quanto cattolico.
Lascia tuttavia perplessi il richiamo al Giudizio
finale come “scena”, “spettacolo” e non esplicitamente come f a t t o , sia pur sovrannaturale, che
accadrà inevitabilamente alla fine dei tempi.
Ma, pur senza voler sottilizzare troppo sull’uso di questa terminologia,
resta l’impressione di una rappresentazione incompleta dei motivi per i quali
possiamo noi tutti incorrere nella Riprovazione finale da parte del Signore (e
anche edulcorata per i non credenti, che in genere ignorano il Nuovo Testamento,
visto che il testo non menzionava l’impressionante Maledizione finale dei
Reprobi profferita dal Cristo Giudice, che li avrebbe Egli stesso condannati al
fuoco eterno – “Via da Me, maledetti, nel fuoco eterno preparato pel diavolo e
gli angeli suoi” – Mt 25, 41). Infatti,
possiamo andare all’eterna dannazione non solo per gravi peccati di egoismo
verso il nostro prossimo ma anche per non aver creduto alla natura divina di
Cristo, per averlo coscientemente rifiutato come Verbo incarnato, respingendone
gli insegnamenti. Questo fondamentale
aspetto – la necessità della fede in Cristo per la salvezza – Giovanni Paolo II
non lo ricorda m a i nella sua enciclica.
La lacuna non è ovviamente sfuggita all’analisi di Dörmann.
Nell’esporre al par. 10 di RH la già ricordata
“dimensione umana del mistero della Redenzione”, nella quale, poiché Cristo
“rivela pienamente l’uomo a se stesso”, ne consegue che l’uomo “ritrova la
grandezza, la dignità e il valore propri della sua umanità”, il Papa spiegava
che se l’uomo vuole comprendere se stesso “sino in fondo” deve “avvicinarsi a
Cristo”; deve, cioè, “appropriarsi e assimilare tutta la realtà
dell’Incarnazione e della Redenzione per ritrovare se stesso”. Ripropone dunque il Papa il tradizionale
“itinerario della mente in Dio”? Così poteva
sembrare ma in realtà egli faceva emergere una insolita prospettiva
antropocentrica. Continuava egli
infatti: se l’uomo mette in opera
quest’approfondimento nel modo dovuto, oltre a “scoprire frutti di adorazione
di Dio” scoprirà anche “frutti di profonda meraviglia di se stesso. Quale valore deve avere l’uomo davanti agli
occhi del Creatore se ‘ha meritato di avere un tanto nobile e grande
Redentore’[Exultet della Veglia pasquale], se Dio “ha dato il suo
figlio” affinché egli, l’uomo, “non muoia, ma abbia la vita eterna”[40].
Lo stupore per le meraviglie operate da Dio, nota Dörmann, si trova in tutte le pagine della Sacra
Scrittura e questo “stupore” concerne anche l’uomo. Tuttavia, nell’enciclica “l’accento viene
spostato, in modo sottile, da Cristo e da Dio all’uomo. L’Exultet della Veglia pasquale
canta: “O felix culpa, quae talem et
tantum meruit habere Redemptorem”[Felice colpa, che meritasti tale e così
grande Redentore]. Nell’enciclica invece
è il “valore dell’uomo” che “ha meritato di avere un tanto grande e nobile
Redentore”. Agli occhi del Creatore il valore dell’uomo è così grande
che ‘Dio ha dato il suo figlio, affinché l’uomo non muoia, ma abbia la vita
eterna’[GV 3, 16]”[41].
La Redenzione sarebbe allora avvenuta a causa del
valore dell’uomo, non dell’Amore e della Misericordia divine per i nostri
peccati. Mettendo il “valore dell’uomo”
in primo piano, il testo del Papa fa sorgere una scomoda domanda: “quanto grande è allora il valore dell’uomo
da non essere stato perduto, e, in quanto esistente, da non poterlo essere? Grande come quello del Figlio o maggiore
ancora?”.
La domanda sembrerebbe assurda ma il testo
dell’enciclica la autorizza pienamente alla luce del fatto che Giovanni Paolo II “riporta una citazione del
Vangelo in modo incompleto, operandovi inoltre un doppio mutamento di significato. Ecco infatti la citazione completa di san
Giovanni 3, 16: “Dio infatti ha tanto
amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in Lui
non muoia ma abbia la vita eterna”.
Nel contesto del Vangelo di Giovanni questo passaggio significa che
Dio ha dato la prova visibile del suo amore “per il mondo” consegnando alla
morte il suo Figlio unigenito. Ma qui
“mondo” assume il significato, come è detto in seguito [sempre nel Vangelo di
Giovanni] di umanità allontanatasi da Dio nelle tenebre del peccato e
irrimediabilmente condannata al giudizio e alla morte eterna. Ad essa, attraverso la la fede nel Figlio
di Dio che si sacrifica per la sua Redenzione, è stata aperta la via della
vita eterna. Il doppio mutamento di
senso è evidente: Nel Vangelo si tratta
dell’amore di Dio per l’umanità perduta, nell’enciclica della grandezza , della
dignità e del valore dell’uomo, di quell’uomo che possiede a priori, e in maniera
inalienabile, ‘l’ essere in Cristo’ come carattere specifico della sua natura
umana. Nel Vangelo la via per la
vita eterna è la fede. Nell’enciclica la fede è stata – in modo
consapevole – cancellata dalla citazione della Scrittura. Il motivo è ovvio: nella teologia della Redenzione fondata
sull’assioma della redenzione universale, la fede in Gesù Cristo non può essere
condizione per ottenere la vita eterna, dal momento che l’uomo è redento e
giustificato a priori!”[42].
