Sessant'anni dal Concilio - VII : analisi della 'libertà religiosa' promossa dalla Dichiarazione 'Dignitatis humanae'.
Sessant’anni dal Concilio - VII
XVI. La libertà religiosa della Dichiarazione
‘Dignitatis humanae’, laico corpo estraneo nel Vaticano II?
[Nota
previa. Eccomi alla penultima
puntata della scelta dal mio libro ‘Unam Sanctam. Studio sulle deviazioni dottrinali
nella Chiesa cattolica del XXI secolo’, Solfanelli, 2013, sempre grazie alla
cortese autorizzazione dell’editore Marco Solfanelli. La Dichiarazione sulla libertà religiosa fu,
come si può immaginare, uno dei testi più combattuti del Concilio. Il capitolo
nel quale ne tratto è il più lungo del mio libro: pp. 245-330.
Questo è dipeso anche dall’aver voluto io inserire un excursus critico
su Baruch Spinoza, 1632-1677, uno dei giganti del pensiero moderno. Si trattava di controbattere il pregiudizio
secondo il quale Spinoza sarebbe stato uno dei padri della moderna libertà
d’espressione e religiosa e in gran parte grazie alle sue critiche ai Testi
Sacri, in particolare al Nuovo Testamento.
Credo di aver dimostrato, testi alla mano, che le critiche di Spinoza al
Nuovo Testamento, che egli cerca di distruggere come fonte sovrannaturale della
verità, sono del tutto infondate, frutto di pregiudizi e di un’interpretazione palesemente
errata dei Testi.
Data la lunghezza del capitolo, mi è sembrato
utile riportarne in apertura il sommario.
Stampato in formato A 4 il
capitolo consta di 134 pagine (carattere Bodoni MT corpo 16). In compenso la lettura è molto più
comoda. In carattere Bodoni MT corpo 14
risulta di 103 pagine, ma piuttosto fitte allo sguardo, meno agevoli a
leggersi.
Qualcuno potrebbe chiedersi: perché occuparsi
di Spinoza, con un excursus che sembra per specialisti? Rispondo:
non mi occupo delle ardue questioni metafisiche inerenti allo spinozismo
(la nozione della sostanza come “causa sui” e il suo rapporto con gli attributi,
l’anomala nozione di causalità costruita da Spinoza del tutto scissa dall’idea
del fine, la nozione di un Dio immanente consustanziale alla natura, la visione
di una realtà dominata dal principio di necessità etc). Mi occupo della sua “esegesi biblica” critica
e dissolvente, considerata ancor oggi
quale itinerario intellettuale necessario al pensiero moderno per invocare la
libertà di parola e religiosa. Si tratta di argomenti che anche chi non ha
dimestichezza con la filosofia può affrontare, se si arma della necessaria
pazienza. I capziosi argomenti elaborati da Spinoza contro il Nuovo Testamento
sono ancora oggi invocati dai nemici della vera fede: per esempio, che gli
Apostoli parlassero come “dottori privati” e non come predicatori che diffondevano
verità di origine sovrannaturale. O che insegnassero dottrine contrastanti tra
di loro.
Spinoza è stato un pensatore estremamente
importante, per l’influenza che ha avuto nello sviluppo successivo. Ebreo olandese, rinnegatore del giudaismo al
pari di Marx (che aveva studiato a fondo la sua opera principale), cacciato
formalmente dalla Sinagoga, diede un potente contributo alla visione del mondo
che ne escludeva Iddio, relegandolo in una “sostanza” infinita, esistente ab aeterno, ‘causa sui’ senza un fine, “sostanza”
che non poteva non possedere la medesima necessità impersonale della
natura. La sua opera più famosa, “Ethica
more geometrico demonstrata”, pubblicata postuma, non è ovviamente solo
un’etica. È un trattato di metafisica,
di alta speculazione che ridisegna completamente la realtà escludendone con
rigorose deduzioni la necessità di un creatore (rigorose, rispetto alle proprie
premesse) per giungere all’esaltazione della libertà della mente umana contro
la tirannia delle passioni, libertà da raggiungersi con mezzi puramente
intellettuali, con la “potentia intellectus” affrancatosi infine da ogni
ipoteca divina.
La I delle cinque parti dell’Ethica è dedicata
a Dio (“De Deo”, di trentasei proposizioni, l’ultima delle quali seguìta da una
lunga Appendice nella quale il filosofo polemizza accanitamente contro l’idea
di un Dio Creatore). A mio avviso,
questa trattazione spinoziana del concetto di Dio rappresenta l’esatto
contrario del concetto di Dio, creatore e trascendente, Dio vivente, spiegato
da san Tommaso nella ‘Summa Theologiae’, Ia, Questiones da II a XIV. Potremmo dire: dalla tomistica “causa prima” – Dio come
causa prima della catena dell’essere, da Lui creata per la sua gloria e quindi
per un fine sovrannaturale - alla
spinoziana “causa sui”, Dio come sostanza che è causa infinita di se stessa, simultaneamente
res cogitans e res extensa senza una finalità, senza nulla creare, dominata dall’arida
necessità che compare nella natura; non creata – la natura – ma infinita in
quanto a sua volta attributo della sostanza divina come res extensa,
realizzante ogni perfezione già per il fatto stesso di esistere.
Pochi certamente leggono oggi Spinoza e ancor di
meno l’Aquinate. Tuttavia, Spinoza ha
posto dei princìpi, quelli di un panteismo che si risolve in un immanentismo
radicale esaltante la libertà interiore che procurerebbe all’uomo, una volta
liberatosi della fede nel Dio trascendente e vivente; princìpi i quali vengono
continuamente riproposti, in forma volgarizzata, nella cultura oggi prevalente
in Occidente, impregnata com’è di avversione per la vera religione e
sprofondante nel nichilismo. Albert
Einstein, a chi gli chiedeva se credesse in Dio, rispondeva che credeva in Dio
ma nel Dio di Spinoza, “Deus seu natura”.
Tant’è che affermò esser solo “una credenza per anime fiacche” quella di
chi (come i cristiani) credeva nella resurrezione dei corpi. Alla maniera di
Spinoza, vedeva nella natura solo una ferrea necessità, che a priori avrebbe
reso impossibile il miracolo e l’esistenza di una realtà al di là della natura
stessa].
* * *
Cap.
XVI. La libertà religiosa della
Dichiarazione ‘Dignitatis humanae’ laico corpo estraneo nel Vaticano II?
Sommario :
1. Secondo mons. Gherardini, la ‘Dignitatis
humanae’ (= DH) apre la strada all’indifferentismo religioso e morale;
2. La supposta continuità di DH con la
dottrina della Chiesa: gli argomenti del
prof. Cantoni;
2.1 Non
il magistero anteriore bensì la roncalliana “Pacem in terris” propugnava la
nuova dottrina, fissata nell’ambiguo proemio di DH;
3. Una
timida critica del prof. Cantoni al Concilio, che coglie tuttavia una lacuna
essenziale di DH;
4. La
DH “caso tipico moderno dello sviluppo dottrinale”?;
5.
L’idea della “libertà religiosa” è storicamente un risultato delle
Guerre di Religione e del deismo professato dalle filosofie secolaristiche;
6. La
critica tendenziosa di Spinoza alle Sacre Scritture quale presupposto del
concetto di ‘libertà religiosa”;
6.1
L’immanentismo di Spinoza nega a priori la possibilità stessa del
Sovrannaturale e quindi del miracolo;
6.2
Anche la filologia dimostra, contro Spinoza, che gli Apostoli non
insegnavano come semplici ‘dottori privati’;
6.3 La
predicazione apostolica è unitaria e in ogni sua forma viene dallo Spirito
Santo;
6.4 Per
sostenere che le Lettere degli Apostoli non erano ispirate, Spinoza altera il
senso di Mt 10, 19-20 e dell’incipit delle Lettere stesse;
6.5 Per
sostenere, alla fine, che gli Apostoli non predicavano una dottrina comune,
Spinoza altera il senso di Rm 15, 20;
6.6 Il
diritto ad una libertà religiosa fondata sulla coscienza individuale presuppone
una religione di Stato solo ‘civile’, priva di ogni elemento sovrannaturale,
religione incompatibile con il Cristianesimo;
6.7 La
vantata libertà di coscienza teorizzata da Spinoza è fictio ed instrumentum
regni;
7. Come
ha potuto il Concilio ‘far suo’ questo principio della libertà religiosa quale
diritto assoluto della persona, che presuppone uno Stato agnostico e ateo,
quale lo Stato moderno? Su quali basi?;
8. DH
2, che definisce il uovo concetto della libertà religiosa, appare minato da
gravi aporie e propone un concetto contraddittorio di verità, incompatibile con
quello di verità rivelata da Dio;
8.1
Quale concetto di verità ci propone la ‘Dignitatis humanae’? Un concetto
non conforme alla Tradizione della Chiesa, perché incompatibile con quello di
verità rivelata;
9. La
dottrina della ‘libertà religiosa’ affonda le sue radici nella
Rivelazione? Dall’analisi dei testi, non
si direbbe;
10. I
Martiri hanno offerto la loro testimonianza per render gloria a Dio e
convertire i Pagani, assai più che per la ‘libertà religiosa’, ed aspiravano ad
uno Stato cristiano;
11. La
DH salvaguardia l’unicità del Cattolicesimo?
La cosa è alquanto dubbia;
12.
Quale ‘diritto naturale’ ci propone la ‘Dignitatis humanae’?
[ Nota tecnica : la macchina ha stampato di nuovo spontaneamente due copie del presente testo. ]
* * *
1. Secondo
Mons. Gherardini, la “Dignitatis humanae” apre la strada all’indifferentismo
religioso e morale
Il capitolo più lungo
del suo saggio, il prof. Cantoni lo dedica al “caso serio” della libertà
religiosa, in relazione allo “sviluppo della dottrina cristiana[1]. È un capitolo ricco di lunghe citazioni nel quale viene difesa a
spada tratta la nuova dottrina della libertà religiosa propugnata dal Vaticano
II, considerata notoriamente tra i punti di “manifesta rottura” con il
Magistero precedente da tutti i critici del Concilio. Il testo si trascinò a lungo in Aula
provocando aspri dibattiti, come si può facilmente immaginare. Mons. Gherardini, nel suo primo libro sul
Concilio, quello sul “discorso
da fare”, ha dedicato venticinque fitte pagine di riflessioni a questa
famosa Dichiarazione. Il prof. Cantoni
non si avventura in una confutazione articolata. Più comodamente, si limita alla
sintetica critica nei confronti della libertà
religiosa del Vaticano II, contenuta nell’Epilogo di Quod et tradidi
vobis[2]. Ciò gli è sufficiente per affermare
perentoriamente che Mons. Gherardini ha affermato cose assolutamente false[3]. Osserviamo, dunque, attentamente.
Il prof. Cantoni
riporta in apertura la critica dell’illustre teologo. Qual è stato l’errore della Dignitatis
humanae? Non si è limitata a
mantenere “le due immunità che la Chiesa ha sempre difeso”, e che sono: “l’immunità dalla costrizione a pensar ed
agir in conflitto con le proprie convinzioni, e quella di esser con la forza
impedito di praticar in pubblico o in privato la propria religione”. Queste “immunità” appaiono effettivamente
“fondate nella persona umana e quindi, in ultima analisi, nella natura stessa
dell’uomo”. Cosa ha fatto, allora, il
Vaticano II? Ha parlato di queste
immunità “in modo non perfettamente corretto.
Considerando la libertà religiosa nella cornice del pluralismo
contemporaneo, vide nella compresenza delle varie e spesso contraddittorie
religioni non un male da tollerare, ma un bene da tutelare, riconoscendo ad
ogni Credo pari dignità ed identici diritti […]. Il diritto d’ognuno all’autodeterminazione
diventava così la ragione giustificativa dell’indifferenza di fronte a verità
ed errore […]. Chi ne fa una questione
di linguaggio, non si rende conto che l’urto, anziché fra parole di diverso
significato, è fra i contenuti dei significati diversi: diversa, insomma, è la sostanza della
dottrina. E la diversità è di per sé rottura,
non continuità”[4].
Questo il pensiero di
Mons. Gherardini sull’argomento, come riportato dal prof. Cantoni, al quale si
debbono le parentesi quadre nel testo.
Quest’ultimo postilla: questa
Dichiarazione “implicherebbe insomma un’aperta professione di indifferentismo,
più volte condannato dalla Chiesa”[5]. Accusa poi l’illustre teologo di non aver
citato la “bibliografia cospicua” sul “tema della continuità della Dignitatis
humanae con il magistero precedente”[6]. Di questa bibliografia riporta in nota un
lunghissimo elenco, di due pagine[7]. Osservo:
il fatto che non l’abbia citata, non significa che Mons. Gherardini non
ne sia a conoscenza. Ma non è questo il
punto. Se si legge l’elenco fornito
dall’Autore, si nota che si tratta in gran parte di contributi usciti dalle università
e dagli istituti pontifici, in genere tesi a dimostrare la validità della
vulgata impostasi, ossia la perfetta conformità dottrinale della novità
clamorosa di DH con tutto il magistero precedente. Ma i lavori di Mons.
Gherardini non sono mica tesi di laurea, nelle quali il laureando deve
diligentemente elencare tutte le fonti che ha consultato per ben impressionare
la Commissione sulla serietà della sua ricerca.
Tralasciando
quest’insignificante critica del prof. Cantoni, vengo all’osservazione secondo
la quale Mons. Gherardini avrebbe il torto di accusare il Concilio di “aperta
professione di indifferentismo”. Per la
verità, dal passo citato da Don Cantoni, non mi sembra che Mons. Gherardini
accusi il Concilio di aperta professione di indifferentismo, visto che
afferma: “chi ne fa una questione di
linguaggio non si rende conto etc.”, riferendosi evidentemente allo
spirito della DH, che mirava ad emanciparsi dal linguaggio del Magistero
anteriore (Gregorio XVI, Pio IX, Leone XIII, S. Pio X, Pio XII), il quale
condannava senza remissione la cosiddetta “libertà religiosa” quale espressione
del “diritto d’ognuno all’autodeterminazione”.
L’accusa di Mons. Gherardini mi sembra più calibrata, anche se la
sostanza ultima non cambia di molto: DH
insegna una dottrina “diversa”, questo è il punto, che di per sé si dimostra
“in rottura” con la tradizione e apre oggettivamente le porte
all’indifferentismo. Quanto ne fossero
consapevoli i Padri conciliari, è questione a ben vedere secondaria, che non
riguarda noi ma la loro coscienza.
Per capire al meglio
la critica di Mons. Gherardini bisogna però considerare, secondo me, anche la
parte tralasciata dal prof. Cantoni.
Perché è un errore dottrinale, per i Cattolici, “riconoscere ad ogni
Credo pari dignità ed identici diritti”?
Perché in tal modo si prevarica nei confronti dell’unica verità
: "Il problema della verità
veniva così non superato, ma ignorato:
verità ed errore indisturbatamente insieme”[8]. Che cosa si intende qui con “il problema
della verità”? Il fatto che la Verità
Rivelata non può esser messa sullo stesso piano dell’errore ossia dei Credi
delle religioni non rivelate (sia detto senza offesa per nessuno). E tantomeno quando si vuol far prevalere “il
diritto d’ognuno all’autodeterminazione”.
Questo “diritto” non può esser più forte del diritto dell’unica Verità
rivelata da Dio ad esser professata liberamente e ad esser tutelata nei
confronti dell’errore, il che implica che le altre religioni, non vere perché
non rivelate, devono esser ammesse (si
diceva una volta “tollerate”) subordinatamente all’unica e vera e a certe
condizioni, per esempio che i loro precetti non violino i buoni costumi e
l’ordine pubblico. E quindi, ammesse
appunto come un male da tollerare per esigenze imposte dall’opportunità e dalla
carità cristiana. C’è dunque un
“problema della verità” in relazione alla “libertà religiosa” e di questo
problema il prof. Cantoni non sembra rendersi conto. Della verità che inerisce oggettivamente
all’unica e vera religione, imponendo il suo
riconoscimento nella società da parte dell’autorità costituita, che non
può restar indifferente ad essa, poiché anche sull’autorità costituita grava
l’obbligo di conoscere ed attuare la volontà dell’unica vera religione
rivelata, la Cattolica Apostolica Romana.
Il prescindere dal
problema della verità, comporta per Mons. Gherardini anche un’altra
conseguenza, estremamente negativa, esposta nel secondo passo messo tra
parentesi dal prof. Cantoni. “Questo
prescindere dal problema del vero/falso o buono/cattivo scioglieva il soggetto
umano dalla sua stessa obbligazione naturale alla ricerca e alla scelta del
bene con relativa fuga dal male, alla conoscenza di Dio, all’osservanza della
sua legge, almeno nei limiti di quella naturale”[9]. È un peccato che il prof. Cantoni abbia
tralasciato anche questo spunto critico di Mons. Gherardini, che mi sembra del
massimo interesse. Esso spinge a
riflettere su questo dato essenziale:
che l’etica e quindi il comportamento morale cui ciascuno di noi è
tenuto secondo l’umana natura, non può prescindere dalla ricerca dell’autentica
verità in religione, dato che è la religione a fondare l’etica. Tutti i tentativi di fondare l’etica sulla
“sensibilità” o sul “sentimento” o sulla “ragion pratica” o addirittura
sull’”utile”, a cosa hanno portato?
Come ho ricordato
prima, Mons. Gherardini ha dedicato un intero capitolo del suo primo libro sul
Concilio al problema spinoso della “libertà religiosa”. Riporto qui alcune sue
osservazioni. 1. L’affermazione di DH 9
che la libertà religiosa ha il suo fondamento nella Rivelazione, se non diretto
almeno indiretto, non sembra potersi effettivamente appoggiare ai Testi
Sacri; 2. “Le considerazioni e gli
enunciati [di DH] sulla libertà religiosa fan di essa un principio d’etica
sociale, o un puro e semplice monito, indirettamente rivolto a quegli Stati che
con la Chiesa stian comportandosi – o si sian precedentemente comportati – come
tiranni? Come far pervenire, e
soprattutto come render operativo il pensiero del Concilio presso quegli Stati
che oggi aman definirsi “laici”, o seguon un certo relativismo morale, o
esibiscon un vero e proprio indifferentismo religioso e, per definizione, si
pongono al di là – se non contro – ogni affermazione di libertà religiosa?”[10]; 3. La
riduzione della religione “all’esperienza puramente personale” nell’Occidente
di oggi (dominato dal relativismo dei valori) non sarà involontariamente dipesa
“anche dall’esaltata dichiarazione conciliare DH?”; 4. Perché la Chiesa Cattolica sostiene oggi
con tanta sollecitudine come diritto personale e comunitario, fondato sulla
Parola di Dio e sulla natura umana, “una libertà di cui ieri non parlò o
considerò diversamente”?[11]. Ricordo, inoltre, che in questo capitolo del
suo libro, Mons. Gherardini, in un breve excursus storico, mostra come la
Chiesa non abbia mai proceduto a conversioni forzate, predicando sin dagli
inizi la necessità di una adesione del tutto libera e dichiarando sempre nulle
secondo il diritto le eventuali conversioni forzate o i battesimi di figli di
non cattolici effettuati contro la volontà dei genitori. Le eccezioni a questa politica furono poche e
dovute soprattutto all’errata iniziativa di qualche imperatore, come Eraclio o
Carlo Magno. Ma vediamo gli argomenti
del prof. Cantoni contro Mons. Gherardini ossia la sua difesa
dell’interpretazione dominante.
2. La
supposta continuità di DH con la dottrina della Chiesa: gli argomenti del prof. Cantoni
Il prof. Cantoni vuole
dimostrare la perfetta continuità della nuova dottrina muovendo innanzitutto dalle dichiarazioni della Prima
Sedes. Riporta pertanto un lungo passo
dell’ormai celebre discorso papale del 22 dicembre 2005, nel quale si fissa il
canone della “riforma nella continuità” quale unico criterio valido per
interpretare le novità emerse dal Vaticano II.
Nel suo discorso, il Papa apporta anche l’esempio del nuovo modo di
concepire la “libertà religiosa” da parte della Chiesa. Nel far adesso suo questo “principio
essenziale dello Stato moderno”, afferma, il Concilio “ha ripreso nuovamente il
patrimonio più profondo della Chiesa”.
Infatti, secondo il Papa, i Martiri della Chiesa primitiva sono morti
per la loro fede ma anche “per la libertà di coscienza e per la libertà di
professione della propria fede”[12]. Allora la Chiesa, nel coniugare le esigenze
della fede con quelle della libertà di coscienza cara allo Stato moderno, si
riprenderebbe il suo “patrimonio più profondo”, quello dei Martiri. Commenta il prof. Cantoni: “qui il problema viene reinterpretato in modo
nuovo”. In effetti, non mi sembra che
fosse mai stata avanzata da parte cattolica un’interpretazione del genere, che
sembra mettere in contraddizione tutta la Chiesa preconciliare con il
“patrimonio più profondo” della Chiesa stessa.
Non credo si manchi di rispetto al Romano Pontefice se si afferma che queste
sue dichiarazioni, rilasciate come dottore privato, dovrebbero essere
verificate nel confronto con la dottrina precedente e i fatti della storia, in
particolare per quanto riguarda il significato che i Martiri attribuivano alla
loro testimonianza. È vero che volevano
morire anche per la libertà di coscienza come la intendiamo noi oggi?
Del discorso del Papa,
Don Cantoni fa un’applicazione rigida, senza verifiche di sorta. Egli ne ricava che “i princìpi non sono forme
a priori”, essi devono potersi “innervare al reale in modi e forme sempre nuove
e mutevoli”. Ciò vale evidentemente
anche per “il tema della libertà religiosa”, che “è un tema di morale sociale”. Infatti, se “i princìpi morali fondamentali
sono immutabili, le loro applicazioni possono cambiare in funzione delle
situazioni”. E come si evita il pericolo
di cadere nella “inaccettabile morale della situazione”[13]? La morale “della situazione”, lo ricordo, fu
un’invenzione dell’Esistenzialismo, ateo e nichilista. Essa sosteneva che la regola morale nasce
unicamente dall’esigenza della “situazione” concreta nella quale si trova
l’individuo, come vissuta secondo le sue soggettive esigenze vitali, delle
quali deve ritenersi l’unico giudice. Ad ogni “situazione” la sua “morale”.
L’Esistenzialismo rendeva pertanto impossibile ogni morale degna di questo
nome. Il pericolo di cadere in un
nichilismo del genere non sussiste, per il prof. Cantoni, perché la “morale
della situazione” viene in essere “solo quando si nega la presenza di essenze e
nature immutabili e, conseguentemente, l’esistenza di atti “intrinsecamente
cattivi”, tali cioè che nessuna motivazione o situazione potrà mai coonestarli”[14]. E la dottrina cattolica, lo sappiamo, ammette
di certo sia le “essenze” che gli atti “intrinsecamente cattivi”.
La “morale sociale”
(cattolica) lascia dunque un legittimo margine di adattamento a situazioni
nuove nel rispetto dei princìpi fondamentali.
L’esempio classico in materia è quello del “prestito ad interesse”, nei
cui confronti, come è noto, l’atteggiamento della Chiesa è mutato nel corso dei
secoli: dalla condanna più radicale si è
passati alla sua accettazione, sia pure non incondizionata[15]. La tipologia della “libertà religiosa” sembra
allora assimilabile, per l’autore, a quella del “prestito ad interesse”, in
quanto espressione di una “morale sociale” che può adattarsi ai tempi, entro
certi limiti.
In parallelo con
questa evoluzione nei confronti del modo di concepire il prestito ad interesse,
l’Autore, sempre appoggiandosi al discorso del Papa, delinea il mutato
atteggiamento della Chiesa nei confronti dello Stato moderno, in passato
condannato già per il fatto stesso della sua laicità. “Nella
DH la Chiesa formula un giudizio sui doveri dello Stato in materia
religiosa, ma lo fa nella consapevolezza che lo Stato, in quanto organizzazione
della società, ha cambiato considerevolmente nel corso del tempo, in
particolare nell’età moderna”[16]. Che la forma dello Stato sia
“considerevolmente” cambiata “nel corso del tempo”, soprattutto a partire dalla
Rivoluzione Francese, non può esserci dubbio alcuno. Ma com’è cambiato, in meglio o in
peggio? Citando sempre il Papa, l’Autore
sostiene che è cambiato in meglio. Si
tratterebbe di un modello di Stato moderno di tendenze più moderate rispetto a
quelle apparse nelle “tendenze più radicali” della Rivoluzione Francese;
modello quale si vede, ad esempio, nel costituzionalismo americano. Questo tipo
di Stato, evidentemente democratico, non sarebbe ostile al Cattolicesimo. Lo dimostrerebbe il fatto che, soprattutto
dopo la Seconda guerra mondiale, “uomini di Stato cattolici avevano dimostrato
che può esistere uno Stato moderno laico, che tuttavia non è neutro riguardo ai
valori, ma vive attingendo alle grandi fonti etiche aperte dal cristianesimo”[17].
La frase è del
Papa. A quali uomini di Stato cattolici
si riferiva egli? Forse ad Adenauer.
O anche a De Gasperi? Ma può effettivamente esistere “uno Stato
moderno laico” che tuttavia sia capace
di “attingere alle grandi fonti etiche aperte dal Cristianesimo”? E quali sarebbero queste “fonti”? Rispetto per il Cristianesimo e nutrimento
spirituale dalle sue fonti si possono trovare presso singole personalità del
mondo laico. Ma l’evoluzione o meglio l’involuzione dello “Stato moderno
laico”, arrivato oggi a tutelare con legge dello Stato le deviazioni morali e
gli orrori che ben conosciamo, non
permettono forse di considerare troppo ottimistica la considerazione nella
quale il Pontefice sembra tenere lo Stato moderno? Uno Stato per principio senza religione,
senza Dio, senza morale, preoccupato quasi esclusivamente del benessere
materiale dei suoi cittadini!
Il problema, ben
presente a Mons. Gherardini, rappresentato dall’attuale, gravissima involuzione
dello “Stato laico”, i cui “valori” sono sempre più distanti da quelli
cristiani, non tocca il prof. Cantoni.
L’accettazione del principio della libertà religiosa da parte della
Chiesa è dunque avvenuta sul presupposto di una riconciliazione con lo Stato
laico, in quanto capace di non essere “neutro riguardo ai valori”. Questa (supposta) apertura dello Stato laico
a “valori” riconducibili in qualche modo al Cristianesimo, permette allora di
accettarne certi principi essenziali, quali la libertà religiosa. Così avrebbe ragionato il Concilio. La libertà religiosa è infatti “principio
essenziale dello Stato moderno” e la Chiesa, riconciliandosi con quest’ultimo,
lo avrebbe adesso accettato, naturalmente non per “canonizzare il relativismo”
(che mette tutte le religioni sullo stesso piano), ma per far valere nella
società il principio che “la verità non può esser imposta dall’esterno” al
soggetto: essa “deve esser fatta propria
dall’uomo solo mediante il processo del convincimento”[18].
È sempre il Papa che
sta parlando. Egli mette in guardia dal
cadere nell’equivoco di credere che l’adozione del principio della libertà
religiosa significhi accedere in qualche modo ad una visione relativistica dei
valori, sorgente di indifferentismo per quanto riguarda la religione. Che il Concilio non sia caduto in
quest’errore, risulta chiaramente, secondo il prof. Cantoni, già dall’art. 2 di
DH, che contiene in pratica le dichiarazioni di principio di tutto il
documento. Vi si proclama che “la
persona umana ha diritto alla libertà religiosa”. Si tratta di un diritto “che si fonda
realmente sulla stessa dignità della persona umana”. In cosa consiste concretamente questa
libertà? Nel lasciare del tutto “immuni
da coercizione”, da chicchesia esercitata, in modo che “in materia religiosa
nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza” e “sia impedito ad agire
in conformità alla sua coscienza privatamente o pubblicamente”. Inoltre, questo diritto deve esser
“riconosciuto e sancito come diritto civile dall’ordinamento giuridico”(DH
2).
Nessuno deve esser
costretto ad abiure o conversioni forzate, nessuno deve esser impedito
nell’esercizio del culto della sua religione.
Affermato in modo così assoluto per tutte le religioni, questo diritto
alla libertà religiosa non comporta il livellamento di tutte le religioni, come
se fossero tutte uguali? Non c’è
pericolo, fa rilevare il Nostro, poiché il Concilio precisa che la libertà
religiosa “riguarda l’immunità dalla coercizione nella società civile, essa
lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere morale dei singoli
e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo” (DH 1,
contenente il Proemio).
Questa “immunità dalla
coercizione” in materia di convinzioni religiose, ricorda anche il prof.
Cantoni, “ha sempre fatto parte della convinzione e della prassi
cattoliche”. La “tolleranza dei culti
c’è sempre stata in territorio cristiano”, tranne che per “eretici e scismatici
(anche se in modo molto ridotto e differenziato)”, considerati come traditori
della fede che andavano puniti (perché, ricordo, oltre a distruggere l’unità
della Chiesa, con le loro false dottrine spingevano le anime verso la Gehenna)[19]. Ma questa “tolleranza” o “immunità”, mi
chiedo, era intesa come fondata su di un diritto naturale incoercibile della
persona alla libertà religiosa o sulla carità cristiana, unita a semplici
criteri di opportunità, che spingevano a concedere una più o meno ampia libertà
di culto? È noto che un diritto di quel
tipo non veniva affatto riconosciuto dalla dottrina della Chiesa, nemmeno
quando Pio XII annoverava tra i diritti fondamentali della persona “il diritto
al culto di Dio, privato e pubblico” (vedi infra). Però, secondo il prof. Cantoni, “sul punto”,
ossia nella delicata materia della libertà religiosa, “si era innescato uno
sviluppo che DH porta consapevolmente a compimento”, come risulta dalle righe
finali dell’art. 1 o Proemio:
“Inoltre il sacro Concilio, trattando di questa libertà religiosa, si
propone di sviluppare la dottrina dei sommi Pontefici più recenti intorno ai
diritti inviolabili della persona umana e all’ordinamento giuridico della
società”.
Una simile
dichiarazione d’intenti già dimostrerebbe, secondo l’Autore, la continuità
della dottrina del Vaticano II. Ma qual
era questa “dottrina” sui diritti della persona e sull’ordinamento giuridico
della società, che il Concilio si proponeva di sviluppare? Si trattava degli approfondimenti in tal
senso apportati dai Papi nei decenni precedenti, per difendere l’umanità
dall’avanzata dei regimi totalitari, sino alla Pacem in terris di
Giovanni XXIII, abbondantemente citata in nota assieme ad un famoso
radiomessaggio di Pio XII. La nuova
dottrina sulla libertà religiosa costituirebbe dunque il coronamento della
dottrina precedente sui diritti inviolabili della persona.
Da ciò l’autore conclude che “è dunque
assolutamente falso affermare, come fa mons. Gherardini, che: “[il Concilio]
vide nella compresenza delle varie e spesso contraddittorie religioni non un
male da tollerare, ma un bene da tutelare, riconoscendo ad ogni Credo pari
dignità ed identici diritti””[20]. In cosa sarebbe consistita “la falsità” di
Mons. Gherardini? Se il “dunque”, come
da sintassi, collega il presente periodo al precedente, la falsa
interpretazione consisterebbe nell’attribuire ad una dottrina (quella del
Concilio) che porta a compimento la dottrina pontificia più recente sui diritti
della persona, il peccato di aver
considerato ogni Credo come un bene da tutelare da parte dello Stato. Se ne
deve concludere che la dottrina del Concilio sarebbe uguale a quella
preconciliare, nella quale non v’è di sicuro l’accettazione di tutti i Credo
come un bene da tutelare, perché espressione di un diritto inviolabile della
persona alla libertà di coscienza.
2.1 Non
il Magistero anteriore ma la roncalliana ‘Pacem in terris’ propugnava la nuova dottrina, fissata
nell’ambiguo ‘Proemio’ di DH
Se noi andiamo a
controllare la Pacem in terris, che è dell’11 aprile 1963 (mentre la DH
è del 7 dicembre 1965, ultimo giorno del Concilio), non troviamo proprio la nuova dottrina al § 8,
intitolato, nella traduzione: “Il
diritto di onorare Dio secondo il dettame della retta coscienza”? Scriveva infatti Papa Roncalli: “Ognuno ha il diritto di onorare Dio secondo
il dettame della retta coscienza; e quindi il diritto al culto di Dio privato e
pubblico”[21]. Affermazione lapidaria, senza sfumature, che
fa parte di un elenco di “diritti” che l’Enciclica vuol riconoscere alla
persona in quanto tale. Un diritto
“naturale”, per esprimersi con una terminologia tradizionale. “Ognuno” qui è evidentemente ogni uomo, e il
culto che egli avrebbe il diritto di esercitare, in privato e in pubblico, non
può che riferirsi ad ogni religione esistente sulla faccia della terra. Ma dalla struttura della frase si evince che
il fondamento di questo diritto non è costituito dall’appartenenza
dell’individuo ad una religione esistente ma dal “dettame della retta
coscienza”. C’è l’idea di una scelta
della coscienza individuale che deve esser riconosciuta in quanto tale, quale
che sia, purché sia “retta”. E quand’è
che la coscienza è “retta” nel suo “dettato”, qual è il criterio per
stabilirlo? Il testo non lo dice.
Il testo roncalliano
prosegue con due citazioni, per dimostrare l’ortodossia dell’affermazione. La prima riguarda un noto passo di Lattanzio,
Padre della Chiesa vissuto nel IV secolo; la seconda proviene dall’Enciclica Libertas
praestantissimus sulla libertà umana, di Leone XIII, del 1888.
“Infatti, come afferma
con chiarezza Lattanzio: “Siamo stati
creati allo scopo di rendere a Dio creatore il giusto onore che gli è dovuto,
di riconoscere lui solo e di seguirlo.
Questo è il vincolo di pietà che a lui ci stringe e a lui ci lega, e dal
quale deriva il nome stesso di religione”.
Ed il nostro predecessore di i.m. Leone XIII così si esprime: “Questa libertà vera e degna dei figli di
Dio, che mantiene alta la dignità dell’uomo, è più forte di qualunque violenza
ed ingiuria, e la Chiesa la reclamò e l’ebbe carissima ognora. Siffatta libertà rivendicarono con intrepida
costanza gli apostoli, la sancirono con gli scritti gli apologisti, la
consacrarono gran numero di martiri col proprio sangue””[22].
Da queste due
citazioni, per il modo nel quale sono inserite nel contesto, sembra
indubbiamente che sia Lattanzio che Leone XIII propugnassero la libertà
religiosa o di culto come “diritto” che deriva dalla natura umana in quanto
tale e identico per tutte le religioni.
Ma Lattanzio, a quale “Dio creatore” si riferisce? Ad un Dio creatore in generale,
deisticamente, o al Dio rivelatosi in Cristo Nostro Signore, al Dio nel quale
credono i Cristiani? A quest’ultimo,
ovviamente, se solo si pon mente, oltre che a tutta la sua produzione, agli
altri passi delle sue Divinae institutiones, per esempio a 4,13,1 nel
quale analizza a fondo il rapporto tra il Padre e il Figlio, anche se con gli
strumenti di una teologia ancora imperfetta (S. Girolamo). E a chiarire in modo definitivo il concetto
che il “giusto onore” da rendere al vero Dio è in realtà solo quello che si
rende al Dio del Nuovo Testamento, valga quanto scrive in 4, 30, 11 della
stessa opera: “Solo la Chiesa Cattolica
possiede il vero culto. Qui è la fonte
della verità, dove risiede la fede, dov’è il tempio di Dio: e chi non vi sia entrato o l’abbia
abbandonato, è escluso dalla speranza della vita [eterna] e della salvezza”[23]. L’enciclica roncalliana usa pertanto
Lattanzio in modo a mio avviso del tutto improprio perché l’Apologeta non
riconosce in alcun modo ad ogni uomo in generale “un diritto di onorare Dio secondo
il dettame della retta coscienza”, quale che sia la sua religione. Sostiene, al contrario, che l’unico vero
culto è quello cristiano perché culto del vero Dio che si è rivelato nella
Chiesa, al di fuori della quale non c’è salvezza. La religione pagana per lui altro non è che
“stoltezza, con la quale questi cultori degli dèi non cessano di affliggerci”[24].
E vengo alla citazione
di Leone XIII. Ancor più della
precedente, essa sembra favorevole alla libertà di coscienza in religione
uguale per tutti, propugnata da Giovanni XXIII. Ma non si può che restar
stupiti da un simile uso del testo leonino, dato che esso si trova in un
documento che è proprio uno di quelli nei quali il riconoscimento di una libertà di coscienza in religione, come
diritto naturale di ogni individuo da potersi esercitare illimitatamente sempre
e dovunque, viene esplicitamente riprovato!
Leone XIII, dopo aver ricordato (contro gli errori di Manichei,
Protestanti, Giansenisti, Fatalisti) che la libertà dell’uomo, inerente alla
sua dignità di ente razionale creato da Dio, si doveva ammettere ma non si
poteva intendere in modo assoluto poiché doveva esercitarsi con il limite di
obbedire alla ragione, di perseguire il “bene morale” e di non discostarsi mai
dal “sommo fine” proprio dell’uomo (la vita eterna), ribadiva la condanna
dell’opinione di chi voleva concepire come “diritti naturali” la libertà di
pensiero, di espressione, di insegnamento e di “promiscua religione”. Infatti, scriveva, “se fosse stata la natura
a conferire questi diritti, sarebbe allor legittimo ricusare i comandi divini e
nessuna legge potrebbe temperare la libertà dell’uomo”. Cosa gravissima, evidentemente. Perciò, “questi tipi di libertà” si potevano
solo “tollerare”, con la dovuta moderazione, unicamente “si iustae causae
sint”, ad esempio per evitare mali peggiori, in certe situazioni”[25].
Contro la distorsione
operata da Pacem in terris 8, bisogna allora restituire alla frase di
Leone XIII il suo giusto significato ovvero ricollocarla nel suo contesto,
animato da uno spirito ben diverso da quello della Pacem in terris.
Dopo aver affermato
l’esistenza della libertà dell’uomo, nel senso del libero arbitrio, che lo
rende responsabile delle sue azioni, da sottoporre sempre al controllo della
ragione, Leone XIII ci rammenta che la nostra ragione deve sottoporsi alla
legge naturale, che è di origine divina (lex aeterna), e alla legge
umana, “promulgata per il bene comune dei cittadini”. Ciò significa che “la norma e regola della
libertà dell’uomo – singolo e in società – deve esser posta integralmente
nell’eterna legge divina”. Ragion per
cui, “la vera libertà non è tale da consentire di far ciò che si vuole […] ma
consiste nel far sì che le leggi possano ancor meglio farci vivere secondo i
dettami della legge eterna”[26]. Ciò stabilito, il Papa viene a “quella
[libertà] che è tanto propagandata [oggi], che chiamano libertà di coscienza [quem
conscientiae libertatem nominant]: e
se la si intende – scrive testualmente – come liceità di rendere o non rendere
a Dio il culto come piaccia a ciascuno [ut suo cuique arbitratu], gli
argomenti sopra addotti la confutano a sufficienza”[27].
Gli “argomenti”
risultano appunto dal concetto stesso della libertà dell’uomo, come esposto da
Leone XIII, secondo la filosofia cristiana tradizionale, ossia inquadrata nei
limiti posti ad essa dalla legge divina e naturale oltre che dal diritto
positivo. Poiché la legge divina (lex
aeterna) deve sempre esser riflessa dalla legge umana, che disciplina l’uso
che l’uomo fa della sua libertà (fondata sul suo libero arbitrio), la “libertà
di coscienza” non potrà mai comportare una libertà indiscriminata per tutti i
culti religiosi. Lo impedisce la legge
divina, che pretende l’osservanza del culto del vero Dio. La “libertà di coscienza” dovrà pertanto
essere intesa nel modo giusto. Continua
l’encliclica: “Ma dall’opinione appena
vista può anche ricavarsi che sia lecito all’uomo in società, seguire e mettere
in pratica, con la coscienza di compiere un dovere, la volontà di Dio senza
alcun impedimento”. Segue la frase
citata dalla Pacem in terris: “E
proprio questa è la vera libertà, degna dei figli di Dio etc.”. La libertà religiosa che è lecito esercitare
nella società è quella dei “figli di Dio”, cioè dei Cristiani, che rende
l’onore dovuto al vero Dio, non la libertà per tutti ed ognuno di adorare
qualsivoglia divinità, in nome di un “diritto della persona” che (in questo
senso) il Papa non riconosce in alcun modo, nel prosieguo dell’Enciclica.
La “dottrina dei sommi
Pontefici più recenti intorno ai diritti inviolabili della persona umana” che
costituirebbe il fondamento della “libertà religiosa” che spetterebbe a ciascun
uomo, preesiste alla Pacem in terris, simultanea al Concilio ed ispirata
alla stessa mens? Nella nota n. 2 di DH
2, oltre all’enciclica roncalliana, e alla Libertas praestantissimus,
ripresa evidentemente sulla scia della Pacem in terris, si rammentano la
famosa enciclica Mit brennender Sorge del 14 marzo 1937 di Pio XI e il
non meno famoso radiomessagio di Pio XII, del 24 dicembre 1942, quali ulteriori
documenti dei Papi “più recenti”, che avrebbero insegnato la libertà religiosa
nel senso di DH.
Certamente, Pio XI e
Pio XII hanno rivendicato, di contro al totalitarismo nazista e comunista, i
diritti della persona umana, fondati sul diritto naturale e divino, ivi
compreso il diritto alla libertà religiosa.
Ma solo nel testo di Pio XII si può trovare uno spunto che
apparentemente anticipa l’impostazione della Pacem in terris. Vediamo.
DH 2 fa riferimento in
nota ad una pagina della Mit brennender Sorge nella quale il Papa
afferma: “Il credente possiede un
diritto irrinunciabile a confessare la sua fede e a praticarla nelle forme
confacenti. Leggi che soffocano od
ostacolano sia la confessione che la pratica di questa fede, contraddicono la
legge di natura”[28]. Il “credente”(Der gläubige Mensch) non
è qui l’uomo in generale ma il Cattolico.
L’enciclica riguardava la preoccupante situazione della Chiesa Cattolica
in Germania, ampiamente vessata dal regime nazista, che cercava di promuovere
una religione “cristiana” nazionale (i “Cristiani Tedeschi”) e sopprimeva le
scuole cattoliche, oltre a perseguitare in varie forme il clero per via
amministrativa. Dopo aver criticato, con
un linguaggio moderato nei toni ma chiarissimo nei concetti, i capisaldi
naturalistici e neopagani dell’ideologia nazista, l’enciclica si appellava al
diritto naturale per difendere il diritto dei Cattolici a professare e
praticare la loro religione e, in particolare, quello dei genitori cattolici a
educare i loro figli “nello spirito della vera religione e in accordo con i
suoi princìpi e comandamenti”[29]. L’appello al diritto naturale per
giustificare la libertà di professare la propria religione e di educare i figli
secondo i principi di questa, riguardava sempre i Cattolici ossia la “vera
religione” non tutte le religioni indiscriminatamente.
Vengo ora al
radiomessaggio natalizio di Pio XII, effettuato nel bel mezzo della seconda
Guerra Mondiale, nel quale egli menzionò, tra le vittime innocenti dell’immane
tragedia, anche “le centinaia di migliaia di persone, le quali, senza veruna
colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di stirpe, sono
destinate alla morte o ad un progressivo deperimento”[30]. Per giungere un giorno alla vera pace,
spiegava il Pontefice, occorreva “ridonare alla persona umana la dignità
concessale da Dio fin dal principio”.
Seguiva un elenco dei “fondamentali diritti della persona”, che gli
Stati dovevano rispettare: “il diritto a
mantenere e sviluppare la vita corporale, intellettuale e morale, e
particolarmente il diritto ad una formazione ed educazione religiosa; il
diritto al culto di Dio privato e pubblico, compresa l’azione caritativa
religiosa; il diritto, in massima, al matrimonio e al conseguimento del suo
scopo, il diritto alla società coniugale e domestica; il diritto di lavorare
come mezzo indispensabile al
mantenimento della vita familiare; il diritto alla libera scelta dello stato,
quindi anche dello stato sacerdotale e religioso; il diritto ad un uso dei beni
materiali, cosciente dei suoi doveri e delle limitazioni sociali”[31].
La frase sottolineata
sembra proprio la stessa della Pacem in terris, là ove essa dice:
“quindi il diritto al culto di Dio privato e pubblico”. Inteso come “diritto fondamentale della persona”,
tale diritto sembra effettivamente riconosciuto anche da Pio XII ad ogni
persona e quindi ad ogni religione alla quale la persona appartenga. Era proprio questo che voleva dire Pio XII? In base alla terminologia usata, il diritto
alla libertà religiosa sembra soprattutto quello dei Cattolici, visto che nel
“culto privato e pubblico” viene compresa anche “l’azione caritativa
religiosa”, espressione che si riferisce sicuramente alle opere di carità
tipiche della Chiesa Cattolica e vessate dal nazismo (per non parlare del
comunismo). Il “culto privato e pubblico” è allora quello cattolico, così ben
spiegato dal Papa nella posteriore Mediator Dei, del 1947. Anche il linguaggio usato per gli altri
riferimenti alla religione nell’elenco dei diritti della persona indica che si
tratta della religione cattolica. “Il diritto ad una formazione ed educazione
religiosa” della persona (sin dall’infanzia, evidentemente) era espressione
tipica per indicare il diritto dei genitori a far avere ai figli un’educazione
secondo i princìpi della religione cattolica; diritto, come si è ricordato,
conculcato in Germania dai nazisti.
Chiarissimo poi il riferimento al solo Cattolicesimo nell’indicazione
del “diritto alla scelta del libero stato”, se deve ricomprendere anche il
diritto individuale alla scelta dello “stato sacerdotale e religioso”
ossia di ognuno ad esser lasciato libero
di seguire la vocazione d’esser sacerdote o religioso (monaco conventuale,
“frate” nell’uso popolare). Sappiamo
quanto le vocazioni fossero avversate nella Germania nazista, per tacere sempre
dell’identico atteggiamento della Russia Sovietica.
