Paolo Pasqualucci : Riflessioni su diritto e giustizia
Riflessioni
su diritto e giustizia
di Paolo
Pasqualucci
Sommario : 1. Non esistono diritti
senza doveri. 2. La giustizia secondo Platone: fare il proprio dovere. 2.1
È ingiusto rispondere con l’ingiustizia all’ingiustizia. 2.2
Le Leggi spiegano a Socrate perché sarebbe ingiusto sosttrarsi alla
pena, anche se inflitta ad un innocente.
3. La giustizia è “fare
ciò che è proprio di ciascuno”. 4. Il nesso tra diritto e giustizia.
1. Non esistono diritti
senza doveri.
Il concetto della
giustizia sembra oggi invocato soprattutto nel senso di giustizia sociale oppure in connessione ai
cosiddetti “diritti umani”, termine che ha sostituito quello di “diritti
naturali”. In ogni caso, in relazione
all’idea di un diritto da soddisfare, da proteggere. Ma esiste anche una stretta relazione tra
l’idea della giustizia e quella del dovere. Oggi si fa un gran parlare dei “diritti”,
soprattutto dei “diritti umani”. Ma dei
doveri non si parla mai o quasi. Sui
media veniamo bombardati quasi ogni giorno da denunce e perorazioni in favore,
in particolare, dei “diritti delle donne”, dei “migranti”, delle “minoranze”, soprattutto quelle dei
cosiddetti diversi. L’idea del dovere
viene impiegata principalmente per indicare il dovere dello Stato di soddisfare
tutti i “diritti umani” che si fanno oggi valere, a cominciare, appunto, da
quelli delle donne, dei “diversi”, dei “migranti”, delle “minoranze”, tutte
categorie che si considerano per principio “oppresse” . Sembra che esistano soggetti che hanno solo
diritti di contro ad altri che hanno solo doveri, a cominciare dallo Stato, il
Soggetto pubblico per eccellenza, il cui fine istituzionale è il bene comune.
Il concetto del
diritto dell’individuo (in passato, diritto naturale accanto al diritto
soggettivo, garantito quest’ultimo dall’ordinamento giuridico o diritto in
senso obbiettivo) si è allargato a quello di diritto dell’essere
vivente e quindi anche degli animali. E persino degli insetti, com’è vero
che alcuni anni fa c’è stato un dibattito alla britannica Camera dei Lords per
vedere se era il caso di estendere agli insetti le sanzioni previste per chi
maltratta gli animali, procurando loro dolore o peggio. L’augusto consesso discusse per ore sulle capacità
di sofferenza dell’insetto ma l’idea demenziale di mandare in galera chi
schiaccia una zanzara o uno scarafaggio alla fine non passò. Si parla oggi tranquillamente di “diritti
degli animali”, senza rendersi conto della singolarità della tesi: non si
riesce a capire come un essere privo della ragione e della coscienza di sè, e quindi per
natura incapace di intendere, volere e parlare come un essere umano, possa
esser considerato titolare di diritti, cosa che comporterebbe anche la
necessità di imputargli dei doveri. Il
diritto, come fenomeno, è tipica espressione della ragione, della quale
Iddio ha dotato solo l’uomo: il suo
regno è quello della volontà razionale, nelle varie forme nelle quali si
esprime.[1]
Contro l’irrazionalismo dominante bisogna
ribadire un tradizionale concetto della scienza e della filosofia del
diritto: non possono esistere diritti
senza doveri corrispondenti, in capo al medesimo individuo. Il soggetto titolare
di diritti, in quanto soggetto razionale, è, per ciò stesso, sottoposto a doveri. Il diritto e il dovere sono concetti che si
implicano a vicenda. E non solo per gli
individui, in una certa misura anche per
le collettività, per i popoli. Il diritto soggettivo implica il dovere da
parte dei terzi di soddisfar le giuste pretese di chi ne è titolare. Il nesso tra diritto e dovere che così si
instaura fa venire in essere una situazione di reciprocità. Infatti, il dovere, secondo il suo concetto,
incombe nei confronti dei terzi anche sul soggetto titolare di un diritto: anch’egli deve a sua volta ottemperare al
dovere di soddisfare le giuste pretese del diritto soggettivo altrui.
L’idea del dovere è
strettamente connessa a quella della giustizia.
Tant’è vero che per Platone la giustizia, come virtù individuale,
consiste essenzialmente nel fare il proprio dovere. Consideriamo questo punto, che mi sembra
della massima importanza per una giusta concezione dell’idea del dovere.
2. La giustizia secondo
Platone: fare il proprio dovere.
Platone àncora l’idea della giustizia a quella
del dovere. Esaminerò sinteticamente
alcuni passi del Critone, il dialogo che descrive la morte di Socrate, e
de La Repubblica, dedicato allo Stato ideale.
Critone, discepolo di
Socrate, intento a salvare la vita all’amato maestro, ormai settantenne,
condannato a morte con la falsa accusa di aver predicato contro la religione e
pertanto corrotto i giovani, andò da
Socrate dicendogli che tutto era pronto per la sua fuga. Ma costui si rifiutò di seguirlo opponendo
una serie di ragionamenti rimasti giustamente esemplari. Socrate aveva una
lingua tagliente e si era fatto molti nemici. L’assemblea popolare di Atene lo
aveva condannato ad una morte senza quasi sofferenza, per avvelenamento
progressivo, da cicuta. Poco tempo dopo
si era pentita e aveva condannato uno o forse due dei suoi tre accusatori a
loro volta a morte, questa volta mediante un supplizio crudele, perché avevano
calunniato un innocente, rovesciando il verdetto iniziale e riabilitando
Socrate, cui fece erigere una statua da Lisippo[2].
Ma vediamo come
Socrate spieghi il concetto della giustizia.
2.1 È ingiusto rispondere
all’ingiustizia con l’ingiustizia.
Critone annunziò a
Socrate che aveva organizzato la sua fuga anche per dimostrare quanto errata
fosse la voce popolare secondo la quale egli, essendo ricco, avrebbe potuto già
influire positivamente sul processo di Socrate “solo che avesse voluto spender
danari”, evidentemente per corrompere i membri dell’assemblea. Da qui una discussione sulla validità dell’opinione: “Ma perché, o buon Critone, dobbiamo
preoccuparci tanto dell’opinione della gente?”[3]. Socrate demolisce l’opinione popolare e “la
potenza del volgo” in quanto fonti di verità:
alcune opinioni sono buone ma altre cattive e il volgo tende ad esser
dominato dalle passioni. Il nostro
comportamento non dobbiamo sottoporlo al giudizio morale del volgo ma al
giudizio della Divinità: “o carissimo,
noi non dobbiamo affatto preoccuparci di quello che potrà dire di noi il volgo,
bensì di ciò solo che potrà dire colui che s’intende del giusto e
dell’ingiusto, giudice unico, ch’è tutt’uno con la verità”[4]. Ora, per il volgo conta soprattutto il vivere
in quanto tale. Per l’uomo razionale,
invece, “non il vivere è da tenere nel più alto conto ma il vivere bene”. E vivere bene “è la stessa cosa che vivere
secondo onestà e secondo giustizia”[5].
Socrate ribadisce
l’ideale greco dello eu zēn , del “viver bene” ossia all’insegna
della virtù (aretē). La
virtù comporta praticare la giustizia, che anzi, come dicevano i poeti,
“riunisce in se stessa ogni virtù”.
Posta l’esigenza che bisogna vivere rispettando “l’onestà e la
giustizia”, sorge allora il problema se sia giusto che Socrate fugga dal
carcere. Non sarebbe giusto, spiega
Socrate, perché “bisogna rimanere fedeli al proprio posto e aspettare con animo
tranquillo, e non darsi pensiero né se si debba morire né se si debba qualunque
altro male patire, piuttosto che commettere ingiustizia”[6]. Egli è stato condannato ingiustamente però
vale ugualmente per lui il dovere di “restare fedele al suo posto” e starsene
tranquillo, anche se sa di dover morire per colpa di quell’ingiusta
condanna. E qual è ora il suo
posto? Quello di un condannato in attesa
dell’esecuzione capitale, sia pure nella forma non crudele di una tazza di
veleno che provoca una lenta e non dolorosa fine. Ma il discorso potrebbe sembrare assurdo senza
la conclusione, che sembra essere una vera e propria causa finale del
comportamento di Socrate. Stabilito il
principio generale che bisogna “restare al proprio posto”, Socrate afferma che
tale principio va applicato anche quando si subisce ingiustizia. Non è troppo?
No, visto che il non applicarlo vorrebbe dire commettere ingiustizia. Non bisogna replicare all’ingiustizia con
l’ingiustizia. Il divieto morale di commettere ingiustizia è
assoluto: “non si deve rendere ingiustizia
né far male ad alcuno degli uomini, neanche da chi abbia qualsivoglia male
patito da costoro”[7].
2.2 Le Leggi spiegano a Socrate perché sarebbe
ingiusto sottrarsi alla pena, anche se inflitta ad un innocente.
Ma perché Socrate commetterebbe
ingiustizia se fuggisse dal carcere? È
stato condannato ingiustamente, è innocente, fuggirebbe per salvare la propria
vita: in cosa consisterebbe
l’ingiustizia? Lo spiega la prosopopea
(personificazione) delle Leggi che compaiono davanti a Socrate assieme “alla città
tutta quanta”. Le Leggi fanno presente a
Socrate che egli deve la sua esistenza a loro poiché senza le Leggi non sarebbe
stato registrato fra i cittadini, non avrebbe avuto un’educazione e non si
sarebbe sposato; che avrebbe potuto andare in esilio prima della sentenza e
che, in alternativa, avrebbe potuto cercare di cambiare la legge in base alla
quale è stato condannato. Ma lui non
aveva sempre detto che preferiva la morte all’esilio? E non è forse legge della Città che le sentenze
debbano valere? Fuggendo, Socrate avrebbe tolto vigore alle sentenze e
distrutto la città. Inoltre, le Leggi e Socrate non sono sullo stesso
piano: “se noi intendiamo fare qualcosa
contro di te, credi di aver diritto anche tu di fare le stesse cose contro di
noi”? Tu riconosci il principio
d’autorità nel padre e nel padrone e non lo riconosci nelle Leggi, mettendoti
sul loro stesso piano? “Se noi tentiamo
di mandare a morte te, reputando che ciò sia giusto, tenterai anche tu con ogni
tuo potere di mandare a morte noi che siamo le leggi e la patria, e dirai che
ciò facendo operi il giusto, tu, il vero e schietto zelatore della virtù?”.
Ti sei dimenticato che
bisogna onorare la Patria più del padre e della madre? La Patria “bisogna persuaderla [a fare il
contrario] o eseguire quello che essa comanda e soffrire se essa comanda di
soffrire, stando in silenzio, sia che si venga percossi, sia che si venga
incatenati, sia che essa mandi in guerra per esser feriti o uccisi; bisogna far
questo perché in ciò consiste la giustizia: che non si deve disertare, né ritirarsi, né
abbandonare il proprio posto, ma, e in guerra e in tribunale e in ogni altro
luogo, bisogna fare quello che la Patria e la Città comandano oppure
persuaderle in che consiste la giustizia”.
Queste parole, non ci
ricordano un antico motto: “potius
mori quam foedari”, meglio la morte che il tradimento? Ma tu, Socrate, concludono le Leggi, non sei
vittima delle Leggi: “tu morirai vittima di un trattamento ingiusto non già da
parte delle Leggi ma da parte degli uomini”.
Sono gli uomini ad aver applicato in modo ingiusto una legge giusta[8]. Giusta è infatti la legge che punisce, anche
con la morte, chi attenta alla religione e corrompe la gioventù.
3. La giustizia è: “fare ciò che è proprio di ciascuno”
Si vede dunque che la giustizia, come
categoria dello spirito che deve esser di guida alle nostre azioni, si fonda
sul concetto del restare al proprio posto facendo il proprio dovere sino in
fondo. Anche se la cosa dovesse costarci,
sino al punto da rimetterci la vita.
Un’idea della giustizia spinta sino all’abnegazione, al di là delle
possibilità umane? Ma qui non si tratta
di stabilire criteri di opportunità, contenenti una casistica di ciò che l’uomo
può effettivamente fare, nella vita di tutti i giorni, ma di fissare i termini
di un dover-essere che si pone necessariamente come una meta trascendente rispetto
alle nostre limitate capacità. Nell’idea
platonica della giustizia si rispecchia un alto ideale morale, che vale per tutti
perché vuole esprimere la parte migliore di ciascuno di noi.
Ciò risulta anche da La
Repubblica. Il dialogo, com’è
noto, verte in prevalenza sui caratteri
dello Stato migliore, nel quale ciascun individuo dovrebbe “attendere a una
sola attività, quella per cui la natura l’ha meglio dotato”. Questa constatazione tira in ballo
immediatamente il concetto della giustizia (dikaiosynē), consistendo esso
“nello esplicare i propri cómpiti”[9],
letteralmente: fare ciò che è proprio
di ciascuno (tá autoû pràttein). Esplicare i propri compiti significa in
sostanza fare il proprio dovere.
Platone sta discutendo
sulle virtù che “rendono buono lo Stato”, gli danno cioè un valido fondamento,
anche e soprattutto sul piano morale. Queste
virtù sono “la temperanza, il coraggio, l’intelligenza”. Ma da sole non bastano. Occorre la giustizia, alla base di
tutto e in quanto operante in tutti: “virtù
presente nel fanciullo, nella donna, nello schiavo, nel libero, nell’artigiano,
nel governante e nel governato, questa virtù per la quale ciascun individuo
esplica il proprio cómpito senza attendere a troppe cose”[10]. La precisazione, “senza attendere a troppe
cose [polypragmonein]”, che altri traduce: “senza occuparsi dei [cómpiti] altrui”, vuol
chiarire ulteriormente il concetto[11].
Non ci deve essere
“uno scambiarsi di posto” e un conseguente “attendere a troppe cose”. Ciò sarebbe una “rovina per lo Stato”, da intendersi in senso allargato, come Respublica
includente anche la società[12]. In effetti, se ognuno debordasse dai propri
limiti naturali e volesse vivere facendo anche “ciò che è proprio degli altri”,
non si creerebbe un disordine permanente, che provocherebbe, alla fine,
l’estinzione della Res publica?
Ora, la giustizia come intesa da Platone è sì funzionale al concetto
dello Stato ma non può esser ridotta ad esso: dimostra di possedere un
significato autonomo, più profondo.
Il significato sembra
essere il seguente: ognuno di noi deve
sempre fare ciò che gli è proprio in conseguenza della sua natura di essere
razionale, natura nello stesso tempo umana e sociale. Il “proprio” secondo natura del fanciullo
sarà, per esempio, quello di rispettare i genitori e obbedir loro, affidandosi
all’opinione e all’insegnamento dei suoi maestri; della donna, quello di essere innanzitutto
madre e moglie, pilastro della famiglia, della casa e per questa via della
società; dello schiavo, di obbedire al padrone e di servirlo onestamente; del
padrone, di trattare con temperanza e correttamente lo schiavo (e ogni servo,
sottoposto), senza umiliarlo o sfruttarlo; e così via. Si mescola qui ciò che appartiene alla
natura umana in quanto tale a ciò che vi si aggiunge in quanto creato dai
rapporti sociali; figure transeunti, come l’istituto della schiavitù. Ma questa mescolanza non appare tale
da indebolire il concetto. È indubbio
che esiste una natura umana costituita in un certo modo da Dio che l’ha creata,
ragion per cui ogni individuo ha in primo luogo il dovere morale di
essere ciò che è per natura ovvero di agire seguendo e attuando sempre
ciò che costituisce il proprio della sua natura.
Così la donna dovrà
vivere secondo il proprio della donna e l’uomo dell’uomo. Questo “proprio” viene influenzato dai
rapporti sociali, storicamente mutevoli.
Ma solo fino ad un certo punto.
Al di sotto del mutamento appare sempre l’elemento immutabile. Nel caso dell’uomo e della donna, il “proprio”
di ciascuno, in relazione all’altro, è sempre stato quello di sentirsi
reciprocamente attratti, di unirsi, di generare insieme figli, di vivere insieme
in quella forma privata e pubblica riconosciuta dalla religione, dal costume, dal diritto, che chiamiamo matrimonio. In una recente manifestazione delle femministe
americane, si leggeva su di un cartello: “difendiamo i nostri diritti
riproduttivi”. Traduco letteralmente
l’espressione: reproductive rights. Ora, si potrebbe credere, a prima vista, che questi “diritti” concernano il diritto ad
esser madri, a procreare. Sappiamo,
invece, che il significato “politicamente corretto” di questa terminologia è
all’opposto quello di “diritto ad abortire liberamente”, per semplice scelta
unilaterale della donna, diritto che si pretende lo Stato debba garantire o
continuare a garantire, se già lo fa. Secondo
il concetto di giustizia qui illustrato, tale “difesa” si rivela ingiusta
perché manifestamente contraria a ciò che costituisce il proprio della
donna in quanto tale, che la natura ha costruito, possiamo dire,
per esser madre non per nullificare volontariamente la propria capacità
riproduttiva.
Il concetto platonico
della giustizia non esaurisce il concetto stesso, come sappiamo. Egli lo elaborò in contrapposizione alle
concezioni dominanti, come riportate nella stessa Repubblica, improntate
ad un diffuso utilitarismo, ad esempio:
“…però rimango del parere che la giustizia consiste nel giovare agli
amici e nel danneggiare i nemici”[13]. L’elaborazione del concetto della giustizia
costituisce uno degli elementi imperituri de La Repubblica, della quale
non possiamo ovviamente accettare la visione utopica, quella del c.d.
“comunismo platonico”, ed altri aspetti.
Se poi il concetto
platonico sembrasse astratto o troppo rigido, si dovrebbe riflettere sul fatto
che l’idea della giustizia presenta sempre qualcosa di rigido ed impersonale,
che fa forza nei nostri confronti perché in qualche modo ci colpisce nei nostri
interessi, nei nostri diritti, e a volte anche nei nostri sentimenti. Questo vale anche per una giustizia che sia
applicata in modo moderato, il che avviene sovente. La giustizia, secondo il
suo concetto, rappresenta sempre ciò che è giusto in sé e va attuato o
imposto perché è giusto, ci piaccia o meno. La giustizia è un valore assoluto, che deve
imporsi anche contro di noi, se necessario.
L’ideale del giusto
nel senso di far sempre ciò che è proprio di ciascuno, in definitiva di far sempre il proprio dovere, illumina la
giustizia soprattutto come virtù. Quando
pensiamo, invece, alla giustizia nel senso di “dare a ciascuno il suo” o della
“uguaglianza di trattamento” nei rapporti scambievoli, aspetti messi
particolarmente in luce da Aristotele, nel V Libro dell’Etica nicomachea, ce
la rappresentiamo come criterio di giudizio ossia come regola, norma. Qual è, infatti, la norma cui deve ispirarsi
un giudice, un arbitro e, in una certa misura, anche il legislatore? Dare a ciascuno il suo, secondo i suoi meriti
e le sue colpe; regolare in modo uguale situazioni uguali. Regolare in modo uguale
situazioni tra loro disuguali, o addirittura opposte, sarebbe ingiusto: e questa è, appunto, l’ingiustizia dell’ugualitarismo,
visione del mondo che vuole imporre l’uguaglianza assoluta in tutti i
campi ed anche tra i sessi, cancellando di proposito tutte le differenze
naturali: non uguaglianza nonostante le
differenze e quindi realisticamente limitata al possibile bensì uguaglianza per
cancellare tutte le differenze, violentare la natura umana. Un’utopia insensata, storicamente causa di
grandi e ripetute catastrofi.
La regola di giustizia
del “dare a ciascuno il suo”, secondo la nostra Fede cattolica, sarà applicata
infallibilmente dal Cristo Giudice nei confronti dell’anima di ciascuno di noi,
appena morti, come è ricordato nell’Atto di fede: “…E credo in Gesù Cristo, Figlio di Dio,
incarnato e morto per noi, il quale darà a ciascuno, secondo i meriti, il premio
o la pena eterni”. Possiamo dire: darà a ciascuno il suo, a seconda di come
avrà attuato nella sua vita terrena ciò che costituiva per natura il proprio
di lui stesso.
4. Il nesso tra diritto e giustizia.
Non si devono
confondere istanze giuridiche ed istanze morali, non si deve far confusione tra
sfera del diritto e sfera della giustizia, la cui natura è eminentemente etica,
applicandosi in essa i principi morali fondamentali.