Giustificato a priori, aggiungo, sempre a causa della
supposta “unione del Figlio di Dio con ogni uomo” nell’Incarnazione, di cui a
GS 22.2, cioè a causa di un’unione che non c’è mai stata in questi termini né
poteva aver luogo (vedi supra).
Aggiungo inoltre, per far vedere ancor meglio la manipolazione dell’autentico messaggio
cristiano attraverso il silenzio e l’oblìo, la continuazione di Giovanni 3, 16
:
“Dio adunque non ha mandato il Figlio suo nel mondo,
perché condanni il mondo, ma perché il mondo per mezzo di Lui venga
salvato. Chi crede in Lui non è
condannato ma chi non crede è già condannato poiché non crede nel nome
dell’Unigenito Figlio di Dio. E la causa
della condanna sta in questo: che la
luce è venuta nel mondo ma gli uomini preferirono le tenebre alla luce poiché
le loro opere erano cattive” (Gv 3, 17-19).
L’Incarnazione non rappresentava l’Avvento del Figlio
di Dio per sottoporre il mondo ad un Giudizio finale, di condanna, ma per
offrire al “mondo”, ossia a tutti quelli che avessero creduto nella divinità di
Cristo e obbedito a Lui, di potersi salvare dal peccato e conseguire la vita
eterna, presso Dio.
San Giovanni Battista disse ai suoi discepoli, a
proposito di Gesù: “Chi crede nel
Figlio, ha la vita eterna, ma chi rifiuta di credere nel Figlio, non vedrà la
vita, ché anzi sopra di lui rimane sospesa l’ira di Dio” (Gv 3, 36). E lo stesso Gesù: “E tu, Cafarnao, sarai esaltata fino al
cielo? Tu discenderai sino
all’inferno: perché se in Sodoma fossero
avvenuti i miracoli operati in te, oggi ancora sussisterebbe. E però vi dico, che nel giorno del Giudizio
il paese di Sodoma sarà trattato meno duramente di te” (Mt 11, 23-24; vedi
anche: Mt 10, 15).
La grave lacuna rappresentata dal silenzio sulla
necessità assoluta della fede in Cristo per ottenere la salvezza, non fu
colmata nel ragionamento papale nemmeno nei parr. 18 e 20 dell’enciclica, nei
quali trattava, rispettivamente, de “La Chiesa sollecita della vocazione
dell’uomo in Cristo” e di “Eucarestia e penitenza”. Siamo nella quarta e ultima parte del
documento pontificio, dedicata a “La missione della Chiesa e la sorte
dell’uomo”.
Il discorso wojtyliano si concludeva così come era
incominciato: ribadendo il punto di partenza iniziale:
“Se Cristo ‘si è unito in certo modo ad ogni uomo’ [GS
22.2], la Chiesa, penetrando nell’intimo di questo mistero, nel suo ricco e
universale linguaggio,vive anche più profondamente la propria natura e
missione. Non invano l’Apostolo [san Paolo] parla del Corpo di Cristo, che è la
Chiesa. Se questo Corpo mistico di
Cristo è Popolo di Dio – come dirà in seguito il Concilio Vaticano II,
basandosi su tutta la tradizione biblica e patristica – ciò significa che ogni
uomo è in esso penetrato da quel soffio di vita che proviene da Cristo”[43].
Ogni membro del Corpo mistico che è la Chiesa, intesa
però come Popolo di Dio, è “penetrato dal soffio di vita che proviene da
Cristo”. Ma lo è, nello stesso tempo,
perché Cristo si è unito in certo modo ad o g n i uomo, con l’Incarnazione, non ai soli membri
del Popolo di Dio, ai battezzati.
Allora, il “soffio di vita” proveniente da Cristo investe solo i membri
della Chiesa-Popolo di Dio o tutti gli uomini in quanto tali? In questo secondo caso, il Corpo mistico di
Cristo ossia la Chiesa verrebbe a ricomprendere tutta l’umanità, sic et simpliciter.
Anche il successivo riferimento alla dottrina dell’uomo
nuovo, tipicamente cattolica, si fonda sempre sull’idea dell’unione tra il
Figlio di Dio e ogni uomo nel senso eterodosso di GS 22.2.
“Questa unione del Cristo con l’uomo è in se stessa un
mistero, dal quale nsce ‘l’uomo nuovo’, chiamato a partecipare alla vita di
Dio, creato nuovamente in Cristo alla pienezza della grazia e della verità. L’unione del Cristo con l’uomo è la forza e
la sorgente della forza, secondo l’incisiva espressione di S. Giovanni nel
prologo del suo Vangelo: ‘Il Verbo ha
dato potere di diventare figli di Dio’[Gv 1, 12]”[44].