Ma possiamo pensare
che, in quel terribile frangente storico, Pio XII volesse rivendicare il
“diritto della persona” a professare liberamente la sua religione solo per i
Cattolici, tanto più che egli si riferiva ai diritti fondamentali che avrebbero
dovuto riconoscersi agli uomini in un mondo che fosse uscito dalla guerra, in
un mondo capace di costruire finalmente la pace? E del quale i Cattolici erano solo
una parte? Non credo possiamo. E allora
Pio XII non sembra contraddire l’insegnamento precedente (di Pio IX, Leone
XIII) che, come si è visto, quel diritto non riconosceva? Tanto più che, cinque anni dopo, nella Mediator
Dei, egli scrisse che l’uomo ha il dovere di prestare “il debito culto
all’unico e vero Dio”, culto che è ovviamente quello della Chiesa
Cattolica. Se solo il culto cattolico è
rivolto al vero Dio, come poteva egli riconoscere quale “diritto fondamentale
della persona” il diritto al culto di Dio privato e pubblico che non fosse
quello cattolico? Quanto insegnato
nella Mediator Dei non è in contraddizione con il tenore del
radiomessaggio?
Così sembrerebbe. Ma a mio avviso il diritto della persona alla
libertà religiosa viene inteso dal Papa sempre nell’ambito della religione alla
quale la persona appartiene (quella del culto pubblico e privato che egli
professa) e non quale manifestazione individuale della sua coscienza o libertà
di pensiero, come sembra invece fare Giovanni XXIII, che introduce una
significativa variante perché sposta l’accento dal diritto all’esercizio della
propria religione (nella quale ci si trova oggettivamente e quasi sempre
per nascita) al diritto all’esercizio del culto che si ritiene individualmente
preferibile. Nella rivendicazione dei
“diritti fondamentali della persona” Pio XII non include la libertà di
coscienza e d’opinione, che sappiamo esser intesa dal pensiero laico liberale
come il valore assoluto.
Interpretato in questo
modo, l’assunto di Pio XII non mi sembra contraddica l’insegnamento anteriore
mentre lo stesso non può dirsi con certezza di quello di Roncalli. Si dirà:
Pio XII parla di diritto “fondamentale della persona” non di diritto
della religione. Vero. Ma la mancanza di qualsiasi riferimento al
“dettame della retta coscienza” dimostra che questo “diritto” andava per lui
giustificato in base all’appartenenza religiosa, che andava rispettata, anche
se l’unica religione vera era quella cattolica, che non poteva esser messa
sullo stesso piano di quelle non rivelate. Era l’appartenenza religiosa a
giustificare questo diritto, poiché non era giusto perseguitare qualcuno per il
solo fatto della sua religione di appartenenza; non era questo diritto a
giustificare l’appartenenza. Il senso
autentico dell’asserto pacelliano mi sembra dunque il seguente: in quanto persona, ognuno ha il diritto di
rendere a Dio il culto privato e pubblico della religione alla quale
appartiene, non quello di professare come religione (tutto) ciò che gli detta
la coscienza (“retta” fin che si vuole ma sempre individuale e non certo fonte
di verità rivelate). Quest’ultimo è
appunto il concetto laico della libertà della coscienza, che mette tutte
le religioni sullo stesso piano perché le considera tutte false.
L’interpretazione
estensiva del radiomessaggio, che sembra esser prevalsa, secondo la quale Pio
XII avrebbe già stabilito lo sviluppo nuovo, sancito poi da Giovanni XXIII in Pacem
in terris 8, forza il testo, poiché lo sviluppo nuovo è racchiuso proprio
nella frase aggiunta da Roncalli, che àncora questo diritto ad una libertà
assoluta della “retta coscienza”, sconosciuta a Pio XII, così come lo era ai
suoi predecessori. A mio avviso, nel
difendere il diritto naturale di ciascun uomo a praticare il culto della propria
religione di appartenenza, Pio XII, anche se si serviva dell’espressione
moderna “diritto fondamentale della persona”, non si discostava in realtà dallo
spirito con il quale S. Gregorio Magno, in una lettera al vescovo di Napoli
Pascasio, proibiva nell’AD 602 di impedire agli Ebrei di Napoli l’esercizio
pubblico e privato del loro culto (DS 250/480).
In un famoso sinodo
“degli Israeliti di Francia e del Regno d’Italia”, ordinato da Napoleone I nel
1806, Monsieur Avigdor, nizzardo, elevò spontaneamente ed inaspettatamente un
ispirato ringraziamento al Papato, approvato all’unanimità dall’assemblea, “per
aver protetto Israele durante la servitù di diciotto secoli tra le
Nazioni”. Dopo aver ricordato come i più
celebri “moralisti cristiani” antichi avessero sempre proibito le persecuzioni
e professato la tolleranza e la carità fraterna (faceva i nomi di S. Atanasio,
S. Giustino martire, S. Agostino, Lattanzio, S. Bernardo), egli si profondeva
nell’elogio dei Pontefici Romani, i quali, diceva, “hanno protetto e accolto
nei loro Stati gli Ebrei perseguitati ed espulsi da varie parti d’Europa”, e
degli “ecclesiastici di ogni paese che li avevano spesso difesi in vari Stati
di questa parte del mondo”, contro i Cattolici troppo zelanti o contro le
plebi, quando li volevano massacrare.
Seguiva un lungo ma incompleto elenco di nomi di Pontefici, a partire da
S. Gregorio Magno[32].
Perché ho voluto
ricordare questi precedenti storici, oggi
forse ignorati dai più? Per
arrivare a questa riflessione: il culto
ebraico, pubblico e privato, non era certo considerato culto al vero Dio,
come quello cattolico. E tuttavia era
ammesso ed anche protetto dal Papa. Se
diciamo che era solo “tollerato”, cosa cambia?
Era ammesso solo sulla base dello spirito di carità e per la futura
conversione di Israele o sulla base di un riconoscimento, anche tacito, di un
diritto, per forza di cose naturale, degli Ebrei a celebrare la religione nella
quale nascevano ed erano stati educati, anche se notoriamente ostile alla
nostra? A mio avviso, il riconoscimento
implicito di un diritto c’era, così come c’era nella dichiarata nullità
canonica del Battesimo dei figli degli Acattolici somministrato contro la
volontà dei loro genitori. Qui, non si
riconosceva il diritto naturale dei genitori sui propri figli, per ciò che
riguardava anche l’educazione religiosa?
Ora, il riconoscimento, sia pure implicito, di questo diritto non
impediva l’esistenza di limitazioni al suo esercizio. Le feste religiose ebraiche non erano certo
riconosciute come festività e il Sabato non era certo considerato giorno di
festa. C’erano poi altre restrizioni di
carattere pubblico. Similmente,
esistevano restrizioni giuridiche (a prescindere dalla loro effettiva
applicazione) nei confronti degli Ebrei per ciò che riguardava i loro rapporti
con i Cristiani. Ma le restrizioni
all’esercizio del culto non contraddicevano il riconoscimento (implicito) alla
titolarità di questo esercizio come titolarità di un diritto naturale? Si può pensare che vi contraddicessero solo se
si ha una concezione assoluta della libertà religiosa, come diritto
della persona ad una libertà di coscienza che non tollera alcun effettivo
limite al suo esercizio. Fino al
Vaticano II, questa concezione non è mai stata accettata dalla Chiesa Cattolica. Il diritto fondamentale alla libertà di culto
proposto da Pio XII mi sembra, pertanto,
compatibile con la distinzione tra titolarità del diritto e suo
esercizio, non sopprimibile questa titolarità ma gravata dalla possibilità di
restrizioni al suo esercizio nei confronti dell’esercizio dell’unica e vera
religione rivelata, quella Cattolica. La
proposta di Pio XII sembra limitarsi a formulare l’obbligo per lo Stato di non
perseguitare nessuno per la sua religione di appartenenza, non quello di
considerare tutte le religioni meritevoli di un’uguale tutela, in nome della
libertà individuale di coscienza, come farà poi il Vaticano II.
Dopo aver chiarito
quest’aspetto, torniamo alla cantoniana apologia della continuità della nuova
dottrina.
La dottrina dei sommi
pontefici “più recenti” (del solo Pio XII) si dimostra dunque solo in apparenza
conforme a quanto proposto poi dal Concilio.
Fa eccezione la Pacem in terris ma con essa siamo già alla
dottrina nuova, al Concilio. Ma la
fedeltà al deposito della fede sarebbe comunque garantita, secondo il prof.
Cantoni, dalla Professione di fede contenuta nel Proemio di DH, da me
già ricordata (vedi supra). Una
dichiarazione di intenzioni non è di per sé sufficiente a garantire
l’ortodossia di una dottrina che si presenti come nuova, poiché bisogna
comunque e sempre analizzarne il contenuto commisurandolo con la dovuta acribia
alla dottrina tramandata. E proprio da
questa analisi risalta l’ambiguità di DH 1.
“DH dichiara
piuttosto, anzi “il sacro concilio anzitutto professa [profitetur]”- e
l’espressione è di particolare gravità e importanza – che: “[…] Dio stesso ha fatto conoscere al genere
umano la via attraverso la quale gli uomini, servendolo, possono in Cristo divenire salvi e
beati. Crediamo che questa unica vera
religione sussista nella Chiesa cattolica e apostolica, alla quale il Signore
Gesù ha affidato il compito di comunicarla a tutti gli uomini, dicendo agli
Apostoli [segue il testo di Mt 28, 19-20].
E tutti gli uomini sono tenuti a cercare la verità, specialmente in ciò
che riguarda Dio e la sua Chiesa, e una volta conosciuta abbracciarla e
custodirla”[33].
I
motivi di perplessità che questo testo solleva sono molteplici: 1.
Ricorda che Cristo è “la via” ma non dice che è “l’unica via”, come forse
avrebbe dovuto; 2. il “possono in Cristo divenire salvi e beati”
è in realtà nell’originale “possano”(possint), che nella versione
francese, per motivi grammaticali, diventa “potrebbero”; 3. “l’unica e vera
religione” è sempre quella di LG 8 e UR 3, che “sussiste” nella Chiesa
Cattolica e nelle “Chiese e comunità” degli Acattolici, tant’è vero che il
testo non dice che sussiste “unicamente” nella Chiesa Cattolica, avverbio che
suggerirebbe la doverosa esclusione degli Acattolici; 4. la “Chiesa di Dio” è sempre la “Chiesa di
Cristo” che sussiste nella Chiesa Cattolica e presso gli Acattolici, come si è
visto. Il Concilio, nonostante l’uso del “profitemur” non sembra affatto
esprimersi con la gagliardia di una vera professione di fede. L’espressione “profitemur” potrà anche
apparire al prof. Cantoni “di particolare gravità ed importanza” ma resta il
fatto che essa si traduce in una “professione” di fede che usa il congiuntivo o
il condizionale, immergendo il tutto nell’aura incerta della possibilità, offerta
per di più da una Chiesa di Cristo che “sussiste” nella Chiesa Cattolica nel
modo che sappiamo cioè non integralmente.
3. Una
timida critica del prof. Cantoni al Concilio, che coglie tuttavia una lacuna
essenziale di DH
Anche i suoi difensori
ed apologeti rilevano che DH sembra accontentarsi di uno Stato “assolutamente
neutrale” in materia religiosa, cosa lontana dalla realtà. E in pratica impossibile, “perché
‘l’evangelizzazione integrale’ comporta anche l’evangelizzazione della società
e quindi, come risultato, anche dello Stato”. E “l’evangelizzazione”, mi
chiedo, può non essere “integrale”? Può
trascurare la salvezza dell’anima di una sola “pecorella smarrita”? Lo stesso Proemio
della DH, appena citato, non dice forse che permane intatta la dottrina
cattolica tradizionale sul dovere “delle società” nei confronti della vera
religione?[34]
Dovere di fare che
cosa, mi chiedo: il Concilio non
avrebbe potuto essere più esplicito? E
dovere “delle società” o anche dello Stato?
I due concetti non sono identici, indicano realtà strettamente connesse
ma non uguali. Se lo Stato diventasse
cristiano, osserva il prof. Cantoni, non potrebbe comunque mai applicare la
coercizione in materia religiosa, “perché il principio della non-coercizione in
materia religiosa, è un diritto naturale, che uno Stato cristiano è tenuto a
rispettare”[35]. Tant’è vero che la DH si è voluta cautelare
in questo senso, affermando addirittura che se in una determinata società
“viene attribuita ad un determinato gruppo religioso una speciale posizione
civile, è necessario che nello stesso tempo a tutti i cittadini e a tutti i
gruppi religiosi venga riconosciuto e
sia rispettato il diritto alla libertà in materia religiosa” (DH 6.3). Come a dire:
se la Chiesa Cattolica venisse nuovamente riconosciuta come religione
dello Stato italiano, questo riconoscimento non dovrebbe mai danneggiare “il
diritto alla libertà in materia religiosa” delle altre religioni riconosciute
dallo Stato. E poiché “il potere civile”
deve far sì che “l’uguaglianza giuridica dei cittadini non sia mai lesa per
motivi religiosi”, bisogna che non ci siano “discriminazioni” per questi
“motivi” (DH 6.4). Che cosa può
significare un asserto del genere, se non che tutte le religioni esistenti
nello Stato italiano avrebbero diritto agli stessi privilegi eventualmente
concessi alla religione cattolica, che, oltre ad essere l’unica vera, è parte
integrante della nostra identità nazionale da circa due millenni? Il centurione Longino, originario di
Lanciano, che per dovere d’ufficio trafisse con la lancia Nostro Signore
morente sulla croce, ricevendone in viso uno spruzzo di sangue che lo guarì da
un difetto alla vista, secondo una consolidata tradizione si fece
cristiano. E i primi pagani in assoluto
a farsi cristiani non furono il centurione Cornelio e altri componenti della
Coorte “detta l’Italica” di stanza a Cesarea Marittima in Palestina, composta
di volontari italici (Atti 10, 1 ss.)?
Il principio generale
che risulta da DH 6 mi sembra oggettivamente ostile al Cattolicesimo
perché impedisce ad uno Stato di diventare cristiano. Esso costituisce una pietra d’inciampo posta
alla conversione. Infatti, se lo Stato
deve sempre rispettare il supposto inviolabile diritto naturale di ogni singolo
e comunità religiosa ad esercitare il proprio culto senza restrizione alcuna,
non potrà mai diventare cattolico dato che il vero Cattolicesimo non può
ammettere un “diritto naturale” concepito in modo da non poter distinguere tra
il diritto dell’unica vera religione ad esser professata e quello delle
altre. L’intrinseca superiorità della
vera religione implica “discriminazioni” a sfavore delle altre, pur ammesse,
quando si tratti del loro esercizio. Si
ripropone pertanto in termini contraddittori il problema del rapporto tra “verità”
e “libertà”, lucidamente messo in rilievo da Mons. Gherardini (vedi supra,
§ 1 del capitolo). Come ha osservato di
recente uno studioso citato dal prof. Cantoni, “è un difetto di questo testo
conciliare che non sia andato sino in fondo nella sua problematica, astenendosi
dall’affrontare la temibile questione dei doveri dello Stato nei confronti di
Dio”[36].
Ma perché il Concilio
“non è andato sino in fondo”, tralasciando una questione così importante? Esso ha scritto che “le società” hanno il
dovere di ricercare in coscienza il vero Dio ma non ha avuto il coraggio di
proclamare questa verità anche per lo Stato.
Ciò che vale per “le società” non vale anche per gli Stati cioè per le
classi dirigenti e di governo, per le leggi che esse fanno? In realtà, mi sembra che la minoranza
progressista che ha menato le danze in Concilio sia rimasta coerente con sé
stessa. Data la prevalenza che si è
voluta concedere alla libertà della coscienza, intesa come diritto naturale,
per logica conseguenza lo Stato, vincolato al rispetto assoluto di questo
diritto, doveva restare neutrale e relegato nel ruolo di “guardiano notturno”
per quanto riguardava la libertà di coscienza.
Se si fosse detto che anche lo Stato aveva il dovere di ricercare il
vero Dio, sarebbe stato come dire che aveva il dovere di farsi cristiano, visto
che per un Concilio ecumenico della Chiesa Cattolica “il vero Dio” non può che
essere la Santissima Monotriade. E uno
Stato cristiano, pur ammettendo l’esercizio di culti diversi, non può certamente
metterli tutti sullo stesso piano della religione cristiana, che è la vera ed
unica e come tale da esso professata.
Uno Stato cristiano, come è avvenuto in passato, farebbe prevalere la
“verità” (della Rivelazione) sulla “libertà” (della coscienza individuale).
Esiste quindi “un
limite” in DH, riconosce il prof. Cantoni: “limite ma non errore. La contemporanea insistenza del magistero
sulle radici cristiane dell’Europa tende a superarlo”[37]. Questo “limite” non è dunque “un
errore”? Forse in sé non lo è, ma a mio
avviso deriva da un errore, quello di voler concepire come diritto naturale
inviolabile della persona il diritto alla libertà religiosa per tutte le
religioni. Diritto assoluto, di
fronte al quale lo Stato deve inchinarsi, rinunciando così a priori alla
propria eventuale conversione a Cristo!
Che Giovanni Paolo II
e Benedetto XVI abbiano tentato di “superare” questo limite, cercando di far
inserire nei princìpi fondamentali della Costituzione dell’Europa Unita la
clausola sulle “radici cristiane” del nostro continente, è senz’altro
vero. Ma ogni tentativo è fallito, come
ben sappiamo. L’ideale dello Stato
cristiano, cacciato dalla porta ad opera del Concilio, non poteva rientrare
dalla finestra, mediante la Costituzione dell’Unione europea. Ed era inevitabile che fosse così, se si
guarda al contenuto ultralaico ed anticristiano dei princìpi fondamentali di
questa Costituzione: al di là della
retorica umanitaria e solidaristica essi codificano il materialismo e
l’edonismo spinto oggi dominanti nelle
nostre società atee e miscredenti.
La menzione delle “radici cristiane” in un documento del genere sarebbe
stata a dir poco fuori posto.
4. La
DH “caso tipico moderno dello sviluppo dottrinale”?
Nonostante
l’ammissione di questo (grave) “limite” della DH, che comporta di per sé la
messa in ombra di un aspetto essenziale della dottrina della Chiesa sui
rapporti tra il potere civile e la religione, il prof. Cantoni vuol presentare
la DH addirittura come un “caso tipico” dello “sviluppo dottrinale che
caratterizza il magistero cattolico”:
altro che “rottura” con la Tradizione della Chiesa! A questo proposito,
nella seconda metà del capitolo, riespone sinteticamente la dottrina del
cardinale Newman sul concetto di “sviluppo” ortodosso del dogma, con i
tradizionali richiami al Lerinense e a S. Tommaso[38]. Secondo l’Autore, la dottrina newmanniana
permetterebbe di contemplare anche una “discontinuità”, purché appunto in
armonia con la dottrina di sempre. Ora,
quest’esposizione riassuntiva dell’idea dello “sviluppo dottrinale” non mi
sembra interessi tanto di per sé.
Interessa vederla all’opera ossia vedere se essa possa applicarsi al
Concilio. In altre parole: con il ricorso a Newman riusciamo a
dimostrare che la nuova dottrina proposta dal Concilio sulla libertà religiosa
è conforme al Deposito della Fede?
Il riscontro l’abbiamo nell’interpretazione
della condanna di Pio IX della moderna libertà religiosa nell’encliclica Quanta
cura[39]
. Si concilia il dettato di Pio IX con
quello del Vaticano II? La conciliazione
l’Autore, richiamandosi espressamente ai contributi di teologi contemporanei,
la vede nel fatto che Pio IX non avrebbe condannato lo stesso diritto
oggetto invece della tutela di DH. Egli avrebbe condannato l’erronea concezione
della libertà religiosa intesa come “diritto individuale dell’assolutismo
liberale”. Pio IX avrebbe condannato il
diritto che risultava dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del
Cittadino, avrebbe condannato il 1789, la Rivoluzione Francese, non il vero diritto
naturale alla libertà religiosa[40]. Egli lottò contro il “liberalismo
indifferentista e laicista”, che non era (secondo il prof. Cantoni) quello di
cattolici liberali come Montalembert e Acton[41]. Ragion per cui, “non ha senso affermare che
Pio IX ha condannato la libertà religiosa così come la concepisce la Dignitatis
humanae e come si andava affacciando alla storia attraverso la vicenda
degli Stati Uniti d’America, perché all’epoca la democrazia americana era
ancora, secondo la colorita espressione di Joseph de Maistre, “un bambino in
fasce””[42]. Non la Tradizione della Chiesa per la Chiesa,
dunque, ma il modello americano, di una democrazia che pone il diritto alla felicità
terrena, materiale dell’individuo tra i suoi princìpi fondamentali e in
quest’ottica concepisce la “libertà religiosa”!
Pio IX non avrebbe
dunque condannato la vera libertà religiosa ma solo la concezione deformata che
ne avevano certe correnti liberali, che riflettevano le componenti estreme
della Rivoluzione Francese. Non solo, la
corretta visione della libertà religiosa, adottata dal Concilio, farebbe tesoro
dell’esperienza della democrazia americana.
In questa sua conciliazione degli opposti (le condanne di Pio IX e la
laica libertà religiosa), l’Autore segue una tendenza oggi prevalente nella
pubblicistica cattolica. Dove si
riscontra un’evidente incompatibilità con la dottrina della Chiesa, si cerca di
dimostrare che si tratta di conflitto apparente o di equivoci. Così, nei confronti di Pio IX, e dei suoi
fulmini contro la libertà di coscienza nella religione, si cerca di dimostrare
che egli ha condannato un diverso modo di concepire quella libertà o
semplicemente il suo esercizio. A mio avviso si tratta di distinzioni di lana
caprina: la libertà religiosa propugnata
in nome della libertà di coscienza riconosciuta dalla Rivoluzione Francese non
è meno assoluta, in quanto principio, di quella esaltata dalla Rivoluzione
Americana. Entrambe presuppongono che il
fondamento della religione sia nella coscienza e sentimento dell’individuo non
in una Rivelazione sovrannaturale, storicamente avvenuta.
Cercherò di replicare
alla vulgata professata dal prof. Cantoni e da altri, concentrandomi sui
seguenti punti: l’origine anticattolica
ed anticristiana dell’istanza moderna della tolleranza religiosa, con
particolare riguardo a quel suo classico esponente che fu Spinoza; le contraddizioni presenti nella definizione
conciliare della libertà religiosa (DH 2,9-11); il vero significato della
testimonianza dei Martiri, per i quali la libertà di coscienza era un valore
del tutto secondario; il carattere anomalo del concetto di “diritto naturale”
proposto dal Vaticano II che, nella DH, non sembra tale da conservare al
Cattolicesimo la sua unicità.
5. L’idea
della “libertà religiosa” è storicamente un risultato delle Guerre di Religione
e del deismo professato dalle filosofie secolaristiche
L’art. 9 DH
afferma: “Quanto questo Concilio
Vaticano dichiara sul diritto degli esseri umani alla libertà religiosa ha il
suo fondamento nella dignità della persona, le cui esigenze la ragione umana
venne conoscendo sempre più chiaramente attraverso l’esperienza dei secoli [cuius
exigentiae rationi humanae plenius innotuerunt per saeculorum experientiam]”. Uno sviluppo plurisecolare della “ragione
umana” avrebbe condotto dunque al presente concetto di “libertà religiosa”, che
il Concilio non esita a far suo. A
questo sviluppo la Chiesa non avrebbe ovviamente partecipato (sino al Vaticano
II escluso), opponendovisi con decisione, come si è visto. Con il Vaticano II, nuova Pentecoste, l’illuminazione
e la conseguente entusiastica accettazione dell’opera secolare della
laica ragione.
Ora, la tesi proposta
qui dal Concilio mi sembra semplificare alquanto le vere vicende storiche,
quali ce le mostra “l’esperienza dei secoli”.
La “libertà religiosa” è presentata come una conquista della “ragione”,
che avrebbe gradualmente enucleato le “esigenze” della “dignità della
persona”. Questa interpretazione
recepisce acriticamente un canone ermeneutico tipico del pensiero moderno. In realtà, l’istanza della “libertà
religiosa”, nella prassi “libertà di culto”, quale espressione della libertà di
coscienza, che si attua mediante la libertà di parola, si era posta
storicamente solo dopo la rottura dell’unità cattolica dell’Europa occidentale
a causa dello scisma dei Protestanti eretici e le conseguenti guerre di
religione. Si era posta in modo grave
già nell’ambito delle lotte fra le varie sette protestanti. Si era imposta alla fine come soluzione di
compromesso elaborata dai politici e dalla ragion di Stato assai più che dalla
“ragione”. In Francia il partito dei Politiques, il cui teorico fu Jean
Bodin, anche per controbattere l’endemica guerra civile confessionale e la
conseguente anarchia, cominciò a teorizzare un concetto assoluto di sovranità,
indipendente dalla religione e fondato sullo Stato stesso. Il mancato rientro dello scisma, dopo lotte
sanguinose, aveva dato vita ad una realtà basata sul compromesso, con la
coesistenza forzata di Protestanti e Cattolici in uno stesso Stato in alcuni
paesi dell’Europa continentale:
Germania, Francia, Olanda, Svizzera.
Dove i protestanti avevano la netta supremazia, controllando interamente
il potere, come a Ginevra, nel regno d’Inghilterra, in Scozia, nei paesi
scandinavi, la persecuzione dei cattolici era durissima e spietata. Qui una libertà di coscienza anche relativa
non esisteva in nessun modo. Come non esisteva in Ispagna e negli Stati
italiani, con la parziale eccezione della Repubblica di Venezia.
La cultura, nelle sue
componenti laiche, che si andavano affermando sempre più grazie anche alle
scoperte che creavano una nuova immagine del mondo, proclamava il principio
della tolleranza, con il conseguente riconoscimento statale della libertà
di coscienza ossia di professione religiosa e di culto per le varie fedi. Ma tale indirizzo (che annoverò gli Spinoza,
i Locke, i Voltaire tra i suoi maggiori esponenti) si ispirava in modo evidente
ad una concezione deista e razionalista della divinità, che metteva ogni
religione storicamente esistente sullo stesso piano, aprendo la strada
all’indifferentismo e all’agnosticismo non solo nei confronti della religione
rivelata ma anche del fenomeno religioso in quanto tale. Credere in Dio, per il gentiluomo e l’uomo
colto, stava assurdamente diventando sinonimo di “superstizione”. Il laico principio di tolleranza in nome
della libertà individuale di coscienza stabiliva in tal modo (all’insegna
dell’indifferentismo e dell’agnosticismo) il presupposto concettuale della
“libertà religiosa” che sarebbe stata poi professata dallo Stato laico,
liberale, affermatosi in Europa dopo la Rivoluzione Francese.
L’esigenza della
“dignità della persona” di cui all’art. 9
DH citato, era in realtà l’esigenza fatta valere dal deismo razionalista
e panteista che gli intellettuali rivendicavano contro la religione
rivelata. Vi confluirono il panteismo di
due apostati come Bruno e Spinoza, il razionalismo protestante e quello degli
Illuministi. Però questa esigenza si
presentava mascherando la sua vera
natura poiché affettava una completa neutralità nei confronti della
religione, in nome delle esigenze della libertà individuale e della pace
sociale. Una cosa che il Concilio sembra
aver dimenticato, nel suo elogio del progresso della “ragione umana” nel corso
dei secoli, è che la “ragione” ha rivendicato la libertà di coscienza in
religione come fase essenziale della sua lotta contro il Sovrannaturale, al
fine di emanciparsi interamente da esso.
Ma questa dimenticanza non deve stupire, visto che la mens
progressista affermatasi nel Concilio non ha voluto lasciar spazio alcuno al
concetto del Sovrannaturale (vedi supra, cap. V e XIII).
6. La critica tendenziosa di Spinoza alle
Sacre Scritture quale presupposto del concetto di “libertà religiosa”
La connessione tra
libertà religiosa e negazione del Sovrannaturale e quindi del carattere
autenticamente rivelato della religione rivelata, è particolarmente evidente
nel Tractatus theologico-politicus pubblicato anonimo da Spinoza nel
1670, uno dei testi fondamentali della rivendicazione della moderna “libertà
religiosa”. Il lavoro, condannato dalle
autorità della protestante Olanda nel 1674, nonostante il clima di relativa
tolleranza esistente in un paese nel quale le fazioni politico-religiose
protestanti (arminiani fedeli alla tradizione erasmiana contro gomaristi
calvinisti) ancora si fronteggiavano duramente, procurò inevitabilmente
all’Autore un crescente “odio teologico”, che lo spinse a rinviare la
pubblicazione dell’Ethica (la cui stesura lo aveva impegnato per
quindici anni) avvenuta postuma nell’anno stesso della sua morte per tisi, il
21 febbario 1677 all’Aja. Il Trattato
spinoziano è considerato dalla cultura laica dominante un esempio ancora valido
e persino classico di quella conoscenza sempre più chiara della dignità
della persona e dei suoi diritti che la ragione avrebbe sviluppato
nell’esperienza degli ultimi secoli, per esprimermi nel linguaggio di DH 9,
sopra citato.
Non bisogna lasciarsi fuorviare dal carattere
esteriormente affabile e mite di Spinoza, dalla coerenza e anche dal coraggio
delle sue scelte di vita, dalla logica ferrea che sa imprimere ai suoi
ragionamenti in relazione alle premesse da cui muove, dall’ eccezionale
capacità di ordinare il suo pensiero in sistema, dalle sue professioni di “amor
Dei intellectualis”. Il Trattato è
un testo pervaso da cima a fondo di orgoglio luciferino, nel quale l’Autore
sottopone l’Antico Testamento e in subordine il Nuovo ad una critica che mira
ad una loro radicale delegittimazione in quanto fonti della Verità Rivelata,
dell’autentica Parola di Dio.
Caratteristico è il Cap. VI
Dei miracoli, tutto inteso a dimostrarne l’impossibilità.
6.1 L’immanentismo
di Spinoza nega a priori la possibilità stessa del Sovrannaturale e quindi del
miracolo
I cosiddetti miracoli
non sono altro che “un fatto di cui si ignora ordinariamente la causa”. È cosa comune che “il volgo chiami miracoli,
e cioè opere di Dio, i fatti non comuni della natura”, poiché esso “preferisce
ignorare le cause naturali delle cose”[43]. Furono “gli antichi Ebrei” a presentare come
miracoli certi fatti per dimostrare ai pagani “che l’intera natura era regolata
a loro esclusivo vantaggio dalla potenza del Dio che essi adoravano”[44]. Alla fede nei miracoli, Spinoza oppone
un’impossibilità logica. Infatti, nella
realtà, “nulla avviene contro la natura, ma questa, al contrario, procede
secondo un ordine eternamente fisso e immutabile”. L’immutabilità della natura dipende dal modo
nel quale Spinoza si rappresenta Dio: “E
siccome nulla è necessariamente vero, se non per il solo decreto divino, ne
segue nel modo più evidente che le leggi universali della natura non sono se
non decreti di Dio, discendenti dalla necessità e dalla perfezione della natura
divina. Perciò, se avvenisse in natura
qualcosa che ripugnasse alle sue leggi universali, ciò ripugnerebbe
necessariamente anche alla volontà, all’intelletto e alla natura di Dio;
ovvero, se si affermasse che Dio opera alcunché contro le leggi della natura,
si dovrebbe contemporaneamente affermare anche che Dio agisce contro la propria
natura”[45].
Osservo: le “leggi
della natura” dipendono sì dalla “perfezione della natura divina” ma non dalla
sua “necessità”, come se Dio non potesse esistere di per sé, come l’Essere
perfettissimo che non ha bisogno della natura per esser ciò che è. Spinoza, rifiutando l’idea di creazione,
identifica Dio con la natura (Deus seu natura, come scrisse in una
celebre pagina dell’Ethica)[46]. In tal modo, le leggi della natura sono
divine e non possono mutare senza contraddirsi, perché Dio è immutabile, in
quanto Sostanza infinita che è nello stesso tempo pensiero ed estensione. Ergo:
il miracolo non può esistere.
Esso è “fandonia” o “finzione”, come diceva in altri suoi scritti[47]. L’errore di fondo di Spinoza nasce dal suo
rigetto dell’esistenza di un Dio creatore, Dio personale, Dio vivente, come
quello, appunto, già testimoniato nell’Antico Testamento. Se è Dio che ha creato la materia e quindi
tutta la natura, compreso l’uomo, dal nulla, cioè non dalla potenza
all’atto ma dal non–essere all’essere (poiché la natura non poteva in alcun
modo preesistergli), dando Egli stesso alla natura le sue leggi; è logico
ammettere che Egli stesso, nella sua onnipotenza, possa modificare in tutto o
in parte, secondo il suo intendimento, quelle leggi mentre sono in atto, in un
dato momento nel tempo e nello spazio.
Si può sostenere l’impossibilità logica del miracolo solo se si nega
l’atto di Creazione, togliendo così a Dio l’onnipotenza con la quale dispone
della materia. Ma ciò tuttavia comporta
che la materia, che pur appare come ciò che viene sempre formato secondo un
modello o idea o disegno, debba esser considerata eterna e capace di darsi un
ordine e quindi di pensare, il che sembra chiaramente assurdo.
Tornando al Trattato. L’esistenza di Dio non si deduce dai miracoli
ma si percepisce meglio “attraverso l’ordine fisso e immutabile della
natura”. Anzi, i miracoli, “come fatti
contrari all’ordine naturale ci indurrebbero invece a dubitare di essa; mentre,
prescindendo da essi, potremmo averne l’assoluta certezza, sapendo che ogni
cosa segue l’ordine certo e immutabile della natura”[48]. Spinoza rovescia il modo normale di
ragionare: il miracolo non dimostrerebbe
ma addirittura negherebbe l’esistenza di Dio.
Ma siamo sempre lì: tale
rovesciamento è possibile solo sulla base del Deus seu natura,
dell’identificazione arbitraria ed irrazionale, panteistica di Dio con la
natura e del conseguente determinismo.
Se poi volessimo
comunque spiegare il miracolo come un fatto effettivamente avvenuto, naturale o
non, bisogna ammettere, secondo Spinoza, che il miracolo “è un fatto che non si
può spiegare mediante la sua causa, cioè è un fatto che supera l’umana
comprensione. Ma da un fatto, e in
assoluto da ciò che supera la nostra comprensione, noi non possiamo conoscere
nulla. Infatti, tutto ciò che noi
intendiamo in modo chiaro e distinto deve essere a noi noto, o per sé o per
mezzo di altro che è per sé conosciuto chiaramente e distintamente. Per la qual cosa dal miracolo, ossia da un
fatto che supera la nostra comprensione, noi non possiamo capire né l’essenza
né l’esistenza di Dio, né in modo assoluto alcunché intorno a Dio o alla
natura”[49].
Si vede qui all’opera
il razionalismo spinoziano, desunto come metodo da Cartesio ma applicato
all’idea di Dio peculiare a Spinoza. Dal
“fatto” in sé non comprensibile non possiamo risalire alla sua causa,
dice. Altrimenti sarebbe comprensibile. Ma osservo, contro Spinoza: nemmeno dal fatto in sé comprensibile, ovvero
dalla natura nella sua per noi normalità quotidiana, possiamo risalire alla sua
causa, se quest’ultima è da vedersi nel “decreto” di un Dio che è però la
natura stessa. Identificando Dio e natura, viene meno la necessaria
distinzione tra la causa e l’effetto. Tutto si confonde. Tale indispensabile
distinzione può mantenersi solo se si separa nel concetto una mente ordinatrice
della realtà dalla realtà stessa, ordinata appunto in seguito all’azione
concreta di questa mente (creazione e suo mantenimento).
E proprio questa distinzione
riporta S. Paolo nel famoso passo di Rm 1, 20, sulla deducibilità
dell’esistenza di Dio per chi usa rettamente della sua intelligenza, nel senso
comune del termine: “poiché le
perfezioni invisibili di Lui fin dalla creazione del mondo, comprendendosi
dalle cose fatte, si rendono visibili, quali la sua eterna potenza e la sua
divinità [Invisibilia enim ipsius, a creatura mundi, per ea quae facta sunt,
intellecta, conspiciuntur: sempiterna
quoque eius virtus, et divinitas”]”.
Ora, se le “cose fatte” non ci permettono di risalire a Chi le ha fatte,
perché non esiste per Spinoza un Dio come ente e mente separati dalla natura e
anteriore ad essa, bisogna dire che nella sua filosofia c’è comunque
l’impossibilità di avere l’idea dell’esistenza di Dio, sia che si tratti di
dedurla dalla natura dei miracoli che da quella della normalità quotidiana.
6.2 Anche
la filologia dimostra, contro Spinoza, che gli Apostoli non insegnavano come
semplici “dottori privati”
Vengo ora al modo nel
quale Spinoza (nel cap. XI del Trattato) cerca di dimostrare che gli
Apostoli non parlavano per autorità divina ma come “dottori privati” e per di
più senza aver avuto un fondamento dottrinale comune, cosa che sarebbe stata
all’origine delle eresie che affliggono periodicamente la Cristianità. Con
questi assurdi argomenti, Spinoza tenta chiaramente di delegittimare anche il
Nuovo Testamento in quanto fonte della Verità Rivelata. Le analisi scritturistiche con le quali cerca
di dare un fondamento alle sue tesi, sono condotte all’insegna di un
pregiudizio, affermatosi poi nella critica biblica successiva, in particolare
protestante razionalista: che gli
Scrittori sacri non abbiano mai cercato di riferire fedelmente fatti
effettivamente avvenuti ma abbiano scritto soprattutto per educare il
popolo alla pietà e alla devozione, sulla base delle idee e dei modi di sentire
di loro stessi che scrivevano o raccontavano[50].
Ma vediamo il suo
attacco al Nuovo Testamento.
Con quale autorità
parlavano gli Apostoli, si chiede?
Leggendo il Nuovo Testamento, essi appaiono come “profeti”. Ma “profeti”, come? Spinoza non specifica. Si capisce tuttavia che per lui il vero
profeta è solo quello dell’Antico Testamento. È pertanto lecito chiedersi, “se
gli apostoli abbiano scritto le loro lettere in qualità di profeti in seguito a
rivelazione e per espresso mandato, come Mosè, Geremia e altri, ovvero come
privati e dottori. E ciò tanto più
perché nella prima Epistola ai Corinti 14.6 Paolo distingue due generi
di predicazione, l’una per rivelazione e l’altra per conoscenza: onde si può dubitare, dico, se nelle
espistole essi si presentino come profeti o come dotti”[51].
Questa distinzione di
“due generi di predicazione” attribuita a 1 Cr 14,6 in realtà non esiste, come
vedremo. Per l’intanto rilevo che la
distinzione stessa non è neutra, quanto ai suoi effetti: se gli apostoli parlano come semplici “dotti”
allora la loro testimonianza è solo quella di individui privati (“privati e
dottori”, in modo simile ad un semplice interprete privato della Legge). Già dallo “stile” delle loro lettere,
continua Spinoza, “diversissimo da quello profetico”, si vede che essi non si
presentavano come profeti. I profeti attestavano continuamente di parlare per
volontà di Dio, usando le espressioni “Così dice Dio”, “Dice il Dio degli
eserciti” etc. Nelle lettere degli
Apostoli non c’è nulla di simile. “Al
contrario, nella prima Epistola ai Corinti 7,40 Paolo parla secondo il suo
parere. In moltissimi luoghi, ricorrono
espressioni che denotano incertezza e perplessità, come nell’Epistola ai Romani
3, 28: “Crediamo dunque”, e nell’8, 18: “Infatti io ritengo”; e così in molti altri luoghi”. Nel cap. 7 di 1 Cr S. Paolo dà ordini e anche
semplici consigli sullo stato matrimoniale e sul celibato. Spinoza ne conclude che “quando, nel detto
capitolo egli dichiara di avere o di non avere un precetto o mandato di Dio,
non intende un precetto o un mandato a lui rivelato da Dio, ma soltanto gli
insegnamenti che Cristo diede ai discepoli sulla montagna”[52].
Si impongono alcune osservazioni.
I luoghi nei quali incorrono quelle che Spinoza chiama “espressioni di
incertezza e perplessità” non sono affatto “moltissimi”. Che poi certe espressioni indichino
“incertezza e perplessità”, non è vero. Ugualmente, sono pochi i casi nei quali
S. Paolo “parla secondo il suo parere”, tant’è vero che Spinoza è costretto a
citare tre volte in proposito sempre lo stesso capitolo 7 di 1 Cr, che è quello
nel quale la cosa è evidente.
Vediamo subito i due
esempi di prosa paolina che rivelerebbe una supposta incertezza da parte
dell’Apostolo. Nel primo caso (Rm 3,28), se il “crediamo dunque” esprime
“incertezza”, quest’ultima dovrà risultare dal contesto nel quale il verbo si
trova. Spinoza isola completamente dal
loro contesto le espressioni da lui scelte, il che mi sembra scorretto dal
punto di vista di una sana ermeneutica.
Vediamo dunque il contesto. Il
verbo in questione si trova a conclusione di una lunga esposizione che dimostra
come la salvezza delle anime non dipenda dall’osservanza delle opere della
Legge giudaica (con tutto il suo formalismo) ma dalla fede in Cristo, Figlio di
Dio, il Messia atteso. Rivolgendosi al
suo ideale contraddittore israelita, S. Paolo scrive: “Dov’è dunque il tuo vanto? è escluso. Per qual legge [la salvezza]? quella delle opere? No, ma per la legge della
fede [in Cristo], poiché riteniamo [loghizómetha gár, arbitramur enim]
essere l’uomo giustificato [di fronte a Dio] per la fede, all’infuori delle
opere della Legge [giudaica]. Forseché
soltanto dei Giudei è Dio? no, anche delle genti; sicuro, anche delle genti, se
è unico Dio quello che giustificherà i circoncisi in seguito alla fede [in
Cristo], come i non circoncisi mediante la fede [in Cristo]. Annulliamo dunque la Legge per via della
fede? Non sia mai; anzi confermiamo la Legge” (Rm 3,27-31). La “confermiamo” perché l’insegnamento di
Cristo, depurandola degli elementi caduchi, rappresenta il compimento della
Legge, non la sua negazione.
In questa potente
pagina dobbiamo forse ritenere che il “poiché riteniamo” o “crediamo dunque”
esprima dubbio ed incertezza? Direi che
esprime proprio il contrario! Questo
verbo afferma con forza il concetto predicato dall’Apostolo: che la salvezza
viene solo dalla fede in Cristo non dalle opere della Legge giudaica, perché
Dio è Dio di tutti non dei soli Ebrei.
L’affermazione è netta e recisa.
Spinoza prevarica sul significato autentico del passo e anche la
filologia gli dà torto. “Arbitramur”, con il quale si è tradotto l’originale
greco, ha anche il senso di “tener per certo, fermamente” e corrisponde ad uno
dei significati di “loghízomai”, che non vuol dire solamente “calcolo” o
“penso”, come sembra ritenere Spinoza, nella nota erudita che egli appone nel
suo testo al punto. Seguito
dall’infinito, come in questo caso, ha il significato di “far conto fermamente
su qualcosa”.
E vengo a Rm 8, 18. Qui S. Paolo dice, ad un certo punto,
“infatti io ritengo”. Ma ritiene, che
cosa? Se non abbiamo tutto il periodo
come possiamo farci un’idea precisa?
Certo, all’epoca il limitato pubblico colto conosceva abbastanza bene i
Testi Sacri e non abbisognava di lunghe citazioni. E tuttavia è impossibile verificare l’assunto
di Spinoza senza collocare il verbo nella sua frase e questa nella parte
dell’Epistola che le compete. Anche qui
il verbo è retto da un “poiché” o “infatti” che lo connette al periodo
precedente. In esso, S. Paolo spiegava
come i convertiti al Cristianesimo fossero diventati “figli adottivi di Dio” ai
quali è destinata in eredità la vita eterna:
“e se figli, anche eredi; eredi di Dio, coeredi in Cristo, se pur
soffriamo con lui al fine di esser anche con lui glorificati” (Rm 8,
12-17). Coeredi nella Gloria
futura ma solo se accettiamo le sofferenze della nostra vita terrena “con
Cristo”, cioè mantenendo la fede in Lui e sopportandole come Lui le ha
sopportate. “Poiché io ritengo [loghízomai
gár, existimo enim] che le sofferenze del tempo presente non han nulla a
che fare colla gloria che dev’essere manifestata in noi, giacché l’ansiosa
aspettativa del mondo creato attende la manifestazione dei figli di Dio…” (Rm
8, 18-19).
“Ritengo”,
“existimo”. Questa non è forse
l’opinione personale di S. Paolo? Egli
sta incoraggiando i fedeli a resistere di fronte alle grandi difficoltà della
vita, doppie per i Cristiani perseguitati.
In effetti, come potremmo paragonare la miseria attuale con la Gloria
futura degli Eletti, nella vita eterna presso Dio, nel godimento perpetuo della
Visione Beatifica? Bisogna dunque aver
coraggio e aver fiducia nella Provvidenza, che ci darà un premio
incommensurabile, in termini umani. Il
verbo usato qui dall’Apostolo è sempre “loghízomai”, che però il latino rende
stavolta con “existimo”, che contiene indubbiamente una valenza soggettiva. La diversa traduzione è giustificata dal
costrutto, oltre che dal contesto: qui
“loghízomai” non regge l’infinito ma hóti, quod.
“Existimo quod, ritengo che…”:
costruzione usata quando il verbo greco ha più il significato di
ponderare, ritenere. In Rm 3, 28 S.
Paolo usava il plurale, qui parla in prima persona. Perché il plurale? Sembra il “noi” maiestatico della fede
professata dalla Chiesa, per divina rivelazione. In ogni caso, possiamo dire
che lo “existimo” di Rm 8,18 esprima “incertezza o perplessità” come vuol far
credere Spinoza? Direi proprio di no.
L’affermazione dell’Apostolo appare fatta in assoluta sicurezza. Essa non costituisce articolo di fede, come
l’asserto sulla salvezza dalla fede in Cristo e non dalle opere della Legge
giudaica. È una constatazione offerta
alla riflessione dei fedeli per rafforzarli nella fede; offerta senza dubbi di
sorta, da ritenersi conforme al vero perché sempre fondata sulla Rivelazione,
dato che la “Gloria futura” dei predestinati è creduta sempre per rivelazione,
è parte del Deposito della Fede.