Tuttavia, osservo, come non è possibile
elidere il nesso tra il diritto e il dovere, visto che l’uno implica l’altro –
e l’idea del dovere ha un fondamento etico oltre che logico; del pari non sembra possibile recidere quello
tra diritto e giustizia. La distinzione
fra il diritto e la morale deve esser mantenuta, tuttavia essa non esclude quel
nesso tra diritto e morale rappresentato dall’esigenza della giustizia cioè dal
fatto che: 1. il diritto positivo deve
riconoscere quale diritto del soggetto istanze intrinsecamente buone, positive,
in definitiva giuste; 2. In quanto si attui in una legge posta da un
legislatore, non può comunque violare il principio della giustizia, come
espressoda una corretta gerarchia delle leggi.
Consideriamo il primo punto.
ll diritto del
soggetto o diritto soggettivo è stato sempre inteso quale manifestazione
della libera volontà del soggetto, riconosciuta in vario modo dall’ordinamento
giuridico. La definizione tradizionale
meglio calibrata sembra esser stata, alla fine, quella che interpreta questa
libera volontà non in termini di “interesse protetto” bensì in termini di potere. Così sintetizzata da un autorevole filosofo
del diritto del passato recente: in
senso proprio, “il diritto soggettivo è il potere individuale di esigere un
comportamento conforme all’ordinamento vigente”.[14] La precisazione che il comportamento che si
esige deve essere “conforme all’ordinamento vigente” chiarisce che non è
riconosciuto al soggetto il potere di esigere dai terzi un comportamento non
conforme all’ordinamento vigente ossia illecito : un potere vòlto a questo fine non può
costituire un diritto.
L’ordinamento si può intendere in vari
modi. Come ordinamento statuale o
sistema di diritto codificato da un legislatore che è lo Stato, oppure come
complesso organico di usi e costumi, diritto consuetudinario, non scritto ma
non per questo meno effettivo in relazione all’efficacia delle sue norme. Il riconoscimento del diritto del soggetto
può anche esser invocato sulla base del diritto naturale, per esempio quando si
afferma il “diritto alla vita” del nascituro sin dal momento del concepimento. In ogni caso, il concetto di un diritto del
soggetto o soggettivo individua una sfera di capacità e situazioni
dell’individuo considerate meritevoli di tutela.
Se approfondiamo
questo punto vediamo emergere il nesso tra diritto e morale. Infatti, se ci chiediamo: meritevoli, perché? Solo per esser ciò che l’individuo vuole o
desidera o perché considerate in se stesse giuste? Se la conformità a giustizia delle capacità e
situazioni che l’individuo pretende di veder riconosciute e tutelate si deve
ammettere quale requisito essenziale del riconoscimento da parte
dell’ordinamento giuridico, allora ecco apparire un sicuro nesso tra il diritto
del soggetto e la giustizia, onde potremmo dire che : il diritto soggettivo è la giusta pretesa
di un soggetto. Non una quasiasi
pretesa del soggetto ma solo quella giusta.
È chiaro che numerose
norme di un ordinamento giuridico non hanno a che fare direttamente con l’idea
della giustizia: il nesso di cui sopra
sarebbe pertanto indiretto. Infatti,
cosa c’entrano con la giustizia le numerose norme di vario tipo che nel tempo
si costruiscono attorno ad ogni istituto giuridico o a tutte le norme che
disciplinano una determinata attività, per esempio nell’ambito del diritto
commerciale, per non parlare del rimanente del diritto privato? Sono in generale norme di attuazione, una
foresta di leggi e regolamenti che spazia in ambito regionale, statale,
sovranazionale; norme dette anche
“tecniche”.
Facciamo tuttavia un
esempio. Se chiedo la licenza per
iniziare un’attività commerciale mi verrà concessa se l’autorità sarà convinta
dell’onestà del mio fine; del fatto cioè
che non la chiedo per spacciare droga o far traffico di merci di contrabbando o
rubate. Ciò significa che la mia pretesa
appare giusta agli occhi dell’autorità perché conforme agli scopi leciti del
commercio, attività di diritto privato ammessa, protetta ed anche incoraggiata
dall’ordinamento. E perché l’ordinamento
giuridico disciplina e protegge queste attività dei privati? Perché lo scopo dell’ordinamento non si
distingue da quello per il quale esiste quella polis o res publica che
chiamiamo Stato.
Lo Stato, infatti, a prescindere dalla sua
forma di governo, è quell’istituzione il cui fine è la realizzazione del bene
comune, corrispondente a quello che Aristotele, sulla scia di Platone, chiamava
il “viver bene” (eu zēn). Gli uomini, scrive, vivono creando sempre una
società ma che sia capace di realizzare un tipo di vita che sia buono: “neppure si sono raccolti solo per vivere,
bensì per viver bene”[15]. Questo “viver bene” quale fine della polis
non va confuso con le alleanze volontarie fra Stati a fini militari od economici,
realtà nelle quali si guarda a salvaguardare la giustizia solo nei rapporti
“l’uno contro l’altro”. Al contrario,
esso ricomprende sia il benessere materiale che quello spirituale. Infatti, “quanti si prendono pensiero del buon
governo badano alla virtù e alla cattiveria esistenti nell’ambito dello
Stato. Di qui è chiaro che deve prendersi
cura della virtù lo Stato veramente degno di questo nome e che non sia tale
solo a parole; ché allora la comunità diviene un’alleanza, differente soltanto
per il luogo dalle altre alleanze, quelle cioè che si stringono tra genti lontane,
e la legge una convenzione, la quale, per usare le parole del sofista
Licofrone, è garante di quel che è giusto da uomo a uomo ma non atta a render i
cittadini buoni e giusti”[16].
Il legislatore che “si
prende cura della virtù dei suoi cittadini” è quello che cerca di attuare la
giustizia. Cittadini “buoni e giusti”
saranno quelli le cui attività, disciplinate dal legislatore, avranno luogo per
fini “buoni e giusti”, come quelli di un’onesta attività commerciale o di
fondazione di una famiglia tra l’uomo e
la donna per la procreazione e l’educazione di figli. Anzi, lo Stato che tenga conto del principio
della giustizia non può disinteressarsi della virtù dei cittadini: combatterà
il vizio in tutte le sue forme, si assicurerà che le famiglie crescano in un
clima moralmente sano, provvedendo per quanto sta ad esso alla pubblica e
privata moralità e decoro. E sempre valuterà
di fatto la rilevanza etica (liceità sul piano morale) delle pretese che
costituiscono il contenuto dei diritti soggettivi fatti via via valere dai consociati.
Ma dovrà la classe
dirigente dare l’esempio di quella virtù che essa deve imporre con le leggi ai
cittadini e dalla quale non può comunque prescindere. Su quest’aspetto molto ha insistito Cicerone
nei suoi libri sulle Leggi e sullo Stato.
Riprendendo la massima diffusa da poeti e filosofi greci secondo la
quale “tutte le virtù dipendono dalla giustizia”, egli sottolinea che senza
l’esempio dei governanti, per lui soprattutto gli Ottimati, non c’è giustizia
che tenga: “..io credo invece che i
costumi delle città si trasformino col mutare del tenore di vita dei
nobili. Per questo i maggiorenti
corrotti arrecano il maggior danno allo Stato, perché non solo contraggono essi
stessi i vizi, ma li trasmettono alla cittadinanza. Né solamente nuocciono perché si lasciano
andare alla corruttela, ma perché anche corrompono, e nuocciono piú con
l’esempio che con il loro traviamento”[17].
E questo perché “virtus in usu sui
tota posita est”, la virtù è tutta nella sua stessa attuazione non nei bei
discorsi[18].
Ma l’esigenza della
giustizia della pretesa del soggetto resta sempre sullo sfondo, quale
ineliminabile Leitmotiv, anche dove non compare direttamente. Come
annotava Adolf Trendelenburg, illustre storico della filosofia, acuto logico e
acuto critico di Kant e di Hegel, in un articolo del 1862: “Nella misura in cui
le leggi esistono per comporre i conflitti, esse mantengono quell’evoluto
principio secondo il quale ci si trova in presenza di rapporti scaturenti dalla
vita di relazione: ma non lo manterrebbero
se non lo presupponessero eticamente valido.
In questo senso innanzitutto ogni diritto vuole conservare un’esistenza
conforme all’etica [ein sittlichen Dasein]. E quand’essa viene negata nel caso
particolare, è la sanzione a ristabilire la potenza dell’eticità, mantenendo
intatto nella sua univesalità il principio morale, messo in pericolo dalla
singola trasgressione”[19].
Pertanto, secondo
Trendelenburg la morale deve sempre esser presupposta al diritto, pur restando
ben chiara la distinzione tra le due sfere:
sfera esterna o della legalità quella del diritto; sfera interna della
legge morale quella dell’eticità, che obbliga in coscienza. Tra legalità e moralità non ci deve essere
sovrapposizione; c’è però connessione[20]. E difatti, lo stesso diritto positivo in
molteplici casi vuole capire quale sia l’effettiva intenzione del soggetto
agente, al fine di una esatta valuzione giuridica del suo comportamento.
Consideriamo ora il
secondo punto.
Qui abbiamo a che fare
con un problema diverso, costituito da una concezione intransigente del
rapporto tra diritto e giustizia in relazione alla norma posta dallo Stato:
alla Legge, nella quale si manifesta la pretesa del Soggetto pubblico, norma
che esige da noi piena osservanza.
Non ci chiediamo sempre
se sia giusta?
Ma san Tommaso,
rifacendosi a sant’Agostino, afferma non
esser la legge ingiusta vera legge: “lex
tyrannica, cum non sit secundum rationem, non est simpliciter lex, sed magis
est quaedam perversitas legis.”[21]
La “lex tyrannica” è per definizione quella
che non si cura del bene comune, che deve costituire il fine razionale di ogni
legge: si intende, un bene comune “secundum iustitiam divinam regulatum”.[22]
Una simile legge dovrà ritenersi sommamente
ingiusta, tanto più quanto si dimostri avversa al bene comune. Il “bene comune”, secondo la filosofia del
diritto cattolica tradizionale ossia tomistica, deve sempre esser perseguito
dal diritto positivo in modo da non violare mai né la legge naturale né quella
divina che la sorregge.[23] E difatti, san Tommaso ribadisce,
richiamandosi a sant’Agostino che la legge ingiusta deve ritenersi “legis
corruptio”.[24] Poiché ogni legge umana “in tanto possiede la
ratio legis in quanto derivi dalla legge naturale, se si discosta in qualcosa dalla
legge naturale non sarà legge ma corruzione della legge”[25].
La legge naturale
riposa sulla legge divina, ciò spiega la radicalità della conclusione cui
giunge l’Aquinate: violare la legge di
natura significa in realtà violare la legge divina ad essa sottesa. Dopo almeno un secolo di storicismo e
soprattutto di positivismo, che hanno entrambi concorso a far sparire il
concetto del diritto naturale dalla filosofia del diritto, la negazione tomista
del carattere di legge alla legge ingiusta può apparire del tutto indebita. Ma
la legge ingiusta della quale parla qui il dottor Angelico non è, ad esempio,
quella che ci aumenti le tasse o instauri la leva obbligatoria. È quella che viola
la legge naturale, inscindibilmente connessa alla legge divina, poiché la
gerarchia delle leggi si basa sempre sulla Causa Prima, costituita da Dio creatore. Pertanto, sembra perfettamente applicabile,
il punto di vista dell’Aquinate, a quelle leggi che violino in modo tale
l’esigenza del bene comune da configurare un vulnus nel diritto naturale stesso
e quindi nella legge divina. E in questa
categoria non rientrano forse leggi come quelle che riconoscono come diritto
della madre l’aborto procurato, da potersi effettuare per di più con il
contributo economico dello Stato? Qui la
violazione dell’esigenza del bene comune di un popolo e di una società appare
evidente, contribuendo ampiamente l’abortismo diffuso alla denatalità e alla corruzione
dei costumi, cose ovviamente del tutto opposte a quel “viver bene” dei
consociati che dovrebbe costituire il fine dello Stato e del suo ordinamento
giuridico e quindi del vero legislatore.
E in questa categoria non rientrano forse anche quelle leggi che
riconoscono come “matrimoni” le convivenze di omosessuali di entrambi i sessi? E per gli stessi motivi appena elencati a
proposito del diritto all’aborto.
L’elenco di queste triste leggi potrebbe continuare - pensiamo per
esempio all’allucinante legislazione sul cosiddetto “transgenderismo” - ma possiamo fermarci qui.
Voglio concludere la
mia riflessione con un’ultima considerazione, che mi sembra tuttavia della
massima importanza: c h i stabilisce la conformità a giustizia della
pretesa del soggetto? Può forse essere
il soggetto portatore della pretesa stessa?
In linea di principio, non può.
Per due ragioni principali: 1. sarebbe
giudice in causa propria; 2. essendoci tot capita tot sententiae, la
vita di relazione si dissolverebbe nell’anarchia, ovvero in un pluralismo indiscriminato
ed incontrollabile di pretese individuali le più diverse e persino opposte, che
esigono di esser prese tutte in considerazione come diritti da tutelare.
Occorre un criterio oggettivo
per stabilire la giustizia di ogni pretesa del soggetto individuale. Questo
criterio può esser costituito solo da una norma cui commisurare la
pretesa, una norma sottratta alla disponibilità dei soggetti, che nello stesso
tempo devono riconoscerla come vincolante per tutti. La “norma” nella realtà di fatto è costituita
dal complesso di norme di carattere morale che formano il sistema di valori di
una determinata società e del suo ordinamento giuridico. È
sulla base di questi valori, coinvolgenti l’idea della giustizia, che si
è sempre valutata la pretesa individuale ad esser riconosciutta come diritto
soggettivo (vedi supra).
Questo significa che
il diritto non può “scaturire dal fatto” in senso assoluto. Il principio pur esso tradizionale secondo il
quale “ex facto ius oritur” può avere un significato solo relativo. Relativo, nel senso che non ogni fatto
ovvero non ogni realtà sociale emergente può esser considerata meritevole di
tutela: bisogna che la pretesa della
quale si fa portatrice questa emergente realtà sociale, grande o piccola che
sia, sia una pretesa giusta, come si è detto. Non è sufficiente che sia spontanea,
anche in considerazione del fatto che spesso la “spontaneità” di certe pretese
è solo apparente o del tutto artificiosa.
Pertanto, la pretesa emergente abbisogna di una valutazione di conformità
ai valori fondamentali dell’ordinamento, che sono in genere valori religiosi,
morali, politici, di costume. Tale
valutazione dovrebbe costituire la discriminante in base alla quale concedere
la tutela del diritto ai fenomeni sociali nuovi o rifiutarla. E questa
valutazione non è mai solo giuridica. È anche politica, ma forse soprattutto etica
e coinvolge giustizia e diritto.
La presente,
irrazionale atmosfera culturale ha invece portato ad affermare in modo assoluto
il principio “ex facto ius oritur”.
Quante volte si è sentito e si sente tuttora dire che i costumi sono
cambiati e il legislatore, sia laico che ecclesiastico, deve solo trarne le
conclusioni prendendo atto del cambiamento e munendolo delle necessarie
provvidenze di legge? I costumi sono
indubbiamente cambiati ma non bisogna forse chiedersi se in peggio o in
meglio? Non dobbiamo porci questa
domanda? E soprattutto non se la deve
porre il legislatore? Se i cambiamenti
nei costumi hanno comportato, tra altre cose, una messa in pericolo così
radicale del bene comune, come quella sopra ricordata, non dovrebbe il
legislatore combattere tali cambiamenti setacciando in primo luogo i buoni dai
cattivi? In ogni caso, non dovrebbe
evitare di limitarsi a prendere atto di certe distruttive tendenze sociali, cessando
dal comportasi come un semplice notaio dei desiderata dei più violenti e
meglio organizzati ?
1 novembre 2025
[1] Un’articolata ed efficace confutazione delle teorie
di propugnatori della “liberazione degli animali” sulla base dei loro supposti
“diritti”, si trova nel saggio
dell’eclettico, ultimo teorico del conservatorismo di marca inglese, il
filosofo anglicano Roger Scruton, 1944-2020.
Vedi il suo saggio del 1996: Gli
animali hanno diritti?, tr. it. di Daniela Damiani, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008. Ciò non significa che non sia giusto punire
la crudeltà contro gli animali: ma la
motivazione della pena è data (secondo una tesi tradizionale) dal senso di
compassione e di sdegno che l’infierire crudelmente su animali o persone
provoca in noi. Sul punto, vedi I. Kant, La metafisica dei costumi,
1798, tr. it. di G. Vidari, rivista da Nikolao Merker, Laterza, Bari, 1970,
pp. 304-305 (è il § 17 della parte dedicata
alla virtù e all’etica).
[2]
Per la vita di Socrate: Diogene Laerzio,
Vite dei filosofi, a cura di Marcello Gigante, TEA, Milano, 1991, pp.
54-64.
[3] Critone
44 c. Mi sono servito della tr. it. di
Manara Valgimigli, in: Platone, Opere, Laterza, Bari, 1966, vol. I, pp.
73-91; pp. 76-77.
[4]
Op. cit., 48 a; tr.it., p. 81.
[5]
Op. cit., 48 b; tr. it., p. 82.
[6]
Op. cit., 48 c; tr. it., p. 82.
[7]
Op. cit., 49 c.; tr. it., p. 83.
[8] Ho
riassunto la Prosopopea delle Leggi dalla traduzione del Critone
citata: 50-54; pp. 86-91.
[9] La
Repubblica, 433 b, in Platone, Opere, cit., II vol., p. 256. La traduzione è di Franco Sartori.
[10] Op.cit., 433 d; tr.it., p. 256.
[11] Platone, La Repubblica, a cura di
Giuseppe Lozza, tr. it. con testo a fronte, Mondadori, 1990, pp. 317. L’originale greco è quello curato per Les
Belles Lettres da E. Chambry.
[12] La Repubblica, 434 b; tr. it. di F. Sartori, cit., p. 257.
[13] 334 a, b; tr. it. di G. Lozza, cit., p. 27.
[14] Widar Cesarini Sforza, voce : Diritto
soggettivo, in: Enciclopedia del
diritto, XII, Delitto-Diritto, Giuffrè Editore, Milano, 1964. Accentuando maggiormente il momento
coercitivo: “diritto soggettivo significa
potere di costringere direttamente o indirettamente colui che è obbligato”
(Norberto Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, raccolta di
saggi, edizioni di comunità, Milano, 1972, p. 164).
[15] Aristotele, La politica, tr. it., introd.
note e indici a cura di Renato Laurenti, Laterza, Bari, 1966, p. 132 (1280a).
[16] Op. cit., pp. 132 (1280b). Vedi anche Etica Nicomachea, tr. it.
di Armando Plebe, Laterza, Bari, 1965, p. 30 (1103b): “I legislatori rendono buoni i cittadini,
abituandoli al bene e questo è il volere di ogni legislatore, e quelli che non
lo effettuano bene mancano al loro scopo e in ciò differisce una città ben
ordinata da una mal governata”.
[17]
Marco Tullio Cicerone, Le Leggi, a cura di Filippo Cancelli, Arnoldo
Mondadori Editore, 1969, ediz. critica con testo latino a fronte, pp. 242-244.
[18]
Marco Tullio Cicerone, Lo Stato, a cura di Filippo Cancelli, Arnoldo
Mondadori Editore, 1989, ediz. critica con testo latino a fronte, p. 181.
[19] Adolf Trendelenburg, Die Definition des
Rechts, in: Werner Maihofer (a cura di), Begriff und Wesen des Rechts,
WBG, Darmstadt, 1973, pp. 17-25; p. 22.
Si tratta di un’antologia di testi di illustri giuristi e filosofi del
diritto tedeschi e austriaci tra Ottocento e Novecento.
[20] Sulla distinzione fra legalità e moralità una
pagina esemplare si ha notoriamente nella kantiana Introduzione alla sua
Metafisica dei costumi, tr. it. cit., pp. 14-15.
[21] Summa
Theol., Ia – IIae,
q. 92 a. 1.
[22] Ibidem, a. 1
[23] Vedi la quaestio 91 della Summa appena
citata, che si occupa dei vari tipi di legge e della loro gerarchia.
[24] Op. cit., q. 95 a. 2 .
[25] Op. cit., ivi.
Il passo di sant’Agostino citato è :
“non videtur esse lex, quae iusta non fuerit” (I De Lib. Arb.,
cap. 5).