Questa “forza” è di fatto equiparata all’azione della
Grazia di Cristo in noi, quando abbiamo la fede, ma senza nominare la necessità
imprescindibile della fede. Continua
infatti il testo:
“Questa è la forza che trasforma interiormente l’uomo,
quale principio di una vita nuova che non svanisce e non passa, ma dura per la
vita eterna [Gv 4, 14]. Questa vita,
promessa e offerta a ciascun uomo dal Padre in Gesù Cristo, eterno ed unigenito
Figlio, incarnato e nato “quando venne la pienezza del tempo”[Gal 4, 4] dalla
Vergine Maria, è il compimento finale della vocazione dell’uomo. È in qualche modo il compimento di quella
“sorte”, che dall’eternità Dio gli ha preparato”. E la “sorte” dell’uomo, alla fine della vita
di ciascuno sarà per l’appunto quella di veder “apparire a noi il Cristo oltre
questo traguardo: ‘Io sono la
risurrezione e la vita; chi crede in me…non morrà in eterno’ [Gv 11, 25
ss.]. Il “traguardo” da superare, per
ciascuno di noi, è quello rappresentato dalla morte fisica. Però, al di là di essa la nostra anima non incontrerà
il Cristo che la giudica, non si troverà di fronte ad alcun giudizio che
deciderà del suo destino eterno, nel Regno del Bene o in quello del Male, secondo
i suoi meriti: le verrà invece incontro
il Cristo risorto, per condurla nell’eternità.
La f e d e in Cristo, dunque, riappare, nelle parole
stesse del Signore rivolte a Marta,
quale condizione necessaria per ottenere la vita eterna. Ma, a chi non avrà avuto la fede in Lui, cosa
succederà? L’enciclica non lo dice, lo
lascia supporre, a quelli che conoscono il Testo Sacro.
La contraddizione che aleggia su tutto il ragionamento
wojtyliano non può tuttavia considerarsi sanata da questa semplice citazione,
dalla quale viene cancellata l’immagine stessa del Cristo Giudice. Infatti, “l’uomo nuovo” di cui al testo di RH
18 non rispecchia esattamente i requisiti dell’uomo nuovo che deve essere
il seguace autentico di Cristo. Perché
non li rispetta? Il Papa non cita forse
in nota i testi corretti, che stabiliscono la figura del cristiano “uomo
nuovo”? E cioè: 2 Pt 1, 4;
Ef 2, 10; Gv 1, 14-16; Gv 1, 12; Gv 4, 14? Li cita, anche se con qualche taglio, ma non
può nello stesso tempo affermare, come fa, che l’uomo nuovo è quello che
nasce dall’unione del Cristo con l’uomo, ex art. 22.2 della Gaudium
et spes. Non può, perché l’uomo
nuovo nato dall’unione spuria di GS 22.2 è “ogni uomo” in quanto tale e viene
considerato “unito” al Cristo anche senza saperlo, e quindi, come si è visto,
senza bisogno della fede, di convertirsi e mutar vita. Non per nulla, la citazione di Gv 1, 12 è
monca. Manca tutta la parte iniziale,
qui di seguito in corsivo: “Ma a
quanti lo accolsero, a quelli che credettero nel suo nome , diede il potere
di diventare Figli di Dio”. Manca ancora
una volta il riferimento alla fede per poter diventare Figli di Dio per
adozione. Tale riferimento viene
introdotto come di soppiatto, in quanto parte non eliminabile di una citazione,
e nel contesto generale appare un corpo estraneo. In ogni caso, rimane incapsulato in un
discorso contraddittorio perché porta a concludere che l’uomo nuovo in
Cristo, può esserlo sia se ha la fede sia se non ce l’ha. Siamo in una dimensione irrazionale,
che del resto aleggia su tutta l’enciclica, nonché su testi conciliari come GS
22.
Nel
commento di P. Dörmann:
“Il testo dell’enciclica è univoco: dall’unione di Cristo con l’uomo, che si realizza
attraverso l’Incarnazione con ciascun uomo, nasce “l’uomo nuovo”. Quanto san
Paolo dice dei fedeli: “Se uno è in Cristo,
è una creatura nuova” (2 Cr 5, 17; Gal 6, 15) vale nell’enciclica per ciascun
uomo. Le parole di san Giovanni nel suo
prologo a proposito della nascita soprannaturale dei cristiani da Dio,
nell’enciclica valgono per tutti gli uomini.
L’uomo nasce, redento e giustificato
a priori da questa unione di Cristo con tutti gli uomini. Non è richiesta alcuna condizione, né la
fede, né il battesimo. L’espressione
forte di san Giovanni: “Il Verbo ha dato
potere di diventare figli di Dio”, nell’enciclica viene presentata – ad arte –
in una forma ridotta [con il taglio da me sopra ricordato] che è assai
eloquente. Il testo del prologo recita
integralmente: ‘A quanti però l’hanno
accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo
nome”. Il papa omette – con logica
perfetta – l’elemento soggettivo della Redenzione: l’accoglimento del Verbo e la fede in Gesù
Cristo. Perché tutto questo? Certamente, perché egli insegna la redenzione
universale”[45].
La grazia dell’esser Figli di Dio per adozione viene
dunque concessa a priori a tutti gli uomini, quale che sia la loro
religione o assenza di religione, sempre per via dell’unione spuria del Figlio
di Dio con ogni uomo, di cui a GS 22.2.