Ma con quale
fondamento Spinoza afferma che quando S. Paolo dichiara di insegnare un
precetto ricevuto per rivelazione da Dio non intende un precetto “a lui
rivelato da Dio ma soltanto gli insegnamenti del Discorso della Montagna”? La sicurezza con la quale Spinoza fa
quest’affermazione lascia sbalorditi dato che S. Paolo ha più volte detto di
aver ricevuto direttamente dal Signore, per rivelazione privata, la dottrina
che insegnava. Tant’è vero che quando
parla a titolo personale (dando semplici consigli di vita cristiana o esortando
alla perseveranza nella fede) lo dice espressamente, come appunto in 1 Cr
7. Nella lettera ai Galati, che si
stavano allontanando dalla retta dottrina ricevuta da lui, scrisse: “Dovete sapere, o fratelli, che il Vangelo da
me predicato non è secondo l’uomo, e di fatto non l’ho mica ricevuto da un
uomo, né io ne fui ammaestrato, ma l’ho avuto per rivelazione di Gesù Cristo”
(Gal 1, 11-12). L’affermazione è
ripetuta in 1 Cr 11,23, a proposito
dell’istituzione dell’Eucaristia (“Poiché quello che io ho trasmesso, anche a
voi, l’ho ricevuto dal Signore; e ciò è che il Signore Gesù la notte in cui fu
tradito, prese del pane, etc.”); nonché nella Lettera agli Efesini, 3,3 (“e
come per rivelazione fu da me conosciuto il mistero” della redenzione dei
Gentili); e fors’anche in Tess 4, 15, in relazione alla Parusia di Nostro
Signore: “Questo vi diciamo colla parola
del Signore…”. Non bisogna poi dimenticare
i “detti indicibili” e quindi le rivelazioni che udì quando fu rapito in ascesi
al terzo cielo – 2 Cr 12, 2-9)[53].
Dati tutti questi
elementi, come fa Spinoza ad affermare senza mezzi termini, contro la lettera
delle dichiarazioni dell’Apostolo, che egli “non intendeva” in realtà riferirsi
ad un precetto “rivelato da Dio” quando diceva di insegnare un precetto
rivelato da Dio? Quali prove ci dà di
questa contraddizione, che farebbe di S. Paolo in sostanza un impostore? Prove, non ne può offrire alcuna. Può solo speculare sulle dichiarazioni
dell’Apostolo. Infatti cosa dice quest’ultimo
in 1 Cr 7? “Ai coniugati invece ordino
[paraggéllo, praecipio] non io ma il Signore, che la moglie non si
separi dal marito, ma qualora si separasse, non passi ad altre nozze, o si
riconcili col marito; e il marito non ripudi la moglie. Agli altri poi dico io, non il Signore: se un fratello ha una moglie non credente…”(1
Cr 7, 10-11). Qui viene dichiarata
l’indissolubilità del matrimonio e il divieto del ripudio. Ma tutto ciò non era stato già insegnato da
Nostro Signore e non solo nel Discorso della Montagna? Ecco che allora, insinua Spinoza,
quest’insegnamento che viene dichiarato frutto di una rivelazione privata a
Paolo, è in realtà sempre quello pubblico di Gesù, durante la sua predicazione
terrena. Se le cose stanno così, allora
l’invocazione paolina di una specifica rivelazione privata nei suoi confronti
dovrebbe considerarsi o una bugia o una metafora.
In realtà, Spinoza può
apportare solo quest’esempio a sostegno della sua tesi. Deve passare sotto silenzio tutti i passi
delle lettere paoline nei quali l’Apostolo dichiara di aver ricevuto
direttamente da Cristo insegnamenti che non si trovano nel Discorso della
Montagna. Così per l’istituzione dell’Eucaristia, per il mistero della
redenzione dei Gentili. E anche le
dichiarazioni espresse di aver ricevuto tutta la sua dottrina direttamente dal
Cristo Glorioso. Ma anche riandando a 1
Cr 7 cosa troviamo? Che S. Paolo espone
con chiarezza i suoi personali consigli in assenza di mandati ricevuti
direttamente da Nostro Signore sull’argomento di specie. E che tali mandati costituissero norme
imperative risulta anche linguisticamente dall’ultimo suo riferimento: “Riguardo a chi è vergine non ho nessun
ordine da parte del Signore, ma dò un consiglio, come uomo che, per grazia del
Signore, è degno di fede” (1 Cr 7, 25). Ordine:
epitagé, praeceptum, nel senso appunto di comando, precetto, come lo
erano stati quelli precedenti nel corso dello stesso cap. 7 della lettera. È vero che in 1 Cr 7, 10-11 egli usa il verbo
paraggéllo, che significa anche consiglio. Ma significa anche comando, ordino, come fa
fede la traduzione latina con praecipio.
E che valore ha l’obiezione che si trattava degli stessi insegnamenti
del Cristo terreno sul matrimonio?
Nessuno, secondo me. S. Paolo non
aveva certo ricevuto il mandato di insegnare dottrine sue personali o nuove,
rispetto a quello che il Cristo ci aveva già fatto sapere. Si trattava di svilupparle nel modo dovuto e
di applicarle al caso concreto. E
difatti, nel cap. 7 di 1 Cr egli
risponde ad una serie di questioni che gli erano state poste per lettera dai
fedeli sul matrimonio e il celibato. Si
trattava dunque di applicare la dottrina di Cristo al caso concreto, che poteva
favorire l’eccezione o spingere alla violazione della norma. Ebbene, forte dell’autorità di Cristo che
ribadisce in modo imperativo attraverso di lui la dottrina a sua tempo
insegnata sulla terra, S. Paolo dirime le varie questioni. Il fatto, dunque, che si tratti qui degli stessi
insegnamenti del Cristo terreno non dimostra di per sé che Nostro Signore
non abbia ordinato di osservarli direttamente tramite l’Apostolo, la cui
predicazione, tranne espressa dichiarazione in contrario, rendeva sempre noti
ed applicava i “mandata” del Signore, con l’aiuto dello Spirito Santo.
Ma procediamo con gli
argomenti di Spinoza. Egli fa molto caso
alla differenza di stile riscontrabile tra il linguaggio dei profeti e quello
degli Apostoli. I profeti, osserva,
usano sempre argomenti perentori mentre gli Apostoli, poiché “ragionano”,
sembra “discutano”. Le profezie
veterotestamentarie “contengono solo dogmi e decreti, perché in esse è Dio che
prende la parola, Dio che non ragiona ma decreta secondo l’autorità assoluta
della sua natura, e perché l’autorità del profeta non sopporta il ragionamento,
giacché chiunque voglia sostenere con la ragione i dogmi che espone, li
sottopone per ciò stesso al giudizio e al discernimento di ciascuno”[54]. Ma, annoto, nel passo di S. Paolo appena
visto, nel quale scrive “ai coniugati invece ordino, non io ma il Signore”,
“discute” egli o si esprime al modo “perentorio” dei profeti?
Inoltre i profeti non
usano il lume naturale e proprio da questo si capisce che essi sono dotati di
una conoscenza soprannaturale, che si traduce nell’enunciazione di “puri dogmi
o decreti o massime”. Pertanto ritengo,
continua Spinoza, “che il sommo profeta Mosè non ha prodotto alcun legittimo
argomento; mentre ammetto che le lunghe deduzioni e argomentazioni di Paolo,
quali si trovano nell’Epistola di Romani, non sono state scritte in alcun modo
per rivelazione soprannaturale”. Le
epistole apostoliche sono state scritte “soltanto sulla scorta di un naturale
giudizio”. Esse non contengono “altro se non fraterni ammonimenti, mescolati a
cortesia (dalla quale rifugge del tutto l’autorità profetica), come nella
formula con la quale Paolo, nell’Epistola ai Romani 15,15 si scusa
dicendo: “Vi ho scritto in termini un
po’ troppo arditi, o fratelli”[55].
Spinoza equivoca del
tutto il significato di Rm 15,15:
l’arditezza cui si riferiva l’Apostolo riguardava solo il fatto che la
Chiesa di Roma non era stata fondata da lui.
L’aveva fondata S. Pietro ma egli aveva tuttavia avuto l’ardire di
scriver loro pur non essendo da essi conosciuto, nell’AD 57. Non si trattava di scuse per presunti termini
troppo arditi della sua lettera. Ma
Spinoza sembra anche contraddirsi in re ipsa. Infatti, prima dice che la Lettera ai Romani
contiene “lunghe deduzioni e argomentazioni” e poi che tutte le epistole degli Apostoli
contengono solo “fraterni ammonimenti, mescolati a cortesia”. Dobbiamo allora
ritenere che le “ lunghe deduzioni ed argomentazioni” dell’Epistola ai Romani,
ossia tutta la profonda e complessa teologia rivelata sul rapporto tra la fede
e le opere, sulla giustificazione, sulla predestinazione, sul destino finale di
Israele e la parte parenetica, che applica l’etica cristiana alla vita sociale
con esortazioni, consigli e comandi; che tutto questo sia nient’altro che
“fraterni ammonimenti, mescolati a cortesia”?
Qui “l’ermeneutica” di Spinoza sfiora addirittura il ridicolo.
E circa la profezia
sulla conversione finale di Israele a Cristo (Rm 11, 25) che conto ne tiene
Spinoza? Nessuno, anche se essa dimostra
come si potesse esser profeti senza ricorrere allo stile dei profeti
dell’Antico Testamento.
6.3 La
predicazione apostolica è unitaria e in ogni sua forma viene dallo Spirito
Santo
S. Paolo avrebbe
dunque distinto “due generi di predicazione, uno per rivelazione e uno per
conoscenza”. Questi due generi sarebbero
tra loro alquanto diversi, dato che uno comporta una rivelazione divina e
l’altro no, esprimendosi solo “per conoscenza”, si intende secondo i criteri
della conoscenza umana. Ma cosa dice S. Paolo?
“Difatti, o fratelli, se io mi presentassi a voi parlando le lingue, di
qual profitto vi sarei, se non vi parlassi per rivelazione, o per conoscenza, o
per profezia, o per dottrina?”. Altri
traduce: “se non vi parlassi con qualche
rivelazione, o con la scienza, o con la profezia, o con qualche
ammaestramento?”. Non inquadrato nel suo
contesto, il passo paolino appare difficilmente comprensibile. E di nuovo si vede l’arbitrarietà del
metodo di Spinoza, che isola dal contesto la distinzione tra predicazione
“per rivelazione” e “per conoscenza”, come se si trattasse di due categorie generali
e assolute elaborate dall’Apostolo a fondamento della sua predicazione. Il che non è.
Leggendo l’intero
passo si vede, infatti, che il contenuto della predicazione S. Paolo lo divide
in quattro argomenti: rivelazione,
scienza o conoscenza, profezia, dottrina nel senso di ammaestramento. E questa specificazione egli la fa a che
proposito? A proposito del fenomeno della glossolalía o “parlar in
lingue”: se egli avesse predicato
“parlando le lingue” nessuno lo avrebbe capito. Di quali “lingue” si trattava?
Di lingue arcane e misteriose, incomprensibili ai presenti. Venivano recitate in uno stato estatico e
tradotte agli astanti da un fedele che a sua volta aveva ricevuto il dono di
tradurle. La traduzione rivelava lodi a
Dio, a Nostro Signore. Il fenomeno della
“glossolalìa”era frequente nei primi tempi del Cristianesimo. Si trattava di uno dei “càrismi” o doni
spirituali particolari ed eccezionali
che lo Spirito Santo effondeva sulla Chiesa nascente, per aiutarla. Nella prima Lettera ai Corinti S. Paolo si
sofferma a lungo su questi “carismi” (capp. 12-14) spiegando che cosa sono e
come devono esser utilizzati. Su tutto
ciò Spinoza si guarda bene dall’aprir bocca.
I diversi “doni” o “carismi” vengono dallo
Spirito Santo per l’utilità della Chiesa.
“Poiché c’è bensì diversità di doni, ma lo Spirito è il medesimo; come
c’è diversità di ministeri, ma il medesimo Signore; e diversità di operazioni
ma il medesimo Dio, che opera tutto in tutti.
La manifestazione dello Spirito è data a ciascuno per l’utilità
comune. Infatti dallo Spirito ad uno è
dato il linguaggio della sapienza; ad un altro il linguaggio della scienza,
però secondo il medesimo Spirito; ad uno la fede, nel medesimo Spirito; ad un
altro il dono delle guarigioni, nell’unico Spirito; ad uno il dono di operar
miracoli; ad un altro la profezia; ad uno il discernimento degli spiriti, a un
altro la diversità delle lingue, e a un altro l’interpretazione delle
lingue. Or, tutte queste cose le compie
un solo e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno in particolare secondo
vuole” (1 Cr 12, 4-11).
Si vede chiaramente da
questo passo che i due generi di “predicazione” individuati da Spinoza nel
testo paolino, in realtà non esistono, in quanto categorie fondamentali e non
conciliabili tra loro della predicazione apostolica (non conciliabili perché
una di origine divina e l’altra umana).
La “sapienza”, la “scienza” (o “conoscenza”), la “profezia”, così come
gli altri doni, vengono tutte da un unico Spirito, dallo Spirito Santo, per il
bene e l’utilità della Chiesa nascente.
Sono manifestazione di un’unica realtà sovrannaturale, rappresentata
sempre dallo Spirito Santo; emanano come tanti raggi da un unico centro.
Pertanto realizzano in modo diverso ma complementare la “predicazione”, in tutti
i suoi aspetti. Spiegando il loro
significato ai fedeli, S. Paolo dimostra che il dono della profezia è superiore
a quello delle lingue (1 Cr, 14 1 ss.) anche se non bisogna mai dimenticare che
tutti questi “doni” o “carismi” sono perfettamente inutili se non si ha la
carità poiché “la scienza gonfia ma la carità edifica” (il cap. 13 della
lettera contiene il celebre elogio della carità cristiana, come atteggiamento
spirituale di chi si rimette completamente al vero Dio in tutto ciò che fa e
pensa, per obbedirne sempre e comunque la volontà).
Un’analisi precisa e
ancora valida dei “carismi nel Cristianesimo primitivo” si trova, a mio avviso,
nella classica biografia di S. Paolo dell’abate Ricciotti. Di questi particolari fenomeni, S. Paolo è
colui che ne parla più ampiamente e più a lungo. Li chiama “sia carismi (charísmata
[doni], Rm 12,6), sia (cose) spirituali (1 Cr 12,1), sia semplicemente spiriti
(1 Cr 14,12-32). La ragione di questa
omonimia è chiara, giacché il carisma è il prodotto della cháris ossia
della grazia, e la fonte unica di tutti questi carismi si ritrova in
colui che è chiamato lo Spirito per eccellenza (1 Cr 12,4), il quale è Dio
(ivi, 6); quindi, per spontanea metonimia, questi prodotti dello Spirito
potevano chiamarsi anche (cose) spirituali, oppure spiriti”[56]. Più volte S. Paolo ci dà un elenco di questi
carismi, senza pretesa di completezza.
In questi elenchi troviamo:
“Discorso di sapienza (Apostoli), Discorso di conoscenza (Profeti), Fede
(Insegnanti), Guarigioni (Possanze), Operazioni di possanze (Guarigioni),
Profezia (Incarichi), Discernimenti di spiriti (Governi), Generi di lingue
(Generi di lingue), Interpretazioni di lingue”[57].
Dalla prima lettera ai
Corinti (1 Cr 14, 23-39) si desume l’azione dei carismi nelle prime adunanze
cristiane. “Quel primo oratore che,
subito dopo la celebrazione dell’Eucaristia, parlò in lingua sconosciuta dagli
astanti, possedeva il carisma dei Generi di lingue, chiamato anche Glossolalìa. Il secondo oratore, che tradusse nella lingua
usuale il discorso del primo, aveva il carisma delle interpretazioni di
lingue. Quel tal fedele che impose le
mani sul vecchio malato e pregando lo guarì, aveva il carisma delle Guarigioni. L’ultimo che con le parole consolò la vedova,
aveva il carisma del Commiserante”[58].
E veniamo ai carismi
che più ci interessano, in relazione all’ermeneutica di Spinoza: quello della profezia e quello dell’insegnante,
che ricomprende il discorso di conoscenza.
“Di particolare
rilievo è il carisma della Profezia.
Il profeta aveva un compito affine, ma non uguale, al profeta
dell’Antico Testamento. La sua era
parola di edificazione ed esortazione e consolazione [nam qui
prophetat, hominibus loquitur ad aedificationem et exhortationem et
consolationem] (1 Cr 14,3); egli poteva anche svelare i segreti
del cuore altrui (ivi, 25), e annunziare eventi futuri. Secondo la Didaché il profeta parla
in Spirito (XI, 7), ha diritto dopo la celebrazione dell’Eucaristia di
rendere pubbliche grazie a Dio conforme alla sua propria ispirazione (X, 7) e
gode di vari privilegi in seno alle comunità già costituite (XIII,1-6). Questo è il carisma sommamente raccomandato
da Paolo (1 Cr 14,1 ss.), a causa della sua diretta efficacia nelle comunità”[59]. Per ciò che riguarda il ministero della parola
in senso stretto, abbiamo “i tre carismi dell’Insegnante (didáskon,
didáskalos), del Discorso di sapienza e del Discorso di
conoscenza, che dovevano avere un fondo comune pur con talune divergenze
specifiche. Queste oggi a noi
sfuggono: forse il Discorso di
sapienza (lógos sophías) era abituale al profeta, mentre il Discorso di
conoscenza (lógos gnóseos) era abituale all’insegnante; il primo si
rivolgeva piuttosto al sentimento e al cuore, il secondo all’intelligenza e
all’erudizione. Tutti e tre, in genere
dovevano mirare a far conoscere ed amare la dottrina di Cristo mediante il
ministero della parola. La Didaché (XV,2)
fa sapere che l’insegnante era onorato al pari del profeta; di esso parla
spesso anche il Pastore di Erma”[60].
Da tutta questa messe
testuale si vede come S. Paolo pregiasse assai più lo spirito di profezia
perché contribuiva potentemente all’edificazione della comunità cristiana. La figura del profeta che qui appare si
distingue da quella dell’Antico Testamento.
Mentre quest’ultimo aveva ricevuto da Dio soprattutto il compito di
scuotere la classe dirigente e il popolo dai loro vizi, per ricondurli al
rispetto dell’autentica Rivelazione, mediante una predicazione incentrata in
prevalenza su visioni, comandi, minacce ed imperiose esortazioni, che faceva
nello stesso tempo apparire una concezione più morale, più spirituale e
veramente universale della Rivelazione; il dono della profezia nella primitiva
comunità cristiana era conferito da Dio – come spiega lo stesso Apostolo delle
Genti – soprattutto “per edificare, esortare, consolare”; per svelare
occasionalmente “i segreti del cuore” e per predire all’occorrenza eventi
futuri. Profeta, in questo
molteplice significato, si rivela lo stesso S. Paolo, come appare dalle sue
stesse Lettere.
I primi Cristiani
erano dei convertiti dal Paganesimo o dall’Ebraismo, rinascevano alla vera vita
per opera della Grazia e quindi in seguito alla predicazione e all’esempio di
vita cristiana offerto dagli Apostoli e dai loro collaboratori, uomini e donne. Era con la mansuetudine dello spirito di
carità che essi venivano salvati dalle tenebre spirituali che li
opprimevano. Si trattava di fondare una
nuova religione, anche se rappresentava il compimento di una precedente,
dell’Ebraismo. Una religione che non
aveva una base nazionale ma mondiale, in tutta l’umanità. Il Profeta dell’Antico Testamento era invece
“l’araldo”, il “parlatore” di Jahwé, che fustigava senza riguardo tutte le
colpe del popolo e dei capi, per ricondurli a Dio. Agiva spinto da un impulso irresistibile,
chiaramente sovrannaturale, ed era sempre uomo di vita coraggiosa ed
eroica. Un santo, che finiva quasi
sempre ammazzato dai potenti di turno[61].
Gli Apostoli non
appaiono molto diversi dai Profeti dell’Antico Testamento. Anche la loro vita fu santa ed eroica,
infaticabilmente al servizio di Dio, ora rivelatosi definitivamente nel Verbo
incarnato, Nostro Signore Gesù Cristo. E
se la loro predicazione privilegia l’argomentazione, l’esortazione e la
consolazione rispetto alle visioni e alle minacce di castighi, anche presso di
loro si trovano severi ammonimenti e profezie, in specie sugli ultimi
tempi. E anch’essi, come i Profeti,
preferirono sempre fare la volontà di Dio piuttosto che quella degli uomini,
senza curarsi delle conseguenze. Non per
nulla, quasi tutti gli Apostoli subirono il martirio, come i Profeti.
Tornando a
Spinoza. Dal fatto che, a suo avviso, la
conoscenza sovrannaturale dei profeti si manifestasse solo “in puri dogmi,
decreti o massime”, egli ne ricava che le Lettere degli Apostoli, non
rientrando in nessuna di queste categorie, non potevano esser scritte per
mandato divino. Ma questa
contrapposizione appare del tutto arbitraria.
Se non si guarda allo stile ma al contenuto si vedrà che, come si è
detto, anche le Lettere degli Apostoli contengono dogmi, i dogmi della nuova
fede che perfezionava l’antica, e “decreti e massime” ossia ordini, ammonimenti
e massime dal significato imperativo.
Chi ha detto, poi, che nei profeti dell’Antico Testamento non si trovino
mai “ragionamenti”? Basta leggere, tanto
per fare un esempio, il cap. 7 di Zaccaria, che profetò attorno al 520 a.C.,
per trovare una dettagliata spiegazione data da Dio tramite il profeta di come
debba intendersi il giusto rapporto tra il digiuno e le opere buone. L’insegnamento qui impartito è di una
chiarezza cristallina, allo stesso modo del ragionamento che lo sostiene
esponendo il giusto significato delle opere buone.
Ma le argomentazioni
di Spinoza non si fermano qui. Egli
cerca di trovare tutti gli argomenti possibili per dimostrare che gli Apostoli
non avevano ricevuto da Dio alcun mandato, quando scrivevano le loro lettere
apostoliche. Un suo ulteriore argomento
è il seguente: all’opposto dei Profeti,
gli Apostoli non erano inviati da Dio nei luoghi dove si recavano a
predicare. “Al contrario, si trovano
alcuni passaggi, i quali – scrive – indicano esplicitamente che gli apostoli
sceglievano di loro iniziativa le località in cui si recavano a predicare: donde la divergenza di opinioni, che diede
luogo perfino al dissidio tra Paolo e Barnaba, sul quale vedi gli Atti
15.37, 38, ecc. E spesso tentarono anche
inutilmente di recarsi in talune località etc.”. Da tutto ciò si dovrebbe concludere “che gli
apostoli predicavano in veste di dottori soltanto, e non anche in quella di
profeti” [62]. Di nuovo Spinoza ignora bellamente tutti i
passi del Nuovo Testamento che contraddicono la sua ermeneutica perché vi si
dimostra che gli Apostoli si recarono o non si recarono in un luogo in seguito
ad un’ispirazione divina. Per S. Paolo,
l’Abate Ricciotti ne elenca otto[63]. E S. Pietro, non iniziò ad evangelizzare i
Pagani in seguito ad una famosa visione personale, che gli ingiungeva di farlo
(At, 10, 9 ss.)?
Inoltre, la
ricostruzione testuale di Spinoza è ancora una volta imprecisa. Il “dissenso” tra S. Paolo e S. Barnaba non
fu sulla direzione da prendere, proposta da S. Paolo, ma sul compagno di
viaggio. Barnaba aveva proposto il giovane
Marco suo cugino (il futuro evangelista) che Paolo invece non voleva, perché
già in precedenza non li aveva accompagnati in maniera continuativa, per motivi
a noi ignoti. In conseguenza del
dissenso che ne nacque, Barnaba, “preso con sé Marco, si imbarcò per Cipro”,
sua patria, mentre Paolo, “sceltosi a compagno Sila”, partì per la Siria e la
Cilicia, rivisitando le comunità già fondate, secondo il piano originario, al
quale Barnaba non aveva fatto obiezioni.
Il momentaneo dissenso tra i due Apostoli verteva dunque su una
questione marginale. Sarebbe del tutto
sbagliato ricavarne che gli Apostoli dibattessero di frequente dove andare, nei
loro viaggi missionari[64].
Ma anche questi
temporanei dissensi o i desideri incompiuti di andare a predicare in un paese
invece che in un altro, cosa dimostrano?
Solo la giusta autonomia delle Cause seconde, permessa da Dio, che ci
vuole liberi cooperatori della sua volontà, avendoci dotati di libero
arbitrio, e che si serve anche di quell’autonomia per realizzare il suo
disegno di salvezza. Ma dell’esistenza di un effettivo libero arbitrio, che
concorra al piano divino di salvezza, un determinista come Spinoza non
voleva evidentemente sentir parlare.
6.4 Per
sostenere che le Lettere degli Apostoli non erano ispirate, Spinoza altera il
senso di Mt 10,19-20 e dell’incipit delle lettere stesse
Ma qual è, comunque,
la conclusione finale di Spinoza? Che
gli Apostoli agivano in tutto come privati dottori ossia come privati
cittadini? No. Bisogna ammettere,
scrive, che essi ricevettero effettivamente un mandato da Cristo. Però Cristo non è ovviamente, per Spinoza, il
Verbo incarnato. Egli è colui che “non fu tanto il profeta, quanto la bocca di
Dio”. Espressione di origine biblica, ci
informa il commento al Trattato, anche se non di immediata
evidenza. Per Spinoza, “attraverso la
mente di Cristo, Dio rivelò alcune cose al genere umano, così come prima le
aveva rivelate attraverso gli angeli, ossia attraverso una voce creata, visioni
ecc.”[65]. Un’immagine di Cristo che non sarebbe
dispiaciuta ad un a r i a n o .
Come si deve concepire
il mandato ricevuto da Cristo? Gli
Apostoli, al contrario dei Profeti, lo ricevettero per “convertire tutte le
genti alla religione. Dovunque andavano,
infatti, essi eseguivano il mandato di Cristo, né avevano bisogno che, prima di
partire, fossero loro rivelate le cose che dovevano predicare”. E perché non ne avevano bisogno? Ce lo spiegherebbe un passo di S.
Matteo. Prosegue, in effetti, il Nostro: “Lo stesso Cristo, infatti, aveva detto ai
suoi discepoli: “Ma quando vi
consegneranno a loro, non preoccupatevi di come e di che cosa dobbiate dire; vi
sarà infatti suggerito in quella circostanza che cosa dobbiate dire”, ecc.
(vedi Matteo 10, 19-20).
Concludiamo, dunque, che gli apostoli ricevettero mediante singolare
rivelazione soltanto quelle cose che predicarono a viva voce e che confermarono
anche con i segni; mentre invece le cose che insegnarono semplicemente a viva
voce o per iscritto, senza servirsi né di testimonianza né di segni, le dissero
o le scrissero per conoscenza (cioè naturale); intorno a ciò vedi la prima Epistola
ai Corinti 14.6”[66].
Si nota come Spinoza,
sempre analizzando la Bibbia con la Bibbia (come diceva), cerchi di imbastire
un’ermeneutica volta a dimostrare che le Lettere degli Apostoli non
erano divinamente ispirate. Tutta la sua
costruzione poggia sul versetto di Mt 10,19-20, che abbiamo già incontrato
precedentemente (vedi supra cap. V, § 1). Come ognuno può vedere, il significato del
versetto non è quello che gli attribuisce Spinoza. Qui, infatti, Nostro Signore promette l’assistenza
decisiva dello Spirito Santo nel momento della persecuzione, che sarebbe
puntualmente giunto durante la missione apostolica. Della persecuzione, non della predicazione. Era inutile prepararsi mentalmente anzitempo
ad affrontare i persecutori, cosa molto difficile e praticamente impossibile
per lo spirito umano. L’unica cosa da
fare era aver fiducia in Dio: al momento
opportuno, lo Spirito Santo avrebbe sorretto gli Apostoli nella prova
suggerendo e dettando loro ciò che avrebbero dovuto dire, così come avrebbe poi
sorretto tutti i fedeli nella medesima situazione.
Questo versetto è
stato sempre inteso nel suo valore universale di promessa dell’assistenza
divina al credente, per consentirgli di rimaner fedele e perseverare nell’ardua
prova della p e r s e c u z i o n e
. Appare, perciò, del tutto errato
volerne applicare il significato alla predicazione stessa, per dimostrare la
tesi (evidentemente preconcetta) che gli Apostoli non possedevano una dottrina rivelata
da predicare; rivelata, ossia loro insegnata da Gesù anteriormente alla
predicazione. In questa loro prima
missione, ci informa S. Matteo, essi ricevettero i poteri taumaturgici del
Signore: “Diede loro potere sopra gli
spiriti immondi per cacciarli e guarire ogni malattia e ogni infermità”(Mt 10, 1). Inoltre, i Dodici avevano ben ascoltato gli
insegnamenti morali di Cristo, che dovevano evidentemente a loro volta
predicare alla “Casa di Israele”.
Su quell’errato
fondamento, Spinoza enuncia dunque il canone della sua “esegesi”: gli Apostoli ebbero una “singolare
rivelazione” (ossia ad hoc) solo per ciò che predicarono “a viva voce” e che
“confermarono anche con i segni”. Cosa
intende egli con “segni”? Nel cap. II
del Trattato, dedicato ai Profeti, ricorda che, secondo Deut. 18, 21, il
segno che si esigeva dal profeta era “la predizione di un evento futuro” che si
sarebbe avverato[67]. Questo era il “segno” in senso proprio. Ma anche con i “segni”, osserva Spinoza, si
aveva sempre “una certezza profetica soltanto morale”, come risulta dalla
Scrittura stessa, che denuncia l’esistenza di falsi profeti che potevano
compiere “segni e miracoli” e ingannare il popolo (Deut., 13), concetto
ribadito da Cristo in Mt 24, 24, a proposito dei “segni” degli ultimi tempi[68].
L’effettivo
significato sovrannaturale del “segno” dell’autentico profeta resta allora
dubbio, se anche i falsi profeti possono ingannarci con falsi “segni”. Tuttavia il segno ci doveva sempre essere,
presso i Profeti, anche se la Bibbia ne parla raramente[69]. E noi dobbiamo supporre ci fosse sempre anche
presso gli Apostoli, nella loro predicazione “a viva voce”, per “rivelazione
singolare”. Non c’era invece in tutto il
resto del loro insegnamento, “a voce o per iscritto”, privo di “testimonianze o
di segni”[70]. Qui essi agivano per mera conoscenza
naturale. A sostegno, Spinoza cita di
nuovo 1 Cr 14,6. Ma ho già dimostrato
come la sua tesi di una distinzione paolina radicale tra due tipi
ontologicamente diversi di predicazione, sia del tutto insostenibile. Tutta la sua teoria poggia dunque solo su Mt
10, 19-20, estrapolato dal suo contesto ed utilizzato per dimostrare una cosa
chiaramente contraria a quanto detto nella Scrittura, che ci testimonia come
Nostro Signore istruisse gli Apostoli nella dottrina e li dotasse degli
opportuni “carismi”, prima di mandarli in missione.
A questo punto resta
un’ultima possibile obiezione alla quale Spinoza deve rispondere. Il mandato divino di predicare e di essere
quindi “profeti” (uomini di Dio, che parlano in luogo di Dio) gli Apostoli non
lo attestano forse all’inizio di quasi tutte le loro Epistole, quando si
presentano alle Chiese appunto come inviati da Cristo, Figlio di Dio? “Paolo, chiamato apostolo di Cristo Gesù per
volontà di Dio…grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e Signore Gesù
Cristo!”; “Paolo, apostolo di Cristo
Gesù per volontà di Dio, ai Santi che sono in Efeso e ai fedeli in Gesù
Cristo…”; “Giacomo, servo di Dio e del Signor nostro Gesù Cristo, alle dodici
tribù che sono nella dispersione, salute!”; “Simon Pietro, servo e apostolo di
Gesù Cristo, a coloro che nella giustizia del nostro Dio e Salvatore Gesù
Cristo hanno ottenuto una fede pari alla nostra…”; etc.
Come risponde Spinoza all’obiezione? Che il fatto “non rappresenta per noi una
difficoltà”. Gli Apostoli avevano
ricevuto anche “l’autorità di insegnare”, onde era logico che iniziassero le
loro lettere “con la dichiarazione del loro apostolato”. Anzi, prosegue, per “conciliarsi più
facilmente l’animo del lettore”, vollero dichiarare che “erano appunto quelli
che tutti i fedeli conoscevano per la loro predicazione”. E che questo fosse il significato delle
attestazioni dell’apostolato, è dimostrato, secondo Spinoza, dal fatto che
“tutto ciò che in quelle lettere si dice della vocazione degli apostoli e dello
Spirito Santo e divino, che li ispirava, si riferisce alle predicazioni che
essi avevano tenuto, ad eccezione soltanto dei passi in cui le espressioni
“Spirito di Dio” e “Spirito Santo” sono usate per indicare una mente sana,
beata e dedicata al servizio di Dio ecc., come abbiamo detto nel cap. I
[dedicato al tema della profezia]”[71].
Nelle Lettere, gli
Apostoli si riferivano certamente alle predicazioni “che essi avevano tenuto”,
ma questo impediva loro di ribadirle sviluppando e approfondendo, in relazione
ai temi nuovi, sollevati dai fedeli, cui le lettere dovevano rispondere? Sembra che per Spinoza le lettere apostoliche
dovessero avere a proprio contenuto solo argomenti del passato! Ma questo non è del tutto assurdo? I fatti dimostrano il contrario: le lettere nascevano proprio per rispondere a
domande e problemi correnti, anche dottrinali, posti dalla comunità, dalla
singola Chiesa. Nelle risposte, la
dottrina veniva affinata e a volte sviluppata in modo più approfondito rispetto
alla predicazione orale anteriore, come si vede chiaramente nelle lettere di S.
Paolo. Si doveva evitare il sorgere di
errori ed eresie, divisioni. Ridurre
pertanto il contenuto delle Lettere apostoliche alla sostanziale ripetizione
del precedente insegnamento orale degli stessi Apostoli è cosa del tutto falsa.
Allo stesso modo della
consueta riduzione spinoziana di ogni elemento sovrannaturale ad una dimensione
puramente umana. Giocando
sull’interpretazione di alcune espressioni dell’Antico Testamento, egli vuol
far intendere che ogni riferimento apostolico allo “Spirito Santo” sia in
realtà un modo di indicare la mente dell’uomo.
E a sostegno di questa sua “ermeneutica”
cita ancora il cap. 7 di 1 Cr., là ove S. Paolo scrive: “ma è felice [la vedova], secondo il mio
avviso, se essa rimane quale è, giacché credo anch’io che lo Spirito di Dio sia
in me”. E qui, appunto, secondo Spinoza,
“per “Spirito di Dio” egli intende la sua stessa mente, come indica lo stesso
contesto del discorso, il cui senso è:
la vedova che non vuol passare a seconde nozze, è giudicata beata da me,
che ho deciso di vivere celibe e mi stimo a mia volta beato”[72].
In realtà, S. Paolo si
riferisce allo Spirito Santo proprio per conferire efficacia al suo
consiglio. Anche se non erano comandi, i
consigli degli Apostoli provenivano sempre da uomini di santa vita, assistiti
dallo Spirito Santo. Questo vuol
sottolineare S. Paolo. La traduzione
letterale è: “e credo di aver anch’io lo
Spirito di Dio”, cioè lo Spirito Santo, che mi consente di dare buoni consigli
di vita cristiana, se necessario. Il
consiglio di non risposarsi sembrava non incontrare il favore della
maggioranza, che riteneva la vedova più felice se si fosse risposata. E forse anche la vedova la pensava così. Ma S. Paolo, che aveva appena fatto il giusto
elogio della verginità, ribatte che se la vedova non si risposa è meglio per
lei. E nel dir questo, conclude, non
parlo da dissennato o da insensibile ma come uomo che, come gli altri fedeli,
ha anch’egli il dono dello Spirito Santo.
E lo Spirito Santo, dal quale ricevevano tanti “carismi”, non era certo,
per i fedeli e S. Paolo, la stessa cosa della loro mente, del loro io! Sapevano ben distinguere! Insinuare, come fa Spinoza, che l’Apostolo in
realtà parlasse per metafora, intendendo riferirsi alla sua propria mente, di
uomo che si considerava sano e beato nel suo stato, significa stravolgere
completamente la frase, appiccicandole un significato del tutto alieno, che la
separa in maniera radicale dal contesto nel quale si trova, rendendola priva di
senso.
6.5 Per
sostenere, alla fine, che gli Apostoli non predicavano una dottrina comune,
Spinoza altera il senso di Rm 15, 20
La conclusione cui
giunge Spinoza, sulla base della sua errata esegesi, limita dunque fortemente
il “mandato” ricevuto dagli Apostoli:
esso valeva solo per la predicazione orale, confermata con i
“segni”. Qual è allora il valore delle
loro Lettere, ridotte da lui ad esser testimonianza di un insegnamento
dipendente unicamente dal loro intelletto o “lume naturale”?
“Stabilito, dunque,
che le lettere degli apostoli furono dettate dal solo lume naturale, è ora da
vedersi come gli apostoli potessero insegnare in base alla sola conoscenza
naturale le cose che non rientrano nel dominio di questa”[73]. La risposta è abbastanza semplice, secondo
Spinoza: la religione che essi
predicavano era “semplicemente il racconto della storia di Cristo”, cosa che
non rientrava nel “dominio della ragione” (per qual motivo, non è spiegato). Tuttavia, essa “poteva nel suo complesso esser
compresa da ciascuno col lume naturale, essendo essa costituita, come tutta la
dottrina di Cristo, essenzialmente di precetti morali”, quali risultano,
precisa in nota, dal Discorso della Montagna[74]. L’insegnamento di Cristo è sempre e solo
quello di un predicatore ebreo itinerante, che era “la bocca di Dio” per ciò
che riguardava gli insegnamenti lasciatici nel Discorso della Montagna. Altro non c’è. Stop.
Pertanto lo scopo delle lettere degli Apostoli era appunto questo: “istruire ed ammonire gli uomini con quei
mezzi che ciascun apostolo ritenesse più adatti a confermarli nella religione”[75]. Se l’insegnamento di Cristo era nient’altro
che un’etica comprensibile da ognuno col lume naturale (cosa che sicuramente in
parte è), allora poteva esser insegnato per iscritto sulla base del semplice
lume naturale degli Apostoli, che quindi potevano scegliere “il mezzo più
adatto per istruire e ammonire”. Noto,
sul punto, che se l’insegnamento di Cristo era tutto racchiuso nel Discorso
della Montagna, accessibile con il lume naturale di ognuno, non si comprende
allora perché gli Apostoli avessero bisogno di un suo mandato ad hoc per la
predicazione a voce, da confermare in ogni circostanza con “segni”
particolari. A voce o per iscritto, non
si trattava sempre di insegnare le stesse cose ossia delle verità morali
accessibili a tutti? C’era bisogno di
“segni” particolari che ne dimostrassero la verità? Non c’era già il “lume naturale”? Seguendo la logica intrinseca
all’argomentazione spinoziana, resta quindi privo di vera motivazione il
“mandato” a predicare determinate verità servendosi di “segni”, allo stesso
modo dei profeti. Resta privo, si
intende, all’interno del discorso messo in piedi da Spinoza.
Comunque sia, dalla
(arbitraria) riduzione dell’insegnamento scritto degli Apostoli a mera
esposizione del loro lume naturale di una dottrina a sua volta accessibile al
semplice lume naturale di tutti, Spinoza ne ricava che ogni apostolo potesse
scegliere i mezzi di esposizione da lui stesso ritenuti più opportuni e
addirittura il suo personale “metodo”, cosa che impediva l’unità della dottrina
insegnata. Ciò a suo dire risulterebbe
da un passo della Lettera ai Romani.
“[Dalla Scrittura] risulta chiaramente infatti che ciascuno degli
apostoli seguì una propria via, come si vede dalle parole di Paolo, nell’Epistola
ai Romani 15,20: “Avendo cura di predicare non là dove era già
invocato il nome di Cristo, per non edificare sopra un fondamento posto da
altri”. Poiché Paolo chiama quelli di un
altro apostolo “fondamenti altrui, si deve necessariamente concludere che
ciascuno costruì l’edificio della religione sopra un diverso fondamento”. Quale la conseguenza ultima? Il caos dottrinale, gli errori: “vediamo che gli apostoli convenivano bensì
nella medesima religione, ma non erano d’accordo circa i fondamenti di essa”[76]. La prova si ha, secondo Spinoza, nella
salvezza per la sola fede che S. Paolo avrebbe insegnato nella lettera ai
Romani, di contro alla giustificazione per mezzo delle opere riproposta da S. Giacomo,
nella sua lettera[77]. Per ovviare a questo stato di cose e ai mali
che ne sono seguiti, occorre allora ritornare all’insegnamento primitivo di
Cristo, “a quei pochissimi e semplicissimi dogmi che Cristo insegnò ai suoi
discepoli”[78].
Questo il risultato
cui giunge l’esegesi filologica dell’irreligioso Spinoza, considerato uno dei
padri della moderna critica (detta storico-critica) al Testo Sacro, e pertanto
celebrato come uno dei padri spirituali del Modernismo: le Lettere degli Apostoli sono piene di
contraddizioni, ognuno insegna una dottrina sua particolare, i Cristiani devono
ritornare al primitivo insegnamento di Cristo, semplice e lineare, con pochi e
semplici dogmi, accessibili a tutti!
Suona familiare? Ma si è visto di
quante arbitrarie interpretazioni si
serva Spinoza per giungere alle sue false conclusioni. E la conta degli errori ermeneutici del
filosofo non è finita, altri ce ne sarebbero da denunciare. Non posso comunque tralasciare la sua
clamorosa distorsione di Rm 15, 20. Il “fondamento” o la “base” altrui cui
l’Apostolo si riferisce non riguarda la dottrina: è invece la Chiesa già fondata da altri, alla
quale egli non voleva in linea di principio aggiungere la sua opera proprio
perché la sua vocazione era quella di fondare la Chiesa tra i Gentili, dove
nessuno era ancora arrivato. Lui ha
avuto l’onore di esser chiamato a questo compito dal Signore in persona[79].
Ricorrendo sempre al
metodo ermeneutico corretto, situo il passo nel suo contesto specifico. Siamo prossimi all’epilogo della grande Lettera
ai Romani, siamo alle notizie di
carattere personale. La lettera fu
scritta nell’AD 57 da Corinto. Paolo non
era ancora mai stato a Roma ed era ardente il suo desiderio di visitarvi la
comunità cristiana. La Provvidenza ve
l’avrebbe fatto giungere circa tre anni dopo, per esservi alla fine
martirizzato durante la persecuzione di Nerone, nel 67, all’età di circa
sessant’anni[80]. Egli si giustifica, come si è visto, per
l’iniziativa insolita di predicare per iscritto ad una Chiesa non fondata da
lui ed espone sinteticamente la sua attività di Apostolo delle Genti, sempre
guidata da Cristo e dallo Spirito Santo, sviluppatasi in tutti quegli anni, “da
Gerusalemme e dai paesi all’intorno fino all’Illirico” (Rm 15, 17-19), cioè nel
bacino orientale del Mediterraneo e nei Balcani centro-meridionali. La Macedonia e la Tracia (dove c’era la città
di Filippi, di cui alla Lettera ai Filippesi) erano provincie balcaniche
dell’impero romano, confinanti con l’Illirico, regione che dai Balcani centrali
giungeva sino all’Adriatico, nel cuore dell’impero.
“Da Gerusalemme e dai
paesi intorno fino all’Illirico ho
adempiuto la mia missione rispetto al Vangelo di Cristo. E mi sono studiato di evangelizzare non là
dov’era già stato nominato Cristo, per non edificare su base [themélion,
fundamentum] d’altri, secondo sta scritto:
“Vedranno quelli a cui non è giunta notizia di lui, e quelli che non
l’hanno udito l’intenderanno” (Rm 15,19-21)”.
Perché S. Paolo, sempre per mandato divino, “si è studiato” di svolgere
la sua missione in quelle parti dell’impero romano dove Cristo non era stato
ancora “nominato” ossia non era ancora conosciuto, evitando in tal modo di
“edificare su base d’altri”, sulle Chiese già fondate da altri prima di lui? Perché era lui, Paolo, colui che era stato
scelto per far conoscere la Buona Novella della venuta del Messia a chi non ne
aveva avuto notizia, in adempimento della profezia di Isaia.
Il passo
veterotestamentario citato dall’Apostolo è Isaia 52, 15. La sua presenza è fondamentale alla
compresione dell’esatto significato del testo ma Spinoza lo passa completamente
sotto silenzio. Si tratta dei versetti
introduttivi al famoso testo nel quale il grande profeta preannuncia l’avvento
del Messia nella figura del “Servo di Jahwé”, l’uomo dai molti dolori; di un
Messia non nazionale (liberatore temporale di Israele) ma redentore di tutti
gli uomini. Il “servo del Signore”,
vaticina Isaia, sarà “senza gloria” nel suo aspetto, sarà l’uomo della
sofferenza, ma “aspergerà molte genti; dinanzi a lui i re si chiuderanno la
bocca; perché quelli che non avevano sentito parlare di lui lo vedranno, e
quelli che non avevano nulla udito lo contempleranno” (Is 52,14-15). Lo “vedranno” e “l’intenderanno” i Pagani
“che non avevano sentito parlare” di Nostro Signore Gesù Cristo, tramite la
fondazione presso di loro (dai paesi a Nord di Gerusalemme sino all’Illirico)
delle comunità della Chiesa di Cristo ad opera di Paolo, apostolo di Cristo.
Questo è il senso del
riferimento paolino al fondamento della Chiesa.