Riflessioni
su diritto e giustizia
di Paolo
Pasqualucci
Sommario : 1. Non esistono diritti
senza doveri. 2. La giustizia secondo Platone: fare il proprio dovere. 2.1
È ingiusto rispondere con l’ingiustizia all’ingiustizia. 2.2
Le Leggi spiegano a Socrate perché sarebbe ingiusto sosttrarsi alla
pena, anche se inflitta ad un innocente.
3. La giustizia è “fare
ciò che è proprio di ciascuno”. 4. Il nesso tra diritto e giustizia.
1. Non esistono diritti
senza doveri.
Il concetto della
giustizia sembra oggi invocato soprattutto nel senso di giustizia sociale oppure in connessione ai
cosiddetti “diritti umani”, termine che ha sostituito quello di “diritti
naturali”. In ogni caso, in relazione
all’idea di un diritto da soddisfare, da proteggere. Ma esiste anche una stretta relazione tra
l’idea della giustizia e quella del dovere. Oggi si fa un gran parlare dei “diritti”,
soprattutto dei “diritti umani”. Ma dei
doveri non si parla mai o quasi. Sui
media veniamo bombardati quasi ogni giorno da denunce e perorazioni in favore,
in particolare, dei “diritti delle donne”, dei “migranti”, delle “minoranze”, soprattutto quelle dei
cosiddetti diversi. L’idea del dovere
viene impiegata principalmente per indicare il dovere dello Stato di soddisfare
tutti i “diritti umani” che si fanno oggi valere, a cominciare, appunto, da
quelli delle donne, dei “diversi”, dei “migranti”, delle “minoranze”, tutte
categorie che si considerano per principio “oppresse” . Sembra che esistano soggetti che hanno solo
diritti di contro ad altri che hanno solo doveri, a cominciare dallo Stato, il
Soggetto pubblico per eccellenza, il cui fine istituzionale è il bene comune.
Il concetto del
diritto dell’individuo (in passato, diritto naturale accanto al diritto
soggettivo, garantito quest’ultimo dall’ordinamento giuridico o diritto in
senso obbiettivo) si è allargato a quello di diritto dell’essere
vivente e quindi anche degli animali. E persino degli insetti, com’è vero
che alcuni anni fa c’è stato un dibattito alla britannica Camera dei Lords per
vedere se era il caso di estendere agli insetti le sanzioni previste per chi
maltratta gli animali, procurando loro dolore o peggio. L’augusto consesso discusse per ore sulle capacità
di sofferenza dell’insetto ma l’idea demenziale di mandare in galera chi
schiaccia una zanzara o uno scarafaggio alla fine non passò. Si parla oggi tranquillamente di “diritti
degli animali”, senza rendersi conto della singolarità della tesi: non si
riesce a capire come un essere privo della ragione e della coscienza di sè, e quindi per
natura incapace di intendere, volere e parlare come un essere umano, possa
esser considerato titolare di diritti, cosa che comporterebbe anche la
necessità di imputargli dei doveri. Il
diritto, come fenomeno, è tipica espressione della ragione, della quale
Iddio ha dotato solo l’uomo: il suo
regno è quello della volontà razionale, nelle varie forme nelle quali si
esprime.[1]
Contro l’irrazionalismo dominante bisogna
ribadire un tradizionale concetto della scienza e della filosofia del
diritto: non possono esistere diritti
senza doveri corrispondenti, in capo al medesimo individuo. Il soggetto titolare
di diritti, in quanto soggetto razionale, è, per ciò stesso, sottoposto a doveri. Il diritto e il dovere sono concetti che si
implicano a vicenda. E non solo per gli
individui, in una certa misura anche per
le collettività, per i popoli. Il diritto soggettivo implica il dovere da
parte dei terzi di soddisfar le giuste pretese di chi ne è titolare. Il nesso tra diritto e dovere che così si
instaura fa venire in essere una situazione di reciprocità. Infatti, il dovere, secondo il suo concetto,
incombe nei confronti dei terzi anche sul soggetto titolare di un diritto: anch’egli deve a sua volta ottemperare al
dovere di soddisfare le giuste pretese del diritto soggettivo altrui.
L’idea del dovere è
strettamente connessa a quella della giustizia.
Tant’è vero che per Platone la giustizia, come virtù individuale,
consiste essenzialmente nel fare il proprio dovere. Consideriamo questo punto, che mi sembra
della massima importanza per una giusta concezione dell’idea del dovere.
2. La giustizia secondo
Platone: fare il proprio dovere.
Platone àncora l’idea della giustizia a quella
del dovere. Esaminerò sinteticamente
alcuni passi del Critone, il dialogo che descrive la morte di Socrate, e
de La Repubblica, dedicato allo Stato ideale.
Critone, discepolo di
Socrate, intento a salvare la vita all’amato maestro, ormai settantenne,
condannato a morte con la falsa accusa di aver predicato contro la religione e
pertanto corrotto i giovani, andò da
Socrate dicendogli che tutto era pronto per la sua fuga. Ma costui si rifiutò di seguirlo opponendo
una serie di ragionamenti rimasti giustamente esemplari. Socrate aveva una
lingua tagliente e si era fatto molti nemici. L’assemblea popolare di Atene lo
aveva condannato ad una morte senza quasi sofferenza, per avvelenamento
progressivo, da cicuta. Poco tempo dopo
si era pentita e aveva condannato uno o forse due dei suoi tre accusatori a
loro volta a morte, questa volta mediante un supplizio crudele, perché avevano
calunniato un innocente, rovesciando il verdetto iniziale e riabilitando
Socrate, cui fece erigere una statua da Lisippo[2].
Ma vediamo come
Socrate spieghi il concetto della giustizia.
2.1 È ingiusto rispondere
all’ingiustizia con l’ingiustizia.
Critone annunziò a
Socrate che aveva organizzato la sua fuga anche per dimostrare quanto errata
fosse la voce popolare secondo la quale egli, essendo ricco, avrebbe potuto già
influire positivamente sul processo di Socrate “solo che avesse voluto spender
danari”, evidentemente per corrompere i membri dell’assemblea. Da qui una discussione sulla validità dell’opinione: “Ma perché, o buon Critone, dobbiamo
preoccuparci tanto dell’opinione della gente?”[3]. Socrate demolisce l’opinione popolare e “la
potenza del volgo” in quanto fonti di verità:
alcune opinioni sono buone ma altre cattive e il volgo tende ad esser
dominato dalle passioni. Il nostro
comportamento non dobbiamo sottoporlo al giudizio morale del volgo ma al
giudizio della Divinità: “o carissimo,
noi non dobbiamo affatto preoccuparci di quello che potrà dire di noi il volgo,
bensì di ciò solo che potrà dire colui che s’intende del giusto e
dell’ingiusto, giudice unico, ch’è tutt’uno con la verità”[4]. Ora, per il volgo conta soprattutto il vivere
in quanto tale. Per l’uomo razionale,
invece, “non il vivere è da tenere nel più alto conto ma il vivere bene”. E vivere bene “è la stessa cosa che vivere
secondo onestà e secondo giustizia”[5].
Socrate ribadisce
l’ideale greco dello eu zēn , del “viver bene” ossia all’insegna
della virtù (aretē). La
virtù comporta praticare la giustizia, che anzi, come dicevano i poeti,
“riunisce in se stessa ogni virtù”.
Posta l’esigenza che bisogna vivere rispettando “l’onestà e la
giustizia”, sorge allora il problema se sia giusto che Socrate fugga dal
carcere. Non sarebbe giusto, spiega
Socrate, perché “bisogna rimanere fedeli al proprio posto e aspettare con animo
tranquillo, e non darsi pensiero né se si debba morire né se si debba qualunque
altro male patire, piuttosto che commettere ingiustizia”[6]. Egli è stato condannato ingiustamente però
vale ugualmente per lui il dovere di “restare fedele al suo posto” e starsene
tranquillo, anche se sa di dover morire per colpa di quell’ingiusta
condanna. E qual è ora il suo
posto? Quello di un condannato in attesa
dell’esecuzione capitale, sia pure nella forma non crudele di una tazza di
veleno che provoca una lenta e non dolorosa fine. Ma il discorso potrebbe sembrare assurdo senza
la conclusione, che sembra essere una vera e propria causa finale del
comportamento di Socrate. Stabilito il
principio generale che bisogna “restare al proprio posto”, Socrate afferma che
tale principio va applicato anche quando si subisce ingiustizia. Non è troppo?
No, visto che il non applicarlo vorrebbe dire commettere ingiustizia. Non bisogna replicare all’ingiustizia con
l’ingiustizia. Il divieto morale di commettere ingiustizia è
assoluto: “non si deve rendere ingiustizia
né far male ad alcuno degli uomini, neanche da chi abbia qualsivoglia male
patito da costoro”[7].
2.2 Le Leggi spiegano a Socrate perché sarebbe
ingiusto sottrarsi alla pena, anche se inflitta ad un innocente.
Ma perché Socrate commetterebbe
ingiustizia se fuggisse dal carcere? È
stato condannato ingiustamente, è innocente, fuggirebbe per salvare la propria
vita: in cosa consisterebbe
l’ingiustizia? Lo spiega la prosopopea
(personificazione) delle Leggi che compaiono davanti a Socrate assieme “alla città
tutta quanta”. Le Leggi fanno presente a
Socrate che egli deve la sua esistenza a loro poiché senza le Leggi non sarebbe
stato registrato fra i cittadini, non avrebbe avuto un’educazione e non si
sarebbe sposato; che avrebbe potuto andare in esilio prima della sentenza e
che, in alternativa, avrebbe potuto cercare di cambiare la legge in base alla
quale è stato condannato. Ma lui non
aveva sempre detto che preferiva la morte all’esilio? E non è forse legge della Città che le sentenze
debbano valere? Fuggendo, Socrate avrebbe tolto vigore alle sentenze e
distrutto la città. Inoltre, le Leggi e Socrate non sono sullo stesso
piano: “se noi intendiamo fare qualcosa
contro di te, credi di aver diritto anche tu di fare le stesse cose contro di
noi”? Tu riconosci il principio
d’autorità nel padre e nel padrone e non lo riconosci nelle Leggi, mettendoti
sul loro stesso piano? “Se noi tentiamo
di mandare a morte te, reputando che ciò sia giusto, tenterai anche tu con ogni
tuo potere di mandare a morte noi che siamo le leggi e la patria, e dirai che
ciò facendo operi il giusto, tu, il vero e schietto zelatore della virtù?”.
Ti sei dimenticato che
bisogna onorare la Patria più del padre e della madre? La Patria “bisogna persuaderla [a fare il
contrario] o eseguire quello che essa comanda e soffrire se essa comanda di
soffrire, stando in silenzio, sia che si venga percossi, sia che si venga
incatenati, sia che essa mandi in guerra per esser feriti o uccisi; bisogna far
questo perché in ciò consiste la giustizia: che non si deve disertare, né ritirarsi, né
abbandonare il proprio posto, ma, e in guerra e in tribunale e in ogni altro
luogo, bisogna fare quello che la Patria e la Città comandano oppure
persuaderle in che consiste la giustizia”.
Queste parole, non ci
ricordano un antico motto: “potius
mori quam foedari”, meglio la morte che il tradimento? Ma tu, Socrate, concludono le Leggi, non sei
vittima delle Leggi: “tu morirai vittima di un trattamento ingiusto non già da
parte delle Leggi ma da parte degli uomini”.
Sono gli uomini ad aver applicato in modo ingiusto una legge giusta[8]. Giusta è infatti la legge che punisce, anche
con la morte, chi attenta alla religione e corrompe la gioventù.
3. La giustizia è: “fare ciò che è proprio di ciascuno”
Si vede dunque che la giustizia, come
categoria dello spirito che deve esser di guida alle nostre azioni, si fonda
sul concetto del restare al proprio posto facendo il proprio dovere sino in
fondo. Anche se la cosa dovesse costarci,
sino al punto da rimetterci la vita.
Un’idea della giustizia spinta sino all’abnegazione, al di là delle
possibilità umane? Ma qui non si tratta
di stabilire criteri di opportunità, contenenti una casistica di ciò che l’uomo
può effettivamente fare, nella vita di tutti i giorni, ma di fissare i termini
di un dover-essere che si pone necessariamente come una meta trascendente rispetto
alle nostre limitate capacità. Nell’idea
platonica della giustizia si rispecchia un alto ideale morale, che vale per tutti
perché vuole esprimere la parte migliore di ciascuno di noi.
Ciò risulta anche da La
Repubblica. Il dialogo, com’è
noto, verte in prevalenza sui caratteri
dello Stato migliore, nel quale ciascun individuo dovrebbe “attendere a una
sola attività, quella per cui la natura l’ha meglio dotato”. Questa constatazione tira in ballo
immediatamente il concetto della giustizia (dikaiosynē), consistendo esso
“nello esplicare i propri cómpiti”[9],
letteralmente: fare ciò che è proprio
di ciascuno (tá autoû pràttein). Esplicare i propri compiti significa in
sostanza fare il proprio dovere.
Platone sta discutendo
sulle virtù che “rendono buono lo Stato”, gli danno cioè un valido fondamento,
anche e soprattutto sul piano morale. Queste
virtù sono “la temperanza, il coraggio, l’intelligenza”. Ma da sole non bastano. Occorre la giustizia, alla base di
tutto e in quanto operante in tutti: “virtù
presente nel fanciullo, nella donna, nello schiavo, nel libero, nell’artigiano,
nel governante e nel governato, questa virtù per la quale ciascun individuo
esplica il proprio cómpito senza attendere a troppe cose”[10]. La precisazione, “senza attendere a troppe
cose [polypragmonein]”, che altri traduce: “senza occuparsi dei [cómpiti] altrui”, vuol
chiarire ulteriormente il concetto[11].
Non ci deve essere
“uno scambiarsi di posto” e un conseguente “attendere a troppe cose”. Ciò sarebbe una “rovina per lo Stato”, da intendersi in senso allargato, come Respublica
includente anche la società[12]. In effetti, se ognuno debordasse dai propri
limiti naturali e volesse vivere facendo anche “ciò che è proprio degli altri”,
non si creerebbe un disordine permanente, che provocherebbe, alla fine,
l’estinzione della Res publica?
Ora, la giustizia come intesa da Platone è sì funzionale al concetto
dello Stato ma non può esser ridotta ad esso: dimostra di possedere un
significato autonomo, più profondo.
Il significato sembra
essere il seguente: ognuno di noi deve
sempre fare ciò che gli è proprio in conseguenza della sua natura di essere
razionale, natura nello stesso tempo umana e sociale. Il “proprio” secondo natura del fanciullo
sarà, per esempio, quello di rispettare i genitori e obbedir loro, affidandosi
all’opinione e all’insegnamento dei suoi maestri; della donna, quello di essere innanzitutto
madre e moglie, pilastro della famiglia, della casa e per questa via della
società; dello schiavo, di obbedire al padrone e di servirlo onestamente; del
padrone, di trattare con temperanza e correttamente lo schiavo (e ogni servo,
sottoposto), senza umiliarlo o sfruttarlo; e così via. Si mescola qui ciò che appartiene alla
natura umana in quanto tale a ciò che vi si aggiunge in quanto creato dai
rapporti sociali; figure transeunti, come l’istituto della schiavitù. Ma questa mescolanza non appare tale
da indebolire il concetto. È indubbio
che esiste una natura umana costituita in un certo modo da Dio che l’ha creata,
ragion per cui ogni individuo ha in primo luogo il dovere morale di
essere ciò che è per natura ovvero di agire seguendo e attuando sempre
ciò che costituisce il proprio della sua natura.
Così la donna dovrà
vivere secondo il proprio della donna e l’uomo dell’uomo. Questo “proprio” viene influenzato dai
rapporti sociali, storicamente mutevoli.
Ma solo fino ad un certo punto.
Al di sotto del mutamento appare sempre l’elemento immutabile. Nel caso dell’uomo e della donna, il “proprio”
di ciascuno, in relazione all’altro, è sempre stato quello di sentirsi
reciprocamente attratti, di unirsi, di generare insieme figli, di vivere insieme
in quella forma privata e pubblica riconosciuta dalla religione, dal costume, dal diritto, che chiamiamo matrimonio. In una recente manifestazione delle femministe
americane, si leggeva su di un cartello: “difendiamo i nostri diritti
riproduttivi”. Traduco letteralmente
l’espressione: reproductive rights. Ora, si potrebbe credere, a prima vista, che questi “diritti” concernano il diritto ad
esser madri, a procreare. Sappiamo,
invece, che il significato “politicamente corretto” di questa terminologia è
all’opposto quello di “diritto ad abortire liberamente”, per semplice scelta
unilaterale della donna, diritto che si pretende lo Stato debba garantire o
continuare a garantire, se già lo fa. Secondo
il concetto di giustizia qui illustrato, tale “difesa” si rivela ingiusta
perché manifestamente contraria a ciò che costituisce il proprio della
donna in quanto tale, che la natura ha costruito, possiamo dire,
per esser madre non per nullificare volontariamente la propria capacità
riproduttiva.
Il concetto platonico
della giustizia non esaurisce il concetto stesso, come sappiamo. Egli lo elaborò in contrapposizione alle
concezioni dominanti, come riportate nella stessa Repubblica, improntate
ad un diffuso utilitarismo, ad esempio:
“…però rimango del parere che la giustizia consiste nel giovare agli
amici e nel danneggiare i nemici”[13]. L’elaborazione del concetto della giustizia
costituisce uno degli elementi imperituri de La Repubblica, della quale
non possiamo ovviamente accettare la visione utopica, quella del c.d.
“comunismo platonico”, ed altri aspetti.
Se poi il concetto
platonico sembrasse astratto o troppo rigido, si dovrebbe riflettere sul fatto
che l’idea della giustizia presenta sempre qualcosa di rigido ed impersonale,
che fa forza nei nostri confronti perché in qualche modo ci colpisce nei nostri
interessi, nei nostri diritti, e a volte anche nei nostri sentimenti. Questo vale anche per una giustizia che sia
applicata in modo moderato, il che avviene sovente. La giustizia, secondo il
suo concetto, rappresenta sempre ciò che è giusto in sé e va attuato o
imposto perché è giusto, ci piaccia o meno. La giustizia è un valore assoluto, che deve
imporsi anche contro di noi, se necessario.
L’ideale del giusto
nel senso di far sempre ciò che è proprio di ciascuno, in definitiva di far sempre il proprio dovere, illumina la
giustizia soprattutto come virtù. Quando
pensiamo, invece, alla giustizia nel senso di “dare a ciascuno il suo” o della
“uguaglianza di trattamento” nei rapporti scambievoli, aspetti messi
particolarmente in luce da Aristotele, nel V Libro dell’Etica nicomachea, ce
la rappresentiamo come criterio di giudizio ossia come regola, norma. Qual è, infatti, la norma cui deve ispirarsi
un giudice, un arbitro e, in una certa misura, anche il legislatore? Dare a ciascuno il suo, secondo i suoi meriti
e le sue colpe; regolare in modo uguale situazioni uguali. Regolare in modo uguale
situazioni tra loro disuguali, o addirittura opposte, sarebbe ingiusto: e questa è, appunto, l’ingiustizia dell’ugualitarismo,
visione del mondo che vuole imporre l’uguaglianza assoluta in tutti i
campi ed anche tra i sessi, cancellando di proposito tutte le differenze
naturali: non uguaglianza nonostante le
differenze e quindi realisticamente limitata al possibile bensì uguaglianza per
cancellare tutte le differenze, violentare la natura umana. Un’utopia insensata, storicamente causa di
grandi e ripetute catastrofi.
La regola di giustizia
del “dare a ciascuno il suo”, secondo la nostra Fede cattolica, sarà applicata
infallibilmente dal Cristo Giudice nei confronti dell’anima di ciascuno di noi,
appena morti, come è ricordato nell’Atto di fede: “…E credo in Gesù Cristo, Figlio di Dio,
incarnato e morto per noi, il quale darà a ciascuno, secondo i meriti, il premio
o la pena eterni”. Possiamo dire: darà a ciascuno il suo, a seconda di come
avrà attuato nella sua vita terrena ciò che costituiva per natura il proprio
di lui stesso.
4. Il nesso tra diritto e giustizia.
Non si devono
confondere istanze giuridiche ed istanze morali, non si deve far confusione tra
sfera del diritto e sfera della giustizia, la cui natura è eminentemente etica,
applicandosi in essa i principi morali fondamentali.