Ma, sottolinea ripetutamente Dörmann,
il principio della vita divina i n ciascun uomo risulta dal Nuovo Testamento,
tuttavia (come sappiamo) esso esige la cooperazione dell’uomo, innanzitutto con
la f e d e , requisito scientemente
omesso dal ragionamento del Papa[46]. Né
deve trarre in inganno il riferimento alla fede nel Risorto come testimoniata
in Gv 11, 25, sopra riportato e da me qualificato una sorta di corpo estraneo
nel discorso wojtyliano.
“Nel Vangelo la fede nella risurrezione di Nostro
Signore, dalla quale dipende la vita eterna, è pretesa hic et nunc da
ciascun uomo in questa vita. Secondo
l’enciclica, invece, quando gli uomini varcano “la frontiera della morte”,
“appare a noi il Cristo oltre questo traguardo”, dicendo [alla nostra anima]
“Io sono la risurrezione e la vita; chi
crede in me […] non morrà in eterno” (Gv 11, 25). Ciò comporta però che solo dopo la morte,
nell’al di là, l’uomo dell’enciclica viene messo a confronto con Cristo e con
l’esigenza della fede nel Risorto.
Sembrerebbe di essere di fronte a una teoria mirante a dispensare il
“cristiano anonimo” dall’obbligo essenziale della fede, nella risurrezione di
Cristo in questa vita, esigendola peraltro, ma solo nell’al di là,
personalmente dal Cristo risorto. In
ogni caso, il cristiano non attende dopo la morte l’incontro nell’al di là con
il Cristo della fede, bensì la Sua visione “faccia a faccia” (1 Cr 13, 9-12)”[47].
Il principio dell’unione del Figlio di Dio con ogni
uomo a causa dell’Incarnazione comporta evidentemente l’unione di tutti
gli uomini in Cristo, di tutti gli uomini in quanto tali, così come sono. Comporta quindi l’unità del genere umano, che
diventa pertanto ragion d’essere ed obbiettivo della Chiesa cattolica,
sostituendosi di fatto alla salvezza delle anime. E difatti, il par. 18 di Redemptor hominis
ci ricorda la “verità sulla Chiesa, messa in evidenza con tanta acutezza
dal recente Concilio nella costituzione dogmatica [tuttavia senza dogmi
proclamati] Lumen Gentium, laddove insegna che la Chiesa è ‘sacramento,
o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere
umano’”[LG 1][48]
Giovanni Paolo II era convinto che, di contro
alle tendenze materialistiche spesseggianti nella nostra epoca, negli uomini,
di tutte le religioni, vi fosse una diffusa tendenza ad invocare “lo Spirito”, per contrapporvi una visione
positiva, spirituale della vita. Ora,
questo Spirito, nell’ottica di Papa Wojtyla non poteva essere altri che lo
Spirito Santo, costituente “la forza potente che unifica la Chiesa soprattutto
dal di dentro”. Nella Chiesa, tale
Spirito il Redentore “lo comunica
continuamente e la sua discesa, rivelata il giorno della Pentecoste, perdura
sempre. Così negli uomini si rivelano le
forze dello Spirito, i doni dello Spirito, i frutti dello Spirito Santo. E la Chiesa del nostro tempo sembra ripetere
con sempre maggior fervore e con santa insistenza: ‘Vieni, o Santo
Spirito!’. Vieni! Vieni!”[49].
La Chiesa del nostro tempo invocava dunque con fervore
lo Spirito, secondo il Papa, e “questa invocazione alla Spirito e per lo Spirito
non è altro che un costante introdursi nella piena dimensione del mistero della
Redenzione, in cui Cristo, unito al Padre e con ogni uomo, ci comunica
continuamente quello Spirito che mette in noi sentimenti del Figlio e ci
orienta verso il Padre”[50].
Data
l’unione di Cristo con ogni uomo lo “Spirito di Cristo” viene comunicato
“continuamente” ad ogni uomo e la Chiesa viene di fatto a coincidere con
l’umanità, visto che lo Spirito è la forza che tiene unita la Chiesa “dal suo
interno”. Si comprende quindi che
“l’intima unione con Dio” della quale la Chiesa sarebbe “sacramento o segno e
strumento” è l’unione con Dio secondo GS 22.2 cioè l’immaginaria unione di
Cristo con ogni uomo, prima e dopo l’Incarnazione. Ed è a causa di questa “unione” che lo “Spirito
di Cristo” viene “comunicato” di continuo ad ogni uomo e in sostanza alla
Chiesa, che tutta l’umanità ora spiritualmente ricomprende.
La peculiare, eterodossa nozione di “unione” con “ogni
uomo” del Cristo “cosmico” (Il Redentore è “centro del cosmo e della storia”,
dice à la Teilhard la prima riga di RH 1) e quindi con l’umanità
concepita come Chiesa di Cristo invisibile di contro alla Chiesa cattolica,
Chiesa visibile che solamente “sussiste” nella Chiesa di Cristo assieme ad
altri “elementi di santificazione e di verità” (Lumen Gentium, 8.2) –
questa nozione di “unione” costituisce il fondamento dell’ecumenismo professato
da Giovanni Paolo II e dai suoi successori[51].