Il greco e il latino significano sia base in senso proprio di tempio,
città, trono, che fondamento in senso figurato[81]. Qui sembra esserci soprattutto il significato
concreto del fondamento di una Chiesa (intesa non come edificio ma come comunità),
fatto da altri e/o da Paolo. La dottrina
non c’entra. S. Paolo vuol solo
ricordare ai fedeli di Roma, molti dei quali convertiti dal Paganesimo, che
egli finora non ha svolto la sua opera missionaria là ove Cristo era già
conosciuto (dove la “base” era già stata costruita “da altri”) ma unicamente
dove era completamente sconosciuto, cooperando in tal modo all’attuazione della
profezia messianica di Isaia. Si tratta
di fondazione di comunità cristiane, di Chiese, non di fondamenti dottrinali.
L’altro grave fraintendimento testuale di
Spinoza riguarda la contrapposizione tra S.Paolo e S.Giacomo in ordine al
rapporto tra la fede e le opere per la salvezza. Non occorre profondersi qui in
complesse analisi testuali per confutare quest’eresia, basta rimettersi
all’insegnamento ufficiale della Chiesa e della teologia ortodossa da essa
utilizzata . Mi limito a ricordare che
S. Paolo, in una delle sue ultime lettere, la prima a Timoteo, da lui
convertito e consacrato vescovo di Efeso, scritta verso l’AD 65, nelle raccomandazioni finali, per la parte
dedicata alla pastorale dei ricchi, raccomanda di incitarli oltre che alla
fede, ad “arricchirsi di opere buone [divites fieri in bonis operibus]”,
in modo da costituirsi “un buon fondamento per l’avvenire”, cioè per la vita
eterna (1 Tm 6,18-19). Anche per S.
Paolo, dunque, le buone opere, non meno della fede, sono indispensabili per la
salvezza della nostra anima.
Quest’ultimo
fraintendimento di Spinoza deriva direttamente, direi, dagli errori teologici
professati dall’ambiente protestante del suo Paese. La conoscenza che Spinoza aveva del
Cristianesimo proveniva da fonti inquinate.
Infatti, a vent’anni, insofferente di quella ebraica, cominciò a
frequentare la scuola privata di un
ex-gesuita e libero pensatore, tale Franciscus van den Enden, dalla cultura
poliedrica, nella cui casa si incontravano cristiani liberali e liberi
pensatori e dove imparò il latino e si perfezionò nell’olandese[82]. Fu poi influenzato, almeno in parte, dalla
“esegesi” razionalistica del materialista Hobbes, il cui famoso libro sullo
Stato, il Leviathan, uscito in inglese nel 1651 e nel 1668 in latino, in
versione ridotta, proprio ad Amsterdam, si occupava ampiamente della religione
e del rapporto tra Stato e religione[83].
6.6 Il
diritto ad una libertà religiosa fondata sulla coscienza individuale presuppone
una religione di Stato solo “civile”, priva di ogni elemento sovrannaturale,
incompatibile con il Cristianesimo
L’esegesi razionalista
di Spinoza fa ulteriormente progredire l’arbitraria separazione protestante fra
S. Scrittura e insegnamento orale della Chiesa, costitutivo anch’esso del
dogma. Ma in un senso del tutto opposto
e non meno esiziale per il Cristianesimo.
Infatti, Spinoza preferisce l’insegnamento orale perché sarebbe avvenuto
per mandato di Cristo, e svaluta completamente quello scritto degli Apostoli,
riducendolo a produzione di “dottori privati”.
Ma in realtà svaluta tutti e due, poiché gli insegnamenti di Cristo li
riduce al Discorso della Montagna, per di più reinterpretato in chiave
razionalistica, come semplice sistema di precetti morali ragionevoli,
sintetizzabili nel comandamento di praticare la giustizia e amare il
prossimo. Li riduce ad un insegnamento e
ad una dottrina che di per sé non presuppongono e non contengono alcunché di
sovrannaturale.
Né devono trarre in
inganno le sue affermazioni sull’insegnamento dei profeti, che, di contro a
quello degli Apostoli, sembrerebbe effettivamente godere di un “mandato”
divino. L’analisi spinoziana del
profetismo (nei primi due capitoli del Trattato) mira in realtà ad
eliminare la possibilità stessa di ogni effettiva origine sovrannaturale della
“missione” dei profeti. Infatti, una
conoscenza come quella professata da loro (e dagli Apostoli) di verità
effettivamente rivelate da Dio, nell’ottica di Spinoza non può esistere. E perché non può? Perché tra “conoscenza naturale” e profezia
non c’è differenza: “la conoscenza
naturale si può chiamare profezia”. E
com’è possibile? È possibile alla luce
dell’identificazione spinoziana di Dio con la Natura (vedi supra, §
6.1). “Infatti, le cose che conosciamo
per lume naturale dipendono tutte dalla sola conoscenza di Dio e dai suoi
eterni decreti”. Anche la conoscenza
naturale “si può chiamare divina allo stesso titolo di qualunque altra perché
essa ci viene dettata dalla natura di Dio, in quanto noi ne siamo partecipi, e
dai decreti divini”[84].
Nella visione
immanentistica e panteistica di Spinoza, la sostanza infinita che è Dio è ab
aeterno res cogitans e res extensa, senza atto di creazione che stabilisca un
realtà gerarchicamente ordinata di creatura e Creatore, onde la mente umana
partecipa di per sé della natura di Dio e pertanto della mente di Dio, per il
solo fatto di essere res cogitans. La
nostra mente “ha la potenza di formare talune nozioni esplicative della natura
delle cose e direttive della vita”. E ce
l’ha questa potenza, “per il fatto solo che contiene in sé obiettivamente la
natura di Dio e di essa partecipa”[85]. Non è questa la divinizzazione della nostra
mente? O, all’opposto: non si ha qui
l’estinzione dell’idea di Dio, ridotto alla dimensione limitata della nostra
mente? Posto in tal modo il concetto
della conoscenza ed il rapporto tra la nostra mente e Dio, la conclusione
ultima, luciferina, non può che esser
questa: “possiamo ben affermare
che nella natura della mente, concepita come tale, consiste la causa prima
della divina rivelazione; tutte le cose, infatti, che noi conosciamo
chiaramente e distintamente sono a noi dettate (come or ora abbiamo detto)
dall’idea e dalla natura di Dio, non a parole, ma in modo assai più eccellente
e conforme alla natura della mente, come ha potuto sperimentare in se stesso
chiunque abbia gustato la certezza dell’intelletto”[86].
Su simile fondamento,
cosa ci dobbiamo aspettare dalla definizione spinoziana della conoscenza
profetica? Che essa è nient’altro che un
prodotto della mente dei profeti, dotata di una “immaginazione” sconosciuta al
comune degli uomini. Ciò che
caratterizza il profeta è “una più viva facoltà di immaginare”[87]. La predicazione dei profeti mostra la
capacità della loro immaginazione, non che ciò che essi dicono venga da
Dio. Cosa caratterizza il profesta? l’immaginazione, i segni, l’animo “inclinato
soltanto all’equità e al bene”[88]. Consistendo il sapere profetico soprattutto
nell’immaginazione del profeta stesso, esso dipende in misura rilevante dalla
personalità del profeta e quindi dalle sue opinioni personali. Si può perciò dire, a proposito delle visioni
di Dio narrate dai profeti, “che ciascuno, senza dubbio, vide Dio così come era
solito immaginarlo”[89]. Ma Spinoza, come fa a dirlo? Egli non crede nell’esistenza di un Dio
personale ossia nell’esistenza effettiva di Dio: deve quindi dire che le visioni di Dio dei
profeti erano quelle delle immagini di Dio che i profeti possedevano, nella
loro accesa immaginazione; in sostanza, un parto della loro mente
esaltata. I profeti, inoltre,
“professarono opinioni contrastanti”[90]. Come faccia a dirlo, resta per me un
mistero. Chi legge i libri dei Profeti
senza preoccuparsi delle bizantinerie di certe scuole esegetiche ma
immergendosi nello spirito del Testo, agitato dalla Parola di Dio, non ha
affatto l’impressione di trovarsi di fronte ad “opinioni contrastanti”. È Dio che parla ed ammonisce attraverso
visioni, immagini e ragionamenti. Anche
se a volte in modo assai aspro, parla sempre per il nostro bene: sono sempre gli stessi concetti, le stesse
verità che vengono ripetute, anzi ribattute.
L’evoluzione dottrinale che appare nei Profeti, il perfezionarsi della
Rivelazione, che, grazie all’Incarnazione e all’opera dello Spirito Santo, si
concluderà con la dottrina insegnata dagli Apostoli, è invece, per Spinoza,
nient’altro che sintomo di “opinioni contrastanti”.
Lo schema interpretativo
costruito per i profeti, che espunge il sovrannaturale e riduce la profezia ad
un’opinione personale del profeta e il profetismo biblico ad un coacervo di
“opinioni contrastanti”, lo ritroviamo paro paro nello schema applicato agli
Apostoli. Eliminato il sovrannaturale
dalla religione rivelata, che cessa pertanto di esser rivelata, Spinoza può
allora procedere alla parte “politica” del suo Tractatus, nella quale
viene teorizzato il concetto della libertà religiosa come espressione della
libertà di coscienza (capp. XVI-XX). Ma
la libertà religiosa intesa come espressione della libertà della coscienza
individuale per ciò che riguarda la fede, presuppone una fede di tipo
deistico-razionalistico ovvero l’eliminazione delle religioni rivelate e la loro
sostituzione con una religione “civile”, i cui articoli di fede siano stabiliti
dalla ragione come i più adatti alla convivenza pacifica tra i cittadini.
Lo Stato “ben
ordinato” ossia costruito secondo ragione nasce (alla maniera di Hobbes) dal
patto sociale con il quale gli individui rinunciano in favore del potere
sovrano al loro (supposto) diritto ad ogni cosa, tipico della loro condizione
naturale, regno della “forza” e della “cupidigia”. Nello stato di natura non ci sono pertanto né
giustizia né ingiustizia né religione né idea del peccato. La ragione ci impone dunque di uscire dalla
natura e di sottometterci allo Stato, per il nostro vantaggio ed utilità non
per attuare la giustizia. Solo vivendo
secondo i dettami della ragione si è liberi[91]. E la ragione spinge l’uomo ad accettare la
Rivelazione “perché ciò gli è utile, oltre che necessario alla salvezza”[92]. Ma la Rivelazione vale per l’uomo in società
unicamente come “diritto divino rivelato” che si accetta con un patto
esplicito, con il quale gli uomini “promettono di obbedire a Dio in ogni cosa”[93].
La “suprema autorità”
dello Stato mantiene e garantisce il “diritto divino rivelato” senza esser
vincolata dall’opinione dei singoli in materia.
Lo Stato spinoziano, come quello teorizzato da Hobbes, gode di una
sovranità assoluta, che gli deriva dal modo nel quale è concepito il patto
sociale. Il potere sovrano ha il diritto
di imporre un culto pubblico cui tutti devono obbedire, religione senza dogmi
di origine sovrannaturale, costruita dalla ragione per realizzare la pace
sociale ed evitare la guerra civile.
Religione non rivelata, dunque,
ma i suoi princìpi o articoli di fede o “nozioni di Dio” tutti li devono
rispettare perché coincidono con la vera “fede cattolica” o “universale”, che
Spinoza estrae dalla religione rivelata.
Essi sono: 1. Esiste Dio, “un
ente supremo sommamente giusto e misericordioso esemplare della vera
vita”; 2. È un Dio unico; 3. È
presente ovunque; 4. Ha “di diritto il dominio supremo su ogni cosa”; 5. “Il
culto di Dio e l’obbedienza a lui consistono nella sola giustizia e nella
carità, ossia nell’amore verso il prossimo”;
6. Sono “salvi” unicamente coloro
che seguono la “regola di vita” del punto n. 5, gli altri, sono “perduti”; 7. Dio
perdona i peccati a coloro che ne sono pentiti[94].
Questa, dunque, la
vera “religione cattolica”, nel senso letterale di “universale”, che tutti,
secondo Spinoza, possono accettare perché conforme a ragione e che tutti devono
accettare in quanto imposta dallo Stato come unico culto pubblico. Si tratta, come ognun può vedere, di un
eptalogo deista, con reminiscenze veterotestamentarie e protestanti. Sono i sette “dogmi” di una vera e propria religione
civile, laica, che lo Stato deve sostituire a quella rivelata; religione
che circa un secolo dopo ritroveremo, fatte le opportune differenze,
nell’ultimo capitolo del Contrat Social di Jean-Jacques Rousseau (aprile
del 1762), dedicato alla laica “religione civile”. Non mi sembra anacronistico designare la
“fede” civile elaborata da Spinoza con il posteriore appellativo di “religione
civile”, che quella fede già adombra[95].
Il punto essenziale per ciò che riguarda la
libertà religiosa è il quinto ,
dato che il culto reso pubblicamente a questo Dio costruito dalla ragione deve
integrarsi con la libertà di coscienza che si deve riconoscere a ciascuno. Scrive, infatti, Spinoza, che, per evitare le
discordie e le guerre civili, “nulla di più sicuro si può escogitare per lo
Stato che riporre la pietà e il culto religioso nelle sole opere, e cioè
nell’esclusivo esercizio della carità e della giustizia, lasciando a ciascuno
libertà di giudizio in tutto il resto”[96]. La “carità” verso il prossimo e la
“giustizia” sono per Spinoza l’unico vero contenuto della Rivelazione,
deducibile dal Discorso della Montagna e in definitiva dall’intera Bibbia; sono
i due precetti che la ragione può legittimamente dedurre dalla Rivelazione, che
viene così ridotta a due massime ragionevoli della vita in comune, gravate di un preminente significato sociale
dal momento che vengono a dipendere dalla legge del Sovrano e si esercitano
“soprattutto in vista della pace e della tranquillità dello Stato”[97].
La libertà di
coscienza nelle cose della religione appare nell’inciso: “lasciando a ciascuno libertà di giudizio su tutto
il resto”. Come si giustifica questa
“libertà di giudizio”? E che significa
“tutto il resto”? E da dove emerge? Con il patto sociale, l’individuo non ha
forse alienato al potere sovrano anche questa libertà? Ma questa “libertà di giudizio” è assoluta
nel suo principio dal momento che non può essere alienata dall’individuo. Non è però assoluta nella sua attuazione
pratica. La manifestazione di questo
diritto inalienabile della persona è legittimamente sottoposta a limiti da
parte dello Stato. Infatti, “se è
impossibile togliere completamente ai sudditi questa libertà, d’altra parte
sarà assai pericoloso concederla loro senza riserve”[98]. Differenziandosi qui da Hobbes, Spinoza
teorizza che nel patto l’individuo non trasferisce tutti i suoi diritti allo
Stato. Non li trasferirà al punto da
“cessare di essere uomo; e nemmeno si darà mai un potere così assoluto, che
possa fare tutto ciò che vuole. Così, inutilmente esso ordinerebbe al suddito
di odiare colui che lo ha beneficiato, di amare chi lo ha danneggiato, di non
reagire alle offese etc.”[99]. Sono esempi per assurdo, che ancora non ci
illuminano sul motivo per il quale l’individuo non alieni il suo diritto alla
libertà di coscienza in fatto di religione.
Perché la religione occupa presso ognuno una sfera che non può
costituire materia di contrattazione pattizia con il potere sovrano dello
Stato?
Perché, come spiega
l’Autore nel cap. VII, Dell’interpretazione delle Scritture, non
consistendo “tanto negli atti esterni, quanto nella semplicità e nella
sincerità dell’animo, essa non è di competenza di alcun diritto pubblico né di
alcuna pubblica autorità. La semplicità
e la sincerità dell’animo infatti non si infondono negli uomini con l’imperio
delle leggi e con la forza della pubblica autorità, e nessuno assolutamente può
essere costretto con la forza o con le leggi a raggiungere la beatitudine”[100].
La religione è
costituita per Spinoza unicamente dalla “semplicità e sincerità
dell’animo”, dalla nostra buona disposizione interiore (che pur deve esserci). Il suo è un concetto incompleto, parziale
della religione e della fede perché è un concetto puramente soggettivo
di religione, simile a quello dei Protestanti ma anche caratteristico di chi
non ammette l’esistenza di un Dio vivente, creatore, personale, che si sia
rivelato con delle verità alle quali il nostro intelletto deve prestare
l’assenso dovuto. Queste “semplicità e
sincerità dell’animo” non sono quelle invocate da Profeti e Apostoli quando
esortano gli uomini a credere in Dio e ai suoi comandamenti non solo a parole,
con le labbra, esteriormente ma anche e soprattutto col cuore, con tutta
l’adesione della loro anima, del loro intelletto e quindi con le buone opere
che traducono quell’adesione in vita concreta.
La “sincerità” evocata nella Bibbia riguarda sempre il modo con il quale
si deve assentire alla verità rivelata, mettendone poi in pratica ogni giorno
gli insegnamenti, ribaditi da Profeti ed Apostoli. Invece in Spinoza la “semplicità e sincerità
interiore” sono disposizioni che legittimano il nostro diritto a “pensare
liberamente”: non sono concepite in
funzione della verità proclamata da Dio ma di una libertà interiore fondata in
modo assoluto sull’io stesso, per il fatto stesso di esistere.
“Godendo ognuno del
pieno diritto [naturale] di pensare liberamente, anche in materia di religione,
e non potendosi concepire che alcuno possa perdere questo diritto, ognuno avrà
anche il pieno diritto e la piena autorità di giudicare liberamente in materia
religiosa e, per conseguenza, di spiegarla e interpretarla a se stesso”[101]. Il “libero esame” dei Protestanti era
concepito inizialmente come indagine affidata espressamente dal singolo
credente alla guida dello Spirito Santo.
Ma ogni connessione con il sovrannaturale scompare nel “libertinismo”
teologico di Spinoza. Le verità della
religione appartengono solo al singolo e al suo diritto, sono un puro fatto di
coscienza, privato, senza intromissioni sovrannaturali qualsivoglia. Questo diritto del singolo è, in linea di
principio, assoluto, nel senso che non deriva dal riconoscimento di
un’autorità superiore, anche se (come si vedrà) esso può ed anzi deve esser
limitato quanto al suo esercizio. E che
sia assoluto lo si deduce dal paragone stabilito subito dopo da Spinoza con il
diritto “del magistrato”. “Per nessun
altro motivo, infatti, la somma autorità di interpretare le leggi e di
giudicare dei pubblici interessi è affidata al magistrato [al potere politico],
se non perché si tratta di diritto pubblico:
e per lo stesso motivo la somma autorità di spiegare la religione e di
giudicare in materia religiosa resta propria di ciascuno, per la ragione che
appartiene al diritto di ciascuno”[102]. Né i teologi né i Papi né i rabbini possono
pretendere di interpretare per noi le Scritture: “la norma di interpretazione non può essere
che quella del lume naturale che è comune a tutti, e non un lume sovrannaturale
né un’autorità esterna”[103]. Prevale il “lume naturale”, che non è
vincolato all’“autorità esterna” (sia essa della Chiesa Cattolica, del Concistoro
calvinista o della Sinagoga), ma nemmeno (annoto) all’autorità delle Scritture
in sé e per sé considerate, se esso può giungere ad elaborare l’eptalogo di cui
sopra o comunque ad aderirvi. Il “lume
naturale” può evidentemente fabbricarsi o comunque scegliersi la religione che
vuole, purché la ritenga conforme alla ragione.
Il “lume naturale” è
tuttavia vincolato a riconoscere la “religione civile”, l’eptalogo posto dallo
Stato come religione (apparentemente) semplice e naturale i cui principi devono
esser accettati da tutti i cittadini.
Come si concilia, allora, un diritto naturale alla libertà di coscienza
proclamato in modo così radicale con il culto pubblico di Stato all’Ente
Supremo, che impone di attuare la “giustizia” e la “carità” verso il prossimo
sulla base di un teismo che si sostituisce alle religioni rivelate? Si concilia, dal punto di vista di Spinoza,
perché la religione civile o dello Stato deve limitarsi a imporre le buone
opere, così come concepite dal punto di vista dello Stato. “Per tutto il resto”, invece, il cittadino
conserva il suo diritto naturale o assoluto alla libertà di pensiero e può
giudicare le Scritture con il suo “lume naturale”.
Ci sono almeno due
osservazioni da fare. La prima è la
seguente: lo Stato non si limita ad
imporre le “buone opere” senza entrare nel dogma religioso, visto che a sua
volta esso impone degli articoli di fede, che sono quelli di una religione
diversa da quella rivelata, il teismo.
Le “buone opere” richieste dalla “religione civile” si sorreggono per
l’appunto sui dogmi della “religione civile”.
La posizione dello Stato spinoziano è quindi solo in apparenza neutrale
rispetto alla religione: esso al
contrario oppone la sua propria religione (il teismo civile, potremmo
chiamarlo) alla religione rivelata e a tutte le religioni.
Seconda
osservazione. Se lo Stato riconosce ai
singoli il diritto innato di interpretare le Scritture con il loro “lume
naturale”, non ricomincieranno le dispute teologiche, le fazioni ed infine le
lotte civili? È chiaro che, nella
prassi, l’esercizio del nostro assoluto diritto naturale deve esser sottoposto
a dei limiti, che incideranno nel merito delle varie opinioni religiose. Ma il “lume naturale” può anche condurmi a
negare validità ai sette comandamenti della spinoziana religione civile imposta
dallo Stato, del tutto inaccettabile per un Cattolico. Cosa succederà, in questo caso? Che il Cattolico verrà considerato un
“sovversivo” (seditiosus).
Il limite insuperabile
che trova l’esercizio della “propria libertà di giudizio” nei confronti della
religione è quello del diritto sovrano dello Stato, che non può esser messo in
discussione. L’esercizio di questa libertà non può “arrecar pregiudizio al
diritto della suprema potestà”, derivante ad essa dal patto sociale. Questo “diritto” si manifesta nello “ius
circa sacra” dello Stato: diritto di
regolare tutti gli affari ecclesiastici o diritto pubblico ecclesiastico, che
dir si voglia. Con esso, lo Stato regola
“l’esercizio esterno del culto religioso” in modo da mantenere “la pace della
Res Publica”, la pace sociale. E quand’è
che l’esercizio della suddetta libertà si rivela “sedizioso”? Quando si manifestano opinioni che
contraddicono il patto sociale sì da “annullarlo”, per esempio negando la
legittimità del potere sovrano, negando l’obbligo di mantenere le promesse o
affermando il diritto di ciascuno di vivere “a proprio arbitrio”, come se fosse
ancora nello stato di natura[104]. E quando si professano opinioni che incitano
alla “vendetta, all’odio etc.”, anche se esse devono considerarsi “sovversive”
in uno Stato già corrotto da "uomini superstiziosi e ambiziosi, che non
possono tollerare gli spiriti liberi”[105].
Ora, come non vedere
che chi non si riconosce nei sette comandamenti della religione civile può
esser facilmente accusato di essere un “sovversivo” dallo Stato e perseguito
come tale? Ho già detto che l’eptalogo
spinoziano è inaccettabile per un Cattolico (si intende, che abbia mantenuto il
sensus fidei). Glielo impedisce
proprio la sua coscienza di credente. Il
Dio professato dalla Res publica spinoziana non è il Dio vivente, che si è
rivelato, e ha parlato tramite i Profeti e gli Apostoli; non è la Santissima Monotriade; è un’idea della ragione che viene
onorata non con un vero culto religioso, in pratica impossibile, ma unicamente
con un comportamento conforme ad un’idea laica ed umanitaria (solidale,
si direbbe oggi) di giustizia e carità, idea socialmente utile e imposta dallo
Stato. Le verità rivelate della salvezza
e della dannazione eterna sono ridotte a burletta al punto n. 6, visto che
sarebbero salvi o dannati solo coloro che si dimostrassero o non caritatevoli
nel senso laico del termine, gradito allo Stato. Il “perdono dei peccati” è poi concepito alla
maniera dei Protestanti eretici. Di sacerdozio,
liturgia, Sacramenti e S. Scrittura nessuna traccia, ovviamente.
Non potendo in
coscienza accettare un simile caricatura della vera religione, un Cattolico non
negherebbe con ciò, anche solo implicitamente, la legittimità dello “ius circa
sacra” dello Stato che se lo fosse attribuito?
E non potrebbe venir pertanto considerato alla stregua di un “sedizioso”
che incita, anche indirettamente, i suoi compatrioti alla disubbidienza,
foriera di discordia civile? I limiti
posti necessariamente da Spinoza all’esercizio della libertà di coscienza, sono
dunque tali da impedire di fatto ai Cattolici di professare pubblicamente la
loro religione. Di professarla
pubblicamente – si intende – sempre come opinione privata perché come
culto pubblico essa si troverebbe già sostituita dalla religione civile dello
Stato o comunque ad essa adattata. Spinoza non fa cenno della permanenza e
liceità di un culto pubblico diverso da quello teistico voluto dalla
Respublica e configurato nella “religione civile”. Diverso, perché non conforme ai suoi
sette articoli di fede.
La verità è che,
nell’ottica di Spinoza, la religione rivelata non ha un proprio diritto ad
esser riconosciuta come tale dallo Stato.
Ce l’ha solo l’opinione privata dell’individuo purché non attenti
al diritto dello Stato per ciò che riguarda le cose della religione. E questo è perfettamente logico, trattandosi
di uno Stato che riconosce solo il culto della religione che esso stesso si dà,
regolando a suo modo il ius circa sacra, e che ho chiamato teismo
civile (o politico, se si preferisce). Ed è autorizzato a darselo, secondo Spinoza,
in conseguenza del patto sociale (naturalmente, come inteso da un pensatore che
professa il Deus seu natura e nega il libero arbitrio). Sulla falsariga di Hobbes, afferma anch’egli
la competenza esclusiva dello Stato in materia di culto religioso
pubblico. Pertanto, la religione
acquista “forza giuridica”(vis iuris) nello Stato “soltanto in seguito
al decreto di coloro che hanno il diritto di imperio”, cioè che detengono il
potere sovrano. Le “somme potestà” hanno
quindi in esclusiva il diritto di stabilire e regolare “il culto religioso e
l’esercizio della pietà”, dato che entrambi “devono conformarsi alla pace e
all’interesse dello Stato”. Le “somme
potestà devono essere anche le interpreti” del culto[106]. Se ne deduce, perciò, che se un culto
pubblico cattolico fosse ammesso, lo sarebbe solamente dopo esser stato
“interpretato” dal potere sovrano ovvero reinterpretato e modificato
da quest’ultimo secondo i dogmi della sua “religione”, quella “civile”.
Nel “culto esterno” si
realizzerebbe, inoltre, anche il Regno di Dio perché “quello è regno di
Dio, nel quale la giustizia e la carità hanno vigore di legge e decreto”[107]. Per l’immanentista Spinoza il Regno di Dio
può realizzarsi solo in questo mondo e ad opera dello Stato. “Giustizia” e
“carità” non possono ricevere il loro “vigore” se non “dal diritto d’imperio”
cioè dalla legge dello Stato. Infatti, “Dio non esercita sugli uomini alcuna
sovranità, se non per mezzo di coloro che sono investiti del potere” e questa è
la “vera religione”, dato che “solo nel diritto della giustizia e della carità”
è la “vera religione”[108]. Pertanto, obbedire alla volontà di Dio
significa far sì che “il culto religioso esterno ed ogni esercizio della pietà
debbono uniformarsi alla pace e alla conservazione dello Stato”[109]. Ogni “atto di pietà” verso il prossimo che
provochi (senza volerlo, evidentemente) “un danno per lo Stato”, si risolve
oggettivamente “in empietà” ed è giusto che chi l’ha posto in essere sia
punito, anche con la morte[110]. Persino il significato dell’”atto di pietà”
viene stravolto da Spinoza. Lo Stato è quindi “interprete e vindice” della
religione. Di quale religione? Di
nessuna religione storica, si intende, tantomeno se rivelata, ma – ripeto –
della “religione civile” racchiusa nei sette comandamenti che tutti devono
osservare nel loro culto esterno di Dio.
Su questi fondamenti,
in che senso può allora affermare Spinoza, nell’ultimo capitolo del Trattato,
che “il vero fine dello Stato è la libertà”?
La libertà perché il suo fine non è quello di dominare, schiacciare col
terrore, angustiare col timore, ma di garantire una vita sicura in modo che
ognuno “possa godere nel miglior modo del proprio naturale diritto di vivere e di
agire senza danno né suo né degli altri”[111]. È dunque quello di permettere un certo grado
di libertà nella vita privata e pubblica.
Cosa su cui possiamo esser in generale tutti d’accordo. Ma ciò non basta.
Poiché ciascuno è “per
diritto imprescrittibile della natura padrone dei propri pensieri” sì da non
poter “rinunciare ad esprimere il proprio giudizio intorno a qualunque cosa”
(dalla religione alla “filosofia”) e di fatto non vi rinunzia, come dimostra
l’esperienza, bisogna consentire a ciascuno di “pensare e giudicare, e quindi
anche parlare, contro il decreto” della pubblica autorità, ma con una
condizione: “purché parli o insegni
semplicemente, e sostenga ciò che dice seguendo la sola ragione, e non con inganno,
con ira e con odio, né con l’intenzione di introdurre qualcosa
nell’amministrazione dello Stato basandosi sull’autorità della propria
decisione”[112]. È quindi lecito criticare una legge ma da
filosofo e saggio, senza agitarsi troppo, rimettendosi sempre al giudizio
dell’autorità e senza far nulla contro la legge stessa. Non è, infatti, lecito criticare “con
l’intenzione di accusare il magistrato di iniquità e di renderlo odioso al
popolo”; e chi critica con “il sedizioso proposito di abrogare quella legge
contro la volontà del magistrato, è senz’altro un ribelle e un perturbatore”[113].
Secondo questa logica,
chi critica oggi la normativa aberrante che concede alle donne nell’odierna
laicissima Respublica la libertà indiscriminata di abortire, con l’intento
evidente di vederla abrogata, sarebbe da considerarsi un sedizioso e un
ribelle!
La libertà di
espressione deve quindi esercitarsi “senza pregiudizio del diritto e
dell’autorità del potere supremo e cioè senza pregiudizio della pace dello
Stato”, ossia a condizione “che si lasci all’autorità costituita la facoltà di
decidere tutto il da farsi e di non contravvenire in nulla alla sua decisione”[114]. In questo modo Spinoza è convinto di aver
conciliato il “diritto” del potere sovrano ad esercitare le sue funzioni e
l’incoercibile diritto naturale di ognuno a pensare liberamente e a manifestare
il suo pensiero, anche nell’ambito della religione oltreché della
“filosofia”. Lo Stato non può entrare
nelle coscienze e il suo potere “viene limitato alle azioni” vale a dire alla
sfera esterna, pubblica, sia in campo civile che religioso. Pertanto, ad ogni cittadino “è consentito non
solo di pensare quello che vuole ma anche di dire quello che pensa”[115].
6.7 La
vantata libertà di coscienza teorizzata da Spinoza è fictio ed instrumentum
regni
La tanto vantata
libertà di coscienza teorizzata da Spinoza poteva sembrare un’importante
innovazione ai suoi tempi, dominati dal bisogno di trovare un compromesso tra
l’esigenza di pace e di ordine e il permanere dei conflitti politico-religiosi. Ma la condanna che all’epoca ricevette dai
rappresentanti di tutte le religioni è significativa. Oltre a dare
un’interpretazione tendenziosa delle Scritture, il Trattato propugna una
libertà che appare fittizia. Infatti, se
chi la esercita mira “ad abrogare la legge contro la volontà del magistrato”
ossia del potere che l’ha emanata, deve esser considerato un “sovversivo” e
sottoposto al rigore delle leggi. Come a
dire: alla coscienza individuale è
consentito solamente di fare “l’opposizione di Sua Maestà”, come si diceva una
volta, che si svolga cioè rispettosamente nell’ambito del sistema ed ordine
costituito, senza mai pretendere di modificarlo. Per ciò che riguarda la religione, è evidente
che è proibito esprimere opinioni che mirino anche solo a modificare il deismo imposto
dallo Stato, con i suoi sette comandamenti elaborati a tavolino da
Spinoza. La “religione civile” che
sostituisce quella rivelata è intoccabile, chi non l’accetta e non la mette in
pratica è un “sovversivo”, un “sedizioso”, e come tale va trattato.
La concezione di
Spinoza mi sembra falsa e contraddittoria.
Falsa la libertà di coscienza ipotizzata, perché in funzione
dell’ordine costituito (per di più non cristiano) e subordinata in maniera
radicale alle sue esigenze. Falsa,
perché, dietro l’apparente neutralità lo Stato, mediante il culto esteriore da
esso predisposto e mantenuto, impone in realtà a tutti il suo culto deista e
razionalista. Abbiamo allora una
religione (quella “civile” dello Stato) contro tutte le altre, ammesse solo
come opinione privata di saggi o eruditi, che non graffi e non morda, quando si
manifesti in pubblico. C’è poi la c o n t r a d d i z i o n e di una libertà così raccorciata nel suo
esercizio e così funzionale all’interesse del potere sovrano, da sembrar concepita
addirittura come “instrumentum regni” del potere stesso.
La libertà di
coscienza postulata da Spinoza offre, a mio avviso, meno tutele alla religione
delle minoranze di quante ne offrissero la dottrina e la prassi della Chiesa
Cattolica. Consideriamo i due rispettivi
schemi concettuali.
Cosa troviamo in
quello cattolico tradizionale, durato sino al Vaticano II escluso? Il riconoscimento (tacito sino a Pio XII) di
un diritto naturale dell’Acattolico a praticare la propria religione di
appartenenza, compatibilmente con il rispetto dovuto alla vera religione
(quella cattolica, riconosciuta e protetta dallo Stato cattolico e socialmente
dominante) per ciò che ne concerne l’esercizio, ossia il culto pubblico. Ciò comportava dei limiti evidenti all’esercizio
del diritto dell’Acattolico, come si è ricordato sopra, ed una posizione di
privilegio della religione cattolica. Il
riconoscimento tacito o espresso di questo “diritto naturale” non costituiva in
nessun modo riconoscimento di un supposto diritto innato dell’individuo a
professare e praticare qualsiasi religione egli ritenesse la vera ed unica,
sulla base del suo sentimento interiore o “lume naturale”, in definitiva della
sua semplice o p i n i o n e . La libertà innata di pensiero dell’individuo in
materia religiosa non era pertanto riconosciuta, né avrebbe potuto esserlo,
perché in tal modo si sarebbe negata la validità della Rivelazione.
Cosa offre, invece, la
libertà di coscienza propugnata da Spinoza?
La libertà di criticare pubblicamente e in modo ragionevole come
individuo privato “il decreto del sovrano” senza però mai pretendere di
“abrogarlo”. Tale libertà dovrebbe
esercitarsi anche nei confronti della “religione civile”, visto che anch’essa
risulta da un decreto del sovrano. Ma
ciò è impossibile. Essa è intoccabile,
essendo l’unico culto pubblico ammesso dallo Stato. A che serve, allora, questa libertà di
critica? Inoltre, gli altri culti (com’è
ovvio) non risultano ammessi, in quanto culti pubblici. Ciò significa che la laica Respublica di
Spinoza non riconosce un diritto naturale all’esercizio pubblico (anche se
limitato) della propria religione di appartenenza, come riconosciuto invece
dalla Chiesa Cattolica. Spinoza ammette
l’individuale libertà di critica (sempre ragionevole, immune dalle passioni)
non nei confronti del culto pubblico posto dallo Stato ma solo nei confronti di
quello che egli chiama “tutto il resto” e nel modo estremamente limitato che si
è visto. Ma non ammette la libertà di
professare, anche in modo limitato, una religione diversa da quella ufficiale,
cosa ammessa invece dalla Chiesa Cattolica.
Allora: libertà individuale di critica più apparente
che reale e nessuna vera libertà di culto per le minoranze. Mi sembra meno di quanto concedesse la
Chiesa. Essa non ammetteva la libertà di
opinione in religione ma concedeva libertà di culto, sia pure con limiti
evidenti al suo esercizio. Il sistema di
Spinoza sembra concedere molto sul piano della libertà d’opinione ma in realtà
partorisce una libertà del tutto accademica per non dire platonica e non
concede alcuna libertà di culto. E dico:
accademica, non per il fatto in sé di esser sottoposta a limiti.
I limiti alla manifestazione della “libertà di giudizio” di ciascuno sono
necessari, se non si vuole che la società sprofondi nel caos. Solo un’epoca che
abbia smarrito il vero concetto della libertà può pretendere una libertà di
coscienza senza limiti, per tutti. Accademica,
dunque, per come sono concepiti questi limiti:
tali da rendere di fatto innocqua la libertà di pensiero. In ogni caso, applicato al Cattolicesimo,
considerato religione di minoranza rispetto al teismo della “religione
civile", il sistema di Spinoza implica la scomparsa ufficiale del culto
cattolico, salvo la sua “reinterpretazione” secondo i dogmi del teismo di
Stato, della “religione civile”. Questo
lo schema che risulta dal principio di tolleranza di Spinoza, ancora
considerato a tutt’oggi un apostolo della libertà di coscienza, anche dai
Cattolici di tendenza liberale.
Lo schema spinoziano
è tipico di un pensiero che vuole eliminare la religione rivelata dalla
vita di relazione. Prendendo a pretesto
le dispute e le lotte provocate dagli eretici e facendo leva su di un legittimo
desiderio di pace sociale, il pensiero moderno ha voluto ridurre la religione
in senso proprio a semplice elaborazione del sentimento individuale e del lume
naturale di ciascuno, ad un fatto del tutto privato, che non deve incidere sul
surrogato che lo Stato o la “Volontà Generale” propinano per religione ufficiale,
in nome della pace e della sicurezza di tutti.
In tal modo si elimina Dio dallo Stato e dalla società e si dichiara
l’incompatibilità del Cattolicesimo (ma anche di tutte le altre religioni) con
lo Stato “ben ordinato” che la ragione pretende di sostituire a quello
Cristiano, dilaniato dalle guerre confessionali. La messa al bando del Cattolicesimo è ancora
implicita in Spinoza. Diventerà
esplicita nella “religione civile” propugnata a sua volta da Rousseau, vero e
proprio invito alla persecuzione che troverà i suoi esecutori nei rivoluzionari
dell’89.
“Vi è dunque una
professione di fede puramente civile, della quale spetta al corpo sovrano
fissare gli articoli, non precisamente come dogmi di religione, ma come
sentimenti di socialità senza i quali è impossibile essere buon cittadino o
suddito fedele. Senza poter obbligare
nessuno a credere in essi, può bandire dallo Stato chiunque non vi creda; può
bandirlo, non in quanto empio, ma in quanto insocievole, in quanto incapace di
amare sinceramente le leggi, la giustizia, e di immolare, se occorra, la sua
vita al suo dovere. Se qualcuno, dopo
aver riconosciuto pubblicamente quegli stessi dogmi, si comporta come se non vi
credesse, sia punito di morte; egli ha commesso il più grande dei delitti, ha
mentito dinanzi alle leggi. I dogmi
della religione civile devono essere semplici, pochi di numero, enunciati con
precisione, senza spiegazioni né commenti.
L’esistenza della divinità potente, intelligente, benefica, previdente e
provvida, la vita futura, la felicità dei giusti, il castigo dei malvagi, la
santità del contratto sociale e delle leggi; ecco i dogmi positivi. In quanto ai dogmi negativi, io li limito ad
uno solo: l’intolleranza; essa rientra
nei culti che abbiamo escluso”[116].
Tra i culti “esclusi”,
nella prima parte dello stesso capitolo, era stato messo “il cristianesimo
romano”, detto anche “religione del prete”, perché (a dire di Rousseau ma si
trattava di una vecchia e consunta accusa) dava agli uomini “due legislazioni,
due capi, due patrie” impedendo loro di essere “allo stesso tempo devoti e
cittadini”[117]. Il Cattolicesimo era dunque un culto da
escludersi dalla società nuova, che si voleva fondare sul Patto Sociale, sulla
ragione, su sentimenti di socialità e umanità.
Escluso proprio per la sua pretesa fondamentale, derivante dall’insegnar
esso la vera Parola di Dio, l’unica che dà la salvezza. Non è più il tempo delle religioni “nazionali
ed esclusive”, conclude Rousseau. Si
devono tollerare tutte quelle che tollerano le altre e “fin tanto che i loro
dogmi non abbiano niente di contrario ai doveri del cittadino”. Ma questa “tolleranza” il nuovo Stato non può
esercitarla nei confronti del Cattolicesimo.
Perché? Perché “chiunque osi
dire: ‘Fuori della Chiesa non vi è salvezza’, deve essere espulso dallo Stato,
a meno che lo Stato non sia la Chiesa, e il principe non sia il pontefice”[118].
7. Come
ha potuto il Concilio “far suo” questo principio della libertà religiosa quale
diritto assoluto della persona, che presuppone uno Stato agnostico e ateo,
quale lo Stato moderno? Su quali basi?
Quanto appena visto a
proposito di un autore esemplare per la moderna “libertà di pensiero” come
Spinoza, permette, anche alla luce dello sviluppo storico successivo, di
ricavare un concetto generale del rapporto tra lo Stato e la “libertà
religiosa” nel senso moderno del termine?
A mio avviso, il concetto è il seguente:
il riconoscimento di una paritaria libertà di coscienza per le religioni
esistenti in uno Stato presuppone che quello Stato non ne professi alcuna. Se ne professasse qualcuna, inevitabilmente
la favorirebbe rispetto alle altre.
Presuppone, quindi, uno Stato agnostico o ateo. Lo Stato di Spinoza si presenta con un suo
culto pubblico, i cui articoli di fede sono estrapolati dal monoteismo ebraico
e dal Protestantesimo. Ma abbiamo ben
visto che essi altro non sono se non gli articoli di quel deismo o
concezione puramente “razionale” di Dio fabbricata dall’uomo, che la filosofia
nemica della Rivelazione opponeva alla Rivelazione stessa. E il d
e i s m o , come sappiamo, oltre a comportare l’agnosticismo nei confronti
della verità rivelata, è in realtà l’anticamera dell’ateismo, quando non è esso
stesso vero e proprio ateismo mascherato.
Il primo passo
nell’ateismo consiste in genere nel negare la storicità della Rivelazione e
l’esistenza di un Dio vivente e personale, che ci ha creato e ci giudicherà
subito dopo la nostra morte. Il secondo,
nel proporre per l’appunto il Deus seu natura. Il terzo, nel proclamare il puro e semplice regno
della natura, quale unica realtà, increata, eterna ed immutabile,
irresistibile nelle sue pulsioni. Una
lettura del Trattato libera dalle pastoie del politicamente corretto,
non può che confermare l’impressione negativa dei contemporanei, che scorsero
immediatamente la mano dell’ateo nell’”esegesi” razionalista dell’anonimo
Autore: “infamem illum discursum theologico-politicum cuius auctor creditur
Benedictus Spinoza qui ex Judaeo factus est deista, si non atheus…”, scriveva
l’arminiano olandese Limborch ad un suo amico, inviandogliene un esemplare[119]. Lo Stato moderno, aconfessionale, in
apparenza ancora legato in Spinoza a forme di religiosità, ha poi, nel suo
sviluppo storico, gettato la maschera, nel senso che il sostrato ateistico
della sua ideologia è venuto sempre più allo scoperto. Lo constatiamo noi oggi anche nel nostro
Stato repubblicano, una democrazia atea che ha messo completamente da parte
Dio, e più non vuole professare, come in passato, il Cattolicesimo come
religione ufficiale dello Stato.
Il Concilio ha voluto
proporre una “libertà religiosa” che ricalca quella dello Stato laico agnostico
e ateo del nostro tempo, accettandola cioè come diritto insopprimibile della
coscienza individuale, la cui “dignità” riposa su sé stessa, poiché la “coscienza”
per i Moderni si pone da sé come valore in sé, è autopoietica. Ma come poteva far ciò, non solo senza
contraddire l’insegnamento precedente della Chiesa ma anche senza aprire le
porte all’agnosticismo e all’ateismo? E
difatti queste malattie dello spirito hanno o non attecchito ampiamente nel
corpo un tempo sano della Cattolicità, a partire dal Concilio? Ma il Concilio non sembrava rendersi conto
delle gravi antinomie presenti nel principio della “libertà religiosa”, in
particolare per ciò che riguarda il nesso Stato agnostico-ateo/libertà
religiosa; antinomie che credo di aver fatto emergere dall’analisi del pensiero
di Spinoza sul tema. Il Concilio
presentava quella libertà come una sorta di coronamento della riflessione
sempre “più chiara” della “ragione umana” sulle esigenze autentiche della
“dignità della persona” (DH, 9), come se quella libertà fosse stata il
risultato di uno sviluppo intellettuale lineare e positivo, cui anche la Chiesa
doveva ora allinearsi, e non, invece, il risultato dell’affermarsi di una
filosofia anticristiana, agnostica ed atea, la quale, oltre a sostituire la
verità della coscienza individuale alla verità rivelata da Dio, faceva dello
Stato un nemico del Cattolicesimo e alla fine di ogni religione.
L’inserimento del tema
della “libertà religiosa” laicamente concepita nella dottrina della Chiesa
avveniva pertanto al prezzo di una falsificazione di prospettiva per ciò che
riguardava l’esatto significato storico di quella “libertà”, costruita in
antitesi al Cattolicesimo e proprio in odio al dogma “fuori della Chiesa non
c’è salvezza”. Ma il Concilio doveva
nello stesso tempo giustificare le sue tesi anche alla luce della dottrina
della Chiesa, nel senso di farvi apparire in qualche modo il tema della
“libertà religiosa”. Mancando un
appiglio sicuro nel Magistero, poiché la strombazzata “apertura” di Pio XII,
oltre ad esser troppo recente, in realtà non faceva concessioni alla “libertà
religiosa” intesa come diritto individuale assoluto della coscienza (vedi supra,
§ 2.1 di questo capitolo), bisognava trovare dei riferimenti nel Nuovo
Testamento. Questo ha cercato di fare DH
agli articoli 9-11.