Tuttavia, osservo, come non è possibile
elidere il nesso tra il diritto e il dovere, visto che l’uno implica l’altro –
e l’idea del dovere ha un fondamento etico oltre che logico; del pari non sembra possibile recidere quello
tra diritto e giustizia. La distinzione
fra il diritto e la morale deve esser mantenuta, tuttavia essa non esclude quel
nesso tra diritto e morale rappresentato dall’esigenza della giustizia cioè dal
fatto che: 1. il diritto positivo deve
riconoscere quale diritto del soggetto istanze intrinsecamente buone, positive,
in definitiva giuste; 2. In quanto si attui in una legge posta da un
legislatore, non può comunque violare il principio della giustizia, come
espressoda una corretta gerarchia delle leggi.
Consideriamo il primo punto.
ll diritto del
soggetto o diritto soggettivo è stato sempre inteso quale manifestazione
della libera volontà del soggetto, riconosciuta in vario modo dall’ordinamento
giuridico. La definizione tradizionale
meglio calibrata sembra esser stata, alla fine, quella che interpreta questa
libera volontà non in termini di “interesse protetto” bensì in termini di potere. Così sintetizzata da un autorevole filosofo
del diritto del passato recente: in
senso proprio, “il diritto soggettivo è il potere individuale di esigere un
comportamento conforme all’ordinamento vigente”.[14] La precisazione che il comportamento che si
esige deve essere “conforme all’ordinamento vigente” chiarisce che non è
riconosciuto al soggetto il potere di esigere dai terzi un comportamento non
conforme all’ordinamento vigente ossia illecito : un potere vòlto a questo fine non può
costituire un diritto.
L’ordinamento si può intendere in vari
modi. Come ordinamento statuale o
sistema di diritto codificato da un legislatore che è lo Stato, oppure come
complesso organico di usi e costumi, diritto consuetudinario, non scritto ma
non per questo meno effettivo in relazione all’efficacia delle sue norme. Il riconoscimento del diritto del soggetto
può anche esser invocato sulla base del diritto naturale, per esempio quando si
afferma il “diritto alla vita” del nascituro sin dal momento del concepimento. In ogni caso, il concetto di un diritto del
soggetto o soggettivo individua una sfera di capacità e situazioni
dell’individuo considerate meritevoli di tutela.
Se approfondiamo
questo punto vediamo emergere il nesso tra diritto e morale. Infatti, se ci chiediamo: meritevoli, perché? Solo per esser ciò che l’individuo vuole o
desidera o perché considerate in se stesse giuste? Se la conformità a giustizia delle capacità e
situazioni che l’individuo pretende di veder riconosciute e tutelate si deve
ammettere quale requisito essenziale del riconoscimento da parte
dell’ordinamento giuridico, allora ecco apparire un sicuro nesso tra il diritto
del soggetto e la giustizia, onde potremmo dire che : il diritto soggettivo è la giusta pretesa
di un soggetto. Non una quasiasi
pretesa del soggetto ma solo quella giusta.
È chiaro che numerose
norme di un ordinamento giuridico non hanno a che fare direttamente con l’idea
della giustizia: il nesso di cui sopra
sarebbe pertanto indiretto. Infatti,
cosa c’entrano con la giustizia le numerose norme di vario tipo che nel tempo
si costruiscono attorno ad ogni istituto giuridico o a tutte le norme che
disciplinano una determinata attività, per esempio nell’ambito del diritto
commerciale, per non parlare del rimanente del diritto privato? Sono in generale norme di attuazione, una
foresta di leggi e regolamenti che spazia in ambito regionale, statale,
sovranazionale; norme dette anche
“tecniche”.
Facciamo tuttavia un
esempio. Se chiedo la licenza per
iniziare un’attività commerciale mi verrà concessa se l’autorità sarà convinta
dell’onestà del mio fine; del fatto cioè
che non la chiedo per spacciare droga o far traffico di merci di contrabbando o
rubate. Ciò significa che la mia pretesa
appare giusta agli occhi dell’autorità perché conforme agli scopi leciti del
commercio, attività di diritto privato ammessa, protetta ed anche incoraggiata
dall’ordinamento. E perché l’ordinamento
giuridico disciplina e protegge queste attività dei privati? Perché lo scopo dell’ordinamento non si
distingue da quello per il quale esiste quella polis o res publica che
chiamiamo Stato.
Lo Stato, infatti, a prescindere dalla sua
forma di governo, è quell’istituzione il cui fine è la realizzazione del bene
comune, corrispondente a quello che Aristotele, sulla scia di Platone, chiamava
il “viver bene” (eu zēn). Gli uomini, scrive, vivono creando sempre una
società ma che sia capace di realizzare un tipo di vita che sia buono: “neppure si sono raccolti solo per vivere,
bensì per viver bene”[15]. Questo “viver bene” quale fine della polis
non va confuso con le alleanze volontarie fra Stati a fini militari od economici,
realtà nelle quali si guarda a salvaguardare la giustizia solo nei rapporti
“l’uno contro l’altro”. Al contrario,
esso ricomprende sia il benessere materiale che quello spirituale. Infatti, “quanti si prendono pensiero del buon
governo badano alla virtù e alla cattiveria esistenti nell’ambito dello
Stato. Di qui è chiaro che deve prendersi
cura della virtù lo Stato veramente degno di questo nome e che non sia tale
solo a parole; ché allora la comunità diviene un’alleanza, differente soltanto
per il luogo dalle altre alleanze, quelle cioè che si stringono tra genti lontane,
e la legge una convenzione, la quale, per usare le parole del sofista
Licofrone, è garante di quel che è giusto da uomo a uomo ma non atta a render i
cittadini buoni e giusti”[16].
Il legislatore che “si
prende cura della virtù dei suoi cittadini” è quello che cerca di attuare la
giustizia. Cittadini “buoni e giusti”
saranno quelli le cui attività, disciplinate dal legislatore, avranno luogo per
fini “buoni e giusti”, come quelli di un’onesta attività commerciale o di
fondazione di una famiglia tra l’uomo e
la donna per la procreazione e l’educazione di figli. Anzi, lo Stato che tenga conto del principio
della giustizia non può disinteressarsi della virtù dei cittadini: combatterà
il vizio in tutte le sue forme, si assicurerà che le famiglie crescano in un
clima moralmente sano, provvedendo per quanto sta ad esso alla pubblica e
privata moralità e decoro. E sempre valuterà
di fatto la rilevanza etica (liceità sul piano morale) delle pretese che
costituiscono il contenuto dei diritti soggettivi fatti via via valere dai consociati.
Ma dovrà la classe
dirigente dare l’esempio di quella virtù che essa deve imporre con le leggi ai
cittadini e dalla quale non può comunque prescindere. Su quest’aspetto molto ha insistito Cicerone
nei suoi libri sulle Leggi e sullo Stato.
Riprendendo la massima diffusa da poeti e filosofi greci secondo la
quale “tutte le virtù dipendono dalla giustizia”, egli sottolinea che senza
l’esempio dei governanti, per lui soprattutto gli Ottimati, non c’è giustizia
che tenga: “..io credo invece che i
costumi delle città si trasformino col mutare del tenore di vita dei
nobili. Per questo i maggiorenti
corrotti arrecano il maggior danno allo Stato, perché non solo contraggono essi
stessi i vizi, ma li trasmettono alla cittadinanza. Né solamente nuocciono perché si lasciano
andare alla corruttela, ma perché anche corrompono, e nuocciono piú con
l’esempio che con il loro traviamento”[17].
E questo perché “virtus in usu sui
tota posita est”, la virtù è tutta nella sua stessa attuazione non nei bei
discorsi[18].
Ma l’esigenza della
giustizia della pretesa del soggetto resta sempre sullo sfondo, quale
ineliminabile Leitmotiv, anche dove non compare direttamente. Come
annotava Adolf Trendelenburg, illustre storico della filosofia, acuto logico e
acuto critico di Kant e di Hegel, in un articolo del 1862: “Nella misura in cui
le leggi esistono per comporre i conflitti, esse mantengono quell’evoluto
principio secondo il quale ci si trova in presenza di rapporti scaturenti dalla
vita di relazione: ma non lo manterrebbero
se non lo presupponessero eticamente valido.
In questo senso innanzitutto ogni diritto vuole conservare un’esistenza
conforme all’etica [ein sittlichen Dasein]. E quand’essa viene negata nel caso
particolare, è la sanzione a ristabilire la potenza dell’eticità, mantenendo
intatto nella sua univesalità il principio morale, messo in pericolo dalla
singola trasgressione”[19].
Pertanto, secondo
Trendelenburg la morale deve sempre esser presupposta al diritto, pur restando
ben chiara la distinzione tra le due sfere:
sfera esterna o della legalità quella del diritto; sfera interna della
legge morale quella dell’eticità, che obbliga in coscienza. Tra legalità e moralità non ci deve essere
sovrapposizione; c’è però connessione[20]. E difatti, lo stesso diritto positivo in
molteplici casi vuole capire quale sia l’effettiva intenzione del soggetto
agente, al fine di una esatta valuzione giuridica del suo comportamento.
Consideriamo ora il
secondo punto.
Qui abbiamo a che fare
con un problema diverso, costituito da una concezione intransigente del
rapporto tra diritto e giustizia in relazione alla norma posta dallo Stato:
alla Legge, nella quale si manifesta la pretesa del Soggetto pubblico, norma
che esige da noi piena osservanza.
Non ci chiediamo sempre
se sia giusta?
Ma san Tommaso,
rifacendosi a sant’Agostino, afferma non
esser la legge ingiusta vera legge: “lex
tyrannica, cum non sit secundum rationem, non est simpliciter lex, sed magis
est quaedam perversitas legis.”[21]
La “lex tyrannica” è per definizione quella
che non si cura del bene comune, che deve costituire il fine razionale di ogni
legge: si intende, un bene comune “secundum iustitiam divinam regulatum”.[22]
Una simile legge dovrà ritenersi sommamente
ingiusta, tanto più quanto si dimostri avversa al bene comune. Il “bene comune”, secondo la filosofia del
diritto cattolica tradizionale ossia tomistica, deve sempre esser perseguito
dal diritto positivo in modo da non violare mai né la legge naturale né quella
divina che la sorregge.[23] E difatti, san Tommaso ribadisce,
richiamandosi a sant’Agostino che la legge ingiusta deve ritenersi “legis
corruptio”.[24] Poiché ogni legge umana “in tanto possiede la
ratio legis in quanto derivi dalla legge naturale, se si discosta in qualcosa dalla
legge naturale non sarà legge ma corruzione della legge”[25].
La legge naturale
riposa sulla legge divina, ciò spiega la radicalità della conclusione cui
giunge l’Aquinate: violare la legge di
natura significa in realtà violare la legge divina ad essa sottesa. Dopo almeno un secolo di storicismo e
soprattutto di positivismo, che hanno entrambi concorso a far sparire il
concetto del diritto naturale dalla filosofia del diritto, la negazione tomista
del carattere di legge alla legge ingiusta può apparire del tutto indebita. Ma
la legge ingiusta della quale parla qui il dottor Angelico non è, ad esempio,
quella che ci aumenti le tasse o instauri la leva obbligatoria. È quella che viola
la legge naturale, inscindibilmente connessa alla legge divina, poiché la
gerarchia delle leggi si basa sempre sulla Causa Prima, costituita da Dio creatore. Pertanto, sembra perfettamente applicabile,
il punto di vista dell’Aquinate, a quelle leggi che violino in modo tale
l’esigenza del bene comune da configurare un vulnus nel diritto naturale stesso
e quindi nella legge divina. E in questa
categoria non rientrano forse leggi come quelle che riconoscono come diritto
della madre l’aborto procurato, da potersi effettuare per di più con il
contributo economico dello Stato? Qui la
violazione dell’esigenza del bene comune di un popolo e di una società appare
evidente, contribuendo ampiamente l’abortismo diffuso alla denatalità e alla corruzione
dei costumi, cose ovviamente del tutto opposte a quel “viver bene” dei
consociati che dovrebbe costituire il fine dello Stato e del suo ordinamento
giuridico e quindi del vero legislatore.
E in questa categoria non rientrano forse anche quelle leggi che
riconoscono come “matrimoni” le convivenze di omosessuali di entrambi i sessi? E per gli stessi motivi appena elencati a
proposito del diritto all’aborto.
L’elenco di queste triste leggi potrebbe continuare - pensiamo per
esempio all’allucinante legislazione sul cosiddetto “transgenderismo” - ma possiamo fermarci qui.
Voglio concludere la
mia riflessione con un’ultima considerazione, che mi sembra tuttavia della
massima importanza: c h i stabilisce la conformità a giustizia della
pretesa del soggetto? Può forse essere
il soggetto portatore della pretesa stessa?
In linea di principio, non può.
Per due ragioni principali: 1. sarebbe
giudice in causa propria; 2. essendoci tot capita tot sententiae, la
vita di relazione si dissolverebbe nell’anarchia, ovvero in un pluralismo indiscriminato
ed incontrollabile di pretese individuali le più diverse e persino opposte, che
esigono di esser prese tutte in considerazione come diritti da tutelare.
Occorre un criterio oggettivo
per stabilire la giustizia di ogni pretesa del soggetto individuale. Questo
criterio può esser costituito solo da una norma cui commisurare la
pretesa, una norma sottratta alla disponibilità dei soggetti, che nello stesso
tempo devono riconoscerla come vincolante per tutti. La “norma” nella realtà di fatto è costituita
dal complesso di norme di carattere morale che formano il sistema di valori di
una determinata società e del suo ordinamento giuridico. È
sulla base di questi valori, coinvolgenti l’idea della giustizia, che si
è sempre valutata la pretesa individuale ad esser riconosciutta come diritto
soggettivo (vedi supra).
Questo significa che
il diritto non può “scaturire dal fatto” in senso assoluto. Il principio pur esso tradizionale secondo il
quale “ex facto ius oritur” può avere un significato solo relativo. Relativo, nel senso che non ogni fatto
ovvero non ogni realtà sociale emergente può esser considerata meritevole di
tutela: bisogna che la pretesa della
quale si fa portatrice questa emergente realtà sociale, grande o piccola che
sia, sia una pretesa giusta, come si è detto. Non è sufficiente che sia spontanea,
anche in considerazione del fatto che spesso la “spontaneità” di certe pretese
è solo apparente o del tutto artificiosa.
Pertanto, la pretesa emergente abbisogna di una valutazione di conformità
ai valori fondamentali dell’ordinamento, che sono in genere valori religiosi,
morali, politici, di costume. Tale
valutazione dovrebbe costituire la discriminante in base alla quale concedere
la tutela del diritto ai fenomeni sociali nuovi o rifiutarla. E questa
valutazione non è mai solo giuridica. È anche politica, ma forse soprattutto etica
e coinvolge giustizia e diritto.
La presente,
irrazionale atmosfera culturale ha invece portato ad affermare in modo assoluto
il principio “ex facto ius oritur”.
Quante volte si è sentito e si sente tuttora dire che i costumi sono
cambiati e il legislatore, sia laico che ecclesiastico, deve solo trarne le
conclusioni prendendo atto del cambiamento e munendolo delle necessarie
provvidenze di legge? I costumi sono
indubbiamente cambiati ma non bisogna forse chiedersi se in peggio o in
meglio? Non dobbiamo porci questa
domanda? E soprattutto non se la deve
porre il legislatore? Se i cambiamenti
nei costumi hanno comportato, tra altre cose, ad una messa in pericolo così
radicale del bene comune, come quella sopra ricordata, non dovrebbe il
legislatore combattere tali cambiamenti setacciando in primo luogo i buoni dai
cattivi? In ogni caso, non dovrebbe
evitare di limitarsi a prendere atto di certe distruttive tendenze sociali, cessando
dal comportandosi come un semplice notaio dei desiderata dei più violenti e
meglio organizzati ?
1 novembre 2025
[1] Un’articolata ed efficace confutazione delle teorie
di propugnatori della “liberazione degli animali” sulla base dei loro supposti
“diritti”, si trova nel saggio
dell’eclettico, ultimo teorico del conservatorismo di marca inglese, il
filosofo anglicano Roger Scruton, 1944-2020.
Vedi il suo saggio del 1996: Gli
animali hanno diritti?, tr. it. di Daniela Damiani, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008. Ciò non significa che non sia giusto punire
la crudeltà contro gli animali: ma la
motivazione della pena è data (secondo una tesi tradizionale) dal senso di
compassione e di sdegno che l’infierire crudelmente su animali o persone
provoca in noi. Sul punto, vedi I. Kant, La metafisica dei costumi,
1798, tr. it. di G. Vidari, rivista da Nikolao Merker, Laterza, Bari, 1970,
pp. 304-305 (è il § 17 della parte dedicata
alla virtù e all’etica).
[2]
Per la vita di Socrate: Diogene Laerzio,
Vite dei filosofi, a cura di Marcello Gigante, TEA, Milano, 1991, pp.
54-64.
[3] Critone
44 c. Mi sono servito della tr. it. di
Manara Valgimigli, in: Platone, Opere, Laterza, Bari, 1966, vol. I, pp.
73-91; pp. 76-77.
[4]
Op. cit., 48 a; tr.it., p. 81.
[5]
Op. cit., 48 b; tr. it., p. 82.
[6]
Op. cit., 48 c; tr. it., p. 82.
[7]
Op. cit., 49 c.; tr. it., p. 83.
[8] Ho
riassunto la Prosopopea delle Leggi dalla traduzione del Critone
citata: 50-54; pp. 86-91.
[9] La
Repubblica, 433 b, in Platone, Opere, cit., II vol., p. 256. La traduzione è di Franco Sartori.
[10] Op.cit., 433 d; tr.it., p. 256.
[11] Platone, La Repubblica, a cura di
Giuseppe Lozza, tr. it. con testo a fronte, Mondadori, 1990, pp. 317. L’originale greco è quello curato per Les
Belles Lettres da E. Chambry.
[12] La Repubblica, 434 b; tr. it. di F. Sartori, cit., p. 257.
[13] 334 a, b; tr. it. di G. Lozza, cit., p. 27.
[14] Widar Cesarini Sforza, voce : Diritto
soggettivo, in: Enciclopedia del
diritto, XII, Delitto-Diritto, Giuffrè Editore, Milano, 1964. Accentuando maggiormente il momento
coercitivo: “diritto soggettivo significa
potere di costringere direttamente o indirettamente colui che è obbligato”
(Norberto Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, raccolta di
saggi, edizioni di comunità, Milano, 1972, p. 164).
[15] Aristotele, La politica, tr. it., introd.
note e indici a cura di Renato Laurenti, Laterza, Bari, 1966, p. 132 (1280a).
[16] Op. cit., pp. 132 (1280b). Vedi anche Etica Nicomachea, tr. it.
di Armando Plebe, Laterza, Bari, 1965, p. 30 (1103b): “I legislatori rendono buoni i cittadini,
abituandoli al bene e questo è il volere di ogni legislatore, e quelli che non
lo effettuano bene mancano al loro scopo e in ciò differisce una città ben
ordinata da una mal governata”.
[17]
Marco Tullio Cicerone, Le Leggi, a cura di Filippo Cancelli, Arnoldo
Mondadori Editore, 1969, ediz. critica con testo latino a fronte, pp. 242-244.
[18]
Marco Tullio Cicerone, Lo Stato, a cura di Filippo Cancelli, Arnoldo
Mondadori Editore, 1989, ediz. critica con testo latino a fronte, p. 181.
[19] Adolf Trendelenburg, Die Definition des
Rechts, in: Werner Maihofer (a cura di), Begriff und Wesen des Rechts,
WBG, Darmstadt, 1973, pp. 17-25; p. 22.
Si tratta di un’antologia di testi di illustri giuristi e filosofi del
diritto tedeschi e austriaci tra Ottocento e Novecento.
[20] Sulla distinzione fra legalità e moralità una
pagina esemplare si ha notoriamente nella kantiana Introduzione alla sua
Metafisica dei costumi, tr. it. cit., pp. 14-15.
[21] Summa
Theol., Ia – IIae,
q. 92 a. 1.
[22] Ibidem, a. 1
[23] Vedi la quaestio 91 della Summa appena
citata, che si occupa dei vari tipi di legge e della loro gerarchia.
[24] Op. cit., q. 95 a. 2 .
[25] Op. cit., ivi.
Il passo di sant’Agostino citato è :
“non videtur esse lex, quae iusta non fuerit” (I De Lib. Arb.,
cap. 5).