Il fondamento di tutto l’impianto del magistero
wojtyliano è rappresentato sempre dall’unione immaginaria di Cristo con ogni
uomo grazie all’Incarnazione, è quindi sempre costituito dal testo
conciliare. Commenta Dörmann sul punto:
“Quanto la Sacra Scrittura afferma dei doni e dei
frutti dello spirito Santo largiti ai fedeli e alla Chiesa, l’enciclica, con
una logica sorprendente, lo applica a tutti gli uomini e a tutta
l’umanità. Per Giovanni Paolo II la
discesa dello Spirito Santo è il risultato di un processo in continuo divenire. La discesa originaria dello Spirito Santo
sulla Chiesa il giorno di Pentecoste diventa segno esterno di una discesa che
perdura, dello Spirito Santo su tutta l’umanità.
Dal punto di vista della redenzione universale, la
visione che il papa ha dell’uomo e dell’umanità è certamente grandiosa e ha una
sua logica impressionante. È tuttavia
incomprensibile che, in un’enciclica sul Redentore, un papa trascuri la
profondità insondabile della caduta originale e l’assoluta necessità di
Redenzione dell’umanità, semplicemente ignorando il tema della fede nel suo Redentore,
richiesta, invece, in ogni pagina del Vangelo.
Alla luce della visione autentica della Sacra Scrittura la visione del
papa è mera poesia”[52].
Dörmann
lamenta anche che Giovanni Paolo II non usi mai l’aggettivo “cattolica” quando
nomina la Chiesa, ma la cosa è una semplice conseguenza, annoto, della dottrina
della “redenzione universale”, che fa dell’intera umanità come una Chiesa
invisibile, grazie all’unione che ci sarebbe stata tra il Cristo e “ogni
uomo”.
Dörmann
sottolinea inoltre che la parola “peccato” brilla per la sua assenza. In verità, almeno una volta il Papa l’ha
usata, ma come parte di una citazione non relativamente al concetto del
peccato. Questo accade nell’art. 20,
dedicato a “Eucaristia e penitenza”.
Celebrando il valore dell’Eucaristia, che, come dice il Concilio
“costruisce la Chiesa” (LG 11), e viene interpretata dal Papa soprattutto come “strumento
che costruisce come autentica unità il Popolo di Dio, come assemblea di fedeli,
contrassegnata dallo stesso carattere di unità di cui furono partecipi gli
Apostoli e i primi discepoli del Signore”[53],
l’enciclica ricorda che “negli ultimi anni è stato fatto molto per mettere in
evidenza – in conformità, del resto, alla più antica tradizione della Chiesa –
l’aspetto comunitario della penitenza e soprattutto del sacramento della
Penitenza nella pratica della Chiesa”[54].
Ma si doveva aver alquanto ecceduto in
questo senso, si arguisce, se l’enciclica sente il bisogno di ribadire il
carattere individuale della Confessione (“conversione”, secondo Mc 1, 15),
trattandosi di “un atto interiore di una profondità particolare, in cui l’uomo
non può esser sotituito dagli altri, non può farsi “rimpiazzare” dalla comunità […] In quest’atto deve pronunciarsi
l’individuo stesso, con tutta la profondità della sua coscienza, con tutto il
senso della sua colpevolezza e della sua fiducia in Dio, mettendosi davanti a
Lui, come il Salmista, per confessare: ‘Contro di Te ho peccato’[Sal 50 (51),
6]”[55]. Contro la tendenza che evidentemente già si
manifestava di eliminare la confessione sacramentale, sostituendola con l’atto
di dolore collettivo durante la Messa o
semplicemente non considerando più necessaria la confessione dei propri
peccati, dal momento che con l’Incarnazione eravamo già uniti a Cristo, e quindi
“redenti”, Giovanni Paolo II doveva pertanto ribadire la dottrina tradizionale
della Chiesa sulla Penitenza, come atto individuale di pentimento e conversione
di fronte a Dio. Ma dobbiamo chiederci: la tradizionale confessione sacramentale
individuale poteva applicarsi ai non battezzati, all’umanità formalmente ancora
fuori della Chiesa e tuttavia già redenta dal Cristo “cosmico”? Non poteva, evidentemente. la dottrina della redenzione universale insegnata
da Redemptor hominis mostrava di nuovo la sua contraddizione più
radicale con la dottrina tradizionale della Chiesa, che il Papa era costretto a
ribadire per contrastare l’estinguersi della confessione sacramentale, fenomeno
provocato dalla riforma liturgica con la sua nuova Messa, a sua volta penetrata
dallo spirito della nuova e falsa dottrina della “redenzione universale”.
[1]
Su GS 22, vedi: L. Ladaria, L’uomo alla luce di Cristo nel Vaticano II,
in R. Latourelle (cura di), Vaticano II. Bilancio e prospettive venticinque
anni dopo (1962-1987), Cittadella, Assisi 1987, vol. II, pp. 939-951, in
particolare le pp. 940-945. Si tratta di un saggio dal taglio apologetico. Per un’analisi critica (dal punto di vista
della teologia ortodossa della Chiesa) concernente la sua origine e i vari
aspetti, patristici, scolastici, neomodernistici, coinvolti dal suddetto
articolo, cfr. i due accurati studi:
P.Toulza, “L’union du Fils de Dieu à tout homme”: origines et
actualité, in: La conscience dans
la religion de Vatican II. Deuxième
Symposium de Paris, 9-11 octobre 2003, ‘Le Sel de la terre’, Angers, 2004,
pp. 190-211; G. Castelain, Bref
examen critique de GS 22.2, ivi, pp. 212-228.