Ho richiamato dianzi
le perplessità di Mons. Gherardini, che fa valere in termini rispettosi i suoi
dubbi sulla validità dell’esegesi proposta dalla Dignitatis humanae, che
si sofferma sul “modo di agire di Cristo e degli Apostoli” al fine di
dimostrare che essi già praticavano la “libertà religiosa” nei confronti di
coloro che volevano convertire. A
sostegno delle tesi del Concilio, Benedetto XVI, nel famoso discorso alla Curia
tenuto nel Natale del 2005, ha introdotto un nuovo concetto, che chiama in
causa il significato della testimonianza dei Martiri cristiani. Come si è già visto, egli ha richiamato
proprio la “libertà di religione” quale esempio di continuità dottrinale nella
Chiesa, pronunciando le frasi ormai celebri:
“Il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo con il Decreto
sulla libertà religiosa un principio essenziale dello Stato moderno, ha ripreso
nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa”. Questo patrimonio era quello dei
Martiri. Infatti, “i martiri della
Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in
Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la libertà di coscienza e per
la libertà di professione della propria fede – una professione che da nessuno
Stato può essere imposta, ma invece può essere fatta propria solo con la grazia
di Dio, nella libertà della coscienza”[120].
Da questo intervento
del Papa si deduce che il Concilio sarebbe appunto tornato alle origini,
riprendendo “il patrimonio più profondo della Chiesa”, patrimonio che
evidentemente era stato trascurato durante tutti i secoli fin qui
intercorsi. E nel far ciò, avrebbe
“fatto suo” un principio dello Stato moderno, laico e anticristiano sino al
midollo. Come si è potuta realizzare una
simile quadratura del cerchio? Ma, prescindendo da quest’aspetto della tesi del
Pontefice, ciò che conta è il concetto che nel sacrificio dei Martiri cristiani
la rivendicazione della libertà di coscienza nel senso moderno sarebbe stata un
motivo essenziale. Con tutto il rispetto
per l’opinione del Romano Pontefice, manifestata qui del resto in qualità di dottore
privato, sulla validità di una simile interpretazione della testimonianza
dei Martiri avrei più di un dubbio.
Prima di analizzare la questione, devo però soffermarmi su DH 2, che
contiene la definizione della libertà religiosa, e DH 9-11, che cerca di
trovare nel Nuovo Testamento un fondamento alla nuova dottrina.
8. DH 2, che definisce il nuovo concetto della
libertà religiosa, appare minato da gravi aporie e propone un concetto di
verità incompatibile con quello di “verità rivelata” da Dio
L’art. 2 della DH, che
ha a contenuto l’”oggetto e fondamento della libertà religiosa”, stabilisce che
“la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa”(DH 2.1). Non semplicemente (annoto) quello di
praticare il culto della religione di appartenenza senza esser perseguitati
(Pio XII) ma alla “libertà religiosa”:
concetto assai più ampio, perché è il diritto di un soggetto
indeterminato, della persona umana ossia di ogni uomo in quanto persona,
che deve poter manifestare il dettato della sua “retta coscienza”, secondo
l’espressione di Giovanni XXIII. Posto
il principio, l’articolo distingue poi tra il “contenuto” e il “fondamento” di
questo diritto. Il contenuto consiste
nell’assenza di coercizione (da parte di singoli, gruppi, poteri di ogni tipo),
in modo che “in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua
coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad
essa: privatamente o pubblicamente, in
forma privata o associata”(ivi). Il
principio qui affermato è in linea con la dottrina tradizionale della Chiesa,
da ultimo ribadita, come si è visto, nella Mystici Corporis. Nessuno deve esser convertito a forza né
costretto ad agire contro la propria coscienza, né impedito a praticare la
propria religione, in pubblico o in privato.
Si tratta di quelle che Mons. Gherardini chiama “le due immunità sempre
difese dalla Chiesa” (vedi supra, § 1 di questo capitolo).
La novità dottrinale
appare invece nella definizione del “fondamento” di questo diritto. “Il diritto alla libertà religiosa si fonda
realmente sulla stessa dignità della persona umana quale l’hanno fatta
conoscere la parola di Dio rivelata e la stessa ragione [fundatum in ipsa
dignitate personae humanae, qualis et verbo Dei revelato et ipsa ratione
cognoscitur]”(DH 2.1). In nota l’articolo cita a sostegno la dottrina dei
Pontefici al tempo più recenti. Abbiamo
visto che solo la contemporanea Pacem in terris di Giovanni XXIII poteva
esser legittimamente invocata in aiuto (vedi supra). Il fondamento di questo diritto è dunque
costituito dalla “dignità della persona umana”.
Ciò significa che questo diritto è posto come un valore assoluto poiché
la “dignità della persona umana” è a sua volta un valore assoluto. Fa parte di quelli che la tradizione
giusnaturalistica laica chiama “diritti inalienabili della persona”.
Ora, secondo il
Concilio, questa “dignità” risulterebbe dalla Rivelazione (dalla “parola di Dio
rivelata”) e dalla “ragione stessa”. Che
cosa si deve intendere qui con “ragione stessa”? Evidentemente la “ragione umana” menzionata
poi in DH 9, che avrebbe chiarificato nei secoli “le esigenze” della “dignità
della persona”. Questa “ragione umana”
che ha indagato le profondità del concetto della persona nella sua dignità, non
può che essere, come si è già detto, il pensiero filosofico moderno, che ha
appunto elaborato l’idea dei diritti della persona e delle connessa dignità
della persona. Va notato che DH 2 pone
sullo stesso piano la “Parola di Dio rivelata” ossia – mi sembra evidente - il
Nuovo Testamento e la “ragione”:
entrambi avrebbero concorso a costituire il concetto della “dignità
della persona” e dei suoi “diritti”.
A me sembra che questo
accostamento sia del tutto errato. Come
credo di aver fatto vedere a proposito di Spinoza, il modo in cui la “ragione”
ossia la filosofia moderna ha inteso la dignità della persona con i suoi
diritti, ivi compresa la “libertà religiosa”, non solo non ha nulla a che
vedere con il concetto di persona che (secondo il Concilio) si può rinvenire
nella S. Scrittura o con quello elaborato dalla filosofia del Cristianesimo, ma
vi si oppone radicalmente, già per il fatto di negare da un lato il concetto
della sostanza e dell’essenza dell’ente; dall’altro, quello del peccato
originale, che ci ha fatto perdere la somiglianza con Dio, ulcerando le nostre
capacità intellettuali, e dato vita ad un conflitto continuo tra di esse e le
passioni, che solo con grande fatica e con l’aiuto della Grazia riusciamo a
dominare.
Il Concilio vuol
vedere unità concettuale là ove unità non può esservi. Esso ingiunge allo Stato di sancire come “diritto
civile” un concetto di libertà religiosa presentato come risultato unitario di
una tradizione di pensiero cui avrebbero contribuito e “la Parola di Dio” e la
“ragione”, senza contraddizione reciproca.
Ma una tradizione di pensiero unitaria, tra la Rivelazione e la laica e
moderna “ragione”, non esiste né può esistere, per il semplice fatto che
la moderna e laica “ragione”, come si è detto e ripetuto, si è affermata
proprio in antitesi alla Rivelazione, pretendendo di sostituirsi essa
stessa alla Parola di Dio e ponendo essa stessa l’uomo al centro dell’universo,
al posto di Dio. Si noti che il testo
dice: “la Parola di Dio”; non può dire:
“la filosofia cristiana” o “la tradizione cristiana”, non può mettere
assieme Boezio, S. Tommaso e Spinoza.
Questa è dunque la
prima contraddizione che mi sembra doveroso rilevare in DH 2,
contraddizione lesiva della verità, per quanto riguarda la “storia delle
idee”. Nel secondo paragrafo dell’art. 2
si stabilisce l’importante principio dell’obbligo morale per ogni uomo di
ricercare la verità e la connessione di quest’obbligo con la libertà
religiosa. Anche qui si palesano, a mio
avviso, evidenti difficoltà.
Si ripropone il
tradizionale principio cattolico dell’obbligo morale della ricerca della verità
religiosa da parte del soggetto, dotato da Dio di libero arbitrio. A causa della loro “dignità” tutti gli
uomini, in quanto “persone” (homines cuncti, quia personae sunt), “sono
dalla loro stessa natura e per obbligo morale tenuti a cercare la verità, in
primo luogo quella concernente la religione”, e ad “aderirvi”, una volta
conosciutala, “ordinando la loro vita ad essa” (DH 2.2). Osservo:
ciò risulta espressamente dalla S. Scrittura. “Credete in Dio e credete anche in Me” (Gv
14,1). “Or, senza la fede è impossibile
piacere a Dio, perché è necessario che chiunque si accosta a Lui, creda che Dio
esiste e dà la ricompensa a quelli che lo cercano” (Eb 11,6). Difatti, “Egli [Dio Padre] ha voluto che gli
uomini cercassero Dio e si sforzassero di trovarlo, come a tastoni…”(Atti 17, 27,
discorso di S. Paolo all’Areopàgo).
A quest’obbligo però,
continua il Concilio, gli uomini non possono soddisfare “se non godono della
libertà psicologica e nello stesso tempo dell’immunità dalla coercizione
esterna” (DH 2.2). Occorre, dunque, che
non vi siano né coercizione interna né esterna perché la coercizione
impedirebbe non solo l’esercizio del diritto alla libertà religiosa ma anche
l’adempimento dell’obbligo di ricercare la vera religione. Il diritto alla libertà religiosa sembra
allora correlativo all’obbligo di cercare la verità ossia la vera
religione.
A mio avviso, si ha
qui una connessione paradossale:
si vuol far dipendere l’adempimento di un obbligo dal godimento di un diritto, godimento che presuppone già
adempiuto l’obbligo (dato che presuppone l’aver già trovato la religione che si
vuole professare). Osservo, inoltre, che
un obbligo è un obbligo, a prescindere da un diritto corrispondente o collegato
e dalle circostanze che ne impediscano in tutto o in parte l’adempimento. L’individuo, in quanto persona, dotato quindi
di volontà, ragione e perciò responsabile (come ricorda la stessa DH 2.2), se
ha moralmente l’obbligo innato di cercare la verità nella religione, ce l’ha a
prescindere dal suo diritto a professare pubblicamente e privatamente la
verità che abbia trovata. L’obbligo va
adempiuto ex sese, senza condizioni, soprattutto un obbligo morale di questo
tipo, scaturente dalla nostra stessa natura di uomini, creati da Dio come
esseri dotati di libero arbitrio (indebolito ma non eliminato dal peccato
originale).
Quest’obbligo
incondizionato e senza nessun riferimento alla “libertà religiosa”, non lo
ritroviamo, oltre che nei passi appena visti, anche nell’esortazione di Nostro
Signore, che è in realtà un comando:
“Cercate prima di tutto il Regno di Dio e la sua giustizia, e il resto
vi sarà dato in sovrappiù”(Mt 6,33)?
L’obbligo di credere in Dio, cercare di attuare il suo Regno in questo
mondo ossia la sua giustizia nei rapporti con il nostro prossimo, deriva da un
comando che esige in modo incondizionato (un imperativo incondizionato, direbbe
Kant). Un comando del genere non può
esser condizionato dalla presenza di
coercizioni interne o esterne. Non può
esserlo, dal momento che il mondo è “il regno del principe di questo mondo”,
che già esercita tutte le coazioni possibili ed immaginabili, interne
(tentazioni, cattivi pensieri) ed esterne (intimidazioni, calunnie,
persecuzioni), su chi vuole credere in Dio e attuare il suo Regno con
l’osservare la sua giustizia nella vita di ogni giorno. Non sembra pertanto esatto porre la libertà
da ogni forma di costrizione quale condizione pregiudiziale al
soddisfacimento dell’obbligo di cercare il vero Dio. Storicamente, molti si
sono convertiti a Cristo nelle situazioni di vita più difficili, circondati
dall’odio e dal disprezzo, e senza godere di alcuna libertà religiosa, al posto
della quale hanno spesso trovato spietate persecuzioni e la morte. La libertà di professare la vera fede se la
sono presa, pronti a pagarne le conseguenze sino in fondo, con l’aiuto dello
Spirito Santo: “Non pensate che io sia
venuto a portar la pace sulla terra; non sono venuto a portar la pace, ma la
spada” (Mt 10,34). Naturalmente, molti
si sono convertiti grazie anche ad un clima opposto, nel quale la religione
cristiana veniva riconosciuta, accettata ed onorata. La conclusione, allora, qual’è? Che l’esistenza della libertà religiosa, che
pur può favorire le conversioni, non può tuttavia esser ritenuta conditio
sine qua non dell’attuazione del dovere morale di cercare il vero Dio.
C’è poi un altro
aspetto da considerare, nel dettato di DH 2.2.
Il fatto che il diritto alla libertà religiosa abbia, secondo il
Concilio, natura ontologica, implica che esso “si fonda sulla natura stessa della
persona”. Ciò significa che tale
diritto, “perdura [perseverat] anche in coloro che non soddisfano
all’obbligo di cercare la verità e di aderire ad essa”(ivi). Che significato può avere una frase del
genere? E a chi si riferisce? La risposta mi sembra evidente: agli
agnostici, agli scettici, agli atei.
Sembra qui di trovarsi di fronte ad un nuovo paradosso: che la libertà religiosa, in quanto “fondata
sulla natura” di ciascuno, deve esser riconosciuta anche ai nemici dichiarati
della religione rivelata e di ogni religione, quali appunto agnostici,
scettici, atei. DH 2.2 sembra allora
usare il concetto di “natura umana” in modo del tutto ambivalente perché
costitutivo di due realtà tra loro nettamente contrapposte. Riflettiamo.
Infatti, per il Concilio: 1) la
“natura umana” fa nascere simultaneamente il diritto alla libertà di coscienza
e l’obbligo di cercare il vero Dio, quando in realtà l’una e l’altro non si
implicano necessariamente a vicenda. Nei
Testi Sacri troviamo l’obbligo di cercare Dio non il diritto alla libertà
religiosa quale condizione imprescindibile di questa ricerca. 2) La
“natura umana” comporterebbe l’esistenza di questo diritto anche per chi nega l’esistenza
di Dio o si dichiara non interessato a stabilirla, come se la “natura umana”
amasse la contraddizione e vivesse di essa.
Infatti, se da essa natura si ricava il diritto alla libertà religiosa
per chi cerca Dio, questo stesso diritto non può essere dalla natura umana
attribuito anche a coloro il cui credo consiste nel negare la legittimità
stessa della religione e di quella ricerca, convinti come sono che Dio non
esiste o, se c’è, che non si cura del mondo.
Seguendo la logica qui professata dal Concilio, si dovrebbe dire che la
“natura umana” costituisce nello stesso tempo in ognuno di noi un diritto
individuale di adorare il vero Dio e uno di negare il vero Dio. Allora, cos’è questa “natura umana”? Il suo concetto non appare incoerente?
DH 2.2 non dice che
anche per atei e miscredenti perdura l’obbligo di cercare Dio. Che perduri, è ovvio; non c’è bisogno di
dirlo. Dice che permane il diritto
all’immunità (ius ad hanc immunitatem perseverat) da ogni coercizione
anche per gli atei e miscredenti, i quali non perdono questo diritto, dato che
esso non dipende “dalla disposizione subbiettiva della persona” ma, appunto,
dalla “sua stessa natura”. Ciò può
significare una cosa sola: che scettici
ed atei hanno il diritto di veder tutelate le loro opinioni contro Dio e la
religione, come se fossero opinioni religiose di segno contrario. L’ateismo e l’irreligiosità non possono esser
perseguiti o comunque limitati il più possibile quanto alla loro pubblica
professione: devono esser tutelati come se si trattasse della libertà
religiosa, ma di segno opposto.
Tutelati, anche se si tratta di antireligioni. A conferma di quanto dico, si consideri
l’atteggiamento della Gerarchia odierna di fronte alle proteste dei devoti
verso pubblicazioni o spettacoli apertamente e volutamente blasfemi nei
confronti del Cristianesimo, cosa che sta diventando abbastanza frequente. In primis, l’attuale Gerarchia si preoccupa
di difendere il diritto alla libertà di espressione, la libertà di coscienza,
qui irreligiosa perché dell’autore blasfemo e anticristiano, che
peraltro viene in genere riprovato in termini assai blandi, quasi sempre su
sollecitazione pubbliche dei devoti, quasi mai ad iniziativa della stessa
Gerarchia, che evidentemente ritiene la libertà di coscienza più meritevole di
tutela della Verità Rivelata stessa e dell’onore e decoro della nostra
religione.
Se questa conclusione
appare eccessiva, guardiamo che cosa dice il Concilio in uno dei tre articoli
dedicati dalla Gaudium et spes all’ateismo (GS 19-21). “Pur respingendo in maniera assoluta
l’ateismo”, recita GS 21.7, la Chiesa “riconosce sinceramente che tutti gli
uomini, credenti e non credenti, devono contribuire alla giusta costruzione di
questo mondo, entro il quale si trovano a vivere insieme: ciò sicuramente non può avvenire senza un leale
e prudente dialogo”. Ancora una volta
compare qui la rinuncia a convertire le anime a Cristo, tipica del Vaticano
II: l’invito alla conversione è
sostituito da quello ad un “leale e prudente dialogo”. Nel prosieguo dell’articolo, infatti, il
Concilio “invita cortesemente” gli atei (i discepoli di Spinoza, di Voltaire,
di Marx, di Darwin etc.) “a voler prendere in considerazione il Vangelo di
Cristo con animo aperto” (GS 21.8). In
quest’ottica, l’articolo “deplora la discriminazione tra credenti e non
credenti che alcune autorità civili ingiustamente introducono, a danno dei
diritti fondamentali della persona umana. Rivendica poi, in favore dei
credenti, una effettiva libertà…” (GS 21.7).
A quali “autorità civili” si riferiva l’articolo? A quelle comuniste? In ogni caso, sembra evidente dal testo che
la libertà di espressione dei “non credenti” è posta dal Concilio sullo stesso
piano di quella da attribuirsi ai “credenti”.
Connettendo GS 21.7 con il passo sopra visto di DH 2.2, se ne ricava,
allora, che il diritto alla libertà di opinione nelle cose religiose deve
intendersi come specie del genere “diritti della persona” e quindi includere
anche il diritto a manifestare la propria opinione in religione da parte di
atei e miscredenti, come diritto naturale, innato.
A questo punto,
bisogna chiedersi: qual è il concetto di
“natura umana” che emerge da DH 2.2? È
esso in armonia con la Tradizione della Chiesa e il pensiero cristiano? A me sembra di no poiché la “natura umana”
per la dottrina cattolica non può esser altro che quella creata da Dio, perché
lo onorasse e glorificasse. Cosa che,
con l’aiuto di Dio, può riuscire a fare nonostante gli effetti nefasti del
peccato originale. La negazione
dell’esistenza di Dio, in qualunque modo manifestata, è sempre stata intesa,
oltre che come peccato, anche come stoltezza, vacuità intellettuale
che rappresenta una caduta rispetto al retto ragionamento e una diminuzione
della “natura umana” nel senso proprio, profondo del termine. Come dice il Salmo 14,1: “Dixit insipiens in corde suo: Non est Deus”: “Ha detto lo stolto in cuor suo: Dio non c’è”.
E perché l’ha detto? Per colpa
della superbia e malvagità dell’animo suo, ribelle al Creatore, che per
punizione lo lascia nella sua confusione intellettuale e nei suoi peccati: “I falsi ragionamenti separano da
Dio/L’Onnipotente messo alla prova/Confonde gli stolti” (Sap 1, 3).
Questa mi sembra
dunque la seconda grave contraddizione di DH 2.2: proporre un concetto di libertà religiosa
come libertà di adempiere l’obbligo di cercare il vero Dio, fondandola su una
“natura umana” che, come tale, costituirebbe anche il fondamento della libertà
di opinione antireligiosa di chi è ateo e miscredente e non intende in alcun
modo assolvere quell’obbligo, che anzi avversa.
8.1 Quale
concetto di verità ci propone la ‘Dignitatis humanae’? Un concetto non conforme alla Tradizione
della Chiesa, perché incompatibile con quello di verità rivelata
Tutto l’impianto del discorso conciliare si
basa, a sua volta, su di un concetto utopistico, non cattolico di verità,
come appare in DH 1.3 o Proemio della Dichiarazione. Si afferma, infatti, che “la verità non si
impone che per la forza della verità stessa, la quale si diffonde nelle menti
soavemente e insieme con vigore”. Poiché
la “libertà religiosa […] riguarda l’immunità dalla coercizione nella società
civile, essa lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere
morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di
Cristo” (ivi). Dovere, si suppone, di
ricercare la verità sulla “vera religione e l’unica Chiesa di Cristo”. Ho ripetuto qui questa frase solamente in
relazione al concetto della verità.
Poiché la verità possiede una sua intrinseca “forza”, si suppone che,
grazie al “dialogo”, le menti dei dialoganti si lasceranno convincere dalla
verità ossia dal fatto dell’esistenza della “vera religione e dell’unica Chiesa
di Cristo”. Soprassedendo all’ambiguità
della formulazione (già rilevata in antecedenza), mi limito al punto
essenziale.
Perché ho definito utopistica
la concezione della verità qui propugnata?
Non è forse vero che la verità possiede una sua intima forza di
convinzione, cui è difficile resistere?
È vero. La verità, una volta
accertata, ci costringe con la sua indefettibile autorità. La verità possiede un’autorità di fronte alla
quale non possiamo far valere la nostra opinione personale: dobbiamo invece inchinarci ed obbedire. La verità e l’autorità si implicano a
vicenda, nel senso che la verità ha come tale autorità. Ma chi la riconoscerà l’autorità della
verità, della verità in sé e per sé, nella sua intrinseca oggettività? Tutti gli uomini, senza eccezione, una volta
convinti con validi ragionamenti?
La riconosceranno
soprattuto coloro che sono disposti ad accettare la verità. Non
quelli, in genere la maggioranza, che non sono disposti, per i più vari
motivi, e che anzi arrivano persino a respingere la verità proprio perché è la
verità. Con la sua predicazione, le
profezie, i miracoli, Nostro Signore ha forse convinto tutto Israele o solo una
piccola parte? S. Giovanni scrive che
molti “tra i capi” di Israele (anche tra i Farisei) credettero in Cristo, “ma
non lo confessavano per paura di esser scacciati dalla sinagoga” ad opera dei
Farisei (Gv 12, 42). Avevano capito Chi era effettivamente Gesù di Nazareth ma
le loro passioni e le loro paure facevano velo alle loro volontà, e in quelli
che non credettero, al loro intelletto.
Pensare che la verità possa convincere semplicemente con la sua propria
forza, e portare di per sé all’azione, significa avere un concetto utopistico
della natura umana, misconoscere come le passioni, i pregiudizi, i vizi, gli
interessi facciano spesso aggio sull’intelligenza. E tanto più nelle verità sovrannaturali della
nostra fede, cui non possiamo credere senza l’aiuto dello Spirito Santo poiché
esse sono “scandalo per i Giudei e follia per i Greci” (1 Cr 1, 23). Come ripetevano i Santi Padri, senza amare le
S. Scritture è impossibile comprenderle (“non introitur in veritatem, nisi per
charitatem” – S. Agostino) e non si amano senza la fede. Senza la fede è impossibile comprendere le S.
Scritture: esse restano un libro chiuso
con sette sigilli. Senza la fede, vuol
dire senza l’aiuto dello Spirito Santo, della Grazia[121]. Per tal motivo, la Chiesa Cattolica ha sempre
insegnato che il senso delle Scritture (che non è mai facile a cogliersi)
spetta alla Chiesa stessa stabilirlo, godendo essa sempre dell’aiuto
sovrannaturale dello Spirito Santo (il quale, nei momenti di crisi del
Magistero, impedisce alle cattive dottrine di radicarsi, e successivamente
illumina e sostiene il Magistero stesso nell’opera di pulizia e restaurazione).
Il concetto del vero
posto dal Concilio a fondamento dell’intera Dignitatis humanae, che ne
costituisce come lo spirito, appare utopistico, irrealistico, non conforme alla
Tradizione della Chiesa, al suo sano realismo e al giusto concetto della verità
da applicarsi alla comprensione dei dogmi della fede. E forse, non immune da una tinta pelagiana. Consideriamo, infatti, come debba esser
condotta la “ricerca della verità in materia religiosa” secondo DH 3.
Rifacendosi a S.
Tommaso, il Concilio ci ricorda che “norma suprema della vita umana è la legge
divina, eterna, oggettiva e universale, per mezzo della quale Dio con sapienza
e amore ordina, dirige e governa l’universo e le vie della comunità umana” (DH
3.1). Di questa legge, Dio “rende
partecipe l’essere umano, cosicché l’uomo, sotto la sua guida soavemente
provvida, possa sempre meglio conoscere l’immutabile verità” (ivi). Ma come deve esser concretamente ricercata
“l’immutabile verità”? Già il fatto che
il Concilio senta il bisogno di stabilire il criterio di questa ricerca suscita
perplessità. Che cos’è “l’immutabile
verità”? Sarà la verità che concerne Dio
e l’ordine da Lui stabilito. La sua
ricerca da parte dell’uomo sarà la ricerca della presenza della “legge divina”
che ordina e regge l’universo e la “comunità umana”. Ora, dalla Rivelazione e dal Magistero della
Chiesa, dalla teologia ortodossa e dalla filosofia cristiana, non abbiamo noi
un’idea sufficiente dell’immutabile verità, sia nelle sue componenti
strettamente religiose che in quelle morali e metafisiche? E per conseguenza sociali e politiche? Voglio solo dire che l’immutabile verità
invece che come saldo possesso, sulla base del Deposito della Fede, che
garantisce tutta una serie di verità fondamentali anche non strettamente
religiose, viene qui presentata e sentita come problema, come se essa
dovesse risultare da un’ulteriore “ricerca”.
DH 3 si propone,
pertanto, di illustrare i giusti criteri di questa “ricerca”, che devono tener
conto del valore assoluto della “dignità umana”. Prosegue, infatti, nel seguente modo: “La verità, però, va cercata in modo
rispondente alla dignità della persona umana e alla sua natura sociale: e cioè con una ricerca condotta liberamente,
con l’aiuto dell’insegnamento e dell’educazione, per mezzo dello scambio e del
dialogo con cui, allo scopo di aiutarsi vicendevolmente nella ricerca, gli uni
rivelano agli altri la verità che hanno scoperta [invenerunt] o che
ritengono di aver scoperta” (DH 3.2). Il
principio qui affermato fa consistere la verità “in materia religiosa” in
qualcosa che è “scoperto”, trovato dalla coscienza individuale nella ricerca
con “gli altri”, nello “scambio e nel dialogo” reciproci, ove gli “altri” [alii]
non sono semplicemente gli altri Cattolici, ma gli altri in generale, tutti
gli altri uomini, a qualsiasi credo appartengano. Una “ricerca” della verità circa Dio
concepita in questo modo ha sì ad oggetto la lex aeterna, la legge
morale naturale, ma alla maniera dei deisti:
coinvolgendo tutti (senz’escludere nemmeno i miscredenti – vedi supra)
non può avere ad oggetto la Verità Rivelata, negata in toto dai
non-cristiani e in parte dagli eretici e scismatici, pur invitati alla
“ricerca”).
DH 3.1 dice, come si è
visto, che l’uomo gode della “guida soavemente provvida” da parte di Dio, per
conoscere “sempre meglio l’immutabile verità”.
Ma a questo riferimento di carattere generale, il Concilio, nell’indicare
il metodo della ricerca, non dovrebbe fare seguire un preciso
riferimento allo Spirito Santo? Detto
altrimenti: non avrebbe dovuto
aggiungere che senza l’aiuto dello Spirito Santo la “libera ricerca” della
verità “nel dialogo” non approderebbe a nulla?
Invece il Concilio tace completamente dell’indispensabile apporto dello
Spirito Santo! E come avrebbe potuto
parlarne, nel propugnare una “ricerca dell’immutabile verità” da farsi in
comune con tutti gli Acattolici, i non-cristiani e persino gli atei e
miscredenti? Non è vero che anche con
gli atei e miscredenti dobbiamo noi Cattolici lavorare “in leale e prudente
dialogo” per costruire un mondo migliore?
Vedi GS 21.7, già citato.
Questa dottrina sulla
“libera ricerca” della verità in materia religiosa, a mio parere contraddice
apertamente l’insegnamento tradizionale, secondo il quale, per il Cattolico, la
verità “in materia religiosa” e nella morale è una verità rivelata da Dio e
conservata nel Deposito della Fede custodito dal Magistero; verità
assolutamente oggettiva che esiste indipendentemente da noi e che perciò
richiede, esige l’assenso del nostro intelletto e della nostra volontà,
assenso possibile solo con l’aiuto determinante della Grazia. Essa esige di esser riconosciuta e fatta
propria dal credente, non di essere da lui “trovata” con le sue sole forze e
per di più in una cosiddetta ricerca comune con gli eretici, gli
scismatici, i non-cristiani, i miscredenti!
Non ha qui il Concilio in maniera evidente messo in comune Cristo e
Beliar? Al criterio oggettivo e
tipicamente cattolico della verità “in materia religiosa”, che è tale perché
rivelata da Dio, si sostituisce quello soggettivo, di origine
protestante e tipico del pensiero moderno, suo vero e proprio feticcio, di una
verità che è tale perché “trovata” dalla coscienza individuale nella sua
“ricerca” in comune con gli “altri”, perché risultato della “ricerca” del
soggetto, individuale e collettiva. In
questo modo non si è aperta la porta all’irruzione nel Cattolicesimo di una religiosità
individuale anomala; una religiosità della “ricerca”, del “cuore”, del
“sentimento di umanità” o di “solidarietà”, della “coscienza”, del “dialogo”,
caramellosa, falsa e dolciastra, che ricorda la pappa del cuore
scodellata dai romanzi sentimentali del Settecento?
Quest’idea della verità
come ricerca viene applicata dal Concilio anche alla definizione del
concetto di “progresso estrinseco” nella conoscenza delle verità di fede
risultanti dalla “tradizione di origine apostolica”. L’art. 8.2 della costituzione Dei Verbum
sulla divina rivelazione afferma, infatti, che, nel crescere della comprensione
delle verità di fede, “la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente
alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le
parole di Dio”(DV 8.2). La “verità
divina”, ossia la verità rivelata nella sua “pienezza”, la Chiesa non la
possiederebbe ancora, dopo venti secoli.
Essa vi “tende incessantemente” così come la “coscienza morale” dei
Cattolici tende alla verità rappresentata dalle “norme oggettive” della morale,
nel dialogo planetario con tutti gli uomini! (Sul punto, infra, cap.
XVIII, § 3).
Infatti, l’idea della “verità come ricerca”
anche nelle cose della religione, è a sua volta basata su di un certo modo di
intendere la coscienza. “L’uomo
coglie e riconosce gli imperativi della legge divina attraverso la sua
coscienza, che è tenuto a seguire fedelmente in ogni sua attività per
raggiungere il suo fine che è Dio. Non
si deve quindi costringerlo ad agire
contro la sua coscienza” (DH 3.3). Giustissimo.
Il principio è sacrosanto. Ma andiamo a
vedere più da vicino il ruolo della “coscienza” nella “ricerca della verità”,
nell’art. 16 di GS, dedicato alla “dignità della coscienza morale”. L’articolo fa un grande elogio della
“coscienza morale” del soggetto, nella quale l’uomo scopre “la legge di Dio
scritta nel suo cuore”, alla quale deve obbedire. Anche questo principio è coerente con la
dottrina cattolica di sempre. Ma le cose
cambiano subito dopo, allorché il testo introduce il tema della “ricerca della
verità” in comune con gli altri uomini.
È il medesimo principio di cui a DH 3.2.
“Nella fedeltà alla
coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per
risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita
privata quanto in quella sociale. Quanto
più, dunque, prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi si
allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme
oggettive della moralità” (GS 16.2). Di
quale “verità” si tratta qui?
Verosimilmente, di quella concernente la religione ed i costumi. E questa verità non dovrebbe già risultare
dall’insegnamento infallibile della Chiesa Cattolica, dalla Tradizione e dal
Magistero? Al possesso sicuro della
verità della fede e dei costumi stabilito nei secoli dal Magistero, il Concilio
sostituisce la “ricerca” della verità
come criterio generale, della verità in generale; qualcosa di indeterminato,
ma conforme, come sappiamo, allo spirito del Secolo, che ama la “ricerca”, cioè
l’esperimento, la novità, la stravaganza, il moto perpetuo. Non solo. Questa ricerca, sempre in conformità allo
spirito del Secolo, deve aver luogo in unione “con gli altri uomini”, e quindi
anche e soprattutto con gli Acattolici e i non-cristiani, cioè con coloro che
negano tutte o quasi tutte le verità insegnate dalla Chiesa Cattolica. Come può una “ricerca” del genere pervenire a
risultati positivi per la fede e per i credenti, tanto più che essa deve applicarsi
anche ai “problemi morali”? I Cristiani,
i Cattolici, i “problemi morali” li dovranno d’ora in poi risolvere ecumenicamente,
nel dialogo con gli altri, non in applicazione delle regole tramandate
della loro fede e della loro morale.
Infatti, l’intesa “con gli altri uomini” è affidata alla certezza
dell’esistenza di “norme oggettive della moralità”, che possono esser trovate
in comune da tutti gli uomini cosiddetti di buona volontà, che si affidino alla
loro coscienza morale.
L’insostenibilità
dell’assunto mi sembra palese. Come
possano, tanto per fare un esempio, trovare una norma morale comune per una
sana vita familiare, i Cattolici, per i quali l’indissolubilità del matrimonio
è dogma di fede, ed i Protestanti e gli Ortodossi, che invece la negano (per
tacere di chi ammette la poligamia, il concubinato, il ripudio, il matrimonio
temporaneo), non si riesce a comprendere.
E quando mai le “norme oggettive” della moralità sono state stabilite in
questo modo, nella ricerca comune di tutti? Ma ciò che colpisce di più è la separazione
della morale dalla Rivelazione: le
“norme oggettive” della moralità non dipendono più dalla Rivelazione, ma dalla
“coscienza morale”, che le trova nella ricerca comune con gli “altri
uomini”, con tutti gli “altri uomini”.
La contraddittorietà intrinseca a questo concetto di “norme oggettive”
della moralità mi sembra del pari evidente. Le norme “oggettive” vengono in
realtà ad esser poste dalla coscienza, e sono quindi “soggettive”. E come possono esprimere un ordine “oggettivo”
norme che dovrebbero essere trovate in comune da uomini che professano
concezioni morali diverse e persino opposte?
E come può costruirsi una vita sociale in comune su queste basi?
GS 16.2 fa
riferimento, come si è visto, alla “legge scritta da Dio dentro il cuore”
dell’uomo, in corde suo: questa
legge sarebbe quella che si riscontra nelle “norme oggettive” della
moralità. Ma come si fa a riscontrarla
se le sue “norme oggettive” devono risultare da una ricerca in comune, condotta
da uomini che hanno la loro propria visione soggettiva della moralità, spesso
in contrasto con ciò che prescrive “la legge scritta da Dio dentro il
cuore”? Non è il riconoscimento
dell’intelletto nostro alla Verità
Rivelata, è la coscienza (dialogante) a far emergere la legge dalle profondità
del “cuore”: la coscienza è quindi
l’autorità che determina alla fine le norme della moralità da applicarsi. Compare l’ombra di Jean-Jeacques Rousseau,
della sua “Professione di fede del Vicario Savoiardo”, deistica e pelagiana,
incentrata sulla narcisistica esaltazione della “coscienza” individuale.
Il testo conciliare
precisa, infine, che, quando prevale la coscienza “retta”, gli uomini si
allontanano dal “cieco arbitrio”. Ma per
resistere al “cieco arbitrio” delle passioni, delle tentazioni, dei cattivi
pensieri e desideri, non occorre l’aiuto della Grazia? Come ho già ripetuto più volte, questa è
sempre stata la verità cattolica, basata sulla Tradizione e sulla
Scrittura: senza la Grazia, senza
l’aiuto dello Spirito Santo, non riusciamo ad osservare né la morale naturale
(della legge “inscritta nei nostri cuori”) né quella rivelata che la
perfeziona. Non per nulla il Signore ha
detto: “Senza di Me non potete far
nulla”, Gv 15, 5. Ma della Grazia il
testo del Concilio non fa cenno alcuno.
La “conformità” alle norme “oggettive” della legge morale, posta da Dio
nei nostri cuori, dipende ora, anche per i Cattolici, esclusivamente dalla
“rettitudine” della coscienza e cioè dall’individuo, immerso nella “ricerca
della verità” insieme a tutti gli altri. (E sempre sul presupposto che questi
“altri” siano effettivamente interessati alla ricerca della verità, da soli e
in comune, cosa della quale il sano realismo è costretto a dubitare
fortemente).
E non è estremamente
grave che, al modo dei deisti, si sia concesso di fatto spazio all’idea secondo
la quale la “coscienza morale” unisce gli uomini al di là e al di
sopra delle religioni positive?
Infatti, la coscienza non rappresenta al massimo grado ciò che è umano,
quei “valori umani” tanto cari all’ala progressista del Vaticano II? La quale è riuscita a far filtrare nel testo
il principio non cattolico che la “verità”, anche quella da applicare nelle
questioni morali pratiche, non la possediamo ancora (non si ricava, lo ripeto,
da un Magistero infallibile di circa venti secoli), ma deve risultare dallo
sforzo comune e comunitario della “coscienza” di ciascuno.
Per questo,
cinquant’anni di “dialogo”, condotto secondo le intenzioni di questa dottrina
conciliare, non hanno portato a nulla.
Anzi, hanno sortito l’effetto contrario: inevitabilmente, le “verità”
delle quali si sono “soavemente” imbevuti tanti Cattolici dialoganti sono state
quelle delle controparti ed i cattolici hanno apostatato a milioni o sono
caduti in massa nell’indifferentismo.
E questa potremmo
definirla la terza grave contraddizione di questa Dichiarazione: porre a fondamento del concetto della
“libertà religiosa” un concetto di verità palesemente astratto ed utopistico,
fondato sulla coscienza individuale e pertanto privo di ogni riferimento al
sovrannaturale, per ciò stesso inapplicabile al concetto stesso di verità
rivelata come sempre inteso dalla dottrina della Chiesa. Secondo il suo insegnamento costante,
l’indispensabile adesione del nostro intelletto alle verità di fede avviene
sempre e solamente con l’aiuto dello Spirito Santo e mai per la sola e pura
forza di convinzione di quelle verità o per le sole capacità del nostro
intelletto, che pur deve dare il suo contributo, fin dove può giungere. Ma nemmeno nell’ambito delle conoscenze
profane si può dire che la verità si imponga unicamente per la forza che pur
possiede. Anche qui devono intervenire
altri fattori.
Per concludere, alla
luce di tutti questi rilievi come dobbiamo alla fine valutare l’affermazione
già ricordata del Proemio della DH, secondo la quale la nuova dottrina
della libertà religiosa è da ritenersi coerente alla Tradizione della Chiesa
perché “lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere morale dei
singoli e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo” (DH
1)? Questo dovere di ricercare la vera
religione viene indubbiamente mantenuto.
E tuttavia, se ad esso presiede un concetto di verità succube del
pensiero moderno, che non lascia spazio al concetto stesso di “verità
rivelata”, possiamo dire che quel dovere venga mantenuto nel modo
giusto? Si ponga mente, poi, a
quest’idea nuova di una ricerca della verità nelle cose della morale e della
religione da farsi in modo ecumenico, vale a dire in comunione “con gli
altri uomini”, in nome del vincolo comune rappresentato dalla “coscienza
morale” di ognuno, che si suppone “retta”.
“Retta”, lo sarà anche ma apparterrà pur sempre a membri di religioni
diverse e tra loro antagoniste, che, tanto per restare ai fatti, differiscono
sempre anche su aspetti fondamentali della morale. Come è possibile che una ricerca condotta con
un simile metodo giunga alla conoscenza del vero Dio e trovi la
soluzione di problemi morali comuni? Non
si risolverà in un’impressionante Babele?
Tanto più se si
riflette che nella già ricordata Nostra
Aetate 2.5, sulla relazione della Chiesa con le religioni non cristiane,
sembra addirittura proporsi una vera e propria inversione della missione dei
Cattolici nei confronti dei seguaci delle altre religioni. Invece di esortare i credenti ad un rinnovato
slancio morale e religioso per convertire il maggior numero possibile di
infedeli, il Concilio esorta i Cattolici, “per mezzo del dialogo e della
collaborazione” a “riconoscere, conservare e far progredire i valori
spirituali, morali e socio-culturali che si trovano in essi [illa bona
spiritualia et moralia necnon illos valores socio-culturales, quae apud eos
inveniuntur, agnoscant, servent et promoveant]”. Naturalmente, c’è l’inciso “sempre rendendo
testimonianza alla fede e alla vita cristiana”.
Ma la “fede e la vita cristiana” non vengono concepite, oltre che per la
santificazione personale, anche per la conversione dei non cristiani? Se “la fede e la vita cristiana” devono ora
concorrere, con il “dialogo”, a riconoscere ed anzi addirittura a far
progredire i valori nei quali credono coloro che dovrebbero convertirsi, allora
cosa resta dell’esigenza della conversione?
E dell’autentica nozione di “testimonianza” della propria fede con l’esempio
della propria vita?
Questo che a me sembra
un vero e proprio rovesciamento della missione dei Cattolici nei
confronti degli infedeli, non equivale di fatto a proporre un’oggettiva controverità
quale criterio guida per la ricerca del vero Dio e della soluzione dei
“problemi morali”, da ricercarsi con “gli altri uomini”? E questa direttiva di aprirsi e addirittura
di “far progredire” i valori spirituali, morali e sociali delle altre
religioni, è conforme al comando di Nostro Signore, più volte già ricordato: “Andate e fate miei discepoli tutti i popoli”
(Mt 28,19)? Forse che gli Apostoli
riconoscevano, volevano conservare e cercavano di far progredire i valori
spirituali dei Pagani, che avevano il dovere di convertire all’unico e vero
Dio? E questa direttiva è veramente
conforme alla dottrina tradizionale della Chiesa invocata in DH 1? Forse che la dottrina tradizionale della
Chiesa Cattolica invitava i fedeli a cercare la verità morale e nelle cose
della religione basandosi soprattutto sulla loro libera coscienza morale
individuale e in comunione o dialogo che dir si voglia con “gli altri uomini” e
cioè con tutte le altre religioni, esortando per di più i Cattolici a far
progredire “tutti gli altri uomini” nei valori delle loro religioni;
incitandoli, quindi, in definitiva a far progredire le altre religioni?
9. La
dottrina della “libertà religiosa” affonda le sue radici nella
Rivelazione? Dall’analisi dei testi, non
si direbbe
Procediamo ora ad
indagare “la libertà religiosa alla luce della Rivelazione”, come titola la II
parte di DH (artt. 9-15). Ai fini del
nostro tema, mi limiterò agli articoli 9-11.
Come si è visto, dovrebbe esser qui dimostrata la presenza nella S.
Scrittura di un concetto di “libertà religiosa” non dissimile da quello
propugnato dal pensiero e dallo Stato moderni, come diritto inalienabile della
persona, di ogni uomo a professare la religione che gli detta la sua coscienza.
DH 9, l’ho citato più
volte richiamando la sua frase d’apertura, ove c’è l’acritico elogio, falso sul
piano dell’effettiva “storia delle idee”, alla “ragione umana” in generale (ma
è in realtà soprattutto quella dei Moderni) per il suo contributo al concetto
della “dignità della persona”. Ma la
“ragione umana” non ha lavorato nel deserto, in tutti questi secoli, ci insegna
inaspettatamente il Concilio. “Anzi, una
tale dottrina sulla libertà [religiosa] affonda le sue radici nella rivelazione
divina, per cui tanto più va rispettata con sacro impegno dai cristiani. Quantunque, infatti, la rivelazione non
affermi esplicitamente il diritto all’immunità dalla coercizione esterna in
materia religiosa, fa tuttavia conoscere la dignità della persona umana in
tutta la sua ampiezza, mostra il rispetto di Cristo verso la libertà umana
degli esseri umani [homines] nell’adempimento del dovere di credere alla
parola di Dio, e ci insegna lo spirito che i discepoli di un tale Maestro
devono assimilare e manifestare in ogni loro azione” (DH 9).
Il Nuovo Testamento
non contempla espressamente questo “diritto” e diciamo, più in generale, che
esso non sembra preoccuparsi affatto dei “diritti dell’uomo”, dato che la
Missione del Figlio di Dio è quella di salvare i peccatori dalla perdizione non
quella di far prendere agli uomini coscienza dei loro supposti “diritti”,
esaltandone in tal modo la superbia. Il
diritto alla “libertà religiosa”, come diritto fondato sulla dignità della
persona umana, si può tuttavia ricavare, secondo il Concilio, dai testi stessi,
perché in essi vi si mostra “il rispetto [observantiam] di Cristo per la
libertà umana” di coloro che ascoltavano la sua Parola. E questo “rispetto” devono praticare anche i
suoi discepoli. E l’hanno sempre
praticato, aggiungo, dal momento che il Concilio stesso ci ricorda subito dopo (DH 10) che, per la Chiesa, “nessuno può
esser costretto ad abbracciare la fede contro la sua volontà”. DH 10 ripropone pertanto la dottrina di
sempre della Chiesa sulle famose due “immunità” circa la professione della religione.
È nel lungo art. 11, dedicato al “Modo di agire di Cristo e degli
Apostoli”, che il Concilio vuol trovare nei Testi Sacri il riconoscimento di un
diritto alla libertà religiosa fondato sul concetto della dignità innata della
persona, in quanto tale.
Ma cosa ci mostra
quest’analisi? A mio avviso, niente che
confermi la tesi del Concilio, ossia che la predicazione di Nostro Signore
mostri un riconoscimento di un diritto alla libertà religiosa da parte della
persona umana, a causa della sua dignità.
Citando numerosi passi neotestamentari
l’articolo ricorda come Nostro Signore fosse mite e umile di cuore; come avesse
invitato ed atteso i suoi discepoli pazientemente; come non avesse mai
esercitato coercizione alcuna sui suoi uditori, nonostante i miracoli che aveva
fatto dinanzi a loro, mostrando la sua divina potenza; come, mandando gli
Apostoli per il mondo preannunciasse la condanna di chi non avrebbe creduto (Mc
16,16, citato qui invece che nei paragrafi iniziali di Lumen gentium) ma
precisando che il loglio sarebbe stato separato dal grano solo alla fine dei
tempi; come si presentasse sempre quale perfetto “servo di Dio” e rispettasse
la potestà civile ammonendo tuttavia di “rispettare i superiori diritti di
Dio”; come compisse infine sulla Croce l’opera della redenzione. Insomma, Egli “rese testimonianza alla
verità, però non volle imporla con la forza a coloro che la respingevano” (DH
11.1).