Riflessioni
su diritto e giustizia
di Paolo
Pasqualucci
Sommario : 1. Non esistono diritti
senza doveri. 2. La giustizia secondo Platone: fare il proprio dovere. 2.1
È ingiusto rispondere con l’ingiustizia all’ingiustizia. 2.2
Le Leggi spiegano a Socrate perché sarebbe ingiusto sosttrarsi alla
pena, anche se inflitta ad un innocente.
3. La giustizia è “fare
ciò che è proprio di ciascuno”. 4. Il nesso tra diritto e giustizia.
1. Non esistono diritti
senza doveri.
Il concetto della
giustizia sembra oggi invocato soprattutto nel senso di giustizia sociale oppure in connessione ai
cosiddetti “diritti umani”, termine che ha sostituito quello di “diritti
naturali”. In ogni caso, in relazione
all’idea di un diritto da soddisfare, da proteggere. Ma esiste anche una stretta relazione tra
l’idea della giustizia e quella del dovere. Oggi si fa un gran parlare dei “diritti”,
soprattutto dei “diritti umani”. Ma dei
doveri non si parla mai o quasi. Sui
media veniamo bombardati quasi ogni giorno da denunce e perorazioni in favore,
in particolare, dei “diritti delle donne”, dei “migranti”, delle “minoranze”, soprattutto quelle dei
cosiddetti diversi. L’idea del dovere
viene impiegata principalmente per indicare il dovere dello Stato di soddisfare
tutti i “diritti umani” che si fanno oggi valere, a cominciare, appunto, da
quelli delle donne, dei “diversi”, dei “migranti”, delle “minoranze”, tutte
categorie che si considerano per principio “oppresse” . Sembra che esistano soggetti che hanno solo
diritti di contro ad altri che hanno solo doveri, a cominciare dallo Stato, il
Soggetto pubblico per eccellenza, il cui fine istituzionale è il bene comune.
Il concetto del
diritto dell’individuo (in passato, diritto naturale accanto al diritto
soggettivo, garantito quest’ultimo dall’ordinamento giuridico o diritto in
senso obbiettivo) si è allargato a quello di diritto dell’essere
vivente e quindi anche degli animali. E persino degli insetti, com’è vero
che alcuni anni fa c’è stato un dibattito alla britannica Camera dei Lords per
vedere se era il caso di estendere agli insetti le sanzioni previste per chi
maltratta gli animali, procurando loro dolore o peggio. L’augusto consesso discusse per ore sulle capacità
di sofferenza dell’insetto ma l’idea demenziale di mandare in galera chi
schiaccia una zanzara o uno scarafaggio alla fine non passò. Si parla oggi tranquillamente di “diritti
degli animali”, senza rendersi conto della singolarità della tesi: non si
riesce a capire come un essere privo della ragione e della coscienza di sè, e quindi per
natura incapace di intendere, volere e parlare come un essere umano, possa
esser considerato titolare di diritti, cosa che comporterebbe anche la
necessità di imputargli dei doveri. Il
diritto, come fenomeno, è tipica espressione della ragione, della quale
Iddio ha dotato solo l’uomo: il suo
regno è quello della volontà razionale, nelle varie forme nelle quali si
esprime.[1]
Contro l’irrazionalismo dominante bisogna
ribadire un tradizionale concetto della scienza e della filosofia del
diritto: non possono esistere diritti
senza doveri corrispondenti, in capo al medesimo individuo. Il soggetto titolare
di diritti, in quanto soggetto razionale, è, per ciò stesso, sottoposto a doveri. Il diritto e il dovere sono concetti che si
implicano a vicenda. E non solo per gli
individui, in una certa misura anche per
le collettività, per i popoli. Il diritto soggettivo implica il dovere da
parte dei terzi di soddisfar le giuste pretese di chi ne è titolare. Il nesso tra diritto e dovere che così si
instaura fa venire in essere una situazione di reciprocità. Infatti, il dovere, secondo il suo concetto,
incombe nei confronti dei terzi anche sul soggetto titolare di un diritto: anch’egli deve a sua volta ottemperare al
dovere di soddisfare le giuste pretese del diritto soggettivo altrui.
L’idea del dovere è
strettamente connessa a quella della giustizia.
Tant’è vero che per Platone la giustizia, come virtù individuale,
consiste essenzialmente nel fare il proprio dovere. Consideriamo questo punto, che mi sembra
della massima importanza per una giusta concezione dell’idea del dovere.
2. La giustizia secondo
Platone: fare il proprio dovere.
Platone àncora l’idea della giustizia a quella
del dovere. Esaminerò sinteticamente
alcuni passi del Critone, il dialogo che descrive la morte di Socrate, e
de La Repubblica, dedicato allo Stato ideale.
Critone, discepolo di
Socrate, intento a salvare la vita all’amato maestro, ormai settantenne,
condannato a morte con la falsa accusa di aver predicato contro la religione e
pertanto corrotto i giovani, andò da
Socrate dicendogli che tutto era pronto per la sua fuga. Ma costui si rifiutò di seguirlo opponendo
una serie di ragionamenti rimasti giustamente esemplari. Socrate aveva una
lingua tagliente e si era fatto molti nemici. L’assemblea popolare di Atene lo
aveva condannato ad una morte senza quasi sofferenza, per avvelenamento
progressivo, da cicuta. Poco tempo dopo
si era pentita e aveva condannato uno o forse due dei suoi tre accusatori a
loro volta a morte, questa volta mediante un supplizio crudele, perché avevano
calunniato un innocente, rovesciando il verdetto iniziale e riabilitando
Socrate, cui fece erigere una statua da Lisippo[2].
Ma vediamo come
Socrate spieghi il concetto della giustizia.
2.1 È ingiusto rispondere
all’ingiustizia con l’ingiustizia.
Critone annunziò a
Socrate che aveva organizzato la sua fuga anche per dimostrare quanto errata
fosse la voce popolare secondo la quale egli, essendo ricco, avrebbe potuto già
influire positivamente sul processo di Socrate “solo che avesse voluto spender
danari”, evidentemente per corrompere i membri dell’assemblea. Da qui una discussione sulla validità dell’opinione: “Ma perché, o buon Critone, dobbiamo
preoccuparci tanto dell’opinione della gente?”[3]. Socrate demolisce l’opinione popolare e “la
potenza del volgo” in quanto fonti di verità:
alcune opinioni sono buone ma altre cattive e il volgo tende ad esser
dominato dalle passioni. Il nostro
comportamento non dobbiamo sottoporlo al giudizio morale del volgo ma al
giudizio della Divinità: “o carissimo,
noi non dobbiamo affatto preoccuparci di quello che potrà dire di noi il volgo,
bensì di ciò solo che potrà dire colui che s’intende del giusto e
dell’ingiusto, giudice unico, ch’è tutt’uno con la verità”[4]. Ora, per il volgo conta soprattutto il vivere
in quanto tale. Per l’uomo razionale,
invece, “non il vivere è da tenere nel più alto conto ma il vivere bene”. E vivere bene “è la stessa cosa che vivere
secondo onestà e secondo giustizia”[5].
Socrate ribadisce
l’ideale greco dello eu zēn , del “viver bene” ossia all’insegna
della virtù (aretē). La
virtù comporta praticare la giustizia, che anzi, come dicevano i poeti,
“riunisce in se stessa ogni virtù”.
Posta l’esigenza che bisogna vivere rispettando “l’onestà e la
giustizia”, sorge allora il problema se sia giusto che Socrate fugga dal
carcere. Non sarebbe giusto, spiega
Socrate, perché “bisogna rimanere fedeli al proprio posto e aspettare con animo
tranquillo, e non darsi pensiero né se si debba morire né se si debba qualunque
altro male patire, piuttosto che commettere ingiustizia”[6]. Egli è stato condannato ingiustamente però
vale ugualmente per lui il dovere di “restare fedele al suo posto” e starsene
tranquillo, anche se sa di dover morire per colpa di quell’ingiusta
condanna. E qual è ora il suo
posto? Quello di un condannato in attesa
dell’esecuzione capitale, sia pure nella forma non crudele di una tazza di
veleno che provoca una lenta e non dolorosa fine. Ma il discorso potrebbe sembrare assurdo senza
la conclusione, che sembra essere una vera e propria causa finale del
comportamento di Socrate. Stabilito il
principio generale che bisogna “restare al proprio posto”, Socrate afferma che
tale principio va applicato anche quando si subisce ingiustizia. Non è troppo?
No, visto che il non applicarlo vorrebbe dire commettere ingiustizia. Non bisogna replicare all’ingiustizia con
l’ingiustizia. Il divieto morale di commettere ingiustizia è
assoluto: “non si deve rendere ingiustizia
né far male ad alcuno degli uomini, neanche da chi abbia qualsivoglia male
patito da costoro”[7].
2.2 Le Leggi spiegano a Socrate perché sarebbe
ingiusto sottrarsi alla pena, anche se inflitta ad un innocente.
Ma perché Socrate commetterebbe
ingiustizia se fuggisse dal carcere? È
stato condannato ingiustamente, è innocente, fuggirebbe per salvare la propria
vita: in cosa consisterebbe
l’ingiustizia? Lo spiega la prosopopea
(personificazione) delle Leggi che compaiono davanti a Socrate assieme “alla città
tutta quanta”. Le Leggi fanno presente a
Socrate che egli deve la sua esistenza a loro poiché senza le Leggi non sarebbe
stato registrato fra i cittadini, non avrebbe avuto un’educazione e non si
sarebbe sposato; che avrebbe potuto andare in esilio prima della sentenza e
che, in alternativa, avrebbe potuto cercare di cambiare la legge in base alla
quale è stato condannato. Ma lui non
aveva sempre detto che preferiva la morte all’esilio? E non è forse legge della Città che le sentenze
debbano valere? Fuggendo, Socrate avrebbe tolto vigore alle sentenze e
distrutto la città. Inoltre, le Leggi e Socrate non sono sullo stesso
piano: “se noi intendiamo fare qualcosa
contro di te, credi di aver diritto anche tu di fare le stesse cose contro di
noi”? Tu riconosci il principio
d’autorità nel padre e nel padrone e non lo riconosci nelle Leggi, mettendoti
sul loro stesso piano? “Se noi tentiamo
di mandare a morte te, reputando che ciò sia giusto, tenterai anche tu con ogni
tuo potere di mandare a morte noi che siamo le leggi e la patria, e dirai che
ciò facendo operi il giusto, tu, il vero e schietto zelatore della virtù?”.
Ti sei dimenticato che
bisogna onorare la Patria più del padre e della madre? La Patria “bisogna persuaderla [a fare il
contrario] o eseguire quello che essa comanda e soffrire se essa comanda di
soffrire, stando in silenzio, sia che si venga percossi, sia che si venga
incatenati, sia che essa mandi in guerra per esser feriti o uccisi; bisogna far
questo perché in ciò consiste la giustizia: che non si deve disertare, né ritirarsi, né
abbandonare il proprio posto, ma, e in guerra e in tribunale e in ogni altro
luogo, bisogna fare quello che la Patria e la Città comandano oppure
persuaderle in che consiste la giustizia”.
Queste parole, non ci
ricordano un antico motto: “potius
mori quam foedari”, meglio la morte che il tradimento? Ma tu, Socrate, concludono le Leggi, non sei
vittima delle Leggi: “tu morirai vittima di un trattamento ingiusto non già da
parte delle Leggi ma da parte degli uomini”.
Sono gli uomini ad aver applicato in modo ingiusto una legge giusta[8]. Giusta è infatti la legge che punisce, anche
con la morte, chi attenta alla religione e corrompe la gioventù.
3. La giustizia è: “fare ciò che è proprio di ciascuno”
Si vede dunque che la giustizia, come
categoria dello spirito che deve esser di guida alle nostre azioni, si fonda
sul concetto del restare al proprio posto facendo il proprio dovere sino in
fondo. Anche se la cosa dovesse costarci,
sino al punto da rimetterci la vita.
Un’idea della giustizia spinta sino all’abnegazione, al di là delle
possibilità umane? Ma qui non si tratta
di stabilire criteri di opportunità, contenenti una casistica di ciò che l’uomo
può effettivamente fare, nella vita di tutti i giorni, ma di fissare i termini
di un dover-essere che si pone necessariamente come una meta trascendente rispetto
alle nostre limitate capacità. Nell’idea
platonica della giustizia si rispecchia un alto ideale morale, che vale per tutti
perché vuole esprimere la parte migliore di ciascuno di noi.
Ciò risulta anche da La
Repubblica. Il dialogo, com’è
noto, verte in prevalenza sui caratteri
dello Stato migliore, nel quale ciascun individuo dovrebbe “attendere a una
sola attività, quella per cui la natura l’ha meglio dotato”. Questa constatazione tira in ballo
immediatamente il concetto della giustizia (dikaiosynē), consistendo esso
“nello esplicare i propri cómpiti”[9],
letteralmente: fare ciò che è proprio
di ciascuno (tá autoû pràttein). Esplicare i propri compiti significa in
sostanza fare il proprio dovere.
Platone sta discutendo
sulle virtù che “rendono buono lo Stato”, gli danno cioè un valido fondamento,
anche e soprattutto sul piano morale. Queste
virtù sono “la temperanza, il coraggio, l’intelligenza”. Ma da sole non bastano. Occorre la giustizia, alla base di
tutto e in quanto operante in tutti: “virtù
presente nel fanciullo, nella donna, nello schiavo, nel libero, nell’artigiano,
nel governante e nel governato, questa virtù per la quale ciascun individuo
esplica il proprio cómpito senza attendere a troppe cose”[10]. La precisazione, “senza attendere a troppe
cose [polypragmonein]”, che altri traduce: “senza occuparsi dei [cómpiti] altrui”, vuol
chiarire ulteriormente il concetto[11].
Non ci deve essere
“uno scambiarsi di posto” e un conseguente “attendere a troppe cose”. Ciò sarebbe una “rovina per lo Stato”, da intendersi in senso allargato, come Respublica
includente anche la società[12]. In effetti, se ognuno debordasse dai propri
limiti naturali e volesse vivere facendo anche “ciò che è proprio degli altri”,
non si creerebbe un disordine permanente, che provocherebbe, alla fine,
l’estinzione della Res publica?
Ora, la giustizia come intesa da Platone è sì funzionale al concetto
dello Stato ma non può esser ridotta ad esso: dimostra di possedere un
significato autonomo, più profondo.
Il significato sembra
essere il seguente: ognuno di noi deve
sempre fare ciò che gli è proprio in conseguenza della sua natura di essere
razionale, natura nello stesso tempo umana e sociale. Il “proprio” secondo natura del fanciullo
sarà, per esempio, quello di rispettare i genitori e obbedir loro, affidandosi
all’opinione e all’insegnamento dei suoi maestri; della donna, quello di essere innanzitutto
madre e moglie, pilastro della famiglia, della casa e per questa via della
società; dello schiavo, di obbedire al padrone e di servirlo onestamente; del
padrone, di trattare con temperanza e correttamente lo schiavo (e ogni servo,
sottoposto), senza umiliarlo o sfruttarlo; e così via. Si mescola qui ciò che appartiene alla
natura umana in quanto tale a ciò che vi si aggiunge in quanto creato dai
rapporti sociali; figure transeunti, come l’istituto della schiavitù. Ma questa mescolanza non appare tale
da indebolire il concetto. È indubbio
che esiste una natura umana costituita in un certo modo da Dio che l’ha creata,
ragion per cui ogni individuo ha in primo luogo il dovere morale di
essere ciò che è per natura ovvero di agire seguendo e attuando sempre
ciò che costituisce il proprio della sua natura.
Così la donna dovrà
vivere secondo il proprio della donna e l’uomo dell’uomo. Questo “proprio” viene influenzato dai
rapporti sociali, storicamente mutevoli.
Ma solo fino ad un certo punto.
Al di sotto del mutamento appare sempre l’elemento immutabile. Nel caso dell’uomo e della donna, il “proprio”
di ciascuno, in relazione all’altro, è sempre stato quello di sentirsi
reciprocamente attratti, di unirsi, di generare insieme figli, di vivere insieme
in quella forma privata e pubblica riconosciuta dalla religione, dal costume, dal diritto, che chiamiamo matrimonio. In una recente manifestazione delle femministe
americane, si leggeva su di un cartello: “difendiamo i nostri diritti
riproduttivi”. Traduco letteralmente
l’espressione: reproductive rights. Ora, si potrebbe credere, a prima vista, che questi “diritti” concernano il diritto ad
esser madri, a procreare. Sappiamo,
invece, che il significato “politicamente corretto” di questa terminologia è
all’opposto quello di “diritto ad abortire liberamente”, per semplice scelta
unilaterale della donna, diritto che si pretende lo Stato debba garantire o
continuare a garantire, se già lo fa. Secondo
il concetto di giustizia qui illustrato, tale “difesa” si rivela ingiusta
perché manifestamente contraria a ciò che costituisce il proprio della
donna in quanto tale, che la natura ha costruito, possiamo dire,
per esser madre non per nullificare volontariamente la propria capacità
riproduttiva.
Il concetto platonico
della giustizia non esaurisce il concetto stesso, come sappiamo. Egli lo elaborò in contrapposizione alle
concezioni dominanti, come riportate nella stessa Repubblica, improntate
ad un diffuso utilitarismo, ad esempio:
“…però rimango del parere che la giustizia consiste nel giovare agli
amici e nel danneggiare i nemici”[13]. L’elaborazione del concetto della giustizia
costituisce uno degli elementi imperituri de La Repubblica, della quale
non possiamo ovviamente accettare la visione utopica, quella del c.d.
“comunismo platonico”, ed altri aspetti.
Se poi il concetto
platonico sembrasse astratto o troppo rigido, si dovrebbe riflettere sul fatto
che l’idea della giustizia presenta sempre qualcosa di rigido ed impersonale,
che fa forza nei nostri confronti perché in qualche modo ci colpisce nei nostri
interessi, nei nostri diritti, e a volte anche nei nostri sentimenti. Questo vale anche per una giustizia che sia
applicata in modo moderato, il che avviene sovente. La giustizia, secondo il
suo concetto, rappresenta sempre ciò che è giusto in sé e va attuato o
imposto perché è giusto, ci piaccia o meno. La giustizia è un valore assoluto, che deve
imporsi anche contro di noi, se necessario.
L’ideale del giusto
nel senso di far sempre ciò che è proprio di ciascuno, in definitiva di far sempre il proprio dovere, illumina la
giustizia soprattutto come virtù. Quando
pensiamo, invece, alla giustizia nel senso di “dare a ciascuno il suo” o della
“uguaglianza di trattamento” nei rapporti scambievoli, aspetti messi
particolarmente in luce da Aristotele, nel V Libro dell’Etica nicomachea, ce
la rappresentiamo come criterio di giudizio ossia come regola, norma. Qual è, infatti, la norma cui deve ispirarsi
un giudice, un arbitro e, in una certa misura, anche il legislatore? Dare a ciascuno il suo, secondo i suoi meriti
e le sue colpe; regolare in modo uguale situazioni uguali. Regolare in modo uguale
situazioni tra loro disuguali, o addirittura opposte, sarebbe ingiusto: e questa è, appunto, l’ingiustizia dell’ugualitarismo,
visione del mondo che vuole imporre l’uguaglianza assoluta in tutti i
campi ed anche tra i sessi, cancellando di proposito tutte le differenze
naturali: non uguaglianza nonostante le
differenze e quindi realisticamente limitata al possibile bensì uguaglianza per
cancellare tutte le differenze, violentare la natura umana. Un’utopia insensata, storicamente causa di
grandi e ripetute catastrofi.
La regola di giustizia
del “dare a ciascuno il suo”, secondo la nostra Fede cattolica, sarà applicata
infallibilmente dal Cristo Giudice nei confronti dell’anima di ciascuno di noi,
appena morti, come è ricordato nell’Atto di fede: “…E credo in Gesù Cristo, Figlio di Dio,
incarnato e morto per noi, il quale darà a ciascuno, secondo i meriti, il premio
o la pena eterni”. Possiamo dire: darà a ciascuno il suo, a seconda di come
avrà attuato nella sua vita terrena ciò che costituiva per natura il proprio
di lui stesso.
4. Il nesso tra diritto e giustizia.
Non si devono
confondere istanze giuridiche ed istanze morali, non si deve far confusione tra
sfera del diritto e sfera della giustizia, la cui natura è eminentemente etica,
applicandosi in essa i principi morali fondamentali.