[2] San
Leone Magno, Sermones, 21, 2-3, PL 54, 192A; cfr. Liturgia delle Ore,
I, Ufficio delle letture di Natale (nota del CCC). Il CCC comunque ripropone l’esaltazione della dignità dell’uomo dei
testi conciliari (par. 1700 e ss.).
[3]
La nozione classica (ciceroniana) della dignitas, pur non considerando
ovviamente la dignitas come una caratteristica “ontologica”
dell’individuo, le attribuiva un grande significato come valore fondamentale
della società romana, sia a livello individuale che collettivo. Sul punto:
Sylvain Luquet, La dignité humaine dans la philosophie classique,
nel volume collettaneo La dignité humaine.
Heurs et malheurs d’un concept maltraité, Ed. Pierre-Guillaume de
Roux, Paris, 2020, pp. 13-38. I saggi
raccolti fanno giustizia della retorica della “dignità dell’uomo” oggi
imperante e del suo uso a volte perverso.
Per ulteriori, ampi approfondimenti critici: Paolo Pasqualucci, La falsa dignità. Una visione
dell’uomo spesso fraintesa, Fede & Cultura, Verona 2021, pp. 256.
[4]
Henri de Lubac, Cattolicismo. Gli aspetti sociali del dogma (1936), tr.
it. di U. Massi, Studium, Roma, 1948, pp. 298-299.
[5]
Giuseppe Siri, Getsemani, 2a ediz., Edizioni della Fraternità
della Santissima Vergine Maria, Roma, 1987, pp. 55-56.
[6]
Maurice Blondel, L’Action (1893), PUF, Paris, 1993, p. 462. Ma vedi l’introduzione e i primi due capitoli
dell’ultima parte del libro, la quinta: pp.
389-423.
[7]
Siri, Getsemani, cit., pp.
53-54.
[8]
Giova ricordare l’elogio a de Lubac espresso da Joseph Ratzinger ne La mia
vita. Ricordi (1927-1977), tr. it. di Giuseppe Reguzzoni, Edizioni san
Paolo, Cinisello Balsamo, 1997:
“Nell’autunno del 1949 Alfred Läpple [un insegnante del suo Seminario]
mi aveva regalato l’opera forse più significativa di Henri de Lubac, Cattolicismo,
nella magistrale traduzione di Hans Urs von Balthasar. Questo libro è divenuto per me una lettura di
riferimento. Esso non solo mi trasmise
un nuovo e più profondo rapporto con il pensiero dei Padri, ma anche un nuovo e
più profondo sguardo sulla teologia e sulla fede in generale. La fede era qui una visione interiore,
divenuta nuovamente attuale proprio pensando insieme con i Padri […] De Lubac
accompagnava il suo lettore da un modo individualistico e angustamente
moralistico di credere verso il largo di una fede pensata e vissuta socialmente,
comunitariamente nella sua stessa essenza, ad una fede che proprio perché era
per sua stessa natura anche speranza, investiva la totalità della storia e non
si limitava a promettere al singolo la sua beatitudine privata” (op. cit., p.
62). Si noti il carattere ambiguo di questa “speranza”, sostanzialmente
indefinita. Ancora nell’enciclica Spe salvi, del novembre 2007, Benedetto
XVI avrebbe confermato la sua adesione alla confusa concezione della salvezza
cristiana come salvezza “comunitaria”, supposta “condizione” di quella individuale,
tipica di de Lubac – concezione che pencolava verso l’eresia della salvezza
garantita a tutti. Sempre nelle sue
memorie, Ratzinger non taceva la sua sostanziale avversione per san Tommaso
d’Aquino, “la cui logica cristallina mi pareva troppo chiusa in se stessa,
troppo impersonale e preconfezionata” (op. cit., p. 44). La logica “preconfezionata” della quale si
serviva l’Aquinate era in sostanza la medesima di Aristotele, un autore assente
dalla formazione di Ratzinger. La
filosofia profana egli la conosceva soprattutto tramite i manuali in uso nel
Seminario (op. cit., p. 43). Il che era
perfettamente normale, per un seminarista.
[9] De
Lubac, Cattolicismo, tr. it. cit., p. 299. Corsivo nel
testo.
[10]
Dörmann, La
teologia di Giovanni Paolo II, tr. it. dalla tr. fr. di Paolo Taufer,
Editrice Ichthys, Albano Laziale, s.d., vol. I, p. 81. Il P. Dörmann,
la cui specializzazione accademica era la “scienza delle missioni”, pubblicò inizialmente
il suo studio in quattro volumetti, praticamente a sue spese. Essi furono tradotti in francese, inglese,
italiano, rimanendo queste traduzioni nella circolazione molto ridotta della
pubblicistica cattolica tradizionalista. Gli altri tre volumetti della
traduzione italiana furono condotti sull’originale tedesco ad opera di Alfons
Benedikter e Paolo Taufer. Il testo
tedesco è stato ristampato da un editore cattolico di più ampio respiro: Prof.