Gesù Cristo Nostro
Signore non era Maometto, lo sappiamo.
Ma tutto ciò, cosa dimostra: che
nel suo modo di agire si rispecchiasse il rispetto per un supposto diritto
innato dei suoi ascoltatori ad esser trattati come persone, vale a dire
come se avessero per natura un diritto a non subire alcuna coazione da
parte sua o degli Apostoli? Per nulla, a
mio modesto avviso. Dimostra solamente
che il Signore operava per divina misericordia, gratuitamente, mosso da una
carità sovrannaturale nei confronti dei peccatori. E la misericordia è al di là e al di sopra di
ogni schema del tipo diritto-dovere, di ogni rapporto di questo tipo. Tra l’altro, non ci poteva essere da parte
sua il riconoscimento alla nostra natura umana di un diritto di questo tipo o
altro che sia. Noi sappiamo che al diritto
di un soggetto corrisponde in genere il dovere di un altro soggetto
di tutelarlo o realizzarlo. Se si dice
che Nostro Signore mostrava di rispettare il supposto diritto alla libertà
religiosa di ciascun uomo, ciò è come dire che tale rispetto costituiva per Lui
un dovere. Conclusione assurda e
in ogni senso poiché il Verbo incarnato non poteva esser obbligato da alcun
dovere nei nostri confronti. E
pericolosa per il dogma, perché di fatto mette in discussione il carattere
gratuito dell’opera della Salvezza.
DH 11.2 si sofferma
sul “modo di agire” degli Apostoli, per rimarcare che essi “hanno seguito la
stessa via” di Gesù Cristo. Non hanno
mai fatto ricorso “ad azioni coercitive” né ad “artifizi indegni del
Vangelo”. Si sono appoggiati solo alla
“forza della Parola di Dio”, avendo riguardo “ai deboli, sebbene fossero
nell’errore”: riguardo, si intende, nel
modo di esporre la dottrina. Come
Cristo, hanno predicato la Parola di Dio “arditamente” di fronte alle autorità
costituite e al popolo, senza curarsi delle loro reazioni, convinti che il
Vangelo “fosse veramente la forza di Dio per la salvezza di ogni
credente”. Come il Maestro hanno
riconosciuto la legittimità dell’autorità civile (Rm 13, 1-5) resistendo però
al pubblico potere quando “si opponeva alla santa volontà di Dio”. In conclusione, si può dire che gli Apostoli
“hanno predicato la parola di Dio pienamente fiduciosi nella divina virtù di
tale parola nel distruggere le forze avverse a Dio e nell’avviare gli esseri
umani alla fede e all’ossequio di Cristo”(DH 11.2).
Anche in questo
riassunto del “modo di agire” degli Apostoli troviamo la dimostrazione che essi
abbiano disdegnato di usare la coercizione perché riconoscevano ai fedeli un
diritto naturale individuale alla “libertà religiosa”? Direi proprio di no. Agendo su mandato sovrannaturale del loro
divino Maestro, lo imitavano in tutto, mossi dalla misericordia e dalla carità,
che sicuramente non vedono le anime da salvare sotto l’aspetto dei diritti e
delle dignità da tutelare e da imporre.
Dal “modo di agire” di Nostro Signore e degli Apostoli, come esposto dal
Concilio, si ha semplicemente la conferma della dottrina tradizionale: che la predicazione della Chiesa ha sempre
garantito l’immunità da costrizioni alla fede - costrizione peraltro di per sé
illogica - senza per questo concepire tale “immunità” come un diritto naturale
della persona. Cosa che si può legittimamente
concepire, se si vuole, ma nei confronti del potere statale.
A proposito
dell’interpretazione conciliare di alcuni tra i passi neotestamentari citati,
vorrei fare delle precisazioni sul significato di alcuni di essi,
che a parer mio è stato deformato o forzato nel senso della nuova dottrina.
1. Nel passaggio nel quale si ricorda che gli
Apostoli hanno sempre avuto riguardo “per i deboli, sebbene fossero
nell’errore”, si aggiunge, di seguito:
“mostrando in tal modo come ‘ognuno di noi renderà conto di sé a Dio’
(Rm 14,12) e sia tenuto soltanto ad obbedire alla propria coscienza [et in
tantum teneatur conscientiae suae oboedire]”. Chi legge ha sicuramente l’impressione che il
senso del versetto paolino citato sia proprio quello di affermare il principio
che ognuno è “tenuto soltanto ad obbedire alla propria coscienza”, frase uscita
dalla penna del Concilio e che commenta S. Paolo in modo da farvi apparire il
principio dell’obbedienza alla propria coscienza quale principio dotato di un
valore assoluto.
A me sembra che S.
Paolo voglia insegnarci un concetto del tutto diverso. Situiamo il passo nel suo contesto e vediamo
come si arriva a questa frase. S. Paolo
sta ammonendo a non giudicare e a non disprezzare gli altri, cioè “i fratelli”,
gli altri Cristiani (Rm 14, 7-8). “Tutti
compariranno, scrive, davanti al tribunale di Dio, poiché sta scritto: “Come è vero che io vivo, dice il Signore,
ogni ginocchio si piegherà avanti a me e ogni lingua liberamente confesserà Dio
[Is 45, 23]”. Così dunque ognuno di noi
renderà conto di se stesso a Dio [itaque unusquisque nostrum pro se rationem
reddet Deo]. Dunque, non
giudichiamoci gli uni e gli altri etc.”.
Dal contesto, si vede nettamente che il “render conto” è quello del
giudizio di fronte a Dio dopo la morte.
Di fronte a Dio, non alla nostra coscienza. Non dovremo “render conto” a Dio degli altri
che abbiamo stoltamente giudicato e disprezzato (e quindi pensiamo ai casi
nostri) ma unicamente di noi stessi, di quello che abbiamo pensato e fatto
nella nostra vita terrena. Punto e a
capo. L’obbedire soltanto alla propria coscienza, di cui a DH 11.2, non c’entra
per nulla. L’Apostolo ci ammonisce a non
dimenticare mai che, il giorno del
Giudizio, ci attende il redde rationem finale dell’anima nostra a Dio e
non certo la proclamazione del principio della coscienza individuale quale
unico nostro giudice al quale “render conto”!
2. Di nuovo il Concilio cita S. Paolo (Ef
6,11-17 e 2 Cr 10,3-5) a sostegno del concetto visto alla fine del nostro
riassunto di DH 11.2, che richiama la fiducia degli Apostoli “nella divina
virtù di tale parola nel distruggere le forze avverse a Dio” e nell’avviare gli
uomini alla fede. Il passo della Lettera
agli Efesini contiene la famosa metafora dell’armatura di Cristo. Come un soldato il Cristiano doveva “rivestirsi
dell’armatura di Dio per affrontare le insidie del diavolo”. E quindi della “corazza della giustizia”,
dello “scudo della fede” sul quale potevano “spegnersi tutti i dardi infuocati
del maligno”, e infine della “spada dello Spirito, che è la parola di
Dio”. La metafora sembra avere un
significato difensivo. Si tratta di
difendersi dai “dardi infuocati” del Diavolo, difesa garantita non solo dalla
“parola di Dio”, come sembra far credere DH 11.2, ma anche dalla pratica della giustizia
e della fede, dopo essersi
preparati “nel Vangelo della pace”. La
“parola di Dio” è “la spada dello Spirito” ossia l’arma dello Spirito Santo.
La connessione tra la
predicazione e lo Spirito Santo, senza il cui aiuto la conversione è
impossibile, non mi sembra sia messa bene in rilievo dalla Dichiarazione, che
sembra privilegiare la “virtù divina” della parola di per sé stessa, nella sua
capacità intrinseca di “distruggere le forze avverse a Dio”. Ma senza l’aiuto sovrannaturale dello Spirito
Santo, inviato da Nostro Signore, questa parola, nonostante sia “divina” quanto
alla sua origine, non distrugge un bel niente.
Nella seconda Lettera
ai Corinti 10, 3-5, S. Paolo, per difendersi dai falsi ragionamenti di
persone che lo calunniavano, parla della sua predicazione come di “armi della
nostra milizia che non sono carnali ma potenti in Dio [sed potentes in Deo]
a distruggere anche delle fortezze, distruggendo noi i falsi ragionamenti [dei
nostri nemici] e ogni rocca elevata contro la conoscenza di Dio etc.”. Ora,
qui egli esalta la potenza della parola che distrugge i falsi
ragionamenti, ma è sempre “potenza di Dio”, che viene da Dio più che dalla
parola, per opera dello Spirito Santo.
3. In quest’esaltazione della forza e della
potenza della Parola di Dio, il Concilio, a mio avviso, non sottolinea come
dovrebbe che la “divina virtù di tale parola” è appunto divina, nel
senso di operare con potenza, soprattutto ad opera dell’influsso dello Spirito
Santo. Quest’esaltazione della forza
della parola in quanto tale è un tratto tipico del Vaticano II, che ha voluto
dare un particolare rilievo alla Liturgia della Parola nella celebrazione
della Nuova Messa e (come si è visto) ha
voluto vedere nella “predicazione della Parola di Dio” la caratteristica
fondamentale del sacerdozio, contro tutta la tradizione della Chiesa, ribadita
dal Tridentino contro i Protestanti eretici, secondo la quale ciò che
caratterizza il sacerdote cattolico è innanzitutto la celebrazione del Santo
Sacrificio della Messa e la facoltà di rimettere i peccati.
10. I
Martiri hanno offerto la loro testimonianza per render gloria a Dio e
convertire i Pagani, assai più che per la “libertà religiosa”, ed aspiravano ad
uno Stato cristiano
L’analisi critica del
tentivo di ritrovare il riconoscimento del concetto della “libertà religiosa”
nella Tradizione della Chiesa, deve ora da ultimo rivolgersi alla tesi, sopra
richiamata, secondo la quale, nel riconoscere un principio fondamentale della
concezione laica (e anticristiana) dello Stato, il Concilio aveva contemporaneamente
ritrovato o riscoperto “il patrimonio più profondo della Chiesa”, quello
costituitosi grazie alla testimonianza del sangue offerta dai
Martiri. Per sostenere simile tesi
bisogna evidentemente attribuire al martirio dei primi Cristiani anche il
significato di un sacrificio consapevole per la libertà di fede e di
culto (ossia di coscienza e di espressione).
Bisogna in sostanza farne dei precursori consapevoli della libertà di
coscienza propugnata in modo uguale per tutte le religioni dallo Stato moderno
(fondato sul principio di immanenza, indifferente se non ostile al fenomeno
religioso in quanto tale). E dico
appositamente: “sacrificio
consapevole”. Infatti, se noi diciamo
che solo oggettivamente (ma senza saperlo né volerlo) essi si sono
sacrificati per la libertà religiosa, da attribuire ugualmente a tutte le fedi
quale diritto inalienabile della persona, non applichiamo al loro sacrificio la
nostra ottica di moderni, alterandone il significato?
Bisogna quindi
accertare se le testimonianze rimasteci dei primi Martiri mostrino in loro il
desiderio di sacrificarsi per la libertà religiosa nel senso moderno del
termine, per tutti e per tutte le religioni, come diritto universale della
persona. Rileggendo gli Atti e le
Passioni dei Martiri non si trova però traccia alcuna, secondo me, di
riferimenti a siffatta “libertà”. Si ha
anzi l’impressione che ai Martiri, che sembravano letteralmente posseduti dallo
Spirito Santo, di questa famosa libertà importasse assai poco. Non voglio dire, con questo, che non
sarebbero stati contenti di goderne. Non
condivido certo le idee dei Donatisti, rigoristi che, nel III e IV secolo, sostenevano essere la
persecuzione il modo normale ed unico di vita dei Cristiani, negando il perdono
a coloro che avevano apostatato durante le persecuzioni (i c.d. lapsi, letteralmente “scivolati”, nell’apostasia) e
attaccando fisicamente chi non la pensava come loro, finendo col cadere
nell’eresia quando cominciarono a rifiutare l’autorità della Chiesa, dopo che
essa ebbe condannato la loro dottrina estremista e il loro comportamento. Qui si tratta solo di verificare l’effettiva
realtà storica, la quale mostra che, nella testimonianza dei Martiri, la
rivendicazione della libertà religiosa resta generalmente implicita, come se
costituisse un elemento secondario. Importava loro, soprattutto, non cadere nel
grave peccato di apostasia. La morte era
consapevolmente accettata e persino invocata per render gloria a Dio e come
sacrificio per la conversione del mondo pagano, grazie alla forza dell’esempio
da essa rappresentato. “Potessi io persuadere voi a farvi cristiani!” gridava
alla folla persecutrice il martire Pionio mentre veniva condotto al supplizio,
respingendo l’invito pressante ad abiurare per salvarsi la vita[122]. L’atteggiamento dei Martiri non aveva,
comunque, nulla di sentimentale.
Pressati com’erano ad abiurare e sottoposti spesso a percosse, torture,
umiliazioni, ingiurie, essi reagivano mantenendo un atteggiamento fiero ed impavido,
a volte “minacciando il Giudizio di Dio” ai persecutori, cioè ricordando loro
che sarebbero stati giudicati dal vero Dio per le loro azioni infami[123].
La religione
cristiana, in quanto unica vera perché unica sicuramente rivelata da Dio, era
per loro incomparabile (oltre che incompatibile) con le altre. Battersi per l’universale libertà di
coscienza in religione avrebbe significato metterla sullo stesso piano delle
altre, tutte false perché non rivelate da Nostro Signore. Esse non venivano da Dio ma dagli uomini, in
particolare il Paganesimo, impestato dal Demonio (Salmo 96, 5; 1 Cr 10, 20). I Martiri volevano la libertà di martirio, di
morire per la loro fede, e sembravano disinteressarsi completamente della
libertà di professarla come una religione uguale alle altre, tra le
altre. Quando S. Perpetua, condotta
con gli altri a morire nell’Arena di Cartagine, vide che per dileggio e per
farli in qualche modo apostatare volevano far indossare a tutti loro indumenti
usati nelle iniziazioni ai misteri pagani, esclamò, ottenendo dal tribuno il
contrordine: “Siamo giunti al martirio
spontaneamente, proprio perché la nostra libertà non venisse incatenata [ne
libertas nostra obduceretur]; abbiamo rinunciato alla nostra vita proprio
per non esser costretti a fare cose simili:
questo era il patto che avevamo concordato [con le autorità]”[124]. Quale libertà temevano venisse loro
conculcata, quella “religiosa”, di “culto”, da riconoscersi per di più su di un
piano di parità anche alle false religioni?
No: era la libertà di poter
correre subito con tutta l’anima e persino con gioia verso il Cristo Risorto,
grazie al “Battesimo di sangue”!
Se poi guardiamo alla
letteratura apologetica, non mi sembra che il quadro subisca mutamenti
sostanziali. Gli Apologisti si
preoccupavano soprattutto di dimostrare la vacuità e l’assurdità delle infami
calunnie diffuse sui Cristiani (“l’ateismo, cene tiestee e unioni edipoidee”,
cioè orge ed incesti [sic], nelle parole di Atenagora), dimostrando la falsità
del politeismo, le ipocrisie di chi li voleva giudicare, la dignità e l’onestà
della loro religione; rivendicando la loro fedeltà all’Impero, in quanto
governo civile legittimo, giusto ed efficiente, purché non pretendesse di
usurpare gli attributi di Dio[125]. Non mi sembra che gli Apologisti presentino i
Cristiani in generale quali vittime della mancata libertà di parola e di
coscienza o i Martiri quali caduti nella lotta per questo tipo di libertà. Di essa non troviamo traccia nella breve
esortazione Ad Martyras di Tertulliano.
La libertà di parola, per la mentalità romana, era da attribuirsi a chi
possedesse auctoritas: non c’era
il concetto moderno di un diritto universale della persona in quanto tale a
siffatta libertà e pertanto a quella di manifestare comunque la propria fede
religiosa, con l’obbligo da parte
dello Stato di garantire tale manifestazione[126].
Che significato bisogna dare, allora, al
riferimento alla “libertas religionis” negata ai Cristiani, che ritroviamo in
un noto passo di Tertulliano? A mio
avviso, il riferimento del grande apologista più che a rivendicare un diritto
mira a far vedere le contraddizioni della legislazione imperiale in materia
religiosa. Ma come, esclama, voi ci
perseguitate già solo per il nostro nome, mettendoci brutalmente di fronte
all’alternativa: abiura o condanna (e
spesso a morte); non ci lasciate esporre il vero contenuto del nostro credo,
che è quello della fede nel vero ed unico Dio; voi vi preoccupate di
“sopprimere la libertà religiosa [adimere libertatem religionis]” nei
nostri riguardi mentre autorizzate tutte le religioni possibili ed
immaginabili, tant’è vero che “è stato permesso agli Egiziani di praticare la
loro fatua superstizione che è tutta nella celebrazione di uccelli e bestie,
condannando a morte chiunque si renda reo di soppressione di uno qualsiasi di
questi dèi. Non c’è provincia, non c’è
città che non abbiano il loro dio: per
la Siria Atargatis, per l’Arabia Dusares, per il Norico Beleno, per l’Africa
Celeste, per la Mauritania i suoi reucci”.
E nei municipi italiani, troviamo “Delventino a Cassino, Visidiano a
Narni, Ancaria ad Ascoli, Norzia a Bolsena, Valenzia a Otricoli” e chi più ne
ha più ne metta. “Solo a noi si contesta
il diritto di una religione propria! [Sed nos soli arcemur a religionis
proprietate!]”. Si arriva così
all’assurdo che voi ammettete “il diritto di adorare chi si vuole fuorché il
vero Dio, quasi questi non fosse piuttosto l’Iddio di tutti perché tutti siam
suoi”[127].
Pur essendo qui
evidente una rivendicazione implicita al riconoscimento della libertà di culto
anche per i Cristiani, che certo (ripeto) sarebbero stati lieti di vedersela
attribuire, lo spirito che la informa non è sicuramente quello moderno della
rivendicazione di un diritto universale della persona e quindi da riconoscersi
allo stesso modo a tutte le religioni. A
Tertulliano preme soprattutto far vedere l’assurdità di una legislazione che
permette libertà di culto a tutte le religioni, anche le più strane, e a tutti
i culti del genius loci, mentre vieta l’unica dedicata al vero Dio e quindi
intrinsecamente superiore a tutte le altre.
Il rilievo sembra in realtà costituire un’ulteriore rivendicazione della
superiorità assoluta del Cristianesimo, non una rivendicazione di una libertà
religiosa uguale per tutti. È questa superiorità,
che gli deriva dalla sua intrinseca, assoluta verità di unica religione rivelata
da Dio, a rendere meritevole il Cristianesimo del riconoscimento di religio
licita (che fu poi accordato tra il 311 e il 313).
Ma i “primi
Cristiani”, secondo la rilettura oggi corrente, si limitavano a richiedere “la
libertà di poter confessare la loro fede religiosa senza esser vessati dallo
stato”, senza “rivendicare la promozione da parte dello stato della verità
religiosa”, facendo di fatto valere l’esigenza di una “libertà di coscienza”
che “corrisponde esattamente” al modo nel quale la si intende oggi[128]. E si limitavano a questo perché “a partire
dal Vangelo e dall’esempio di Gesù Cristo”, il Cristianesimo “è stato concepito
come fondato essenzialmente sulla separazione tra religione e politica”[129]. Ma anche nei Cristiani poco inclini al
martirio – obietto – dobbiamo sempre presumere la stessa convinzione di
Tertulliano: che solo la loro religione
fosse l’unica vera e che a questa, secondo il dettato evangelico, tutto l’orbe
dovesse esser convertito, evidentemente a scapito delle altre, frutto di
testarde apostasie o di perniciose superstizioni, onde la libertà di culto ad
essa eventualmente concessa mai avrebbe potuto avere il significato che già
aveva per le altre. E ciò a prescindere
dalla “promozione” della verità religiosa da parte dello Stato. Ma si può dire che i primi Cristiani si
disinteressassero del rapporto tra Stato e religione, accontentandosi di
ottenere il libero esercizio del loro culto da parte di uno Stato che si
mantenesse neutrale ed imparziale in materia?
Se rileggiamo un famoso passo di Tertulliano, non vi troviamo già
inevitabilmente l’ipoteca cristiana sullo Stato?
Respingendo l’accusa
di “lesa maestà” per via del rifiuto a sacrificare per l’imperatore,
Tertulliano replica che i Cristiani pregano per l’imperatore invocando su di
lui la protezione del vero Dio, che gli ha conferito la sovranità per il bene
dei popoli. Gli imperatori “sanno molto
bene chi ha loro conferito l’impero”. E
ognuno di loro deve capire che “è sovrano in virtù di colui da cui dipende come
uomo prima che come imperatore; la potestà gli viene là donde gli viene pure
l’anima”[130]. I Cristiani possono dunque dire, con pieno
diritto: “Cesare è più nostro che
vostro, perché è il nostro Dio che l’ha costituito come tale”[131]. Ma che significa ciò, se non auspicare da
parte degli imperatori la presa di coscienza della giusta origine divina del
loro potere; presa di coscienza che poteva aver luogo solo mediante la loro
conversione a Cristo? La missione di
convertire tutti i popoli e le nazioni, e non solo Israele, ordinata da Cristo
risorto (Mt 28,18-20), non poteva certo limitarsi alla coscienza individuale
dei privati: essa doveva necessariamente
investire anche i governanti, in quanto individui preposti al bene dei popoli,
e quindi mirare a render cristiano il governo dello Stato. E uno Stato cristiano avrebbe potuto
limitarsi ad una posizione neutra ed equidistante nei confronti della vera
religione, senza promuoverne gli insegnamenti nella società, a cominciare da
quelli morali, e senza difenderla dall’attacco delle eresie, corruttrici delle
anime e dei costumi, e in generale da ogni tipo di ostilità e pericoli? Mi sembra pertanto assai poco credibile fare
dei primi Cristiani una sorta di liberali ante litteram, preoccupati
soltanto della libera manifestazione del loro particulare confessionale,
nel rispetto della “libertà religiosa” altrui, garantita dallo Stato.
I sostenitori di
questa tesi - di recente il prof. Rhonheimer citato - accusano il Magistero anteriore,
in particolare Pio IX, di aver trasformato “la giusta battaglia contro l’indifferentismo e il relativismo”, fatali
alla religione, in una “battaglia contro il diritto civile alla libertà
religiosa e di culto”, perché avrebbero fatto prevalere considerazioni
storicamente datate, secondo le quali “lo stato è il garante della verità
religiosa e la Chiesa possiede il diritto a servirsi dello stato come del suo
braccio secolare per assicurare le sue responsabilità pastorali. Ora, una tale
concezione dello Stato non riposava minimamente sui princìpi della dottrina
della fede e della morale cattoliche ma piuttosto sulle tradizioni e le
pratiche del diritto religioso di origine medievale così come sulle loro
giustificazioni teologiche”. Riposava,
allora, unicamente “su modelli medievali e della tarda antichità cristiana ma
che hanno acquistato la loro forma definitiva soltanto all’interno dello stato
confessionale moderno”[132].
Queste affermazioni mi
sembrano del tutto inaccettabili:
l’Autore sostiene in pratica che tutta la dottrina della Chiesa sulla
necessità per lo Stato di essere cristiano e di operare pertanto anche come
braccio secolare in difesa della vera religione e della Chiesa, “non riposava
minimamente sulla fede e sulla morale cattoliche” e pertanto nemmeno sul
dogma! La Gerarchia avrebbe sbagliato
per così tanti secoli, dunque! E non
solo, osservo, dalla tarda antichità ma da sùbito. Il tetrarca Agrippa non interruppe forse
l’incalzante argomentare di S. Paolo, dicendogli: “Poco manca che tu non mi fai diventar
cristiano!”, ricevendo questa risposta:
“Manchi poco o molto, desidero da Dio che non solo tu, ma quanti oggi mi
ascoltano, diventiate tali quale son io, salvo queste catene [della prigionia]”
(Atti 26, 28-29; ma vedi anche: 2 Tm 4,1 ss.).
S. Paolo stava forse perorando per la “libertà religiosa”, perché la
vera fede si vedesse elargita l’elemosina del riconoscimento di religio
licita? I Martiri e gli Apologisti
(come si è visto) non sentivano e non parlavano diversamente da S. Paolo. Proselitismo, dunque, anche trovandosi
in catene, e fino all’ultimo respiro, affinché il più gran numero possibile di
convertisse e si salvasse! E nel pieno
delle persecuzioni di Marco Aurelio, Melitone, vescovo di Sardi, non ebbe il
coraggio di affermare che “la fede cristiana doveva diventare la filosofia [la
concezione della vita] dell’impero romano?”[133] Rischiavano la morte per il solo fatto di
esser tali eppure già pensavano di poter conquistare l’impero romano, di fare
della Fede la sua “filosofia”. Che anche
lo Stato debba esser cristiano, che debba perciò proteggere la vera religione e
la Chiesa e farne applicare la morale, è dottrina (e prassi) costante, da S.
Ambrogio a S. Agostino a S. Tommaso, allo “Stato confessionale moderno”;
dottrina inalterata, possiamo dire, sino a Pio XII, fondata sulla Scrittura,
oltre che sulla Tradizione. Ma davvero
dobbiamo credere che tutti avrebbero sbagliato, che solo il Vaticano II, dopo
un’oscurità di circa venti secoli, avrebbe fatto chiarezza?
E per qual motivo
questa dottrina non riposerebbe “né sulla fede né sulla morale
cattoliche”? Come giustifica il prof.
Rhonheimer un’affermazione del genere?
Con l’intendere il “rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare e a Dio
quel che è di Dio” (Lc 20, 25) come se Nostro Signore avesse comandato una separazione
radicale tra “religione” e “politica” e quindi fra lo Stato e la
Chiesa. Già l’epoca “post-costantiniana
del cristianesimo” avrebbe rappresentato una deviazione, mediante “decisioni
concrete [quali?]” poi “cristallizzatesi in tradizioni canoniche e nelle loro
interpretazioni teologiche corrispettive, grazie alle quali la Chiesa ha
cercato di difendere la sua libertà, la “libertas ecclesiae”, dagli attacchi
incessanti delle potenze temporali: si
pensi in particolare alla dottrina medievale delle due spade che,
all’epoca, cercava di giustificare teologicamente e biblicamente la
comprensione della “plenitudo potestatis” del papa”. Dalla teoria delle due spade, che sembra non
godere la simpatia dell’Autore, si è giunti, nei secoli più vicini, a “una
giustificazione dello stato cattolico ideale”, quello della simbiosi tra “il
trono” e “l’altare”, nel quale lo statista cattolico zelante “sosteneva la
causa dei ‘diritti della Chiesa’ invece che dei diritti civili alla libertà
religiosa; si è giunti al trionfo del “clericalismo” e ad una “società
clericale”, cose che “hanno oscurato il volto della Chiesa”[134].
Insomma, il Papa
teorico delle “due spade” sarebbe stato tra i responsabili del “clericalismo”
che (sino al Vaticano II escluso) avrebbe “oscurato il volto della
Chiesa”. Ma il significato della celebre
frase del Signore sul rapporto tra Cesare e Dio, tra Stato e Chiesa, mi chiedo,
chi lo deve stabilire? Non è
compito che spetta alla Chiesa stessa, come ribadiscono i dogmatici Tridentino
e Vaticano primo? E se la Chiesa stessa
l’ha interpretato in un medesimo senso per così tanti secoli, con quale
autorità il prof. Rhonheimer ne dà un’interpretazione diversa e persino opposta,
proponendo l’idea della separazione là ove si tratta invece di distinzione? Infatti, nel famoso passo dell’epistola
dell’AD 494 indirizzata ad Anastasio imperatore d’Oriente, Gelasio I affermò
che “le due spade”, i due poteri i quali, per volontà divina, reggevano il
mondo (la “auctoritas sacrata pontificum” e la “regalis potestas”) erano due
“dignitates distinctae”, poiché presiedevano la prima “all’eterna vita”, la
seconda “al corso delle cose temporali”, e tuttavia coordinate nella
subordinazione a Cristo, unico vero Capo[135].
Distinzione e non
separazione
poiché lo Stato, pur essendo distinto ed autonomo nella sua sfera (così come la
Chiesa nella sua), deve tuttavia considerarsi sempre subordinato allo
Spirituale, dal quale dipendono le norme morali che lo Stato ha il dovere di
attuare sia per realizzare il suo fine specifico (il Bene comune, con la sua
giustizia) sia per concorrere anch’esso (per ciò che gli spetta e quindi sempre
nella sua sfera) alla finale fruizione del Bene Sommo da parte di ciascun
cittadino, costituito dalla salvezza della sua anima. La separazione è inaccettabile perché
implica divergenza quanto ai rispettivi fini specifici. Invece, anche lo Stato deve ritenersi ordinato
nella sua sfera alla realizzazione del Bene Sommo, che è
sovrannaturale: rappresentato dalla
Visione Beatifica, della quale godranno un giorno gli Eletti da Dio, in
eterno. Che questa plurimillenaria
dottrina della Chiesa, fondata da sempre su Rm 13, 1-6, e su di
un’interpretazione costante della celebre frase di Nostro Signore sopra
ricordata, non sia in accordo con la fede e la morale cristiane, e quindi con
il dogma, è affermazione che mi sembra a dir poco temeraria.
La Chiesa non poteva
accettare l’unione di politica e
religione che si realizzava nella persona pagana dell’imperatore romano. Ma essa ha ovviamente sempre respinto l’idea
di una separazione tra Stato e Chiesa poiché quest’ultima comporta
appunto la concezione laica dello Stato, indifferente ad ogni credo
religioso e alla vita eterna, inteso solo alle finalità di questo mondo. E comporta quel pluralismo religioso
che sicuramente non è mai stato insegnato da Nostro Signore, il quale ha detto
e ripetuto che solo Lui è la verità, la via, la vita, la Porta attraverso la
quale il buon pastore può far uscire le pecore, le anime dei fedeli da questo
mondo per condurle al pascolo della vita eterna (Gv 10,7 ss.). Dal punto di vista veramente cristiano, ossia
cattolico, non può esistere uno Stato che sia neutrale ed imparziale rispetto alla religione e
quindi indifferente a Cristo. Il Signore
stesso ci ha ammonito: “Chi non è con Me
è contro di Me e chi non raccoglie con Me disperde”(Lc 11, 23). La profonda verità racchiusa in queste parole
colpisce vieppiù oggi, costretti come siamo a constatare il carattere sempre
più anticristiano della nostra società, governata da uno Stato che vuole essere
laico, cioè senza religione, senza Dio, senza morale, preoccupato
soprattutto dei bisogni materiali dei cittadini, piaceri carnali
inclusi, anche i più bassi!
11. La DH salvaguarda l’unicità del
Cattolicesimo? La cosa è alquanto dubbia
Se la nuova dottrina crede ancora che la religione cristiana ossia
cattolica (perché bisogna evidentemente escludere gli eretici e gli scismatici)
sia l’unica vera perché l’unica autenticamente rivelata da Dio, allora non può
porre la sua rivendicazione della connessa “libertà religiosa” sullo stesso
piano di quella delle altre religioni, nessuna delle quali può considerarsi
rivelata. Se la fa, tale equiparazione
deve prescindere totalmente dal contenuto della religione ossia dalla sua verità. Adoratori delle cipolle sacre,
della dea Kalì, adepti del Vûdû, Totemisti, Cattolici, Protestanti, Ebrei,
Mussulmani, sono posti tutti sullo stesso piano in quanto titolari di un
supposto “diritto naturale” della persona alla “libertà religiosa”, diritto
fondato sulla “dignità della persona stessa” (DH 2). In quanto “diritto
naturale”, esso spetta ontologicamente ad ogni individuo, perché ogni individuo
è persona, sia esso un uomo civilizzato o un cacciatore di teste. In quanto diritto naturale, si tratta poi di
un diritto assoluto, che lo Stato deve riconoscere e che implica di per sé l’equiparazione
assoluta di tutte le religioni.
Ma in tal modo, la nuova dottrina non viene a contraddire
implicitamente il dogma della fede, secondo il quale la religione predicata da
Cristo, essendo l’unica vera a causa della sua indiscussa origine divina, non può esser mai
considerata uguale alle altre, con le relative conseguenze che ciò
comporterebbe? Insomma, che ne è dell’unicità della nostra
religione, del Cattolicesimo in quanto Verità divinamente rivelata, unico strumento della
salvezza? Se la religione cattolica è
l’unica vera, la rivendicazione di cui sopra non può esser paritaria; se la si
vuole paritaria, ciò equivale a negare che la religione cattolica sia l’unica
vera.
Come esce il Concilio da questo dilemma, provocato dall’aver concepito
la “libertà religiosa” come un diritto naturale assoluto, di ogni individuo in
quanto persona a professare la religione che la sua coscienza gli detta;
diritto che non solo lo Stato ma anche la Chiesa e tutte le religioni devono
riconoscere, se non vogliono violare la “dignità” della suddetta
“persona”? Dopo aver concepito questo
“diritto” in modo così universale e rigido, il Concilio riesce ad accordarlo
con il principio, assoluto dato il suo fondamento sovrannaturale, dell’unicità
della religione cattolica, in quanto unico strumento di salvezza? Dal tenore della Dignitatis
humanae sembra indubbiamente che tutte le religioni si
equivalgano. Ma i difensori del Decreto
sostengono che esso si mantiene in linea con l’insegnamento tradizionale. Vediamo la loro tesi.
Lascio di nuovo la parola al prof. Rhonheimer. “Come insegna il
Vaticano II, il diritto alla libertà di religione e di culto non implica in
alcun modo che tutte le religioni si equivalgono. Questo diritto è in effetti un diritto delle
persone e non concerne la questione di sapere in
quale misura ciò che le persone credono contraddica alla verità. In altri termini, riconoscere che
i fedeli di tutte le religioni godano del medesimo diritto civile alla libertà
di culto, non significa che, poiché è un diritto di tutti, allora tutte le
religioni debbano essere “ugualmente vere”[136]. Il Concilio sarebbe dunque rimasto, in
sostanza, a quanto proposto da Pio XII nel citato discorso radiofonico del
Natale del 1942. Ma dove insegna il
Concilio che non c’è questa equivalenza tra tutte le religioni? Verosimilmente in DH 1.2, già citato, ove si
dice che : “E poiché la libertà
religiosa […] riguarda l’immunità dalla coercizione nella società civile, essa
lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere morale dei singoli
e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo” che
“sussiste nella Chiesa cattolica e apostolica”.
Sull’ambiguità di questa formulazione mi sono già soffermato (vedi supra, § 2 di questo capitolo). Ma per capire come la nuova dottrina lasci
“intatta” la dottrina tradizionale cattolica, si dovrebbe avere un’idea chiara
della dottrina tradizionale cattolica, che qui non sembra facilmente
identificabile, dato che il suo oggetto viene indicato con l’oscura espressione
“dovere verso la vera
religione etc.”. Dovere di far che cosa,
ripeto?
Il significato di queste affermazioni, ci ricorda il prof. Rhonheimer,
è chiarito dal Catechismo della
Chiesa Cattolica, al n. 2105, il quale afferma, “citando il
passaggio sopra menzionato, che è dovere tanto dell’individuo che della società
“rendere a Dio un culto autentico”.
Culto che la Chiesa realizza “evangelizzando senza posa gli uomini”,
affinché essi possano penetrare di spirito cristiano “la mentalità e i costumi,
le leggi e le strutture della comunità in cui vivono”. A ogni Cristiano si chiede di far conoscere “l’unica
vera religione che sussite nella Chiesa cattolica ed apostolica”. Questo è il modo – conclude l’articolo del
CCC – nel quale la Chiesa manifesta “la regalità di Cristo su tutta la
creazione e in particolare sulle società umane”[137].
La dottrina nuova esprimerebbe dunque gli stessi concetti della
“dottrina tradizionale”, quando stabilisce i doveri dell’uomo verso Dio. E questi “doveri” si sintetizzano nel
“dovere” di rendere a Dio “un culto autentico” (non di riconoscere nel solo
culto cattolico l’autentica Rivelazione).
Questo dovere – osservo – vale come sappiamo per ogni uomo, non solo per
i Cristiani. Ma poiché i culti sono non
solo diversi ma persino opposti tra loro, quale sarà allora “il culto
autentico”? È possibile ricavare un concetto universale di “culto
autentico”? Sarà forse quello di una
religione naturale, che viene dal cuore, come per i Pietisti, o dalla
sensibilità, come per il rousseauiano “Vicario Savoiardo”? Che vuol dire poi “autentico”? L’animista che adora il suo feticcio o il
quacchero che recita parole incomprensibili torcendosi sotto l’émpito dello
“Spirito”, offrono un culto meno “autentico” o più “autentico” di chi prega
devotamente in una chiesa cattolica o invoca Allâh inginocchiato nel
deserto? Applicato al concetto generale
del culto a Dio, il termine “autentico” non resta indeterminato? Ricordo che la Mediator
Dei, in modo netto e preciso, parlava invece del
dovere per tutti gli uomini di offrire:
“debitum cultum atque obsequium per religionis virtutem Deo uni et
vero”: “il debito culto ed ossequio,
mediante la virtù della religione, all’unico e vero Dio”[138]. E con “unico e vero Dio” si intendeva sempre
la Santissima Trinità, “unico Dio in tre persone uguali e distinte”.
Comunque sia, siffatto “culto autentico” da cosa è costituito, per la
Chiesa, anzi per “i cristiani”?
Dall’”evangelizzazione”. Per convertire gli uomini,
praticando il proselitismo della dottrina tradizionale? No.
Per far sì che “la mentalità, i costumi, la società etc.” siano
“penetrati” dello “spirito cristiano”.
Questo il dovere dei singoli Cristiani, per “affermare la regalità di
Cristo su tutta la creazione e in particolare sulle società umane”. Bisogna che il mondo sia “penetrato” ed anzi
“impregnato dello spirito di Cristo” (LG 36); che i Cristiani “animino e
perfezionino con lo spirito cristiano l’ordine delle realtà temporali” (Decreto
Apostolicam actuositatem sull’apostolato dei laici, 4).
La dottrina tradizionale sosteneva che la missione della Chiesa era
quella stessa degli Apostoli: convertire
(“render discepoli di Cristo”) i popoli e gli individui, perché solo diventando
Cristiani potevano esser graditi a Dio ed ottenere la vita eterna. La nuova dottrina, invece, afferma che
l’evangelizzazione deve limitarsi a “impregnare”[imbuere] gli uomini di spirito cristiano, facendo loro conoscere “l’unica vera
religione”, che è quella “che sussiste [anche o solamente?] nella Chiesa cattolica ed apostolica”. “Penetrare”, “impregnare”, “animare”: tanti termini oscuri al posto di uno semplice
e chiaro quale: “convertire”.
Ma ammettiamo pure che il Concilio, nonostante le ambiguità,
mantenga la dottrina tradizionale sulla
necessità imprescindibile della conversione delle Genti per la loro
salvezza. Si concilierebbe tale
professione con il riconoscimento della libertà di religione quale diritto
naturale e quindi assoluto della persona?
Si concilierebbe con l’accettazione di fatto del conseguente pluralismo
religioso?
Il Concilio, a proposito della “libertà religiosa”, propugna, dunque,
“un diritto della persona e non della verità”[139]. Esso separa (alla maniera dei Moderni) la
libertà della persona, con le sue esigenze di libera manifestazione del
pensiero, dalla verità religiosa, che ha le sue proprie esigenze. Quest’ultima, il Concilio l’avrebbe salvata
dall’indifferentismo perché avrebbe mantenuto (nel modo che si è appena visto)
l’idea dell’unicità del Cattolicesimo per la salvezza, onde graverebbe sempre
sulla persona singola l’obbligo morale di ricercare la verità, sì da giungere
alla conoscenza della vera religione. Ma
quest’unica e superiore verità, costituita dalla Verità Rivelata, non resta
come in una sorta di limbo, se non se ne proclama il diritto ad esser predicata
nei confronti delle altre religioni (tutte non rivelate tranne l’Ebraismo,
caduto però nell’apostasia a causa del suo rifiuto cosciente e persistente del
Messia preannunciato, Gesù Cristo Nostro Signore) affinché i loro seguaci le
abbandonino per convertirsi al Cattolicesimo, cioè a Cristo? Se la religione cattolica ha effettivamente
preservato, grazie al Magistero della Chiesa, la Parola del Dio che si è fatto
uomo, non c’è alcun (supposto) “diritto naturale” alla libertà religiosa che
possa esserle opposto, per impedirle di convertire i popoli e gli individui,
sostituendosi alle altre religioni, facendole sparire (sostituendovisi di
fatto, grazie alla conversione dovuta alla predicazione e all’esempio di vite
veramente cristiane, illuminate dalla Grazia, non ad un intervento dello Stato,
la cui azione come “braccio secolare” ha del resto sempre avuto un significato
secondario, di intervento a difesa).
Invece il Concilio afferma che lo Stato non deve “promuovere” la
religione cristiana e deve invece garantire l’opportuna libertà di culto a
tutte le religioni (DH 2,4,6). Il
rispetto del diritto naturale alla libertà religiosa da parte dello Stato deve
esser assoluto: lo Stato ha il dovere di
garantirla a tutti come “diritto civile” (DH 2,4,7,13). Ad individui e gruppi. Ai “gruppi religiosi” deve esser concesso il
culto pubblico del “numen supremum”, dell’Essere supremo (si noti la formulazione
deista-massonico-giacobina), con l’unico limite generico delle “giuste esigenze
dell’ordine pubblico”(DH 4).
Ma questo rispetto assoluto ha una conseguenza anche per la
Chiesa: quella di rendere praticamente impossibile
l’opera di conversione degli infedeli.
Anche la conversione, inattuabile senza proselitismo, sarebbe, infatti,
una coartazione del diritto naturale alla libertà religiosa degli Acattolici,
perché essa (come si vede dall’intero corpo neotestamentario) consiste
nell’investirli frontalmente con la proclamazione della Parola di Dio, che
incita al pentimento, a mutar vita, ad affidarsi alla Grazia, ad abbandonare le
loro vane credenze anteriori. Tutto ciò,
oltre a provocare la reazione (spesso violenta) delle altre religioni,
nell’ottica adottata dalla DH non appare comunque un far violenza all’altro? Violenza in senso
psicologico, si intende, menzionata espressamente dal
Concilio, quando afferma che gli uomini sono sì tenuti a ricercare la verità nella
religione e ad ordinare ad essa tutta la loro vita, una volta conosciutala, ma
alla condizione di godere sempre della “libertà psicologica” oltre che
dell’assenza di “coercizione esterna” (DH 2).
Si comprende, allora, il perché degli impegni formali della Gerarchia
attuale con Grecoscismatici o Ebrei a non far opera di proselitismo nei loro
confronti o perché una Madre Teresa di Calcutta non abbia mai cercato di
convertire nessuno alla vera fede[140]. In realtà Acattolici e scismatici non hanno,
a ben vedere, motivo di preoccuparsi: le dottrine deuterovaticane
sull’ecumenismo e la libertà religiosa eliminano di per sé la possibilità
stessa della conversione perché cercare di convertire eretici, scismatici ed
infedeli, per la salvezza della loro anima, viene ora inteso come un coartarli
nella loro “libertà psicologica”!
La concezione della libertà religiosa della DH appare astratta,
radicale ed utopistica. Astratta ed utopistica anche nel prevedere i limiti di questa libertà,
in DH 7, che sono solo quelli dell’ordine pubblico, da tutelarsi con norme giuridiche uguali per tutti, senza favorire
“iniquamente una delle parti” (e quindi nemmeno la Chiesa); norme pertanto che
siano “conformi all’ordine morale obiettivo”, il cui concetto non viene però
specificato. L’eguaglianza di
trattamento che tali norme devono mantenere deve essere assoluta. I “gruppi religiosi” hanno diritto a non
essere intralciati dal potere nell’esercizio del loro culto, nella loro
autonomia organizzativa e giuridica, nella loro libertà di movimento (DH 4) ed
infine – cosa più importante – non devono essere “impediti di manifestare
liberamente la virtù singolare della propria dottrina [singularem suae doctrinae virtutem] nell’ordinare la società e nel vivificare ogni umana attività”(DH 4.5). Come appare chiaramente dal contesto, tra i
“gruppi religiosi”(communitates
religiosae) è incluso anche il Cattolicesimo, su di un piano
di perfetta parità con gli altri. Ne
consegue che, per il Concilio, la “virtù singolare” dell’unica Religione rivelata
non è tale da farle assumere una posizione di supremazia assoluta nei confronti
delle altre religioni, che non sono rivelate! Ciò significa affermare di
fatto che tutte le altre religioni hanno lo
stesso diritto del Cattolicesimo a manifestare pubblicamente
il loro culto, contraddicendo apertamente la proposizione n. 78 del Sillabo,
che condanna un simile diritto, non riconosciuto nemmeno da Pio XII nel celebre
messaggio radiofonico del Natale 1942, di cui supra. Ci troviamo o no di fronte ad
una grave deviazione dottrinale, che consiste nel conferire all’errore gli
stessi diritti dell’unica Verità Rivelata, facendo venir meno, per i credenti,
la differenza tra Verità ed Errore, tra la Luce e le Tenebre?
La perdita dell’unicità del Cattolicesimo, imposta quest’unicità dall’identificarsi della
Chiesa di Cristo unicamente con la sola Chiesa Cattolica Romana, perché l’unica rimasta fedele
nella continua successione apostolica al Deposito della Fede, completatosi con
la morte dell’ultimo Apostolo; questa perdita risulta anche da altre
affermazioni della DH.