Tuttavia, osservo, come non è possibile
elidere il nesso tra il diritto e il dovere, visto che l’uno implica l’altro –
e l’idea del dovere ha un fondamento etico oltre che logico; del pari non sembra possibile recidere quello
tra diritto e giustizia. La distinzione
fra il diritto e la morale deve esser mantenuta, tuttavia essa non esclude quel
nesso tra diritto e morale rappresentato dall’esigenza della giustizia cioè dal
fatto che: 1. il diritto positivo deve
riconoscere quale diritto del soggetto istanze intrinsecamente buone, positive,
in definitiva giuste; 2. In quanto si attui in una legge posta da un
legislatore, non può comunque violare il principio della giustizia, come
espressoda una corretta gerarchia delle leggi.
Consideriamo il primo punto.
ll diritto del
soggetto o diritto soggettivo è stato sempre inteso quale manifestazione
della libera volontà del soggetto, riconosciuta in vario modo dall’ordinamento
giuridico. La definizione tradizionale
meglio calibrata sembra esser stata, alla fine, quella che interpreta questa
libera volontà non in termini di “interesse protetto” bensì in termini di potere. Così sintetizzata da un autorevole filosofo
del diritto del passato recente: in
senso proprio, “il diritto soggettivo è il potere individuale di esigere un
comportamento conforme all’ordinamento vigente”.[14] La precisazione che il comportamento che si
esige deve essere “conforme all’ordinamento vigente” chiarisce che non è
riconosciuto al soggetto il potere di esigere dai terzi un comportamento non
conforme all’ordinamento vigente ossia illecito : un potere vòlto a questo fine non può
costituire un diritto.
L’ordinamento si può intendere in vari
modi. Come ordinamento statuale o
sistema di diritto codificato da un legislatore che è lo Stato, oppure come
complesso organico di usi e costumi, diritto consuetudinario, non scritto ma
non per questo meno effettivo in relazione all’efficacia delle sue norme. Il riconoscimento del diritto del soggetto
può anche esser invocato sulla base del diritto naturale, per esempio quando si
afferma il “diritto alla vita” del nascituro sin dal momento del concepimento. In ogni caso, il concetto di un diritto del
soggetto o soggettivo individua una sfera di capacità e situazioni
dell’individuo considerate meritevoli di tutela.
Se approfondiamo
questo punto vediamo emergere il nesso tra diritto e morale. Infatti, se ci chiediamo: meritevoli, perché? Solo per esser ciò che l’individuo vuole o
desidera o perché considerate in se stesse giuste? Se la conformità a giustizia delle capacità e
situazioni che l’individuo pretende di veder riconosciute e tutelate si deve
ammettere quale requisito essenziale del riconoscimento da parte
dell’ordinamento giuridico, allora ecco apparire un sicuro nesso tra il diritto
del soggetto e la giustizia, onde potremmo dire che : il diritto soggettivo è la giusta pretesa
di un soggetto. Non una quasiasi
pretesa del soggetto ma solo quella giusta.
È chiaro che numerose
norme di un ordinamento giuridico non hanno a che fare direttamente con l’idea
della giustizia: il nesso di cui sopra
sarebbe pertanto indiretto. Infatti,
cosa c’entrano con la giustizia le numerose norme di vario tipo che nel tempo
si costruiscono attorno ad ogni istituto giuridico o a tutte le norme che
disciplinano una determinata attività, per esempio nell’ambito del diritto
commerciale, per non parlare del rimanente del diritto privato? Sono in generale norme di attuazione, una
foresta di leggi e regolamenti che spazia in ambito regionale, statale,
sovranazionale; norme dette anche
“tecniche”.
Facciamo tuttavia un
esempio. Se chiedo la licenza per
iniziare un’attività commerciale mi verrà concessa se l’autorità sarà convinta
dell’onestà del mio fine; del fatto cioè
che non la chiedo per spacciare droga o far traffico di merci di contrabbando o
rubate. Ciò significa che la mia pretesa
appare giusta agli occhi dell’autorità perché conforme agli scopi leciti del
commercio, attività di diritto privato ammessa, protetta ed anche incoraggiata
dall’ordinamento. E perché l’ordinamento
giuridico disciplina e protegge queste attività dei privati? Perché lo scopo dell’ordinamento non si
distingue da quello per il quale esiste quella polis o res publica che
chiamiamo Stato.
Lo Stato, infatti, a prescindere dalla sua
forma di governo, è quell’istituzione il cui fine è la realizzazione del bene
comune, corrispondente a quello che Aristotele, sulla scia di Platone, chiamava
il “viver bene” (eu zēn). Gli uomini, scrive, vivono creando sempre una
società ma che sia capace di realizzare un tipo di vita che sia buono: “neppure si sono raccolti solo per vivere,
bensì per viver bene”[15]. Questo “viver bene” quale fine della polis
non va confuso con le alleanze volontarie fra Stati a fini militari od economici,
realtà nelle quali si guarda a salvaguardare la giustizia solo nei rapporti
“l’uno contro l’altro”. Al contrario,
esso ricomprende sia il benessere materiale che quello spirituale. Infatti, “quanti si prendono pensiero del buon
governo badano alla virtù e alla cattiveria esistenti nell’ambito dello
Stato. Di qui è chiaro che deve prendersi
cura della virtù lo Stato veramente degno di questo nome e che non sia tale
solo a parole; ché allora la comunità diviene un’alleanza, differente soltanto
per il luogo dalle altre alleanze, quelle cioè che si stringono tra genti lontane,
e la legge una convenzione, la quale, per usare le parole del sofista
Licofrone, è garante di quel che è giusto da uomo a uomo ma non atta a render i
cittadini buoni e giusti”[16].
Il legislatore che “si
prende cura della virtù dei suoi cittadini” è quello che cerca di attuare la
giustizia. Cittadini “buoni e giusti”
saranno quelli le cui attività, disciplinate dal legislatore, avranno luogo per
fini “buoni e giusti”, come quelli di un’onesta attività commerciale o di
fondazione di una famiglia tra l’uomo e
la donna per la procreazione e l’educazione di figli. Anzi, lo Stato che tenga conto del principio
della giustizia non può disinteressarsi della virtù dei cittadini: combatterà
il vizio in tutte le sue forme, si assicurerà che le famiglie crescano in un
clima moralmente sano, provvedendo per quanto sta ad esso alla pubblica e
privata moralità e decoro. E sempre valuterà
di fatto la rilevanza etica (liceità sul piano morale) delle pretese che
costituiscono il contenuto dei diritti soggettivi fatti via via valere dai consociati.
Ma dovrà la classe
dirigente dare l’esempio di quella virtù che essa deve imporre con le leggi ai
cittadini e dalla quale non può comunque prescindere. Su quest’aspetto molto ha insistito Cicerone
nei suoi libri sulle Leggi e sullo Stato.
Riprendendo la massima diffusa da poeti e filosofi greci secondo la
quale “tutte le virtù dipendono dalla giustizia”, egli sottolinea che senza
l’esempio dei governanti, per lui soprattutto gli Ottimati, non c’è giustizia
che tenga: “..io credo invece che i
costumi delle città si trasformino col mutare del tenore di vita dei
nobili. Per questo i maggiorenti
corrotti arrecano il maggior danno allo Stato, perché non solo contraggono essi
stessi i vizi, ma li trasmettono alla cittadinanza. Né solamente nuocciono perché si lasciano
andare alla corruttela, ma perché anche corrompono, e nuocciono piú con
l’esempio che con il loro traviamento”[17].
E questo perché “virtus in usu sui
tota posita est”, la virtù è tutta nella sua stessa attuazione non nei bei
discorsi[18].
Ma l’esigenza della
giustizia della pretesa del soggetto resta sempre sullo sfondo, quale
ineliminabile Leitmotiv, anche dove non compare direttamente. Come
annotava Adolf Trendelenburg, illustre storico della filosofia, acuto logico e
acuto critico di Kant e di Hegel, in un articolo del 1862: “Nella misura in cui
le leggi esistono per comporre i conflitti, esse mantengono quell’evoluto
principio secondo il quale ci si trova in presenza di rapporti scaturenti dalla
vita di relazione: ma non lo manterrebbero
se non lo presupponessero eticamente valido.
In questo senso innanzitutto ogni diritto vuole conservare un’esistenza
conforme all’etica [ein sittlichen Dasein]. E quand’essa viene negata nel caso
particolare, è la sanzione a ristabilire la potenza dell’eticità, mantenendo
intatto nella sua univesalità il principio morale, messo in pericolo dalla
singola trasgressione”[19].
Pertanto, secondo
Trendelenburg la morale deve sempre esser presupposta al diritto, pur restando
ben chiara la distinzione tra le due sfere:
sfera esterna o della legalità quella del diritto; sfera interna della
legge morale quella dell’eticità, che obbliga in coscienza. Tra legalità e moralità non ci deve essere
sovrapposizione; c’è però connessione[20]. E difatti, lo stesso diritto positivo in
molteplici casi vuole capire quale sia l’effettiva intenzione del soggetto
agente, al fine di una esatta valuzione giuridica del suo comportamento.
Consideriamo ora il
secondo punto.
Qui abbiamo a che fare
con un problema diverso, costituito da una concezione intransigente del
rapporto tra diritto e giustizia in relazione alla norma posta dallo Stato:
alla Legge, nella quale si manifesta la pretesa del Soggetto pubblico, norma
che esige da noi piena osservanza.
Non ci chiediamo sempre
se sia giusta?
Ma san Tommaso,
rifacendosi a sant’Agostino, afferma non
esser la legge ingiusta vera legge: “lex
tyrannica, cum non sit secundum rationem, non est simpliciter lex, sed magis
est quaedam perversitas legis.”[21]
La “lex tyrannica” è per definizione quella
che non si cura del bene comune, che deve costituire il fine razionale di ogni
legge: si intende, un bene comune “secundum iustitiam divinam regulatum”.[22]
Una simile legge dovrà ritenersi sommamente
ingiusta, tanto più quanto si dimostri avversa al bene comune. Il “bene comune”, secondo la filosofia del
diritto cattolica tradizionale ossia tomistica, deve sempre esser perseguito
dal diritto positivo in modo da non violare mai né la legge naturale né quella
divina che la sorregge.[23] E difatti, san Tommaso ribadisce,
richiamandosi a sant’Agostino che la legge ingiusta deve ritenersi “legis
corruptio”.[24] Poiché ogni legge umana “in tanto possiede la
ratio legis in quanto derivi dalla legge naturale, se si discosta in qualcosa dalla
legge naturale non sarà legge ma corruzione della legge”[25].
La legge naturale
riposa sulla legge divina, ciò spiega la radicalità della conclusione cui
giunge l’Aquinate: violare la legge di
natura significa in realtà violare la legge divina ad essa sottesa. Dopo almeno un secolo di storicismo e
soprattutto di positivismo, che hanno entrambi concorso a far sparire il
concetto del diritto naturale dalla filosofia del diritto, la negazione tomista
del carattere di legge alla legge ingiusta può apparire del tutto indebita. Ma
la legge ingiusta della quale parla qui il dottor Angelico non è, ad esempio,
quella che ci aumenti le tasse o instauri la leva obbligatoria. È quella che viola
la legge naturale, inscindibilmente connessa alla legge divina, poiché la
gerarchia delle leggi si basa sempre sulla Causa Prima, costituita da Dio creatore. Pertanto, sembra perfettamente applicabile,
il punto di vista dell’Aquinate, a quelle leggi che violino in modo tale
l’esigenza del bene comune da configurare un vulnus nel diritto naturale stesso
e quindi nella legge divina. E in questa
categoria non rientrano forse leggi come quelle che riconoscono come diritto
della madre l’aborto procurato, da potersi effettuare per di più con il
contributo economico dello Stato? Qui la
violazione dell’esigenza del bene comune di un popolo e di una società appare
evidente, contribuendo ampiamente l’abortismo diffuso alla denatalità e alla corruzione
dei costumi, cose ovviamente del tutto opposte a quel “viver bene” dei
consociati che dovrebbe costituire il fine dello Stato e del suo ordinamento
giuridico e quindi del vero legislatore.
E in questa categoria non rientrano forse anche quelle leggi che
riconoscono come “matrimoni” le convivenze di omosessuali di entrambi i sessi? E per gli stessi motivi appena elencati a
proposito del diritto all’aborto.
L’elenco di queste triste leggi potrebbe continuare - pensiamo per
esempio all’allucinante legislazione sul cosiddetto “transgenderismo” - ma possiamo fermarci qui.
Voglio concludere la
mia riflessione con un’ultima considerazione, che mi sembra tuttavia della
massima importanza: c h i stabilisce la conformità a giustizia della
pretesa del soggetto? Può forse essere
il soggetto portatore della pretesa stessa?
In linea di principio, non può.
Per due ragioni principali: 1. sarebbe
giudice in causa propria; 2. essendoci tot capita tot sententiae, la
vita di relazione si dissolverebbe nell’anarchia, ovvero in un pluralismo indiscriminato
ed incontrollabile di pretese individuali le più diverse e persino opposte, che
esigono di esser prese tutte in considerazione come diritti da tutelare.
Occorre un criterio oggettivo
per stabilire la giustizia di ogni pretesa del soggetto individuale. Questo
criterio può esser costituito solo da una norma cui commisurare la
pretesa, una norma sottratta alla disponibilità dei soggetti, che nello stesso
tempo devono riconoscerla come vincolante per tutti. La “norma” nella realtà di fatto è costituita
dal complesso di norme di carattere morale che formano il sistema di valori di
una determinata società e del suo ordinamento giuridico. È
sulla base di questi valori, coinvolgenti l’idea della giustizia, che si
è sempre valutata la pretesa individuale ad esser riconosciutta come diritto
soggettivo (vedi supra).
Questo significa che
il diritto non può “scaturire dal fatto” in senso assoluto. Il principio pur esso tradizionale secondo il
quale “ex facto ius oritur” può avere un significato solo relativo. Relativo, nel senso che non ogni fatto
ovvero non ogni realtà sociale emergente può esser considerata meritevole di
tutela: bisogna che la pretesa della
quale si fa portatrice questa emergente realtà sociale, grande o piccola che
sia, sia una pretesa giusta, come si è detto. Non è sufficiente che sia spontanea,
anche in considerazione del fatto che spesso la “spontaneità” di certe pretese
è solo apparente o del tutto artificiosa.
Pertanto, la pretesa emergente abbisogna di una valutazione di conformità
ai valori fondamentali dell’ordinamento, che sono in genere valori religiosi,
morali, politici, di costume. Tale
valutazione dovrebbe costituire la discriminante in base alla quale concedere
la tutela del diritto ai fenomeni sociali nuovi o rifiutarla. E questa
valutazione non è mai solo giuridica. È anche politica, ma forse soprattutto etica
e coinvolge giustizia e diritto.
La presente,
irrazionale atmosfera culturale ha invece portato ad affermare in modo assoluto
il principio “ex facto ius oritur”.
Quante volte si è sentito e si sente tuttora dire che i costumi sono
cambiati e il legislatore, sia laico che ecclesiastico, deve solo trarne le
conclusioni prendendo atto del cambiamento e munendolo delle necessarie
provvidenze di legge? I costumi sono
indubbiamente cambiati ma non bisogna forse chiedersi se in peggio o in
meglio? Non dobbiamo porci questa
domanda? E soprattutto non se la deve
porre il legislatore? Se i cambiamenti
nei costumi hanno comportato, tra altre cose, ad una messa in pericolo così
radicale del bene comune, come quella sopra ricordata, non dovrebbe il
legislatore combattere tali cambiamenti setacciando in primo luogo i buoni dai
cattivi? In ogni caso, non dovrebbe
evitare di limitarsi a prendere atto di certe distruttive tendenze sociali, cessando
dal comportandosi come un semplice notaio dei desiderata dei più violenti e
meglio organizzati ?
1 novembre 2025
[1] Un’articolata ed efficace confutazione delle teorie
di propugnatori della “liberazione degli animali” sulla base dei loro supposti
“diritti”, si trova nel saggio
dell’eclettico, ultimo teorico del conservatorismo di marca inglese, il
filosofo anglicano Roger Scruton, 1944-2020.
Vedi il suo saggio del 1996: Gli
animali hanno diritti?, tr. it. di Daniela Damiani, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008. Ciò non significa che non sia giusto punire
la crudeltà contro gli animali: ma la
motivazione della pena è data (secondo una tesi tradizionale) dal senso di
compassione e di sdegno che l’infierire crudelmente su animali o persone
provoca in noi. Sul punto, vedi I. Kant, La metafisica dei costumi,
1798, tr. it. di G. Vidari, rivista da Nikolao Merker, Laterza, Bari, 1970,
pp. 304-305 (è il § 17 della parte dedicata
alla virtù e all’etica).
[2]
Per la vita di Socrate: Diogene Laerzio,
Vite dei filosofi, a cura di Marcello Gigante, TEA, Milano, 1991, pp.
54-64.
[3] Critone
44 c. Mi sono servito della tr. it. di
Manara Valgimigli, in: Platone, Opere, Laterza, Bari, 1966, vol. I, pp.
73-91; pp. 76-77.
[4]
Op. cit., 48 a; tr.it., p. 81.
[5]
Op. cit., 48 b; tr. it., p. 82.
[6]
Op. cit., 48 c; tr. it., p. 82.
[7]
Op. cit., 49 c.; tr. it., p. 83.
[8] Ho
riassunto la Prosopopea delle Leggi dalla traduzione del Critone
citata: 50-54; pp. 86-91.
[9] La
Repubblica, 433 b, in Platone, Opere, cit., II vol., p. 256. La traduzione è di Franco Sartori.
[10] Op.cit., 433 d; tr.it., p. 256.
[11] Platone, La Repubblica, a cura di
Giuseppe Lozza, tr. it. con testo a fronte, Mondadori, 1990, pp. 317. L’originale greco è quello curato per Les
Belles Lettres da E. Chambry.
[12] La Repubblica, 434 b; tr. it. di F. Sartori, cit., p. 257.
[13] 334 a, b; tr. it. di G. Lozza, cit., p. 27.
[14] Widar Cesarini Sforza, voce : Diritto
soggettivo, in: Enciclopedia del
diritto, XII, Delitto-Diritto, Giuffrè Editore, Milano, 1964. Accentuando maggiormente il momento
coercitivo: “diritto soggettivo significa
potere di costringere direttamente o indirettamente colui che è obbligato”
(Norberto Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, raccolta di
saggi, edizioni di comunità, Milano, 1972, p. 164).
[15] Aristotele, La politica, tr. it., introd.
note e indici a cura di Renato Laurenti, Laterza, Bari, 1966, p. 132 (1280a).
[16] Op. cit., pp. 132 (1280b). Vedi anche Etica Nicomachea, tr. it.
di Armando Plebe, Laterza, Bari, 1965, p. 30 (1103b): “I legislatori rendono buoni i cittadini,
abituandoli al bene e questo è il volere di ogni legislatore, e quelli che non
lo effettuano bene mancano al loro scopo e in ciò differisce una città ben
ordinata da una mal governata”.
[17]
Marco Tullio Cicerone, Le Leggi, a cura di Filippo Cancelli, Arnoldo
Mondadori Editore, 1969, ediz. critica con testo latino a fronte, pp. 242-244.
[18]
Marco Tullio Cicerone, Lo Stato, a cura di Filippo Cancelli, Arnoldo
Mondadori Editore, 1989, ediz. critica con testo latino a fronte, p. 181.
[19] Adolf Trendelenburg, Die Definition des
Rechts, in: Werner Maihofer (a cura di), Begriff und Wesen des Rechts,
WBG, Darmstadt, 1973, pp. 17-25; p. 22.
Si tratta di un’antologia di testi di illustri giuristi e filosofi del
diritto tedeschi e austriaci tra Ottocento e Novecento.
[20] Sulla distinzione fra legalità e moralità una
pagina esemplare si ha notoriamente nella kantiana Introduzione alla sua
Metafisica dei costumi, tr. it. cit., pp. 14-15.
[21] Summa
Theol., Ia – IIae,
q. 92 a. 1.
[22] Ibidem, a. 1
[23] Vedi la quaestio 91 della Summa appena
citata, che si occupa dei vari tipi di legge e della loro gerarchia.
[24] Op. cit., q. 95 a. 2 .
[25] Op. cit., ivi.
Il passo di sant’Agostino citato è :
“non videtur esse lex, quae iusta non fuerit” (I De Lib. Arb.,
cap. 5).