Dr. Johannes Dörmann,
Johannes Paul II. Sein Theologischer
Weg zum Weltgebetstag der Religionen in Assisi, Sarto Verlag, Stuttgart, 2011. Si tratta di un ponderoso volume di 858
pagine, stampate però in caratteri grandi.
Ho utilizzato la citata traduzione italiana, confrontandola con l’originale
qui richiamato, il cui titolo recita: Giovanni Paolo II. Il suo percorso teologico verso la giornata
mondiale di preghiera delle religioni ad Assisi. Il libro ricostruisce in dettaglio la
peculiare “teologia” di questo Papa, analizzando le sue prime tre lettere encicliche. La Redemptor hominis consta di 22
lunghi paragrafi.
[11] Op. cit., vol. I, p. 83.
[12]
Sulla notevole influenza esercitata da de Lubac al Vaticano II, si veda: Karl-Heinz Neufeld, Vescovi e teologi al
servizio del Vaticano II, in: Vaticano
II: Bilancio e prospettive etc, cit., pp. 83-109;
D. Bourmaud, Le père de Lubac et Vatican II, in : Autorité et réception du Concile Vatican
II. Quatrième Syposium de Paris, 6-8 octobre 2005, numero speciale di ‘Vue
de haut’, rivista dell’Institut Universitaire Saint Pie X, Paris, 2006,
pp. 303-335.
[13]
Costituzione conciliare Gaudium et spes, art. 22.2. Testo italiano in I documenti del Concilio
Vaticano II, Edizioni Paoline, Alba, 1980.
Per l’originale latino: Concilii
Oecumenici Vaticani II. Constitutiones-Decreta-Declarationes,
curante Florentio Romita, Desclée ac Socci – Romae, 1967. Per I Testi Sacri mi sono servito de La
Sacra Bibbia, edizioni Paoline, anteriore al Concilio. Per il testo latino delle Encicliche
wojtyliane: Giovanni Paolo II, Tutte
le Encicliche, a cura di Rino Fisichella, Testo latino a fronte, Bompiani,
2010. Questa pregevole edizione delle encliche
di Giovanni Paolo II è ricca di introduzioni generali e particolari, ma
inevitabilmente priva di spunti critici. Una singolarità è costituita dal fatto
che il tradizionale Noi del testo originale latino è stato reso con l’assai meno
tradizionale Io, in tutte le traduzioni in volgare, non solo in quella
italiana. Va poi ricordato che i titoletti di capitoli e paragrafi esistono
solo nelle traduzioni in vernacolo, come da prassi consolidata. Le traduzioni
sono ufficiali.
[14]
DS 788/1511. Decisioni dei Concili
Ecumenici, a cura di G. Alberigo, tr. it. di R. Galligani, UTET, Torino,
1978, pp. 528-529. Si tratta del can. I
della V Sessione.
[15]
Per un quadro dottrinale sistematico, si vedano Bernard Bartmann, Précis de
théologie dogmatique, tr. fr. del P. Marcel Gautier, Salvator, Mulhouse,
1951, § 80; Louis Ott, Précis de théologie dogmatique,
tr. fr. del P. Marcel Grandclaudon,
Salvator, Mulhouse, 1954, II parte, § 24. Ricordo, da parte mia, che nell’Epistola
dottrinale (Tomus Flavianum) che san Leone Magno inviò al Concilio di
Calcedonia, adottata spontaneamente all’unanimità da quel Concilio quale testo
esemplare contro le eresie cristologiche, si affermava che “Il diavolo,
infatti, si gloriava che l’uomo, ingannato dalla sua frode, avesse perduto i
doni divini [Nam quia gloriabatur diabolus I homine sua fraude deceptus I
diuinis caruisse muneribus]”(Decisioni dei Concili Ecum., cit., p. 155;
S. Leonis Magni Tomus ad Flavianum episc. constantinopolitanum (Ep. XXVIII)
etc., recens. C. Silva Tarouca SI, Romae, 1932, p. 25). Il santo Pontefice ribadiva la fede
tradizionale della Chiesa sul punto.
[16] Dörmann, La teologia
di Giovanni Paolo II e lo spirito di Assisi, tr. it. cit., I, p. 71.
[17]
Fernando Bogónes Herreras, “Cristo, el hombre nuevo”. Analisis de Gaudium et spes 22, ‘Estudio
Agustiniano’, Sept 2017, 52 (1-3) 297-319; p. 310. Estratto disponibile su internet.
[18]
Govanni Paolo II, Redemptor hominis (1979), Edizioni San Paolo, Alba,
1979, p. 24. L’intero articolo si trova
alle pagine 24-26 di quest’edizione. Per
l’originale: AAS 71 (1979), p. 283 ss.
[19]
Op.cit., p. 25.
[20]
Dörmann, La
teologia di Giovanni Paolo II etc, I, pp. 79-80. Vedi anche, più ampiamente il vol. II di
quest’opera, i paragrafi dedicati all’analisi dei parr. 9 e 10 della RH:
“Dimensione divina del mistero della Redenzione” e “Dimensione umana del mistero della
Redenzione”, pp. 98-115.
[21] Dörmann, La teologia
di Giovanni Paolo II e lo spirito di Assisi, tr. it. cit., II vol., p. 102.