Dall’illegittima inclusione paritetica della Chiesa Cattolica nei
“gruppi religiosi”, cioè dall’equiparazione a tutti gli effetti del
Cattolicesimo con le altre religioni, il Concilio trae dunque la logica
conclusione che la libertà religiosa spettante alla Chiesa Cattolica è solo specie del genere libertà religiosa, che si deve concedere a tutti i “gruppi religiosi”, indistintamente,
fatta salva la tutela dell’ordine pubblico in nome di un indeterminato “ordine
morale obiettivo”. Questo appiattimento
radicale risulta a mio avviso con chiarezza dalla seguente frase: “la Chiesa rivendica a sé la libertà in quanto è una comunità di esseri
umani che hanno il diritto di vivere nella società civile secondo i precetti
della fede cristiana”(DH 13.2). La frase
sembra tratta da un documento di Pio XI, citato in nota[141]. Ma in quel documento il Papa si limitava ad
esporre un argomento ad hominem nei confronti di quegli Stati che negano alla Chiesa persino il comune
diritto all’esistenza, che il Papa vuole invece le venga giustamente
riconosciuto, come ad ogni altra associazione legittima.
Il Concilio, invece, trasforma questa richiesta di una libertà minima e
preliminare in un principio fondamentale del diritto pubblico della Chiesa,
come se quest’ultimo avesse propugnato per la Chiesa nient’altro che una
libertà di diritto comune, “ quasi la Chiesa fosse semplicemente
un’associazione paragonabile ad altre esistenti nello Stato”[142]. Si tratta, anche qui, di un grave errore
dottrinale, sempre condannato dai Pontefici poiché esso misconosce la superiore
natura della Chiesa, che è quella di una societas
perfecta, ed il suo necessario primato su tutte le altre societates, ex sese imperfectae, intrinsecamente imperfette, che concorrono in maniera subordinata a
procurare alla “comunità politica” il bene comune temporale. Si tratta inoltre di un incredibile regresso
sul piano storico. In pieno XX secolo,
sopravvissuta alle persecuzioni comuniste e naziste, assediata dal secolarismo
montante dal lato dell’incombente democrazia di massa, la Gerarchia chiede
tuttavia che la Chiesa, anche nei paesi nei quali è riconosciuta come unica
religione dello Stato, sia ridotta alla semplice condizione di religio licita, di culto ammesso,
ed accettata in questa veste: un culto
permesso accanto a tutti gli altri, come ai tempi dell’Editto dell’imperatore
Costantino, che pose termine alle persecuzioni (AD 313). In questa deminutio
capitis, in quest’autodiminuzione, come non vedere
all’opera (e con successo) l’odio per la Chiesa Cattolica Romana, che
insultavano abitualmente come “costantiniana”, da parte di Modernisti e
Neomodernisti, impadronitisi del Concilio nel modo che sappiamo?
E questa perdita dell’unicità della Chiesa Cattolica mi sembra risulti anche da un altro passaggio
di DH 13. Si tratta dell’affermazione
che “la libertà della Chiesa”, intesa nel modo appena visto, sia da intendersi
quale “principio fondamentale nelle relazioni fra la Chiesa e i poteri pubblici
e tutto l’ordinamento giuridico della società civile” (DH 13.1). L’affermazione appare non conforme alla
dottrina tradizionale della Chiesa perché il principio fondamentale del diritto
pubblico della Chiesa è da sempre quello secondo il quale lo Stato ha il dovere
di riconoscere la “regalità sociale di Cristo”.
Si tratta di una interpretazione costante nei secoli dello “oportet
illum regnare” (“occorre che Egli regni”, di 1 Cr 15,25), per ciò che riguarda
i rapporti tra lo Stato e la Chiesa e nell’ambito della società stessa. Ma il principio dello “oportet illum regnare”
è stato lasciato cadere nell’oblio a partire dal Vaticano II. Una conseguenza è stata, per l’appunto, il
ridurre sul piano teorico l’aiuto che lo Stato deve prestare alla Chiesa al
solo riconoscimento della sua libertà, della sua indipendenza, al solo aspetto
negativo del non-impedire, quando invece la Chiesa Cattolica, proprio a causa
della sua unicità di sola e vera Chiesa di Cristo, ha diritto anche ad un aiuto
positivo, che consiste nell’aiutarla secondo le sue necessità e riconoscendo la
sua legittima preminenza.
12. Quale “diritto naturale” ci propone la
‘Dignitatis humanae’?
Di fronte ad un quadro
del genere, poiché DH 2 presenta la libertà naturale come un “diritto” che ha
il suo fondamento “sulla stessa dignità della persona umana”, ne consegue che
tale diritto è posto come un vero e proprio diritto naturale, anche se
il Concilio preferisce parlare in genere di “diritti umani”, servendosi di una
terminologia più moderna. Bisogna quindi
chiedersi, a questo punto, se questo diritto naturale alla libertà religiosa
sia in armonia con l’idea del diritto naturale professata dalla Tradizione
della Chiesa. In altre parole: quale
concetto di “diritto naturale” è posto a
fondamento della libertà religiosa?
Non si tratta certo di quello elaborato dalla Scolastica e sempre
insegnato dal Magistero preconciliare. E
perché differisce dalla Tradizione della Chiesa? Perché “il diritto [naturale] della persona”
alla libertà religiosa, di cui a DH 2, riposa esclusivamente sulla persona
stessa, sull’uomo, sull’individuo in sé e per sé considerato, sulla sua
supposta “sublime dignità”, come scrive GS 22.
È in sostanza un diritto naturale dell’uomo in quanto uomo.
Ma questo è appunto il
concetto laico del diritto naturale, espressione della sua ben nota
visione antropocentrica del diritto e della giustizia. Nella plurisecolare
concezione cristiana tradizionale, invece, il diritto naturale è visto sempre
come l’espressione di un’idea di giustizia il cui fondamento è nella volontà
stessa di Dio: esso non riposa mai
sull’essere umano in quanto tale, riposa in Dio. Ciò risulta con chiarezza dall’architettura
dei concetti di legge, diritto e giustizia elaborata da S.
Tommaso nella Summa. In questa
sede non posso addentrarmi in un’analisi approfondita. Mi limito a ricordare
che, per il Doctor Angelicus, l’idea del diritto è inseparabile da quella della
giustizia, onde “ius est obiectum iustitiae”, “il diritto è l’oggetto della
giustizia”, il suo “oggetto” in senso proprio.
Ciò significa che il suo “contenuto” concreto non può contraddire l’idea
della giustizia, che dipende sempre dalla legge divina, come si attua nella
“legge naturale”, la quale, secondo la famosa definizione è: “partecipazione della legge eterna nella
creatura razionale [participatio legis aeternae in rationali creatura]”[143]. Può allora concepirsi come fondato “sulla
dignità della persona” ossia sulla “natura” della persona e quindi sulla “legge
naturale” il diritto che si vuole attribuire ad ogni uomo di professare come
meglio crede un qualsiasi credo religioso od antireligioso? Non può, ovviamente, se la “natura” in
questione è quella da determinarsi sempre secondo la “legge di natura”
stabilita dalla “legge divina” ossia dal vero Dio, Uno e Trino, incarnatosi in
Nostro Signor Gesù Cristo; Dio il quale, nel dare i suoi Comandamenti, ha messo
al primo posto il comando: “Non avrai
altro Dio all’infuori di Me”.
Può, invece, se la
“dignità della persona” è quella fabbricata dal pensiero laico, sulla base di
un concetto di natura che esclude sia la legge divina che quella naturale da
essa necessariamente dipendente, intendendo per legge di natura un principio
razionale riferibile soltanto all’uomo, che diventa così l’autore del suo
proprio diritto e dell’idea di giustizia che ad esso si debba riferire. Ma tale concezione della “dignità della
persona” non ha niente di cattolico, non si può in alcun modo inserire nella
Tradizione della Chiesa. E, come credo
di aver dimostrato, vani sono apparsi i tentativi del Concilio stesso (in DH
11) di rinvenire tale concetto di “dignità della persona” nella S. Scrittura
(vedi supra, § 9 di questo capitolo).
In realtà, il “diritto
naturale” posto dal Concilio a fondamento della libertà religiosa è parente
stretto dei Diritti dell’Uomo dell’89, come vengono chiamati, dichiarati in 17
articoli dall’Assemblea Nazionale rivoluzionaria “en présence et sous les
auspices de l’Être suprême”, come se quell’Assemblea fosse stata una Loggia. Lo conferma indirettamente lo stesso prof. Rhonheimer quando ricorda che
Benedetto XVI, sempre nel famoso discorso alla Curia del dicembre 2005, di
contro alla doverosa condanna di Pio VI di quella famosa dichiarazione, “prende
le difese della prima fase, quella “liberale” della Rivoluzione francese, che
egli distingue anche così dalla seconda, la fase giacobina, plebiscitaria e
radical-democratica, che portò al Terrore e alla ghigliottina. Facendo ciò, riabilita ugualmente la “Dichiarazione
dei diritti dell’uomo e del cittadino” del 1789, sorta dallo spirito del
parlamentarismo rappresentativo e dal pensiero costituzionale americano”[144].
Il primo di questi
famosi articoli proclama che: “Les
hommes naissent et demeurent libres et égaux en droits”[145]. Poiché si parla di nascita senza menzionare
un Dio creatore, si deve ritenere che siffatta uguaglianza sia considerata
intrinseca agli uomini in quanto tali, in quanto prodotto di una natura che si
riferisce solo a sé stessa. La libertà e
l’uguaglianza sono allora caratteristiche naturali dell’uomo che la ragione
coglie da sé stessa, nel porsi come quella coscienza di sé che l’uomo possiede
in quanto io pensante, che è però nello stesso tempo parte della natura a sua
volta increata e solo della natura, senza dover render conto a nessun Ente
sovrannaturale. In tal modo la libertà e
l’uguaglianza, intese come “diritti” che ci appartengono per natura,
vengono in realtà ad essere un prodotto dell’io pensante, ossia della ragione
che concepisce l’uomo come quella parte della natura increata che deve
ritenersi sempre uguale ed indipendente da ogni altra parte della stessa
natura: quella parte che si presenti come essere umano. Siffatta visione naturalistica del diritto
naturale è nello stesso tempo antropocentrica, nel senso che è l’uomo a
rappresentarsi come “diritto” il suo semplice modo di essere, in quanto natura,
ponendosi come legislatore al centro del Tutto della natura. L’idea laica di un’uguaglianza di tutti gli
uomini per il solo fatto di esser tali e non perché creati da Dio, Padre
comune; idea che degrada l’idea legittima di uguaglianza ad anarchico
ugualitarismo, anche nell’epoca attuale costituisce uno dei principali
fondamenti della “dignità dell’uomo” e dei diritti “naturali” od “umani” che su
di essa si vogliano costruire.
Di contro a tutto ciò,
bisogna invece richiamare il limpido insegnamento della Chiesa del passato ma
in realtà di sempre. Ho già ricordato (supra,
§ 2.1) che Leone XIII escludeva a chiare lettere la possibilità di concepire
come “diritti naturali” i vari “diritti” riconducibili alla libertà di
coscienza. L’esclusione si imponeva
innanzitutto sul piano logico, poiché essi apparivano in perfetta antitesi con
il concetto stesso di “verità rivelata”, sulla quale, oltre alla religione, si
fonda anche la morale cristiana. Non
solo. Come si è visto già nel pensiero
di Spinoza l’ideologia della “libertà religiosa” si presenta sotto il segno
dell’impostura. In che senso? Nel senso che essa si presenta come neutrale
nei confronti della religione, compresa
quella rivelata, in nome delle esigenze di una giusta libertà individuale e
della pace sociale, che richiede siano evitate le dispute dei teologi e le
conseguenti lotte delle fazioni politico-religiose. Ma in realtà, come si è visto, quell’ideologia
era ed è profondamente ostile alle religioni basate su di una Rivelazione ed in
verità a qualsiasi religione. In
particolare essa avversa il Cattolicesimo, la cui dottrina mantiene intatta sia
la natura sovrannaturale della vera Rivelazione che l’etica su di essa
fondata. Il Cattolicesimo era calunniato
come superstizione buona al massimo a tenere a freno la canaglia con la paura
dell’Inferno e comunque respinto sul piano del concetto, dal momento che Dio
doveva ritenersi, dal punto di vista dei liberi pensatori, solamente un ente
di ragione i cui attributi venivano elaborati dalla ragione stessa. In tal modo Dio diventa un prodotto della
ragione stessa e l’uomo finisce con il divinizzarsi, con il porre la sua
“ragione” al centro dell’universo al posto di Dio, come abbiamo appena
ricordato.
Come se non bastasse,
tale laica concezione comportava la dissoluzione dell’etica cristiana ed anzi
di ogni etica, con il toglierle ogni fondamento oggettivo, dal momento che il
principio morale delle nostre azioni lo si faceva sempre ed esclusivamente
dipendere dalla nostra libera coscienza individuale, dal sentimento morale che
c’è in noi o dalla nostra volontà, obbediente ai dettami di una “ragion
pratica” fondata sempre sul nostro io.
Ma l’etica cristiana non dipende dal sentimento del soggetto né dalla
sua coscienza di sé né dalla sua volontà:
è fondata sulla Verità Rivelata, ossia sugli insegnamenti del Signore e
su quelli degli Apostoli infusi dallo Spirito Santo che spira dal Padre e dal
Figlio, e mantenuti nei secoli dal Magistero della Chiesa. Essa si compone di precetti che il nostro
libero arbitrio (la “libertas” di cui all’Enciclica Libertas
praestantissimus di Leone XIII), con l’aiuto indispensabile delle Grazia,
deve riconoscere come obbliganti, sia per il retto agire in questo mondo che
per la salvezza dell’anima.
Era perfettamente
logico che i Papi condannassero nel modo più energico la “libertà religiosa”
propugnata, alla fine, dall’ideologia liberale dell’Ottocento, fondata com’era
su quel deismo che conduceva inevitabilmente all’indifferentismo e
all’agnosticismo in campo religioso e morale e in campo politico ad una
inaccettabile separazione tra Chiesa e Stato (da non confondersi con la
legittima distinzione delle rispettive sfere di competenza). Infatti, lo Stato moderno, dandosi
giustificazione e fini solo terreni, non riconosceva più come propri i
valori religiosi (cosa che comportava il venir meno della difesa della morale
cristiana e della Chiesa Cattolica) e pertanto non si considerava più come
ordinato anch’esso da Dio (nella sfera di sua competenza, che è quella del Bene
comune) alla realizzazione del fine sovrannaturale per il quale ciascuno di noi
è stato creato, fine costituito dal conseguimento della vita eterna. In tale condanna si distinsero, come
sappiamo, pontefici del XIX secolo quali Gregorio XVI e Pio IX, senza escludere
Leone XII e XIII.
Per i Papi, la
condanna della “libertà religiosa” propagandata dai Liberali realizzava la
difesa della verità religiosa, l’unica autentica perché rivelata da Nostro
Signore. I Liberali, più ancora che
negare l’esistenza “di una verità religiosa”, negavano la possibilità stessa
dell’esistenza di una verità assoluta, sulla fede e suoi costumi, come
quella costituita appunto dalla Verità Rivelata. Ciò era conforme alla loro nozione soggettivistica
della verità, cui non conferivano un sicuro fondamento oggettivo fuori di noi,
dipendendo essa sempre (dicevano) dai nostri sensi e dal concetto elaborato
dalla nostra mente e pertanto alla fine dalla nostra opinione, dal nostro modo
di sentire. Per i Liberali, la Bibbia
era (ed è) nient’altro che mitologia, allo stesso modo, per dire, del Rig
Veda. Tra Cattolicesimo e Liberalismo
c’era (e c’è) un contrasto insanabile nel modo di intendere la verità e per
conseguenza la libertà. Il
soggettivisimo e il relativismo del punto di vista liberale privilegiava la
“libertà” intellettuale, morale e pratica del soggetto, dandole un valore
assoluto, prevalente sulle esigenze della verità, che non potevano mai esser
tali da impedire quella libertà; veritas
ancilla libertatis, potremmo dire:
della libertà incondizionata del nostro io, condizionata solo da
esigenze esterne quali la correttezza contrattuale, l’ordine pubblico e la pace
sociale.
Il punto fu colto egregiamente
da Leone XII nell’Enciclica Mirari vos, del 1832. Egli sottolineò come l’indifferentismo,
che metteva sullo stesso piano tutte le religioni, fosse figlio della “libertas
opinionum” proclamata dalla coscienza moderna, noncurante dell’ammonimento di
S. Agostino: “At quae peior mors animae,
quam libertas erroris?”[146]. “ La morte dell’anima non è peggiore della
libertà di errare?”. Lo è, dato che
essa, provocata dal peccato mortale, comporta la “morte seconda” o dannazione
eterna. Ma, per la coscienza moderna, “l’errore” non esiste, negando essa
assurdamente l’esistenza di una verità oggettiva, tanto più se assoluta
perché di origine sovrannaturale.
Per il Cattolicesimo,
invece, l’errore esiste e può condurci alla dannazione eterna. La libertà di coscienza in religione, nella
forma di assoluta ed indifferenziata “libertà religiosa” non poteva pertanto
essere ammessa, derivando essa dall’errore di far derivare la religione dal
sentimento o dalla ragione. “E poiché
iniquamente [i nemici di Cristo e della Chiesa] osano derivare dalla virtù
naturale della umana ragione tutte le verità religiose, così a ciascun uomo
attribuiscono un tale quasi primario diritto, per il quale egli sia libero di
pensare e di parlare a suo senno di religione, e rendere a Dio quell’onore e
quel culto, che secondo suo piacimento giudica migliore”[147].
Qui è espressa
chiaramente la ripulsa di un “diritto naturale”, come “diritto” della persona
in quanto tale alla “libertà religiosa”, consistente in un culto a Dio
stabilito unilateralmente dalla “virtù naturale della umana ragione” della
persona stessa. Diritto negato
implicitamente anche da Pio XII, come si è detto. E non potendo riconoscere una tale “diritto
naturale”, che, facendo strame della Verità Rivelata, avrebbe precipitato la
vera religione nel caos, dandola in pasto alle sette e aprendola all’assalto
delle altre religioni (come poi è successo), i Papi non potevano nemmeno
riconoscerne la logica conseguenza, ossia “il diritto civile” ad esercitarlo
come libertà di culto o “religiosa”, estesa per di più anche al suo contrario,
e quindi da intendersi anche come libertà “di culto” per l’irreligione, alla
maniera della Dignitatis humanae!
Nelle loro condanne i
Papi del passato si attenevano al vero concetto cristiano del diritto naturale,
il cui contenuto, per esser giusto, deve sempre esser conforme alla legge di
natura, della quale partecipa la legge divina.
L’impianto logico che sorregge il giusnaturalismo cattolico è quello
della metafisica classica, di Platone, Aristotele e di S. Tommaso, e si fonda
sul principio di identità e non contraddizione e su quello di causalità. Che il “diritto naturale” contemplato nella
DH esprima invece un concetto distorto, lo si deduce già dal fatto che
esso, violando impunemente il principio di non contraddizione, pretende di
ricomprendere sia la libertà della coscienza religiosa che di quella
irreligiosa.
[1] C,
55-78.
[2]
Vedi GHERARDINI, D, 163-188; Quod et tradidi vobis, pp. 376-7.
[3] C,
63.
[4] C,
55. Il testo citato si trova in Quod
et tradidi vobis, pp. 376-7.
[5]
Ivi.
[6] C,
56.
[7] C,
56-7.
[8]
GHERARDINI, Quod et tradidi vobis, p. 376.
[9]
Ivi, p. 377.
[10]
D, 169.
[11]
D, 170.
[12]
C, 58-9.
[13]
C, 60.
[14]
Ivi.
[15]
C, 60-1.
[16]
C, 61.
[17]
Ivi.
[18]
Ivi.
[19]
C, 62.
[20]
C, 63.
[21]
“In hominis iuris hoc quoque numerandum est, ut et Deum, ad rectam conscientiae
suae normam, venerari possit, et religionem privatim et publice profiteri” (DS
3961). L’editore mette in rapporto in
nota questa dichiarazione con l’art. 18
della Universal Declaration of Human Rights, proclamata dall’ONU
il 10 dicembre 1948: “Everyone has the
right to freedom of thought, conscience and religion; this right includes
freedom to change his religion or
belief, and freedom, either alone or in community with others and in public or
private, to manifest his religion or belief in teaching, practice, worship and
observance”. La Convenzione con la quale
gli Stati vi aderirono, all’art. 9 § 2 conteneva restrizioni all’esercizio di
questo diritto, da applicarsi per legge in una società democratica: “in
funzione della sicurezza pubblica, dell’ordine pubblico, della sanità o della
morale pubbliche, o della libertà o diritti altrui” (DS, p. 804). Di tali limitazioni non sembra esservi
traccia nella Pacem in terris.
[22]
GIOVANNI XXIII, Pacem in terris,
tr. it. Ediz. Paoline, Roma, 1983, § 8.
Il passo di Lattanzio è tratto da:
Divinae institutiones, 4, 28, 2 (PL, 6, 535); per il passo dell’enciclica vedi DS 3250, che
lo riporta quasi integralmente. Si ferma
a: “vindicavere Apostoli…”.
[23]
Per le tre citazioni, vedi nell’ordine EP, 633, 634, 637. L’originale dell’ultima recita: “Sola igitur
catholica ecclesia est quae verum cultum retinet. Hic est fons veritatis, hoc domicilium fidei,
hoc templum Dei; quo si quis non
intraverit vel a quo si quis exierit, a spe vitae ac salutis alienus est”.
[24]
EP, 630.
[25]
DS, 3252.
[26]
DS, 3245-3249.
[27]
DS, 3250.
[28]
PIO XI, Mit brennender Sorge [Con bruciante afflizione], 10.4.1937, AAS
29 (1937) pp. 145-167; p. 160.
[29]
Ivi.
[30]
PIO XII, Radiomessaggio natalizio del 1942, AAS 1943 (XXXV) pp. 9-24; p.
23.
[31]
Ivi, p. 19. Sottolineatura mia.
[32]
JOSEPH LÉMANN, Napoléon et les juifs (1891), rist. Avalon, Paris, 1989,
pp. 78-81.
[33]
C, 63, che riporta DH 1.
[34]
C, 64-5.
[35]
C, 65.
[36]
C, 66, nota n. 17.
[37]
C, 66.
[38]
C, 67-8.
[39]
C, 74 ss.
[40]
C, 75-6.
[41]
C, 77-8.
[42]
C, 78.
[43]
BENEDETTO SPINOZA, Trattato teologico-politico, introd. di Emilia
Giancotti Boscherini, tr. it. e commenti di Antonio Droetto e E. Giancotti
Boscherini, Einaudi, Torino, 1972, p. 150.
L’edizione contiene un ricco apparato di note, del quale mi sono
servito, sempre valido per l’erudizione anche se tendenzioso per via del
pronunciato anticattolicesimo ed eccentrico in certi paralleli tra il
“cattolicesimo di Spinoza” e quello “di S. Paolo”. Per l’edizione latina originale, vedi la
recente, fondamentale edizione critica dell’intera opera di Spinoza: BARUCH SPINOZA, Tutte le opere. Testi originali a fronte, Saggio
introduttivo, presentazioni, note e apparati di Andrea Sangiacomo, traduzioni
di M. Buslacchi, A. Dini, G. Durante, S. Follini, A. Sangiacomo, Bompiani,
Milano, 2010, pp. 629-1139. La parte del
saggio introduttivo di A. Sangiacomo dedicata al Trattato è però solo
apologetica. L’Autore non sente la
necessità di una revisione del lascito spinoziano (op. cit., pp. 7-88; 44-54).
[44]
Ivi, p. 151.
[45]
Ivi, p. 152.
[46]
“Abbiamo dimostrato nell’Appendice della Prima Parte che la Natura non agisce
secondo un fine: questo Essere eterno e
infinito che chiamiamo Dio o la Natura agisce secondo la medesima necessità per
la quale esiste [aeternum namque illud et infinitum Ens, quod Deum seu
Naturam appellamus, eadem, qua existit, necessitate agit]” (Ethica,
IV, Praefatio, ed. Appuhn).
[47] Trattato,
pp. 179-80 nota n. 38.
[48]
Ivi, pp. 154-5.
[49]
Ivi, p. 155.
[50]
Ivi, pp. 161-3. “Nella Scrittura infatti
sono raccontati come reali e come tali anche erano creduti, molti fatti che
tuttavia non furono che semplici rappresentazioni e cose immaginarie” (ivi, p.
164).
[51]
Ivi, p. 308.
[52]
Ivi, pp. 308-9.
[53]
GIUSEPPE RICCIOTTI, Paolo Apostolo. Biografia con introduzione critica e
illustrazioni, Coletti, Roma, 1957⁵, pp, 264-5. In 1 Cr 15, 1-3, c’è di nuovo
l’espressione: “Vi ho infatti trasmesso,
in primo luogo, quello che io stesso ho ricevuto, cioè che Cristo è morto per i
nostri peccati etc.”. Manca però il
riferimento esplicito a Nostro Signore.
Nella sua edizione delle Lettere ai Corinzi, Mons. ROSSANO nega
l’attendibilità del riferimento paolino a Cristo quale sua fonte privata. “[In 1 Cr 11, 23] Si notino i due termini
tecnici della tradizione ecclesiastica: ho
ricevuto (gr. parélabon), ho trasmesso (gr. parédoka). Ci si domanda se la fonte di questo
insegnamento sia direttamente il Signore, il quale avrebbe rivelato a S.
Paolo i termini di questo evento e la sua significazione. Ma anche se qualcuno ha voluto pensarlo, sia
il contesto, sia le stesse parole adoperate indicano sufficientemente una
derivazione e una trasmissione di tale insegnamento attraverso normali organi
ecclesiali” ossia, concludo io, attraverso gli altri Apostoli, dai quali pure
aveva ricevuto la formazione cristiana necessaria (Le lettere di S. Paolo,
Edizioni paoline, Milano, 1985³, p. 159 n. 23).
Perché “il contesto” debba escludere la rivelazione privata della quale
parla S. Paolo, non si riesce a comprendere.
L’argomento filologico mi sembra poi alquanto debole: di quali termini avrebbe dovuto servirsi S.
Paolo se non di quelli già in uso? Non scriveva per farsi capire da convertiti
di cultura e lingua greca? Il verbo e il sostantivo per indicare il
“trasmettere” e il “ricevere” una dottrina, non si trovavano già nel greco classico?
(cfr. LGNT, sotto le due voci, paralambáno e parádosis). Mons. Rossano mostra di dubitare anche del
carattere sovrannaturale dell’Apparizione sulla via di Damasco, che egli
presenta come “una folgorazione improvvisa”, termine che in italiano si riferisce
in genere ad un pensiero improvviso non a un fatto esteriore improvviso (op.
cit., Introduzione generale, p. 16).
Siamo stati invasi da un’esegesi succube del razionalismo di quella
protestante, che cerca costantemente di eliminare la presenza del Sovrannaturale
dai Testi Sacri, ricorrendo senza batter ciglio agli argomenti più superficiali
o alle pure, immotivate negazioni.
[54] Trattato,
p. 309.
[55]
Ivi, pp. 310-11.
[56]
GIUSEPPE RICCIOTTI, Paolo Apostolo.
Biografia con introduzione critica e illustrazioni, Coletti, cit., pp. 195-207; p. 200. Scarsi cenni in KARL HERMANN SCHELKLE, Paolo. Vita, lettere, teologia, tr. it. Umberto
Proch, Paideia, Brescia, 1988, p. 118, 212, che mi sembra riduttivo nella sua
interpretazione: “In Paolo lo Spirito è
la forza dell’impensato e del miracoloso, ma è anche sperimentabile in gesti e
azioni nei quali si dimostra quotidianamente la vita cristiana. Lo Spirito è così sempre “lo Spirito della
fede” (2 Cr 4,13)”(ivi, p. 212). I
dettagliati riferimenti di cui al commento di Mons. ROSSANO alle due Lettere
ai Corinti, mi sembrano troppo preoccupati di ricondurre il fenomeno alla
religiosità mediterranea, locale, pagana, oscurandone in tal modo il
significato genuinamente cristiano (vedi Le lettere di S. Paolo, cit.,
p. 168 ss.).
[57]
RICCIOTTI, pp. 200-1. Vedi anche la voce
Carismi nel Dizionario Biblico cit.
[58]
Ivi, p. 201. “Supponiamo che tutta quanta la Chiesa si raduni insieme e tutti
parlino le lingue: se vi entrano dei
semplici catecumeni o degl’infedeli, non diranno forse che siete tutti
impazziti? Ma se tutti invece
profetizzano, qualora entri un infedele o un semplice catecumeno è convinto da
tutti, è giudicato da tutti; i segreti del suo cuore vengono svelati, e così,
gettandosi con la faccia a terra, adorerà Iddio e proclamerà che Dio è
veramente in mezzo a voi” (1 CR 14, 23-25).
La Chiesa primitiva godeva di carismi eccezionali, in seguito non più
concessi dalla S.ma Trinità in quella misura.
[59]
Ivi, p. 202.
[60]
Ivi.
[61]
RICCIOTTI, Storia di Israele, I. Dalle origini all’esilio, SEI,
Torino, 1937³, pp. 381-395. Vedi anche
la voce Profeta. Profetismo nel Diz. Bibl. citato.
[62]
SPINOZA, Trattato, pp. 311-2.
[63]
RICCIOTTI, Paolo Apostolo, cit., p. 265.
[64]
Atti 15, 36-41. Vedi anche la voce Barnaba nel Diz. Bibl.: S.
Paolo successivamente mutò opinione su Marco e se ne servì nel suo ministero
(Col 4,10). S. Paolo e S. Barnaba
rimasero sempre in buoni rapporti (1 Cr 9,6; Gal 2,1).
[65]
SPINOZA, Trattato, p. 110.
[66]
Ivi, pp. 312-3.
[67]
Ivi, p. 48.
[68]
Ivi, pp. 48-9.
[69]
Ivi, p. 49.
[70]
L’uso del termine “testimonianze” appare inspiegabile, non avendo Spinoza
accennato in precedenza a “testimonianze” diverse dai “segni”. Ma egli, nonostante scriva tamquam
testibus, signis, voleva probabilmente dire “testimonianza dei segni”, come
traduce Alessandro Dini nell’edizione del Trattato ricompresa in BARUCH
SPINOZA, Tutte le opere, cit., p. 937.
[71]
Ivi, p. 313.
[72]
Ivi. Il passo è da 1 Cr 7,40.
[73]
Ivi, p. 313.
[74]
Ivi, p. 314.
[75]
Ivi.
[76]
Ivi, p. 315.
[77]
Ivi, 325-6.
[78]
Ivi, p. 326.
[79]
Senza entrare nei dettagli, Leo Strauss, nel suo importante studio su Spinoza
esegeta della Bibbia, rileva che l’interpretazione spinoziana di S. Paolo “può
valere solo con le opportune riserve” (LEO STRAUSS, Die Religionskritik
Spinozas als Grundlage seiner Bibelwissenschaft. Untersuchungen zu Spinozas
Theologisch-Politischen Traktat [La critica spinoziana alla religione quale
fondamento della sua esegesi biblica. Ricerche sul Trattato teologico-politico
di Spinoza], Berlin, Akademie-Verlag 1930, rist. anast. Wissenschaftliche Buchgesellschaft,
Darmstadt, 1981, p. 254). Le “ricerche”
di Strauss sulla “esegesi biblica” di Spinoza sono dedicate soprattutto al
rapporto tra Spinoza e l’Ebraismo. Egli
mette molto bene in rilievo l’ostilità preconcetta di Spinoza per la religione
rivelata, che per lui, nella migliore tradizione epicurea e “libertina”, era
solo “superstitio”, prodotto dell’”immaginazione” per rispondere a passioni e
bisogni puramente umani, economici e politici (ivi, pp. 207-16) e come la sua
“critica della religione” fosse in realtà “il presupposto della sua esegesi
biblica” ovvero come egli leggesse la Bibbia già da convertito alla miscredenza
(ivi, pp. 259-64). Nell’analizzare “la
funzione sociale della religione”, così come la intende Spinoza, sulla base dei
dogmi di un teismo imposto dallo Stato, mi sembra tuttavia che Strauss non
sottolinei a sufficienza il carattere autoritario ed esclusivo, di instrumentum
regni che la religione (in quanto culto pubblico di Stato) viene ad avere per
Spinoza (ivi, pp. 241-6). Questo
carattere non sfugge a Gioele Solari, che tuttavia, in maniera per me
incomprensibile, insiste nel presentare la religione di Spinoza come
“espressione dell’esperienza etica cristiana fissata nei suoi princìpi
essenziali e perenni”, anche per ciò che riguarda il rapportro tra lo Stato e
la fede (GIOELE SOLARI, La politica religiosa di Spinoza del “Jus Sacrum” (1930),
ora in ID., Studi storici di filosofia del diritto, con prefaz. di L.
Einaudi, Giappichelli, Torino, 1949, pp. 73-117; 84, 110).
[80]
DB, voce Paolo apostolo.
[81]
LGNT, voce themélion.
[82]
SPINOZA, Trattato, p. XXXVII.
[83]
L’influenza di Hobbes è accuratamente documentata dai curatori nelle note al Trattato. Per l’influenza sulla “esegesi biblica”
spinoziana della “critica alla religione” che riprende nel Seicento i noti temi
epicurei, vedi le precise e penetranti ricostruzioni nella parte introduttiva
di LEO STRAUSS, Die Religionskritik Spinozas, cit., pp. 1-86.
[84]
SPINOZA, Trattato, pp. 19-20.
[85]
Ivi, p. 20.
[86]
Ivi, pp. 20-1.
[87]
Ivi, p. 47.
[88]
Ivi, p. 49.
[89]
Ivi, pp. 48-52; 52.
[90]
Ivi, p. 61. Strauss fa vedere come
questa svalutazione radicale del profetismo dipendesse anche dalla metafisica
spinoziana, già ampiamente elaborata all’epoca del Trattato: dalla
concezione delle facoltà umane su di essa fondate (op. cit., pp. 211-14).
[91]
SPINOZA,Trattato, p. 384.
[92]
Ivi, p. 389.
[93]
Ivi.
[94]
Ivi, p. 348-9.
[95]
Solari si scaglia contro gli interpreti che hanno messo in rilievo il nesso tra
il teismo imposto dallo Stato spinoziano e la rousseauiana “religione civile” a
sfondo teistico, ugualmente professata dallo Stato e ugualmente ostile al
Cattolicesimo. Il paragone non
reggerebbe perché “la religione civile del Rousseau è l’etica dello stato
spogliato da qualsiasi prestigio religioso; né si fonda sui dogmi della Scrittura,
ma su postulati razionali con forte tinta nazionalistica, incompatibile con
l’universalismo essenzialmente politico religioso di Spinoza. Nel quale lo stato ottimo ha significato
essenzialmente religioso e attua il regno di Dio secondo i principii della
morale cristiana rivelata”(op. cit., p. 110).
Mancano in Spinoza i rousseauiani nessi tra religione “civile” e
patriottismo e tuttavia l’orientamento del Trattato, a prescindere dalle
apparenze, non sembra meno laico di quello del Contratto sociale. E la Respublica spinoziana su quali “dogmi
della Scrittura” si fonderebbe? Per
Spinoza la Scrittura non è verità rivelata né lo è la “morale cristiana”, alla
quale egli contrappone la sua “etica”, fondata su di una concezione
utilitaristica della morale e del diritto.
Ricordo che, per Spinoza, il bene e il male in senso assoluto non
esitono, egli afferma un integrale relativismo etico, ancora più estremo di
quello di Hobbes. Scrive, infatti, che
“la conoscenza del bene e del male non è altro che il risultato dell’esser
affetti dalla gioia o dalla tristezza, per quanto se ne sia coscienti” (Ethica
IV, Propositio VIII).
Affermare, poi, che lo Stato spinoziano “attua il Regno di Dio secondo i
princìpi della morale cristiana rivelata” significa o non aver capito la vera
natura dello Stato pensato da Spinoza o aver una concezione del tutto
razionalistica dei principi della morale cristiana, tanto da assimilarli ai
“precetti” che Spinoza vuol riduttivamente ricavare dal Discorso della
Montagna.
[96] Trattato,
p. 453.
[97]
Ivi, p. 483.
[98]
Ivi, p. 482.
[99]
Ivi, p. 412.
[100]
Ivi, p. 207.
[101]
Ivi, p. 207.
[102]
Ivi.
[103]
Ivi.
[104]
Ivi, p. 484.
[105]
Ivi.
[106]
Ivi, p. 460.
[107]
Ivi, p. 462.
[108]
Ivi, p. 463.
[109]
Ivi, p. 465.
[110]
Ivi, p. 466.
[111]
Ivi, p. 482.
[112]
Ivi, pp. 481-3.
[113]
Ivi, p. 483.
[114]
Ivi.
[115]
Ivi, p. 490.
[116]
JEAN-JACQUES ROUSSEAU, Il Contratto Sociale, con un saggio intr. di
Robert Derathé, tr. it. e note di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino, 1966,
p. 181.
[117]
Ivi, p. 176.
[118]
Ivi, p. 182.
[119]
Citato da SOLARI, op. cit., p. 95, nota n. 1.
Nel sigillo che si era fabbricato, riprodotto a p. 101 di Tutte le
opere, cit., Spinoza aveva raffigurato una rosa, simbolo di riservatezza e
segreto, con sotto la scritta: “caute”,
cautamente, con circospezione. Il motto
di Cartesio si ispirava ad un’idea simile:
“larvatus prodeo”, je m’avance masqué.
[120]
C, 58-9.
[121]
Ho trovato il riferimento a S. Agostino in MARTIN HEIDEGGER, Sein und Zeit,
§ 29, p. 139 dell’edizione di Niemeyer, Tübingen, 1963¹⁰, nota n. 1 (p. 403 della traduzione
italiana curata da Alfredo Marini con testo tedesco a fronte: ID., Essere e tempo, Mondadori,
Milano, 2006). Heidegger utilizza il
concetto ai suoi fini, per la sua peculiare nozione del “comprendere”, fondata
sull’idea della “precomprensione” quale essenza del “comprendere” stesso.
[122]
Atti e Passioni dei Martiri, nell’edizione critica apparsa nella collana
della Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano, 1995³, p. 167. Dichiararsi cristiano significava rischiare
la condanna a morte, se non si abiurava sacrificando agli dèi del culto ufficiale
e per o all’imperatore. Ma compiere
questo “sacrificio” significava appunto apostatare, violare il Primo
Comandamento.
[123]
Ivi, p. 139, Passione di Perpetua e Felicita.
[124]
Ivi, p. 141.
[125]
ATENAGORA, Supplica per i cristiani, tr. it. introd. e note a cura di P.
Gramaglia, Ed. Paoline, 1965, p. 36, per le calunnie. Sembra che queste
mostruose falsità trovino ancora largo credito tra le plebi musulmane. Ma le calunnie più incredibili investono di
nuovo il Cattolicesimo in Occidente grazie alle campagne mediatiche organizzate
sulla scorta di romanzi di terz’ordine, che sembrano scritti con il preciso
scopo di attaccare la nostra religione, quali il tristemente noto: The Da Vinci Code, dell’americano Dan
Brown.
[126]
Sul nesso libertà di espressione-autorità, cfr.: ARNALDO MOMIGLIANO, La libertà di parola
nel mondo antico (1971), ora in ID., Sesto contributo alla storia degli
studi classici e del mondo antico, Ediz. di Storia e letteratura, Roma,
1980, pp. 403-36; 432. Sottolinea
inoltre l’illustre Autore: “Per quel che
ne so, nessuno presentò la disputa pro o contro il cristianesimo come una
questione che coinvolgesse il principio della libertà di parola” (ivi, p.
433). La libertà di parola è sempre
stata considerata aspetto essenziale della libertà di coscienza e religiosa nel
senso moderno del termine.
[127]
Apologeticum, 24, tr. it. con testo a fronte di E. Buonaiuti, introduz.
revis. e commento di Ettore Paratore, Laterza, Bari, 1972, pp. 150-3.
[128]
MARTIN RHONHEIMER, L’”herméneutique de la réforme” et la liberté de religion,
in ‘Nova et Vetera’, No. 4, Oct.-déc. 2010, http://www.novaetvetera.ch/Art%20Rhonheimertm.,
14 pp. Traduzione italiana, sotto la
rubrica: “Chi tradisce la
tradizione. La grande disputa” di
SANDRO MAGISTER, in: http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1347670,
14 pp. Poiché il testo italiano omette
alcuni passaggi e le note, l’ho a volte integrato con quello in francese,
apparso inizialmente in tedesco, in forma più ridotta, nel 2009, su “Die
Tagespost” del 26.9.2009. Tr. it., p. 4.
[129]
Op. cit., p. 11.
[130]
Apol., 30, ed. cit., pp. 175-7.
[131]
Ivi, 33; pp. 181-3.
[132]
RHONHEIMER, op. cit., p. 11, ed. it.
Corsivi miei.
[133]
ETIENNE GILSON, La filosofia del Medioevo.
Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo (1952), tr. it.
di M. Assunta della Torre, present. di M. Dal Pra, La Nuova Italia, Firenze,
1995, p. 31.
[134]
Ivi, p. 27, ed. it. Corsivi miei.
[135]
FRANCESCO CALASSO, Medio Evo del diritto. I – Le fonti, Giuffrè, Milano,
1954, p. 140.
[136]
RHONHEIMER, op. cit., p. 8. Corsivi
miei.
[137]
Ivi, p. 7. Il CCC evita di dire: “che
l’unica vera religione sussiste esclusivamente
nella Chiesa Cattolica”.
[138]
Mediator Dei, ed. cit., p. 12 e 13.
[139]
RHONHEIMER, op.cit., p. 5.
[140]
A proposito dei moribondi di Calcutta, era solita dire: “Noi diamo loro ciò che desiderano, secondo
la loro fede” (H. GRESLAUD, Madre Teresa, una beatificazione equivoca,
in ‘La Tradizione Cattolica’, XVI (2005) 2 (59), pp. 25-39; 36-7. Su Madre Teresa di Calcutta, vedi supra,
il rilievo critico di Mons. Gherardini (cap. VIII).
[141]
S.S. PIO XI, Lettera Apostolica, Firmissimam constantiam, del 28.3.1937
in AAS 29 (1937), p. 196.
[142]
Cfr. l’Enciclica Immortale Dei, dell’1.11.1885 di Leone XIII, Acta
Leonis, V, p. 118.
[143]
ST, I-II, q. 91, a. 2. Vedi
inoltre: ST, II-II, q. 57, a.2.
[144]
RHONHEIMER, op. cit., p. 6.
[145]
FELICE BATTAGLIA (a cura di), Le carte dei diritti, Sansoni, Firenze,
1934, p. 122.
[146]
DS, 3731.
[147]
PIO IX, Allocuzione Maxima quidem, del 9.6.1862, in Appendice a
PIO IX, Il Sillabo, nuova ediz. it. con testo a fronte e appendice
documentaria, a cura di G. Vannoni, Cantagalli, Siena, 1985², pp. 189-98; p.
192.
Sessant’anni dal Concilio - VII
XVI. La libertà religiosa della Dichiarazione
‘Dignitatis humanae’, laico corpo estraneo nel Vaticano II?
[Nota
previa. Eccomi alla penultima
puntata della scelta dal mio libro ‘Unam Sanctam. Studio sulle deviazioni dottrinali
nella Chiesa cattolica del XXI secolo’, Solfanelli, 2013, sempre grazie alla
cortese autorizzazione dell’editore Marco Solfanelli. La Dichiarazione sulla libertà religiosa fu,
come si può immaginare, uno dei testi più combattuti del Concilio. Il capitolo
nel quale ne tratto è il più lungo del mio libro: pp. 245-330.
Questo è dipeso anche dall’aver voluto io inserire un excursus critico
su Baruch Spinoza, 1632-1677, uno dei giganti del pensiero moderno. Si trattava di controbattere il pregiudizio
secondo il quale Spinoza sarebbe stato uno dei padri della moderna libertà
d’espressione e religiosa e in gran parte grazie alle sue critiche ai Testi
Sacri, in particolare al Nuovo Testamento.
Credo di aver dimostrato, testi alla mano, che le critiche di Spinoza al
Nuovo Testamento, che egli cerca di distruggere come fonte sovrannaturale della
verità, sono del tutto infondate, frutto di pregiudizi e di un’interpretazione palesemente
errata dei Testi.
Data la lunghezza del capitolo, mi è sembrato
utile riportarne in apertura il sommario.
Stampato in formato A 4 il
capitolo consta di 134 pagine (carattere Bodoni MT corpo 16). In compenso la lettura è molto più
comoda. In carattere Bodoni MT corpo 14
risulta di 103 pagine, ma piuttosto fitte allo sguardo, meno agevoli a
leggersi.
Qualcuno potrebbe chiedersi: perché occuparsi
di Spinoza, con un excursus che sembra per specialisti? Rispondo:
non mi occupo delle ardue questioni metafisiche inerenti allo spinozismo
(la nozione della sostanza come “causa sui” e il suo rapporto con gli attributi,
l’anomala nozione di causalità costruita da Spinoza del tutto scissa dall’idea
del fine, la nozione di un Dio immanente consustanziale alla natura, la visione
di una realtà dominata dal principio di necessità etc). Mi occupo della sua “esegesi biblica” critica
e dissolvente, considerata ancor oggi
quale itinerario intellettuale necessario al pensiero moderno per invocare la
libertà di parola e religiosa. Si tratta di argomenti che anche chi non ha
dimestichezza con la filosofia può affrontare, se si arma della necessaria
pazienza. I capziosi argomenti elaborati da Spinoza contro il Nuovo Testamento
sono ancora oggi invocati dai nemici della vera fede: per esempio, che gli
Apostoli parlassero come “dottori privati” e non come predicatori che diffondevano
verità di origine sovrannaturale. O che insegnassero dottrine contrastanti tra
di loro.