Riflessioni
su diritto e giustizia
di Paolo
Pasqualucci
Sommario : 1. Non esistono diritti
senza doveri. 2. La giustizia secondo Platone: fare il proprio dovere. 2.1
È ingiusto rispondere con l’ingiustizia all’ingiustizia. 2.2
Le Leggi spiegano a Socrate perché sarebbe ingiusto sosttrarsi alla
pena, anche se inflitta ad un innocente.
3. La giustizia è “fare
ciò che è proprio di ciascuno”. 4. Il nesso tra diritto e giustizia.
1. Non esistono diritti
senza doveri.
Il concetto della
giustizia sembra oggi invocato soprattutto nel senso di giustizia sociale oppure in connessione ai
cosiddetti “diritti umani”, termine che ha sostituito quello di “diritti
naturali”. In ogni caso, in relazione
all’idea di un diritto da soddisfare, da proteggere. Ma esiste anche una stretta relazione tra
l’idea della giustizia e quella del dovere. Oggi si fa un gran parlare dei “diritti”,
soprattutto dei “diritti umani”. Ma dei
doveri non si parla mai o quasi. Sui
media veniamo bombardati quasi ogni giorno da denunce e perorazioni in favore,
in particolare, dei “diritti delle donne”, dei “migranti”, delle “minoranze”, soprattutto quelle dei
cosiddetti diversi. L’idea del dovere
viene impiegata principalmente per indicare il dovere dello Stato di soddisfare
tutti i “diritti umani” che si fanno oggi valere, a cominciare, appunto, da
quelli delle donne, dei “diversi”, dei “migranti”, delle “minoranze”, tutte
categorie che si considerano per principio “oppresse” . Sembra che esistano soggetti che hanno solo
diritti di contro ad altri che hanno solo doveri, a cominciare dallo Stato, il
Soggetto pubblico per eccellenza, il cui fine istituzionale è il bene comune.
Il concetto del
diritto dell’individuo (in passato, diritto naturale accanto al diritto
soggettivo, garantito quest’ultimo dall’ordinamento giuridico o diritto in
senso obbiettivo) si è allargato a quello di diritto dell’essere
vivente e quindi anche degli animali. E persino degli insetti, com’è vero
che alcuni anni fa c’è stato un dibattito alla britannica Camera dei Lords per
vedere se era il caso di estendere agli insetti le sanzioni previste per chi
maltratta gli animali, procurando loro dolore o peggio. L’augusto consesso discusse per ore sulle capacità
di sofferenza dell’insetto ma l’idea demenziale di mandare in galera chi
schiaccia una zanzara o uno scarafaggio alla fine non passò. Si parla oggi tranquillamente di “diritti
degli animali”, senza rendersi conto della singolarità della tesi: non si
riesce a capire come un essere privo della ragione e della coscienza di sè, e quindi per
natura incapace di intendere, volere e parlare come un essere umano, possa
esser considerato titolare di diritti, cosa che comporterebbe anche la
necessità di imputargli dei doveri. Il
diritto, come fenomeno, è tipica espressione della ragione, della quale
Iddio ha dotato solo l’uomo: il suo
regno è quello della volontà razionale, nelle varie forme nelle quali si
esprime.[1]
Contro l’irrazionalismo dominante bisogna
ribadire un tradizionale concetto della scienza e della filosofia del
diritto: non possono esistere diritti
senza doveri corrispondenti, in capo al medesimo individuo. Il soggetto titolare
di diritti, in quanto soggetto razionale, è, per ciò stesso, sottoposto a doveri. Il diritto e il dovere sono concetti che si
implicano a vicenda. E non solo per gli
individui, in una certa misura anche per
le collettività, per i popoli. Il diritto soggettivo implica il dovere da
parte dei terzi di soddisfar le giuste pretese di chi ne è titolare. Il nesso tra diritto e dovere che così si
instaura fa venire in essere una situazione di reciprocità. Infatti, il dovere, secondo il suo concetto,
incombe nei confronti dei terzi anche sul soggetto titolare di un diritto: anch’egli deve a sua volta ottemperare al
dovere di soddisfare le giuste pretese del diritto soggettivo altrui.
L’idea del dovere è
strettamente connessa a quella della giustizia.
Tant’è vero che per Platone la giustizia, come virtù individuale,
consiste essenzialmente nel fare il proprio dovere. Consideriamo questo punto, che mi sembra
della massima importanza per una giusta concezione dell’idea del dovere.
2. La giustizia secondo
Platone: fare il proprio dovere.
Platone àncora l’idea della giustizia a quella
del dovere. Esaminerò sinteticamente
alcuni passi del Critone, il dialogo che descrive la morte di Socrate, e
de La Repubblica, dedicato allo Stato ideale.
Critone, discepolo di
Socrate, intento a salvare la vita all’amato maestro, ormai settantenne,
condannato a morte con la falsa accusa di aver predicato contro la religione e
pertanto corrotto i giovani, andò da
Socrate dicendogli che tutto era pronto per la sua fuga. Ma costui si rifiutò di seguirlo opponendo
una serie di ragionamenti rimasti giustamente esemplari. Socrate aveva una
lingua tagliente e si era fatto molti nemici. L’assemblea popolare di Atene lo
aveva condannato ad una morte senza quasi sofferenza, per avvelenamento
progressivo, da cicuta. Poco tempo dopo
si era pentita e aveva condannato uno o forse due dei suoi tre accusatori a
loro volta a morte, questa volta mediante un supplizio crudele, perché avevano
calunniato un innocente, rovesciando il verdetto iniziale e riabilitando
Socrate, cui fece erigere una statua da Lisippo[2].
Ma vediamo come
Socrate spieghi il concetto della giustizia.
2.1 È ingiusto rispondere
all’ingiustizia con l’ingiustizia.
Critone annunziò a
Socrate che aveva organizzato la sua fuga anche per dimostrare quanto errata
fosse la voce popolare secondo la quale egli, essendo ricco, avrebbe potuto già
influire positivamente sul processo di Socrate “solo che avesse voluto spender
danari”, evidentemente per corrompere i membri dell’assemblea. Da qui una discussione sulla validità dell’opinione: “Ma perché, o buon Critone, dobbiamo
preoccuparci tanto dell’opinione della gente?”[3]. Socrate demolisce l’opinione popolare e “la
potenza del volgo” in quanto fonti di verità:
alcune opinioni sono buone ma altre cattive e il volgo tende ad esser
dominato dalle passioni. Il nostro
comportamento non dobbiamo sottoporlo al giudizio morale del volgo ma al
giudizio della Divinità: “o carissimo,
noi non dobbiamo affatto preoccuparci di quello che potrà dire di noi il volgo,
bensì di ciò solo che potrà dire colui che s’intende del giusto e
dell’ingiusto, giudice unico, ch’è tutt’uno con la verità”[4]. Ora, per il volgo conta soprattutto il vivere
in quanto tale. Per l’uomo razionale,
invece, “non il vivere è da tenere nel più alto conto ma il vivere bene”. E vivere bene “è la stessa cosa che vivere
secondo onestà e secondo giustizia”[5].
Socrate ribadisce
l’ideale greco dello eu zēn , del “viver bene” ossia all’insegna
della virtù (aretē). La
virtù comporta praticare la giustizia, che anzi, come dicevano i poeti,
“riunisce in se stessa ogni virtù”.
Posta l’esigenza che bisogna vivere rispettando “l’onestà e la
giustizia”, sorge allora il problema se sia giusto che Socrate fugga dal
carcere. Non sarebbe giusto, spiega
Socrate, perché “bisogna rimanere fedeli al proprio posto e aspettare con animo
tranquillo, e non darsi pensiero né se si debba morire né se si debba qualunque
altro male patire, piuttosto che commettere ingiustizia”[6]. Egli è stato condannato ingiustamente però
vale ugualmente per lui il dovere di “restare fedele al suo posto” e starsene
tranquillo, anche se sa di dover morire per colpa di quell’ingiusta
condanna. E qual è ora il suo
posto? Quello di un condannato in attesa
dell’esecuzione capitale, sia pure nella forma non crudele di una tazza di
veleno che provoca una lenta e non dolorosa fine. Ma il discorso potrebbe sembrare assurdo senza
la conclusione, che sembra essere una vera e propria causa finale del
comportamento di Socrate. Stabilito il
principio generale che bisogna “restare al proprio posto”, Socrate afferma che
tale principio va applicato anche quando si subisce ingiustizia. Non è troppo?
No, visto che il non applicarlo vorrebbe dire commettere ingiustizia. Non bisogna replicare all’ingiustizia con
l’ingiustizia. Il divieto morale di commettere ingiustizia è
assoluto: “non si deve rendere ingiustizia
né far male ad alcuno degli uomini, neanche da chi abbia qualsivoglia male
patito da costoro”[7].
2.2 Le Leggi spiegano a Socrate perché sarebbe
ingiusto sottrarsi alla pena, anche se inflitta ad un innocente.
Ma perché Socrate commetterebbe
ingiustizia se fuggisse dal carcere? È
stato condannato ingiustamente, è innocente, fuggirebbe per salvare la propria
vita: in cosa consisterebbe
l’ingiustizia? Lo spiega la prosopopea
(personificazione) delle Leggi che compaiono davanti a Socrate assieme “alla città
tutta quanta”. Le Leggi fanno presente a
Socrate che egli deve la sua esistenza a loro poiché senza le Leggi non sarebbe
stato registrato fra i cittadini, non avrebbe avuto un’educazione e non si
sarebbe sposato; che avrebbe potuto andare in esilio prima della sentenza e
che, in alternativa, avrebbe potuto cercare di cambiare la legge in base alla
quale è stato condannato. Ma lui non
aveva sempre detto che preferiva la morte all’esilio? E non è forse legge della Città che le sentenze
debbano valere? Fuggendo, Socrate avrebbe tolto vigore alle sentenze e
distrutto la città. Inoltre, le Leggi e Socrate non sono sullo stesso
piano: “se noi intendiamo fare qualcosa
contro di te, credi di aver diritto anche tu di fare le stesse cose contro di
noi”? Tu riconosci il principio
d’autorità nel padre e nel padrone e non lo riconosci nelle Leggi, mettendoti
sul loro stesso piano? “Se noi tentiamo
di mandare a morte te, reputando che ciò sia giusto, tenterai anche tu con ogni
tuo potere di mandare a morte noi che siamo le leggi e la patria, e dirai che
ciò facendo operi il giusto, tu, il vero e schietto zelatore della virtù?”.
Ti sei dimenticato che
bisogna onorare la Patria più del padre e della madre? La Patria “bisogna persuaderla [a fare il
contrario] o eseguire quello che essa comanda e soffrire se essa comanda di
soffrire, stando in silenzio, sia che si venga percossi, sia che si venga
incatenati, sia che essa mandi in guerra per esser feriti o uccisi; bisogna far
questo perché in ciò consiste la giustizia: che non si deve disertare, né ritirarsi, né
abbandonare il proprio posto, ma, e in guerra e in tribunale e in ogni altro
luogo, bisogna fare quello che la Patria e la Città comandano oppure
persuaderle in che consiste la giustizia”.
Queste parole, non ci
ricordano un antico motto: “potius
mori quam foedari”, meglio la morte che il tradimento? Ma tu, Socrate, concludono le Leggi, non sei
vittima delle Leggi: “tu morirai vittima di un trattamento ingiusto non già da
parte delle Leggi ma da parte degli uomini”.
Sono gli uomini ad aver applicato in modo ingiusto una legge giusta[8]. Giusta è infatti la legge che punisce, anche
con la morte, chi attenta alla religione e corrompe la gioventù.
3. La giustizia è: “fare ciò che è proprio di ciascuno”
Si vede dunque che la giustizia, come
categoria dello spirito che deve esser di guida alle nostre azioni, si fonda
sul concetto del restare al proprio posto facendo il proprio dovere sino in
fondo. Anche se la cosa dovesse costarci,
sino al punto da rimetterci la vita.
Un’idea della giustizia spinta sino all’abnegazione, al di là delle
possibilità umane? Ma qui non si tratta
di stabilire criteri di opportunità, contenenti una casistica di ciò che l’uomo
può effettivamente fare, nella vita di tutti i giorni, ma di fissare i termini
di un dover-essere che si pone necessariamente come una meta trascendente rispetto
alle nostre limitate capacità. Nell’idea
platonica della giustizia si rispecchia un alto ideale morale, che vale per tutti
perché vuole esprimere la parte migliore di ciascuno di noi.
Ciò risulta anche da La
Repubblica. Il dialogo, com’è
noto, verte in prevalenza sui caratteri
dello Stato migliore, nel quale ciascun individuo dovrebbe “attendere a una
sola attività, quella per cui la natura l’ha meglio dotato”. Questa constatazione tira in ballo
immediatamente il concetto della giustizia (dikaiosynē), consistendo esso
“nello esplicare i propri cómpiti”[9],
letteralmente: fare ciò che è proprio
di ciascuno (tá autoû pràttein). Esplicare i propri compiti significa in
sostanza fare il proprio dovere.
Platone sta discutendo
sulle virtù che “rendono buono lo Stato”, gli danno cioè un valido fondamento,
anche e soprattutto sul piano morale. Queste
virtù sono “la temperanza, il coraggio, l’intelligenza”. Ma da sole non bastano. Occorre la giustizia, alla base di
tutto e in quanto operante in tutti: “virtù
presente nel fanciullo, nella donna, nello schiavo, nel libero, nell’artigiano,
nel governante e nel governato, questa virtù per la quale ciascun individuo
esplica il proprio cómpito senza attendere a troppe cose”[10]. La precisazione, “senza attendere a troppe
cose [polypragmonein]”, che altri traduce: “senza occuparsi dei [cómpiti] altrui”, vuol
chiarire ulteriormente il concetto[11].
Non ci deve essere
“uno scambiarsi di posto” e un conseguente “attendere a troppe cose”. Ciò sarebbe una “rovina per lo Stato”, da intendersi in senso allargato, come Respublica
includente anche la società[12]. In effetti, se ognuno debordasse dai propri
limiti naturali e volesse vivere facendo anche “ciò che è proprio degli altri”,
non si creerebbe un disordine permanente, che provocherebbe, alla fine,
l’estinzione della Res publica?
Ora, la giustizia come intesa da Platone è sì funzionale al concetto
dello Stato ma non può esser ridotta ad esso: dimostra di possedere un
significato autonomo, più profondo.
Il significato sembra
essere il seguente: ognuno di noi deve
sempre fare ciò che gli è proprio in conseguenza della sua natura di essere
razionale, natura nello stesso tempo umana e sociale. Il “proprio” secondo natura del fanciullo
sarà, per esempio, quello di rispettare i genitori e obbedir loro, affidandosi
all’opinione e all’insegnamento dei suoi maestri; della donna, quello di essere innanzitutto
madre e moglie, pilastro della famiglia, della casa e per questa via della
società; dello schiavo, di obbedire al padrone e di servirlo onestamente; del
padrone, di trattare con temperanza e correttamente lo schiavo (e ogni servo,
sottoposto), senza umiliarlo o sfruttarlo; e così via. Si mescola qui ciò che appartiene alla
natura umana in quanto tale a ciò che vi si aggiunge in quanto creato dai
rapporti sociali; figure transeunti, come l’istituto della schiavitù. Ma questa mescolanza non appare tale
da indebolire il concetto. È indubbio
che esiste una natura umana costituita in un certo modo da Dio che l’ha creata,
ragion per cui ogni individuo ha in primo luogo il dovere morale di
essere ciò che è per natura ovvero di agire seguendo e attuando sempre
ciò che costituisce il proprio della sua natura.
Così la donna dovrà
vivere secondo il proprio della donna e l’uomo dell’uomo. Questo “proprio” viene influenzato dai
rapporti sociali, storicamente mutevoli.
Ma solo fino ad un certo punto.
Al di sotto del mutamento appare sempre l’elemento immutabile. Nel caso dell’uomo e della donna, il “proprio”
di ciascuno, in relazione all’altro, è sempre stato quello di sentirsi
reciprocamente attratti, di unirsi, di generare insieme figli, di vivere insieme
in quella forma privata e pubblica riconosciuta dalla religione, dal costume, dal diritto, che chiamiamo matrimonio. In una recente manifestazione delle femministe
americane, si leggeva su di un cartello: “difendiamo i nostri diritti
riproduttivi”. Traduco letteralmente
l’espressione: reproductive rights. Ora, si potrebbe credere, a prima vista, che questi “diritti” concernano il diritto ad
esser madri, a procreare. Sappiamo,
invece, che il significato “politicamente corretto” di questa terminologia è
all’opposto quello di “diritto ad abortire liberamente”, per semplice scelta
unilaterale della donna, diritto che si pretende lo Stato debba garantire o
continuare a garantire, se già lo fa. Secondo
il concetto di giustizia qui illustrato, tale “difesa” si rivela ingiusta
perché manifestamente contraria a ciò che costituisce il proprio della
donna in quanto tale, che la natura ha costruito, possiamo dire,
per esser madre non per nullificare volontariamente la propria capacità
riproduttiva.
Il concetto platonico
della giustizia non esaurisce il concetto stesso, come sappiamo. Egli lo elaborò in contrapposizione alle
concezioni dominanti, come riportate nella stessa Repubblica, improntate
ad un diffuso utilitarismo, ad esempio:
“…però rimango del parere che la giustizia consiste nel giovare agli
amici e nel danneggiare i nemici”[13]. L’elaborazione del concetto della giustizia
costituisce uno degli elementi imperituri de La Repubblica, della quale
non possiamo ovviamente accettare la visione utopica, quella del c.d.
“comunismo platonico”, ed altri aspetti.
Se poi il concetto
platonico sembrasse astratto o troppo rigido, si dovrebbe riflettere sul fatto
che l’idea della giustizia presenta sempre qualcosa di rigido ed impersonale,
che fa forza nei nostri confronti perché in qualche modo ci colpisce nei nostri
interessi, nei nostri diritti, e a volte anche nei nostri sentimenti. Questo vale anche per una giustizia che sia
applicata in modo moderato, il che avviene sovente. La giustizia, secondo il
suo concetto, rappresenta sempre ciò che è giusto in sé e va attuato o
imposto perché è giusto, ci piaccia o meno. La giustizia è un valore assoluto, che deve
imporsi anche contro di noi, se necessario.
L’ideale del giusto
nel senso di far sempre ciò che è proprio di ciascuno, in definitiva di far sempre il proprio dovere, illumina la
giustizia soprattutto come virtù. Quando
pensiamo, invece, alla giustizia nel senso di “dare a ciascuno il suo” o della
“uguaglianza di trattamento” nei rapporti scambievoli, aspetti messi
particolarmente in luce da Aristotele, nel V Libro dell’Etica nicomachea, ce
la rappresentiamo come criterio di giudizio ossia come regola, norma. Qual è, infatti, la norma cui deve ispirarsi
un giudice, un arbitro e, in una certa misura, anche il legislatore? Dare a ciascuno il suo, secondo i suoi meriti
e le sue colpe; regolare in modo uguale situazioni uguali. Regolare in modo uguale
situazioni tra loro disuguali, o addirittura opposte, sarebbe ingiusto: e questa è, appunto, l’ingiustizia dell’ugualitarismo,
visione del mondo che vuole imporre l’uguaglianza assoluta in tutti i
campi ed anche tra i sessi, cancellando di proposito tutte le differenze
naturali: non uguaglianza nonostante le
differenze e quindi realisticamente limitata al possibile bensì uguaglianza per
cancellare tutte le differenze, violentare la natura umana. Un’utopia insensata, storicamente causa di
grandi e ripetute catastrofi.
La regola di giustizia
del “dare a ciascuno il suo”, secondo la nostra Fede cattolica, sarà applicata
infallibilmente dal Cristo Giudice nei confronti dell’anima di ciascuno di noi,
appena morti, come è ricordato nell’Atto di fede: “…E credo in Gesù Cristo, Figlio di Dio,
incarnato e morto per noi, il quale darà a ciascuno, secondo i meriti, il premio
o la pena eterni”. Possiamo dire: darà a ciascuno il suo, a seconda di come
avrà attuato nella sua vita terrena ciò che costituiva per natura il proprio
di lui stesso.
4. Il nesso tra diritto e giustizia.
Non si devono
confondere istanze giuridiche ed istanze morali, non si deve far confusione tra
sfera del diritto e sfera della giustizia, la cui natura è eminentemente etica,
applicandosi in essa i principi morali fondamentali.