[22]
Op. cit., p. 102; p. 111.
[23] Redemptor
hominis, p.25.
[24]
Op. cit., ivi.
[25]
Op. cit., pp. 25-26. “Haec cura in
hominem intenditur, quatenus realis eius existentia, unica neque
iterabilis, respicitur, in qua integra permanet imago et similitudo Dei ipsius […]
Homo, quem Deus ita ‘voluit’, quem ab aeternitate ‘elegit’, vocavit, ad
gratiam et gloriam destinavit, ipse est ‘omnis’ homo, homo quam maxime concretus,
quam maxime realis; hic enim est homo plenitudine mysterii ornatus,
cuius in Iesu Christo est particeps effectus; quo quidem mysterium singuli
homines e quadragies milies centenis milibus huius terrae nostrae incolarum
participant, ex quo sub corde matris concipiuntur” (RH, 13).
[26] Dörmann, La teologia
di Govanni Paolo II, cit., p. 73.
[27]
Dörmann, op. cit.,
pp. 73-74. Giova riproporre la
definizione della Giustificazione data dal Tridentino: “Essa non è solo remissione dei peccati, ma
anche santificazione e rinnovamento dell’uomo interiore, attraverso
l’accettazione volontaria della grazia e dei doni, per cui l’uomo da ingiusto
diviene giusto e da nemico amico, così da essere erede, secondo la speranza
della vita eterna [Tt 3, 7] (DS
799/1528 – Decisioni dei Concili Ecumenici, cit., p 541).
Oggi, dopo la Dichiarazione congiunta tra cattolici e luterani sulla
Giustificazione (1999), con la quale la Gerarchia attuale ha attuato un
compromesso dottrinale con il luteranesimo, non è affatto sicuro che la citata
definizione tridentina abbia per la presente Gerarchia ancora una valore
assoluto, immodificabile, come è proprio del dogma.
[28]
Giovanni Paolo II, Redemptor hominis, p. 27. La citazione finale proviene da GS 10,
richiamato in nota nel testo. Corsivi
miei.
[29]
La critica di Amero a GS 24 si trova nel cap. XXX di Iota Unum. Studio delle
variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX, Riccardo Ricciardi
Editore, Milano-Napoli, 19862, p. 401 ss.
[30] Dörmann, tr. it. cit., I,
p. 74.
[31] Dörmann, op. cit., pp.
74-75.
[32]
Op. cit., ivi. Corsivi miei.
[33]
Op.cit., p. 78.
[34]
Op. cit., ivi.
[35]
Vedi: Summa Theologiae, III, q.
IV, a. 5. San Tommaso riporta l’eresia
come combattuta da san Giovanni Damasceno, morto nel 749: “Filius Dei non assumpsit humanam naturam
quae in specie consideratur: neque enim
omnes hypostases eius assumpsit”: “Il
Figlio di Dio non assunse la natura umana che consideriamo nella specie [umana]
e pertanto nemmeno [assunse] tutte le persone degli uomini”. Sul punto:
‘sì sì no no’, XXXV, 1 (2009), pp.7-8.
[36]
Redemptor hominis, tr. it. cit., p. 10, art. 6. L’esortazione era nel senso di aver fiducia
nella possibilità di realizzare “l’unità universale dei cristiani”, sulla quale
molti erano al tempo scettici. Per
Giovanni Paolo II, notoriamente, l’opera dello Spirito Santo appariva proprio
nelle novità rappresentate dall’ecumenismo e dalla libertà religiosa professati
dal Concilio.
[37] Redemptor
hominis, tr. it. cit., p. 29, art. 15.
[38]
Op. cit., p. 35, art. 16.
[39]
Op. cit., pp. 35-36, art. 16.
[40]
Op. cit., tr. it. cit., p. 17, art. 10.
[41] Dörmann, op. cit., vol.
II, pp. 110-111.
[42] Dörmann, op. cit., ivi.
[43]
RH, tr. it. cit., p. 42, par. 18.
[44]
Op. cit., ivi.
[45] Dörmann, tr. it. cit.,
vol. II, p. 173.
[46] Dörmann, op. cit., p 174.
[47]
Op. cit., ivi. Corsivi miei.
[48] Redemptor
hominis, tr. it. cit., p. 45, par.
18.
[49]
Op. cit., pp. 44-45
[50]
Op. cit., p. 45. Corsivi miei.
[51]
Una critica assai accurata dell’ecumenismo di Giovanni Paolo II si trova in un
saggio a cura della Fsspx, pubblicato per I venticinque anni del suo pontificato: Fraternità sacerdotale San Pio X, Dall’ecumenismo
all’apostasia silenziosa. Venticinque
anni di pontificato, Menzingen, 2004, pp. 53. Il saggio, tradotto nelle principali lingue,
fu inviato a tutti I cardinali e a moltissismi vescovi, cadendo praticamente
nel vuoto. Sul nesso tra redenzione
universale, errato concetto di Chiesa ed ecumenismo: op. cit., cap. II, pp.
23-33.
[52] Dörmann, op. cit., vol.
II, pp. 176-177.
[53] Redemptor
hominis, tr. it. cit., p. 53, art. 20.
[54]
Op. cit., pp. 53-54.
[55] Op.
cit., p. 54.
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