Tuttavia, osservo, come non è possibile
elidere il nesso tra il diritto e il dovere, visto che l’uno implica l’altro –
e l’idea del dovere ha un fondamento etico oltre che logico; del pari non sembra possibile recidere quello
tra diritto e giustizia. La distinzione
fra il diritto e la morale deve esser mantenuta, tuttavia essa non esclude quel
nesso tra diritto e morale rappresentato dall’esigenza della giustizia cioè dal
fatto che: 1. il diritto positivo deve
riconoscere quale diritto del soggetto istanze intrinsecamente buone, positive,
in definitiva giuste; 2. In quanto si attui in una legge posta da un
legislatore, non può comunque violare il principio della giustizia, come
espressoda una corretta gerarchia delle leggi.
Consideriamo il primo punto.
ll diritto del
soggetto o diritto soggettivo è stato sempre inteso quale manifestazione
della libera volontà del soggetto, riconosciuta in vario modo dall’ordinamento
giuridico. La definizione tradizionale
meglio calibrata sembra esser stata, alla fine, quella che interpreta questa
libera volontà non in termini di “interesse protetto” bensì in termini di potere. Così sintetizzata da un autorevole filosofo
del diritto del passato recente: in
senso proprio, “il diritto soggettivo è il potere individuale di esigere un
comportamento conforme all’ordinamento vigente”.[14] La precisazione che il comportamento che si
esige deve essere “conforme all’ordinamento vigente” chiarisce che non è
riconosciuto al soggetto il potere di esigere dai terzi un comportamento non
conforme all’ordinamento vigente ossia illecito : un potere vòlto a questo fine non può
costituire un diritto.
L’ordinamento si può intendere in vari
modi. Come ordinamento statuale o
sistema di diritto codificato da un legislatore che è lo Stato, oppure come
complesso organico di usi e costumi, diritto consuetudinario, non scritto ma
non per questo meno effettivo in relazione all’efficacia delle sue norme. Il riconoscimento del diritto del soggetto
può anche esser invocato sulla base del diritto naturale, per esempio quando si
afferma il “diritto alla vita” del nascituro sin dal momento del concepimento. In ogni caso, il concetto di un diritto del
soggetto o soggettivo individua una sfera di capacità e situazioni
dell’individuo considerate meritevoli di tutela.
Se approfondiamo
questo punto vediamo emergere il nesso tra diritto e morale. Infatti, se ci chiediamo: meritevoli, perché? Solo per esser ciò che l’individuo vuole o
desidera o perché considerate in se stesse giuste? Se la conformità a giustizia delle capacità e
situazioni che l’individuo pretende di veder riconosciute e tutelate si deve
ammettere quale requisito essenziale del riconoscimento da parte
dell’ordinamento giuridico, allora ecco apparire un sicuro nesso tra il diritto
del soggetto e la giustizia, onde potremmo dire che : il diritto soggettivo è la giusta pretesa
di un soggetto. Non una quasiasi
pretesa del soggetto ma solo quella giusta.
È chiaro che numerose
norme di un ordinamento giuridico non hanno a che fare direttamente con l’idea
della giustizia: il nesso di cui sopra
sarebbe pertanto indiretto. Infatti,
cosa c’entrano con la giustizia le numerose norme di vario tipo che nel tempo
si costruiscono attorno ad ogni istituto giuridico o a tutte le norme che
disciplinano una determinata attività, per esempio nell’ambito del diritto
commerciale, per non parlare del rimanente del diritto privato? Sono in generale norme di attuazione, una
foresta di leggi e regolamenti che spazia in ambito regionale, statale,
sovranazionale; norme dette anche
“tecniche”.
Facciamo tuttavia un
esempio. Se chiedo la licenza per
iniziare un’attività commerciale mi verrà concessa se l’autorità sarà convinta
dell’onestà del mio fine; del fatto cioè
che non la chiedo per spacciare droga o far traffico di merci di contrabbando o
rubate. Ciò significa che la mia pretesa
appare giusta agli occhi dell’autorità perché conforme agli scopi leciti del
commercio, attività di diritto privato ammessa, protetta ed anche incoraggiata
dall’ordinamento. E perché l’ordinamento
giuridico disciplina e protegge queste attività dei privati? Perché lo scopo dell’ordinamento non si
distingue da quello per il quale esiste quella polis o res publica che
chiamiamo Stato.
Lo Stato, infatti, a prescindere dalla sua
forma di governo, è quell’istituzione il cui fine è la realizzazione del bene
comune, corrispondente a quello che Aristotele, sulla scia di Platone, chiamava
il “viver bene” (eu zēn). Gli uomini, scrive, vivono creando sempre una
società ma che sia capace di realizzare un tipo di vita che sia buono: “neppure si sono raccolti solo per vivere,
bensì per viver bene”[15]. Questo “viver bene” quale fine della polis
non va confuso con le alleanze volontarie fra Stati a fini militari od economici,
realtà nelle quali si guarda a salvaguardare la giustizia solo nei rapporti
“l’uno contro l’altro”. Al contrario,
esso ricomprende sia il benessere materiale che quello spirituale. Infatti, “quanti si prendono pensiero del buon
governo badano alla virtù e alla cattiveria esistenti nell’ambito dello
Stato. Di qui è chiaro che deve prendersi
cura della virtù lo Stato veramente degno di questo nome e che non sia tale
solo a parole; ché allora la comunità diviene un’alleanza, differente soltanto
per il luogo dalle altre alleanze, quelle cioè che si stringono tra genti lontane,
e la legge una convenzione, la quale, per usare le parole del sofista
Licofrone, è garante di quel che è giusto da uomo a uomo ma non atta a render i
cittadini buoni e giusti”[16].
Il legislatore che “si
prende cura della virtù dei suoi cittadini” è quello che cerca di attuare la
giustizia. Cittadini “buoni e giusti”
saranno quelli le cui attività, disciplinate dal legislatore, avranno luogo per
fini “buoni e giusti”, come quelli di un’onesta attività commerciale o di
fondazione di una famiglia tra l’uomo e
la donna per la procreazione e l’educazione di figli. Anzi, lo Stato che tenga conto del principio
della giustizia non può disinteressarsi della virtù dei cittadini: combatterà
il vizio in tutte le sue forme, si assicurerà che le famiglie crescano in un
clima moralmente sano, provvedendo per quanto sta ad esso alla pubblica e
privata moralità e decoro. E sempre valuterà
di fatto la rilevanza etica (liceità sul piano morale) delle pretese che
costituiscono il contenuto dei diritti soggettivi fatti via via valere dai consociati.
Ma dovrà la classe
dirigente dare l’esempio di quella virtù che essa deve imporre con le leggi ai
cittadini e dalla quale non può comunque prescindere. Su quest’aspetto molto ha insistito Cicerone
nei suoi libri sulle Leggi e sullo Stato.
Riprendendo la massima diffusa da poeti e filosofi greci secondo la
quale “tutte le virtù dipendono dalla giustizia”, egli sottolinea che senza
l’esempio dei governanti, per lui soprattutto gli Ottimati, non c’è giustizia
che tenga: “..io credo invece che i
costumi delle città si trasformino col mutare del tenore di vita dei
nobili. Per questo i maggiorenti
corrotti arrecano il maggior danno allo Stato, perché non solo contraggono essi
stessi i vizi, ma li trasmettono alla cittadinanza. Né solamente nuocciono perché si lasciano
andare alla corruttela, ma perché anche corrompono, e nuocciono piú con
l’esempio che con il loro traviamento”[17].
E questo perché “virtus in usu sui
tota posita est”, la virtù è tutta nella sua stessa attuazione non nei bei
discorsi[18].
Ma l’esigenza della
giustizia della pretesa del soggetto resta sempre sullo sfondo, quale
ineliminabile Leitmotiv, anche dove non compare direttamente. Come
annotava Adolf Trendelenburg, illustre storico della filosofia, acuto logico e
acuto critico di Kant e di Hegel, in un articolo del 1862: “Nella misura in cui
le leggi esistono per comporre i conflitti, esse mantengono quell’evoluto
principio secondo il quale ci si trova in presenza di rapporti scaturenti dalla
vita di relazione: ma non lo manterrebbero
se non lo presupponessero eticamente valido.
In questo senso innanzitutto ogni diritto vuole conservare un’esistenza
conforme all’etica [ein sittlichen Dasein]. E quand’essa viene negata nel caso
particolare, è la sanzione a ristabilire la potenza dell’eticità, mantenendo
intatto nella sua univesalità il principio morale, messo in pericolo dalla
singola trasgressione”[19].
Pertanto, secondo
Trendelenburg la morale deve sempre esser presupposta al diritto, pur restando
ben chiara la distinzione tra le due sfere:
sfera esterna o della legalità quella del diritto; sfera interna della
legge morale quella dell’eticità, che obbliga in coscienza. Tra legalità e moralità non ci deve essere
sovrapposizione; c’è però connessione[20]. E difatti, lo stesso diritto positivo in
molteplici casi vuole capire quale sia l’effettiva intenzione del soggetto
agente, al fine di una esatta valuzione giuridica del suo comportamento.
Consideriamo ora il
secondo punto.
Qui abbiamo a che fare
con un problema diverso, costituito da una concezione intransigente del
rapporto tra diritto e giustizia in relazione alla norma posta dallo Stato:
alla Legge, nella quale si manifesta la pretesa del Soggetto pubblico, norma
che esige da noi piena osservanza.
Non ci chiediamo sempre
se sia giusta?
Ma san Tommaso,
rifacendosi a sant’Agostino, afferma non
esser la legge ingiusta vera legge: “lex
tyrannica, cum non sit secundum rationem, non est simpliciter lex, sed magis
est quaedam perversitas legis.”[21]
La “lex tyrannica” è per definizione quella
che non si cura del bene comune, che deve costituire il fine razionale di ogni
legge: si intende, un bene comune “secundum iustitiam divinam regulatum”.[22]
Una simile legge dovrà ritenersi sommamente
ingiusta, tanto più quanto si dimostri avversa al bene comune. Il “bene comune”, secondo la filosofia del
diritto cattolica tradizionale ossia tomistica, deve sempre esser perseguito
dal diritto positivo in modo da non violare mai né la legge naturale né quella
divina che la sorregge.[23] E difatti, san Tommaso ribadisce,
richiamandosi a sant’Agostino che la legge ingiusta deve ritenersi “legis
corruptio”.[24] Poiché ogni legge umana “in tanto possiede la
ratio legis in quanto derivi dalla legge naturale, se si discosta in qualcosa dalla
legge naturale non sarà legge ma corruzione della legge”[25].
La legge naturale
riposa sulla legge divina, ciò spiega la radicalità della conclusione cui
giunge l’Aquinate: violare la legge di
natura significa in realtà violare la legge divina ad essa sottesa. Dopo almeno un secolo di storicismo e
soprattutto di positivismo, che hanno entrambi concorso a far sparire il
concetto del diritto naturale dalla filosofia del diritto, la negazione tomista
del carattere di legge alla legge ingiusta può apparire del tutto indebita. Ma
la legge ingiusta della quale parla qui il dottor Angelico non è, ad esempio,
quella che ci aumenti le tasse o instauri la leva obbligatoria. È quella che viola
la legge naturale, inscindibilmente connessa alla legge divina, poiché la
gerarchia delle leggi si basa sempre sulla Causa Prima, costituita da Dio creatore. Pertanto, sembra perfettamente applicabile,
il punto di vista dell’Aquinate, a quelle leggi che violino in modo tale
l’esigenza del bene comune da configurare un vulnus nel diritto naturale stesso
e quindi nella legge divina. E in questa
categoria non rientrano forse leggi come quelle che riconoscono come diritto
della madre l’aborto procurato, da potersi effettuare per di più con il
contributo economico dello Stato? Qui la
violazione dell’esigenza del bene comune di un popolo e di una società appare
evidente, contribuendo ampiamente l’abortismo diffuso alla denatalità e alla corruzione
dei costumi, cose ovviamente del tutto opposte a quel “viver bene” dei
consociati che dovrebbe costituire il fine dello Stato e del suo ordinamento
giuridico e quindi del vero legislatore.
E in questa categoria non rientrano forse anche quelle leggi che
riconoscono come “matrimoni” le convivenze di omosessuali di entrambi i sessi? E per gli stessi motivi appena elencati a
proposito del diritto all’aborto.
L’elenco di queste triste leggi potrebbe continuare - pensiamo per
esempio all’allucinante legislazione sul cosiddetto “transgenderismo” - ma possiamo fermarci qui.
Voglio concludere la
mia riflessione con un’ultima considerazione, che mi sembra tuttavia della
massima importanza: c h i stabilisce la conformità a giustizia della
pretesa del soggetto? Può forse essere
il soggetto portatore della pretesa stessa?
In linea di principio, non può.
Per due ragioni principali: 1. sarebbe
giudice in causa propria; 2. essendoci tot capita tot sententiae, la
vita di relazione si dissolverebbe nell’anarchia, ovvero in un pluralismo indiscriminato
ed incontrollabile di pretese individuali le più diverse e persino opposte, che
esigono di esser prese tutte in considerazione come diritti da tutelare.
Occorre un criterio oggettivo
per stabilire la giustizia di ogni pretesa del soggetto individuale. Questo
criterio può esser costituito solo da una norma cui commisurare la
pretesa, una norma sottratta alla disponibilità dei soggetti, che nello stesso
tempo devono riconoscerla come vincolante per tutti. La “norma” nella realtà di fatto è costituita
dal complesso di norme di carattere morale che formano il sistema di valori di
una determinata società e del suo ordinamento giuridico. È
sulla base di questi valori, coinvolgenti l’idea della giustizia, che si
è sempre valutata la pretesa individuale ad esser riconosciutta come diritto
soggettivo (vedi supra).
Questo significa che
il diritto non può “scaturire dal fatto” in senso assoluto. Il principio pur esso tradizionale secondo il
quale “ex facto ius oritur” può avere un significato solo relativo. Relativo, nel senso che non ogni fatto
ovvero non ogni realtà sociale emergente può esser considerata meritevole di
tutela: bisogna che la pretesa della
quale si fa portatrice questa emergente realtà sociale, grande o piccola che
sia, sia una pretesa giusta, come si è detto. Non è sufficiente che sia spontanea,
anche in considerazione del fatto che spesso la “spontaneità” di certe pretese
è solo apparente o del tutto artificiosa.
Pertanto, la pretesa emergente abbisogna di una valutazione di conformità
ai valori fondamentali dell’ordinamento, che sono in genere valori religiosi,
morali, politici, di costume. Tale
valutazione dovrebbe costituire la discriminante in base alla quale concedere
la tutela del diritto ai fenomeni sociali nuovi o rifiutarla. E questa
valutazione non è mai solo giuridica. È anche politica, ma forse soprattutto etica
e coinvolge giustizia e diritto.
La presente,
irrazionale atmosfera culturale ha invece portato ad affermare in modo assoluto
il principio “ex facto ius oritur”.
Quante volte si è sentito e si sente tuttora dire che i costumi sono
cambiati e il legislatore, sia laico che ecclesiastico, deve solo trarne le
conclusioni prendendo atto del cambiamento e munendolo delle necessarie
provvidenze di legge? I costumi sono
indubbiamente cambiati ma non bisogna forse chiedersi se in peggio o in
meglio? Non dobbiamo porci questa
domanda? E soprattutto non se la deve
porre il legislatore? Se i cambiamenti
nei costumi hanno comportato, tra altre cose, ad una messa in pericolo così
radicale del bene comune, come quella sopra ricordata, non dovrebbe il
legislatore combattere tali cambiamenti setacciando in primo luogo i buoni dai
cattivi? In ogni caso, non dovrebbe
evitare di limitarsi a prendere atto di certe distruttive tendenze sociali, cessando
dal comportandosi come un semplice notaio dei desiderata dei più violenti e
meglio organizzati ?
1 novembre 2025
[1] Un’articolata ed efficace confutazione delle teorie
di propugnatori della “liberazione degli animali” sulla base dei loro supposti
“diritti”, si trova nel saggio
dell’eclettico, ultimo teorico del conservatorismo di marca inglese, il
filosofo anglicano Roger Scruton, 1944-2020.
Vedi il suo saggio del 1996: Gli
animali hanno diritti?, tr. it. di Daniela Damiani, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008. Ciò non significa che non sia giusto punire
la crudeltà contro gli animali: ma la
motivazione della pena è data (secondo una tesi tradizionale) dal senso di
compassione e di sdegno che l’infierire crudelmente su animali o persone
provoca in noi. Sul punto, vedi I. Kant, La metafisica dei costumi,
1798, tr. it. di G. Vidari, rivista da Nikolao Merker, Laterza, Bari, 1970,
pp. 304-305 (è il § 17 della parte dedicata
alla virtù e all’etica).
[2]
Per la vita di Socrate: Diogene Laerzio,
Vite dei filosofi, a cura di Marcello Gigante, TEA, Milano, 1991, pp.
54-64.
[3] Critone
44 c. Mi sono servito della tr. it. di
Manara Valgimigli, in: Platone, Opere, Laterza, Bari, 1966, vol. I, pp.
73-91; pp. 76-77.
[4]
Op. cit., 48 a; tr.it., p. 81.
[5]
Op. cit., 48 b; tr. it., p. 82.
[6]
Op. cit., 48 c; tr. it., p. 82.
[7]
Op. cit., 49 c.; tr. it., p. 83.
[8] Ho
riassunto la Prosopopea delle Leggi dalla traduzione del Critone
citata: 50-54; pp. 86-91.
[9] La
Repubblica, 433 b, in Platone, Opere, cit., II vol., p. 256. La traduzione è di Franco Sartori.
[10] Op.cit., 433 d; tr.it., p. 256.
[11] Platone, La Repubblica, a cura di
Giuseppe Lozza, tr. it. con testo a fronte, Mondadori, 1990, pp. 317. L’originale greco è quello curato per Les
Belles Lettres da E. Chambry.
[12] La Repubblica, 434 b; tr. it. di F. Sartori, cit., p. 257.
[13] 334 a, b; tr. it. di G. Lozza, cit., p. 27.
[14] Widar Cesarini Sforza, voce : Diritto
soggettivo, in: Enciclopedia del
diritto, XII, Delitto-Diritto, Giuffrè Editore, Milano, 1964. Accentuando maggiormente il momento
coercitivo: “diritto soggettivo significa
potere di costringere direttamente o indirettamente colui che è obbligato”
(Norberto Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, raccolta di
saggi, edizioni di comunità, Milano, 1972, p. 164).
[15] Aristotele, La politica, tr. it., introd.
note e indici a cura di Renato Laurenti, Laterza, Bari, 1966, p. 132 (1280a).
[16] Op. cit., pp. 132 (1280b). Vedi anche Etica Nicomachea, tr. it.
di Armando Plebe, Laterza, Bari, 1965, p. 30 (1103b): “I legislatori rendono buoni i cittadini,
abituandoli al bene e questo è il volere di ogni legislatore, e quelli che non
lo effettuano bene mancano al loro scopo e in ciò differisce una città ben
ordinata da una mal governata”.
[17]
Marco Tullio Cicerone, Le Leggi, a cura di Filippo Cancelli, Arnoldo
Mondadori Editore, 1969, ediz. critica con testo latino a fronte, pp. 242-244.
[18]
Marco Tullio Cicerone, Lo Stato, a cura di Filippo Cancelli, Arnoldo
Mondadori Editore, 1989, ediz. critica con testo latino a fronte, p. 181.
[19] Adolf Trendelenburg, Die Definition des
Rechts, in: Werner Maihofer (a cura di), Begriff und Wesen des Rechts,
WBG, Darmstadt, 1973, pp. 17-25; p. 22.
Si tratta di un’antologia di testi di illustri giuristi e filosofi del
diritto tedeschi e austriaci tra Ottocento e Novecento.
[20] Sulla distinzione fra legalità e moralità una
pagina esemplare si ha notoriamente nella kantiana Introduzione alla sua
Metafisica dei costumi, tr. it. cit., pp. 14-15.
[21] Summa
Theol., Ia – IIae,
q. 92 a. 1.
[22] Ibidem, a. 1
[23] Vedi la quaestio 91 della Summa appena
citata, che si occupa dei vari tipi di legge e della loro gerarchia.
[24] Op. cit., q. 95 a. 2 .
[25] Op. cit., ivi.
Il passo di sant’Agostino citato è :
“non videtur esse lex, quae iusta non fuerit” (I De Lib. Arb.,
cap. 5).
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