Spinoza è stato un pensatore estremamente
importante, per l’influenza che ha avuto nello sviluppo successivo. Ebreo olandese, rinnegatore del giudaismo al
pari di Marx (che aveva studiato a fondo la sua opera principale), cacciato
formalmente dalla Sinagoga, diede un potente contributo alla visione del mondo
che ne escludeva Iddio, relegandolo in una “sostanza” infinita, esistente ab aeterno, ‘causa sui’ senza un fine, “sostanza”
che non poteva non possedere la medesima necessità impersonale della
natura. La sua opera più famosa, “Ethica
more geometrico demonstrata”, pubblicata postuma, non è ovviamente solo
un’etica. È un trattato di metafisica,
di alta speculazione che ridisegna completamente la realtà escludendone con
rigorose deduzioni la necessità di un creatore (rigorose, rispetto alle proprie
premesse) per giungere all’esaltazione della libertà della mente umana contro
la tirannia delle passioni, libertà da raggiungersi con mezzi puramente
intellettuali, con la “potentia intellectus” affrancatosi infine da ogni
ipoteca divina.
La I delle cinque parti dell’Ethica è dedicata
a Dio (“De Deo”, di trentasei proposizioni, l’ultima delle quali seguìta da una
lunga Appendice nella quale il filosofo polemizza accanitamente contro l’idea
di un Dio Creatore). A mio avviso,
questa trattazione spinoziana del concetto di Dio rappresenta l’esatto
contrario del concetto di Dio, creatore e trascendente, Dio vivente, spiegato
da san Tommaso nella ‘Summa Theologiae’, Ia, Questiones da II a XIV. Potremmo dire: dalla tomistica “causa prima” – Dio come
causa prima della catena dell’essere, da Lui creata per la sua gloria e quindi
per un fine sovrannaturale - alla
spinoziana “causa sui”, Dio come sostanza che è causa infinita di se stessa, simultaneamente
res cogitans e res extensa senza una finalità, senza nulla creare, dominata dall’arida
necessità che compare nella natura; non creata – la natura – ma infinita in
quanto a sua volta attributo della sostanza divina come res extensa,
realizzante ogni perfezione già per il fatto stesso di esistere.
Pochi certamente leggono oggi Spinoza e ancor di
meno l’Aquinate. Tuttavia, Spinoza ha
posto dei princìpi, quelli di un panteismo che si risolve in un immanentismo
radicale esaltante la libertà interiore che procurerebbe all’uomo, una volta
liberatosi della fede nel Dio trascendente e vivente; princìpi i quali vengono
continuamente riproposti, in forma volgarizzata, nella cultura oggi prevalente
in Occidente, impregnata com’è di avversione per la vera religione e
sprofondante nel nichilismo. Albert
Einstein, a chi gli chiedeva se credesse in Dio, rispondeva che credeva in Dio
ma nel Dio di Spinoza, “Deus seu natura”.
Tant’è che affermò esser solo “una credenza per anime fiacche” quella di
chi (come i cristiani) credeva nella resurrezione dei corpi. Alla maniera di
Spinoza, vedeva nella natura solo una ferrea necessità, che a priori avrebbe
reso impossibile il miracolo e l’esistenza di una realtà al di là della natura
stessa].
* * *
Cap.
XVI. La libertà religiosa della
Dichiarazione ‘Dignitatis humanae’ laico corpo estraneo nel Vaticano II?
Sommario :
1. Secondo mons. Gherardini, la ‘Dignitatis
humanae’ (= DH) apre la strada all’indifferentismo religioso e morale;
2. La supposta continuità di DH con la
dottrina della Chiesa: gli argomenti del
prof. Cantoni;
2.1 Non
il magistero anteriore bensì la roncalliana “Pacem in terris” propugnava la
nuova dottrina, fissata nell’ambiguo proemio di DH;
3. Una
timida critica del prof. Cantoni al Concilio, che coglie tuttavia una lacuna
essenziale di DH;
4. La
DH “caso tipico moderno dello sviluppo dottrinale”?;
5.
L’idea della “libertà religiosa” è storicamente un risultato delle
Guerre di Religione e del deismo professato dalle filosofie secolaristiche;
6. La
critica tendenziosa di Spinoza alle Sacre Scritture quale presupposto del
concetto di ‘libertà religiosa”;
6.1
L’immanentismo di Spinoza nega a priori la possibilità stessa del
Sovrannaturale e quindi del miracolo;
6.2
Anche la filologia dimostra, contro Spinoza, che gli Apostoli non
insegnavano come semplici ‘dottori privati’;
6.3 La
predicazione apostolica è unitaria e in ogni sua forma viene dallo Spirito
Santo;
6.4 Per
sostenere che le Lettere degli Apostoli non erano ispirate, Spinoza altera il
senso di Mt 10, 19-20 e dell’incipit delle Lettere stesse;
6.5 Per
sostenere, alla fine, che gli Apostoli non predicavano una dottrina comune,
Spinoza altera il senso di Rm 15, 20;
6.6 Il
diritto ad una libertà religiosa fondata sulla coscienza individuale presuppone
una religione di Stato solo ‘civile’, priva di ogni elemento sovrannaturale,
religione incompatibile con il Cristianesimo;
6.7 La
vantata libertà di coscienza teorizzata da Spinoza è fictio ed instrumentum
regni;
7. Come
ha potuto il Concilio ‘far suo’ questo principio della libertà religiosa quale
diritto assoluto della persona, che presuppone uno Stato agnostico e ateo,
quale lo Stato moderno? Su quali basi?;
8. DH
2, che definisce il uovo concetto della libertà religiosa, appare minato da
gravi aporie e propone un concetto contraddittorio di verità, incompatibile con
quello di verità rivelata da Dio;
8.1
Quale concetto di verità ci propone la ‘Dignitatis humanae’? Un concetto
non conforme alla Tradizione della Chiesa, perché incompatibile con quello di
verità rivelata;
9. La
dottrina della ‘libertà religiosa’ affonda le sue radici nella
Rivelazione? Dall’analisi dei testi, non
si direbbe;
10. I
Martiri hanno offerto la loro testimonianza per render gloria a Dio e
convertire i Pagani, assai più che per la ‘libertà religiosa’, ed aspiravano ad
uno Stato cristiano;
11. La
DH salvaguardia l’unicità del Cattolicesimo?
La cosa è alquanto dubbia;
12.
Quale ‘diritto naturale’ ci propone la ‘Dignitatis humanae’?
* * *
1. Secondo
Mons. Gherardini, la “Dignitatis humanae” apre la strada all’indifferentismo
religioso e morale
Il capitolo più lungo
del suo saggio, il prof. Cantoni lo dedica al “caso serio” della libertà
religiosa, in relazione allo “sviluppo della dottrina cristiana[1]. È un capitolo ricco di lunghe citazioni nel quale viene difesa a
spada tratta la nuova dottrina della libertà religiosa propugnata dal Vaticano
II, considerata notoriamente tra i punti di “manifesta rottura” con il
Magistero precedente da tutti i critici del Concilio. Il testo si trascinò a lungo in Aula
provocando aspri dibattiti, come si può facilmente immaginare. Mons. Gherardini, nel suo primo libro sul
Concilio, quello sul “discorso
da fare”, ha dedicato venticinque fitte pagine di riflessioni a questa
famosa Dichiarazione. Il prof. Cantoni
non si avventura in una confutazione articolata. Più comodamente, si limita alla
sintetica critica nei confronti della libertà
religiosa del Vaticano II, contenuta nell’Epilogo di Quod et tradidi
vobis[2]. Ciò gli è sufficiente per affermare
perentoriamente che Mons. Gherardini ha affermato cose assolutamente false[3]. Osserviamo, dunque, attentamente.
Il prof. Cantoni
riporta in apertura la critica dell’illustre teologo. Qual è stato l’errore della Dignitatis
humanae? Non si è limitata a
mantenere “le due immunità che la Chiesa ha sempre difeso”, e che sono: “l’immunità dalla costrizione a pensar ed
agir in conflitto con le proprie convinzioni, e quella di esser con la forza
impedito di praticar in pubblico o in privato la propria religione”. Queste “immunità” appaiono effettivamente
“fondate nella persona umana e quindi, in ultima analisi, nella natura stessa
dell’uomo”. Cosa ha fatto, allora, il
Vaticano II? Ha parlato di queste
immunità “in modo non perfettamente corretto.
Considerando la libertà religiosa nella cornice del pluralismo
contemporaneo, vide nella compresenza delle varie e spesso contraddittorie
religioni non un male da tollerare, ma un bene da tutelare, riconoscendo ad
ogni Credo pari dignità ed identici diritti […]. Il diritto d’ognuno all’autodeterminazione
diventava così la ragione giustificativa dell’indifferenza di fronte a verità
ed errore […]. Chi ne fa una questione
di linguaggio, non si rende conto che l’urto, anziché fra parole di diverso
significato, è fra i contenuti dei significati diversi: diversa, insomma, è la sostanza della
dottrina. E la diversità è di per sé rottura,
non continuità”[4].
Questo il pensiero di
Mons. Gherardini sull’argomento, come riportato dal prof. Cantoni, al quale si
debbono le parentesi quadre nel testo.
Quest’ultimo postilla: questa
Dichiarazione “implicherebbe insomma un’aperta professione di indifferentismo,
più volte condannato dalla Chiesa”[5]. Accusa poi l’illustre teologo di non aver
citato la “bibliografia cospicua” sul “tema della continuità della Dignitatis
humanae con il magistero precedente”[6]. Di questa bibliografia riporta in nota un
lunghissimo elenco, di due pagine[7]. Osservo:
il fatto che non l’abbia citata, non significa che Mons. Gherardini non
ne sia a conoscenza. Ma non è questo il
punto. Se si legge l’elenco fornito
dall’Autore, si nota che si tratta in gran parte di contributi usciti dalle università
e dagli istituti pontifici, in genere tesi a dimostrare la validità della
vulgata impostasi, ossia la perfetta conformità dottrinale della novità
clamorosa di DH con tutto il magistero precedente. Ma i lavori di Mons.
Gherardini non sono mica tesi di laurea, nelle quali il laureando deve
diligentemente elencare tutte le fonti che ha consultato per ben impressionare
la Commissione sulla serietà della sua ricerca.
Tralasciando
quest’insignificante critica del prof. Cantoni, vengo all’osservazione secondo
la quale Mons. Gherardini avrebbe il torto di accusare il Concilio di “aperta
professione di indifferentismo”. Per la
verità, dal passo citato da Don Cantoni, non mi sembra che Mons. Gherardini
accusi il Concilio di aperta professione di indifferentismo, visto che
afferma: “chi ne fa una questione di
linguaggio non si rende conto etc.”, riferendosi evidentemente allo
spirito della DH, che mirava ad emanciparsi dal linguaggio del Magistero
anteriore (Gregorio XVI, Pio IX, Leone XIII, S. Pio X, Pio XII), il quale
condannava senza remissione la cosiddetta “libertà religiosa” quale espressione
del “diritto d’ognuno all’autodeterminazione”.
L’accusa di Mons. Gherardini mi sembra più calibrata, anche se la
sostanza ultima non cambia di molto: DH
insegna una dottrina “diversa”, questo è il punto, che di per sé si dimostra
“in rottura” con la tradizione e apre oggettivamente le porte
all’indifferentismo. Quanto ne fossero
consapevoli i Padri conciliari, è questione a ben vedere secondaria, che non
riguarda noi ma la loro coscienza.
Per capire al meglio
la critica di Mons. Gherardini bisogna però considerare, secondo me, anche la
parte tralasciata dal prof. Cantoni.
Perché è un errore dottrinale, per i Cattolici, “riconoscere ad ogni
Credo pari dignità ed identici diritti”?
Perché in tal modo si prevarica nei confronti dell’unica verità
: "Il problema della verità
veniva così non superato, ma ignorato:
verità ed errore indisturbatamente insieme”[8]. Che cosa si intende qui con “il problema
della verità”? Il fatto che la Verità
Rivelata non può esser messa sullo stesso piano dell’errore ossia dei Credi
delle religioni non rivelate (sia detto senza offesa per nessuno). E tantomeno quando si vuol far prevalere “il
diritto d’ognuno all’autodeterminazione”.
Questo “diritto” non può esser più forte del diritto dell’unica Verità
rivelata da Dio ad esser professata liberamente e ad esser tutelata nei
confronti dell’errore, il che implica che le altre religioni, non vere perché
non rivelate, devono esser ammesse (si
diceva una volta “tollerate”) subordinatamente all’unica e vera e a certe
condizioni, per esempio che i loro precetti non violino i buoni costumi e
l’ordine pubblico. E quindi, ammesse
appunto come un male da tollerare per esigenze imposte dall’opportunità e dalla
carità cristiana. C’è dunque un
“problema della verità” in relazione alla “libertà religiosa” e di questo
problema il prof. Cantoni non sembra rendersi conto. Della verità che inerisce oggettivamente
all’unica e vera religione, imponendo il suo
riconoscimento nella società da parte dell’autorità costituita, che non
può restar indifferente ad essa, poiché anche sull’autorità costituita grava
l’obbligo di conoscere ed attuare la volontà dell’unica vera religione
rivelata, la Cattolica Apostolica Romana.
Il prescindere dal
problema della verità, comporta per Mons. Gherardini anche un’altra
conseguenza, estremamente negativa, esposta nel secondo passo messo tra
parentesi dal prof. Cantoni. “Questo
prescindere dal problema del vero/falso o buono/cattivo scioglieva il soggetto
umano dalla sua stessa obbligazione naturale alla ricerca e alla scelta del
bene con relativa fuga dal male, alla conoscenza di Dio, all’osservanza della
sua legge, almeno nei limiti di quella naturale”[9]. È un peccato che il prof. Cantoni abbia
tralasciato anche questo spunto critico di Mons. Gherardini, che mi sembra del
massimo interesse. Esso spinge a
riflettere su questo dato essenziale:
che l’etica e quindi il comportamento morale cui ciascuno di noi è
tenuto secondo l’umana natura, non può prescindere dalla ricerca dell’autentica
verità in religione, dato che è la religione a fondare l’etica. Tutti i tentativi di fondare l’etica sulla
“sensibilità” o sul “sentimento” o sulla “ragion pratica” o addirittura
sull’”utile”, a cosa hanno portato?
Come ho ricordato
prima, Mons. Gherardini ha dedicato un intero capitolo del suo primo libro sul
Concilio al problema spinoso della “libertà religiosa”. Riporto qui alcune sue
osservazioni. 1. L’affermazione di DH 9
che la libertà religiosa ha il suo fondamento nella Rivelazione, se non diretto
almeno indiretto, non sembra potersi effettivamente appoggiare ai Testi
Sacri; 2. “Le considerazioni e gli
enunciati [di DH] sulla libertà religiosa fan di essa un principio d’etica
sociale, o un puro e semplice monito, indirettamente rivolto a quegli Stati che
con la Chiesa stian comportandosi – o si sian precedentemente comportati – come
tiranni? Come far pervenire, e
soprattutto come render operativo il pensiero del Concilio presso quegli Stati
che oggi aman definirsi “laici”, o seguon un certo relativismo morale, o
esibiscon un vero e proprio indifferentismo religioso e, per definizione, si
pongono al di là – se non contro – ogni affermazione di libertà religiosa?”[10]; 3. La
riduzione della religione “all’esperienza puramente personale” nell’Occidente
di oggi (dominato dal relativismo dei valori) non sarà involontariamente dipesa
“anche dall’esaltata dichiarazione conciliare DH?”; 4. Perché la Chiesa Cattolica sostiene oggi
con tanta sollecitudine come diritto personale e comunitario, fondato sulla
Parola di Dio e sulla natura umana, “una libertà di cui ieri non parlò o
considerò diversamente”?[11]. Ricordo, inoltre, che in questo capitolo del
suo libro, Mons. Gherardini, in un breve excursus storico, mostra come la
Chiesa non abbia mai proceduto a conversioni forzate, predicando sin dagli
inizi la necessità di una adesione del tutto libera e dichiarando sempre nulle
secondo il diritto le eventuali conversioni forzate o i battesimi di figli di
non cattolici effettuati contro la volontà dei genitori. Le eccezioni a questa politica furono poche e
dovute soprattutto all’errata iniziativa di qualche imperatore, come Eraclio o
Carlo Magno. Ma vediamo gli argomenti
del prof. Cantoni contro Mons. Gherardini ossia la sua difesa
dell’interpretazione dominante.
2. La
supposta continuità di DH con la dottrina della Chiesa: gli argomenti del prof. Cantoni
Il prof. Cantoni vuole
dimostrare la perfetta continuità della nuova dottrina muovendo innanzitutto dalle dichiarazioni della Prima
Sedes. Riporta pertanto un lungo passo
dell’ormai celebre discorso papale del 22 dicembre 2005, nel quale si fissa il
canone della “riforma nella continuità” quale unico criterio valido per
interpretare le novità emerse dal Vaticano II.
Nel suo discorso, il Papa apporta anche l’esempio del nuovo modo di
concepire la “libertà religiosa” da parte della Chiesa. Nel far adesso suo questo “principio
essenziale dello Stato moderno”, afferma, il Concilio “ha ripreso nuovamente il
patrimonio più profondo della Chiesa”.
Infatti, secondo il Papa, i Martiri della Chiesa primitiva sono morti
per la loro fede ma anche “per la libertà di coscienza e per la libertà di
professione della propria fede”[12]. Allora la Chiesa, nel coniugare le esigenze
della fede con quelle della libertà di coscienza cara allo Stato moderno, si
riprenderebbe il suo “patrimonio più profondo”, quello dei Martiri. Commenta il prof. Cantoni: “qui il problema viene reinterpretato in modo
nuovo”. In effetti, non mi sembra che
fosse mai stata avanzata da parte cattolica un’interpretazione del genere, che
sembra mettere in contraddizione tutta la Chiesa preconciliare con il
“patrimonio più profondo” della Chiesa stessa.
Non credo si manchi di rispetto al Romano Pontefice se si afferma che queste
sue dichiarazioni, rilasciate come dottore privato, dovrebbero essere
verificate nel confronto con la dottrina precedente e i fatti della storia, in
particolare per quanto riguarda il significato che i Martiri attribuivano alla
loro testimonianza. È vero che volevano
morire anche per la libertà di coscienza come la intendiamo noi oggi?
Del discorso del Papa,
Don Cantoni fa un’applicazione rigida, senza verifiche di sorta. Egli ne ricava che “i princìpi non sono forme
a priori”, essi devono potersi “innervare al reale in modi e forme sempre nuove
e mutevoli”. Ciò vale evidentemente
anche per “il tema della libertà religiosa”, che “è un tema di morale sociale”. Infatti, se “i princìpi morali fondamentali
sono immutabili, le loro applicazioni possono cambiare in funzione delle
situazioni”. E come si evita il pericolo
di cadere nella “inaccettabile morale della situazione”[13]? La morale “della situazione”, lo ricordo, fu
un’invenzione dell’Esistenzialismo, ateo e nichilista. Essa sosteneva che la regola morale nasce
unicamente dall’esigenza della “situazione” concreta nella quale si trova
l’individuo, come vissuta secondo le sue soggettive esigenze vitali, delle
quali deve ritenersi l’unico giudice. Ad ogni “situazione” la sua “morale”.
L’Esistenzialismo rendeva pertanto impossibile ogni morale degna di questo
nome. Il pericolo di cadere in un
nichilismo del genere non sussiste, per il prof. Cantoni, perché la “morale
della situazione” viene in essere “solo quando si nega la presenza di essenze e
nature immutabili e, conseguentemente, l’esistenza di atti “intrinsecamente
cattivi”, tali cioè che nessuna motivazione o situazione potrà mai coonestarli”[14]. E la dottrina cattolica, lo sappiamo, ammette
di certo sia le “essenze” che gli atti “intrinsecamente cattivi”.
La “morale sociale”
(cattolica) lascia dunque un legittimo margine di adattamento a situazioni
nuove nel rispetto dei princìpi fondamentali.
L’esempio classico in materia è quello del “prestito ad interesse”, nei
cui confronti, come è noto, l’atteggiamento della Chiesa è mutato nel corso dei
secoli: dalla condanna più radicale si è
passati alla sua accettazione, sia pure non incondizionata[15]. La tipologia della “libertà religiosa” sembra
allora assimilabile, per l’autore, a quella del “prestito ad interesse”, in
quanto espressione di una “morale sociale” che può adattarsi ai tempi, entro
certi limiti.
In parallelo con
questa evoluzione nei confronti del modo di concepire il prestito ad interesse,
l’Autore, sempre appoggiandosi al discorso del Papa, delinea il mutato
atteggiamento della Chiesa nei confronti dello Stato moderno, in passato
condannato già per il fatto stesso della sua laicità. “Nella
DH la Chiesa formula un giudizio sui doveri dello Stato in materia
religiosa, ma lo fa nella consapevolezza che lo Stato, in quanto organizzazione
della società, ha cambiato considerevolmente nel corso del tempo, in
particolare nell’età moderna”[16]. Che la forma dello Stato sia
“considerevolmente” cambiata “nel corso del tempo”, soprattutto a partire dalla
Rivoluzione Francese, non può esserci dubbio alcuno. Ma com’è cambiato, in meglio o in
peggio? Citando sempre il Papa, l’Autore
sostiene che è cambiato in meglio. Si
tratterebbe di un modello di Stato moderno di tendenze più moderate rispetto a
quelle apparse nelle “tendenze più radicali” della Rivoluzione Francese;
modello quale si vede, ad esempio, nel costituzionalismo americano. Questo tipo
di Stato, evidentemente democratico, non sarebbe ostile al Cattolicesimo. Lo dimostrerebbe il fatto che, soprattutto
dopo la Seconda guerra mondiale, “uomini di Stato cattolici avevano dimostrato
che può esistere uno Stato moderno laico, che tuttavia non è neutro riguardo ai
valori, ma vive attingendo alle grandi fonti etiche aperte dal cristianesimo”[17].
La frase è del
Papa. A quali uomini di Stato cattolici
si riferiva egli? Forse ad Adenauer.
O anche a De Gasperi? Ma può effettivamente esistere “uno Stato
moderno laico” che tuttavia sia capace
di “attingere alle grandi fonti etiche aperte dal Cristianesimo”? E quali sarebbero queste “fonti”? Rispetto per il Cristianesimo e nutrimento
spirituale dalle sue fonti si possono trovare presso singole personalità del
mondo laico. Ma l’evoluzione o meglio l’involuzione dello “Stato moderno
laico”, arrivato oggi a tutelare con legge dello Stato le deviazioni morali e
gli orrori che ben conosciamo, non
permettono forse di considerare troppo ottimistica la considerazione nella
quale il Pontefice sembra tenere lo Stato moderno? Uno Stato per principio senza religione,
senza Dio, senza morale, preoccupato quasi esclusivamente del benessere
materiale dei suoi cittadini!
Il problema, ben
presente a Mons. Gherardini, rappresentato dall’attuale, gravissima involuzione
dello “Stato laico”, i cui “valori” sono sempre più distanti da quelli
cristiani, non tocca il prof. Cantoni.
L’accettazione del principio della libertà religiosa da parte della
Chiesa è dunque avvenuta sul presupposto di una riconciliazione con lo Stato
laico, in quanto capace di non essere “neutro riguardo ai valori”. Questa (supposta) apertura dello Stato laico
a “valori” riconducibili in qualche modo al Cristianesimo, permette allora di
accettarne certi principi essenziali, quali la libertà religiosa. Così avrebbe ragionato il Concilio. La libertà religiosa è infatti “principio
essenziale dello Stato moderno” e la Chiesa, riconciliandosi con quest’ultimo,
lo avrebbe adesso accettato, naturalmente non per “canonizzare il relativismo”
(che mette tutte le religioni sullo stesso piano), ma per far valere nella
società il principio che “la verità non può esser imposta dall’esterno” al
soggetto: essa “deve esser fatta propria
dall’uomo solo mediante il processo del convincimento”[18].
È sempre il Papa che
sta parlando. Egli mette in guardia dal
cadere nell’equivoco di credere che l’adozione del principio della libertà
religiosa significhi accedere in qualche modo ad una visione relativistica dei
valori, sorgente di indifferentismo per quanto riguarda la religione. Che il Concilio non sia caduto in
quest’errore, risulta chiaramente, secondo il prof. Cantoni, già dall’art. 2 di
DH, che contiene in pratica le dichiarazioni di principio di tutto il
documento. Vi si proclama che “la
persona umana ha diritto alla libertà religiosa”. Si tratta di un diritto “che si fonda
realmente sulla stessa dignità della persona umana”. In cosa consiste concretamente questa
libertà? Nel lasciare del tutto “immuni
da coercizione”, da chicchesia esercitata, in modo che “in materia religiosa
nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza” e “sia impedito ad agire
in conformità alla sua coscienza privatamente o pubblicamente”. Inoltre, questo diritto deve esser
“riconosciuto e sancito come diritto civile dall’ordinamento giuridico”(DH
2).
Nessuno deve esser
costretto ad abiure o conversioni forzate, nessuno deve esser impedito
nell’esercizio del culto della sua religione.
Affermato in modo così assoluto per tutte le religioni, questo diritto
alla libertà religiosa non comporta il livellamento di tutte le religioni, come
se fossero tutte uguali? Non c’è
pericolo, fa rilevare il Nostro, poiché il Concilio precisa che la libertà
religiosa “riguarda l’immunità dalla coercizione nella società civile, essa
lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere morale dei singoli
e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo” (DH 1,
contenente il Proemio).
Questa “immunità dalla
coercizione” in materia di convinzioni religiose, ricorda anche il prof.
Cantoni, “ha sempre fatto parte della convinzione e della prassi
cattoliche”. La “tolleranza dei culti
c’è sempre stata in territorio cristiano”, tranne che per “eretici e scismatici
(anche se in modo molto ridotto e differenziato)”, considerati come traditori
della fede che andavano puniti (perché, ricordo, oltre a distruggere l’unità
della Chiesa, con le loro false dottrine spingevano le anime verso la Gehenna)[19]. Ma questa “tolleranza” o “immunità”, mi
chiedo, era intesa come fondata su di un diritto naturale incoercibile della
persona alla libertà religiosa o sulla carità cristiana, unita a semplici
criteri di opportunità, che spingevano a concedere una più o meno ampia libertà
di culto? È noto che un diritto di quel
tipo non veniva affatto riconosciuto dalla dottrina della Chiesa, nemmeno
quando Pio XII annoverava tra i diritti fondamentali della persona “il diritto
al culto di Dio, privato e pubblico” (vedi infra). Però, secondo il prof. Cantoni, “sul punto”,
ossia nella delicata materia della libertà religiosa, “si era innescato uno
sviluppo che DH porta consapevolmente a compimento”, come risulta dalle righe
finali dell’art. 1 o Proemio:
“Inoltre il sacro Concilio, trattando di questa libertà religiosa, si
propone di sviluppare la dottrina dei sommi Pontefici più recenti intorno ai
diritti inviolabili della persona umana e all’ordinamento giuridico della
società”.
Una simile
dichiarazione d’intenti già dimostrerebbe, secondo l’Autore, la continuità
della dottrina del Vaticano II. Ma qual
era questa “dottrina” sui diritti della persona e sull’ordinamento giuridico
della società, che il Concilio si proponeva di sviluppare? Si trattava degli approfondimenti in tal
senso apportati dai Papi nei decenni precedenti, per difendere l’umanità
dall’avanzata dei regimi totalitari, sino alla Pacem in terris di
Giovanni XXIII, abbondantemente citata in nota assieme ad un famoso
radiomessaggio di Pio XII. La nuova
dottrina sulla libertà religiosa costituirebbe dunque il coronamento della
dottrina precedente sui diritti inviolabili della persona.
Da ciò l’autore conclude che “è dunque
assolutamente falso affermare, come fa mons. Gherardini, che: “[il Concilio]
vide nella compresenza delle varie e spesso contraddittorie religioni non un
male da tollerare, ma un bene da tutelare, riconoscendo ad ogni Credo pari
dignità ed identici diritti””[20]. In cosa sarebbe consistita “la falsità” di
Mons. Gherardini? Se il “dunque”, come
da sintassi, collega il presente periodo al precedente, la falsa
interpretazione consisterebbe nell’attribuire ad una dottrina (quella del
Concilio) che porta a compimento la dottrina pontificia più recente sui diritti
della persona, il peccato di aver
considerato ogni Credo come un bene da tutelare da parte dello Stato. Se ne
deve concludere che la dottrina del Concilio sarebbe uguale a quella
preconciliare, nella quale non v’è di sicuro l’accettazione di tutti i Credo
come un bene da tutelare, perché espressione di un diritto inviolabile della
persona alla libertà di coscienza.
2.1 Non
il Magistero anteriore ma la roncalliana ‘Pacem in terris’ propugnava la nuova dottrina, fissata
nell’ambiguo ‘Proemio’ di DH
Se noi andiamo a
controllare la Pacem in terris, che è dell’11 aprile 1963 (mentre la DH
è del 7 dicembre 1965, ultimo giorno del Concilio), non troviamo proprio la nuova dottrina al § 8,
intitolato, nella traduzione: “Il
diritto di onorare Dio secondo il dettame della retta coscienza”? Scriveva infatti Papa Roncalli: “Ognuno ha il diritto di onorare Dio secondo
il dettame della retta coscienza; e quindi il diritto al culto di Dio privato e
pubblico”[21]. Affermazione lapidaria, senza sfumature, che
fa parte di un elenco di “diritti” che l’Enciclica vuol riconoscere alla
persona in quanto tale. Un diritto
“naturale”, per esprimersi con una terminologia tradizionale. “Ognuno” qui è evidentemente ogni uomo, e il
culto che egli avrebbe il diritto di esercitare, in privato e in pubblico, non
può che riferirsi ad ogni religione esistente sulla faccia della terra. Ma dalla struttura della frase si evince che
il fondamento di questo diritto non è costituito dall’appartenenza
dell’individuo ad una religione esistente ma dal “dettame della retta
coscienza”. C’è l’idea di una scelta
della coscienza individuale che deve esser riconosciuta in quanto tale, quale
che sia, purché sia “retta”. E quand’è
che la coscienza è “retta” nel suo “dettato”, qual è il criterio per
stabilirlo? Il testo non lo dice.
Il testo roncalliano
prosegue con due citazioni, per dimostrare l’ortodossia dell’affermazione. La prima riguarda un noto passo di Lattanzio,
Padre della Chiesa vissuto nel IV secolo; la seconda proviene dall’Enciclica Libertas
praestantissimus sulla libertà umana, di Leone XIII, del 1888.
“Infatti, come afferma
con chiarezza Lattanzio: “Siamo stati
creati allo scopo di rendere a Dio creatore il giusto onore che gli è dovuto,
di riconoscere lui solo e di seguirlo.
Questo è il vincolo di pietà che a lui ci stringe e a lui ci lega, e dal
quale deriva il nome stesso di religione”.
Ed il nostro predecessore di i.m. Leone XIII così si esprime: “Questa libertà vera e degna dei figli di
Dio, che mantiene alta la dignità dell’uomo, è più forte di qualunque violenza
ed ingiuria, e la Chiesa la reclamò e l’ebbe carissima ognora. Siffatta libertà rivendicarono con intrepida
costanza gli apostoli, la sancirono con gli scritti gli apologisti, la
consacrarono gran numero di martiri col proprio sangue””[22].
Da queste due
citazioni, per il modo nel quale sono inserite nel contesto, sembra
indubbiamente che sia Lattanzio che Leone XIII propugnassero la libertà
religiosa o di culto come “diritto” che deriva dalla natura umana in quanto
tale e identico per tutte le religioni.
Ma Lattanzio, a quale “Dio creatore” si riferisce? Ad un Dio creatore in generale,
deisticamente, o al Dio rivelatosi in Cristo Nostro Signore, al Dio nel quale
credono i Cristiani? A quest’ultimo,
ovviamente, se solo si pon mente, oltre che a tutta la sua produzione, agli
altri passi delle sue Divinae institutiones, per esempio a 4,13,1 nel
quale analizza a fondo il rapporto tra il Padre e il Figlio, anche se con gli
strumenti di una teologia ancora imperfetta (S. Girolamo). E a chiarire in modo definitivo il concetto
che il “giusto onore” da rendere al vero Dio è in realtà solo quello che si
rende al Dio del Nuovo Testamento, valga quanto scrive in 4, 30, 11 della
stessa opera: “Solo la Chiesa Cattolica
possiede il vero culto. Qui è la fonte
della verità, dove risiede la fede, dov’è il tempio di Dio: e chi non vi sia entrato o l’abbia
abbandonato, è escluso dalla speranza della vita [eterna] e della salvezza”[23]. L’enciclica roncalliana usa pertanto
Lattanzio in modo a mio avviso del tutto improprio perché l’Apologeta non
riconosce in alcun modo ad ogni uomo in generale “un diritto di onorare Dio secondo
il dettame della retta coscienza”, quale che sia la sua religione. Sostiene, al contrario, che l’unico vero
culto è quello cristiano perché culto del vero Dio che si è rivelato nella
Chiesa, al di fuori della quale non c’è salvezza. La religione pagana per lui altro non è che
“stoltezza, con la quale questi cultori degli dèi non cessano di affliggerci”[24].
E vengo alla citazione
di Leone XIII. Ancor più della
precedente, essa sembra favorevole alla libertà di coscienza in religione
uguale per tutti, propugnata da Giovanni XXIII. Ma non si può che restar
stupiti da un simile uso del testo leonino, dato che esso si trova in un
documento che è proprio uno di quelli nei quali il riconoscimento di una libertà di coscienza in religione, come
diritto naturale di ogni individuo da potersi esercitare illimitatamente sempre
e dovunque, viene esplicitamente riprovato!
Leone XIII, dopo aver ricordato (contro gli errori di Manichei,
Protestanti, Giansenisti, Fatalisti) che la libertà dell’uomo, inerente alla
sua dignità di ente razionale creato da Dio, si doveva ammettere ma non si
poteva intendere in modo assoluto poiché doveva esercitarsi con il limite di
obbedire alla ragione, di perseguire il “bene morale” e di non discostarsi mai
dal “sommo fine” proprio dell’uomo (la vita eterna), ribadiva la condanna
dell’opinione di chi voleva concepire come “diritti naturali” la libertà di
pensiero, di espressione, di insegnamento e di “promiscua religione”. Infatti, scriveva, “se fosse stata la natura
a conferire questi diritti, sarebbe allor legittimo ricusare i comandi divini e
nessuna legge potrebbe temperare la libertà dell’uomo”. Cosa gravissima, evidentemente. Perciò, “questi tipi di libertà” si potevano
solo “tollerare”, con la dovuta moderazione, unicamente “si iustae causae
sint”, ad esempio per evitare mali peggiori, in certe situazioni”[25].
Contro la distorsione
operata da Pacem in terris 8, bisogna allora restituire alla frase di
Leone XIII il suo giusto significato ovvero ricollocarla nel suo contesto,
animato da uno spirito ben diverso da quello della Pacem in terris.
Dopo aver affermato
l’esistenza della libertà dell’uomo, nel senso del libero arbitrio, che lo
rende responsabile delle sue azioni, da sottoporre sempre al controllo della
ragione, Leone XIII ci rammenta che la nostra ragione deve sottoporsi alla
legge naturale, che è di origine divina (lex aeterna), e alla legge
umana, “promulgata per il bene comune dei cittadini”. Ciò significa che “la norma e regola della
libertà dell’uomo – singolo e in società – deve esser posta integralmente
nell’eterna legge divina”. Ragion per
cui, “la vera libertà non è tale da consentire di far ciò che si vuole […] ma
consiste nel far sì che le leggi possano ancor meglio farci vivere secondo i
dettami della legge eterna”[26]. Ciò stabilito, il Papa viene a “quella
[libertà] che è tanto propagandata [oggi], che chiamano libertà di coscienza [quem
conscientiae libertatem nominant]: e
se la si intende – scrive testualmente – come liceità di rendere o non rendere
a Dio il culto come piaccia a ciascuno [ut suo cuique arbitratu], gli
argomenti sopra addotti la confutano a sufficienza”[27].
Gli “argomenti”
risultano appunto dal concetto stesso della libertà dell’uomo, come esposto da
Leone XIII, secondo la filosofia cristiana tradizionale, ossia inquadrata nei
limiti posti ad essa dalla legge divina e naturale oltre che dal diritto
positivo. Poiché la legge divina (lex
aeterna) deve sempre esser riflessa dalla legge umana, che disciplina l’uso
che l’uomo fa della sua libertà (fondata sul suo libero arbitrio), la “libertà
di coscienza” non potrà mai comportare una libertà indiscriminata per tutti i
culti religiosi. Lo impedisce la legge
divina, che pretende l’osservanza del culto del vero Dio. La “libertà di coscienza” dovrà pertanto
essere intesa nel modo giusto. Continua
l’encliclica: “Ma dall’opinione appena
vista può anche ricavarsi che sia lecito all’uomo in società, seguire e mettere
in pratica, con la coscienza di compiere un dovere, la volontà di Dio senza
alcun impedimento”. Segue la frase
citata dalla Pacem in terris: “E
proprio questa è la vera libertà, degna dei figli di Dio etc.”. La libertà religiosa che è lecito esercitare
nella società è quella dei “figli di Dio”, cioè dei Cristiani, che rende
l’onore dovuto al vero Dio, non la libertà per tutti ed ognuno di adorare
qualsivoglia divinità, in nome di un “diritto della persona” che (in questo
senso) il Papa non riconosce in alcun modo, nel prosieguo dell’Enciclica.
La “dottrina dei sommi
Pontefici più recenti intorno ai diritti inviolabili della persona umana” che
costituirebbe il fondamento della “libertà religiosa” che spetterebbe a ciascun
uomo, preesiste alla Pacem in terris, simultanea al Concilio ed ispirata
alla stessa mens? Nella nota n. 2 di DH
2, oltre all’enciclica roncalliana, e alla Libertas praestantissimus,
ripresa evidentemente sulla scia della Pacem in terris, si rammentano la
famosa enciclica Mit brennender Sorge del 14 marzo 1937 di Pio XI e il
non meno famoso radiomessagio di Pio XII, del 24 dicembre 1942, quali ulteriori
documenti dei Papi “più recenti”, che avrebbero insegnato la libertà religiosa
nel senso di DH.
Certamente, Pio XI e
Pio XII hanno rivendicato, di contro al totalitarismo nazista e comunista, i
diritti della persona umana, fondati sul diritto naturale e divino, ivi
compreso il diritto alla libertà religiosa.
Ma solo nel testo di Pio XII si può trovare uno spunto che
apparentemente anticipa l’impostazione della Pacem in terris. Vediamo.
DH 2 fa riferimento in
nota ad una pagina della Mit brennender Sorge nella quale il Papa
afferma: “Il credente possiede un
diritto irrinunciabile a confessare la sua fede e a praticarla nelle forme
confacenti. Leggi che soffocano od
ostacolano sia la confessione che la pratica di questa fede, contraddicono la
legge di natura”[28]. Il “credente”(Der gläubige Mensch) non
è qui l’uomo in generale ma il Cattolico.
L’enciclica riguardava la preoccupante situazione della Chiesa Cattolica
in Germania, ampiamente vessata dal regime nazista, che cercava di promuovere
una religione “cristiana” nazionale (i “Cristiani Tedeschi”) e sopprimeva le
scuole cattoliche, oltre a perseguitare in varie forme il clero per via
amministrativa. Dopo aver criticato, con
un linguaggio moderato nei toni ma chiarissimo nei concetti, i capisaldi
naturalistici e neopagani dell’ideologia nazista, l’enciclica si appellava al
diritto naturale per difendere il diritto dei Cattolici a professare e
praticare la loro religione e, in particolare, quello dei genitori cattolici a
educare i loro figli “nello spirito della vera religione e in accordo con i
suoi princìpi e comandamenti”[29]. L’appello al diritto naturale per
giustificare la libertà di professare la propria religione e di educare i figli
secondo i principi di questa, riguardava sempre i Cattolici ossia la “vera
religione” non tutte le religioni indiscriminatamente.
Vengo ora al
radiomessaggio natalizio di Pio XII, effettuato nel bel mezzo della seconda
Guerra Mondiale, nel quale egli menzionò, tra le vittime innocenti dell’immane
tragedia, anche “le centinaia di migliaia di persone, le quali, senza veruna
colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di stirpe, sono
destinate alla morte o ad un progressivo deperimento”[30]. Per giungere un giorno alla vera pace,
spiegava il Pontefice, occorreva “ridonare alla persona umana la dignità
concessale da Dio fin dal principio”.
Seguiva un elenco dei “fondamentali diritti della persona”, che gli
Stati dovevano rispettare: “il diritto a
mantenere e sviluppare la vita corporale, intellettuale e morale, e
particolarmente il diritto ad una formazione ed educazione religiosa; il
diritto al culto di Dio privato e pubblico, compresa l’azione caritativa
religiosa; il diritto, in massima, al matrimonio e al conseguimento del suo
scopo, il diritto alla società coniugale e domestica; il diritto di lavorare
come mezzo indispensabile al
mantenimento della vita familiare; il diritto alla libera scelta dello stato,
quindi anche dello stato sacerdotale e religioso; il diritto ad un uso dei beni
materiali, cosciente dei suoi doveri e delle limitazioni sociali”[31].
La frase sottolineata
sembra proprio la stessa della Pacem in terris, là ove essa dice:
“quindi il diritto al culto di Dio privato e pubblico”. Inteso come “diritto fondamentale della persona”,
tale diritto sembra effettivamente riconosciuto anche da Pio XII ad ogni
persona e quindi ad ogni religione alla quale la persona appartenga. Era proprio questo che voleva dire Pio XII? In base alla terminologia usata, il diritto
alla libertà religiosa sembra soprattutto quello dei Cattolici, visto che nel
“culto privato e pubblico” viene compresa anche “l’azione caritativa
religiosa”, espressione che si riferisce sicuramente alle opere di carità
tipiche della Chiesa Cattolica e vessate dal nazismo (per non parlare del
comunismo). Il “culto privato e pubblico” è allora quello cattolico, così ben
spiegato dal Papa nella posteriore Mediator Dei, del 1947. Anche il linguaggio usato per gli altri
riferimenti alla religione nell’elenco dei diritti della persona indica che si
tratta della religione cattolica. “Il diritto ad una formazione ed educazione
religiosa” della persona (sin dall’infanzia, evidentemente) era espressione
tipica per indicare il diritto dei genitori a far avere ai figli un’educazione
secondo i princìpi della religione cattolica; diritto, come si è ricordato,
conculcato in Germania dai nazisti.
Chiarissimo poi il riferimento al solo Cattolicesimo nell’indicazione
del “diritto alla scelta del libero stato”, se deve ricomprendere anche il
diritto individuale alla scelta dello “stato sacerdotale e religioso”
ossia di ognuno ad esser lasciato libero
di seguire la vocazione d’esser sacerdote o religioso (monaco conventuale,
“frate” nell’uso popolare). Sappiamo
quanto le vocazioni fossero avversate nella Germania nazista, per tacere sempre
dell’identico atteggiamento della Russia Sovietica.
Ma possiamo pensare
che, in quel terribile frangente storico, Pio XII volesse rivendicare il
“diritto della persona” a professare liberamente la sua religione solo per i
Cattolici, tanto più che egli si riferiva ai diritti fondamentali che avrebbero
dovuto riconoscersi agli uomini in un mondo che fosse uscito dalla guerra, in
un mondo capace di costruire finalmente la pace? E del quale i Cattolici erano solo
una parte? Non credo possiamo. E allora
Pio XII non sembra contraddire l’insegnamento precedente (di Pio IX, Leone
XIII) che, come si è visto, quel diritto non riconosceva? Tanto più che, cinque anni dopo, nella Mediator
Dei, egli scrisse che l’uomo ha il dovere di prestare “il debito culto
all’unico e vero Dio”, culto che è ovviamente quello della Chiesa
Cattolica. Se solo il culto cattolico è
rivolto al vero Dio, come poteva egli riconoscere quale “diritto fondamentale
della persona” il diritto al culto di Dio privato e pubblico che non fosse
quello cattolico? Quanto insegnato
nella Mediator Dei non è in contraddizione con il tenore del
radiomessaggio?
Così sembrerebbe. Ma a mio avviso il diritto della persona alla
libertà religiosa viene inteso dal Papa sempre nell’ambito della religione alla
quale la persona appartiene (quella del culto pubblico e privato che egli
professa) e non quale manifestazione individuale della sua coscienza o libertà
di pensiero, come sembra invece fare Giovanni XXIII, che introduce una
significativa variante perché sposta l’accento dal diritto all’esercizio della
propria religione (nella quale ci si trova oggettivamente e quasi sempre
per nascita) al diritto all’esercizio del culto che si ritiene individualmente
preferibile. Nella rivendicazione dei
“diritti fondamentali della persona” Pio XII non include la libertà di
coscienza e d’opinione, che sappiamo esser intesa dal pensiero laico liberale
come il valore assoluto.
Interpretato in questo
modo, l’assunto di Pio XII non mi sembra contraddica l’insegnamento anteriore
mentre lo stesso non può dirsi con certezza di quello di Roncalli. Si dirà:
Pio XII parla di diritto “fondamentale della persona” non di diritto
della religione. Vero. Ma la mancanza di qualsiasi riferimento al
“dettame della retta coscienza” dimostra che questo “diritto” andava per lui
giustificato in base all’appartenenza religiosa, che andava rispettata, anche
se l’unica religione vera era quella cattolica, che non poteva esser messa
sullo stesso piano di quelle non rivelate. Era l’appartenenza religiosa a
giustificare questo diritto, poiché non era giusto perseguitare qualcuno per il
solo fatto della sua religione di appartenenza; non era questo diritto a
giustificare l’appartenenza. Il senso
autentico dell’asserto pacelliano mi sembra dunque il seguente: in quanto persona, ognuno ha il diritto di
rendere a Dio il culto privato e pubblico della religione alla quale
appartiene, non quello di professare come religione (tutto) ciò che gli detta
la coscienza (“retta” fin che si vuole ma sempre individuale e non certo fonte
di verità rivelate). Quest’ultimo è
appunto il concetto laico della libertà della coscienza, che mette tutte
le religioni sullo stesso piano perché le considera tutte false.
L’interpretazione
estensiva del radiomessaggio, che sembra esser prevalsa, secondo la quale Pio
XII avrebbe già stabilito lo sviluppo nuovo, sancito poi da Giovanni XXIII in Pacem
in terris 8, forza il testo, poiché lo sviluppo nuovo è racchiuso proprio
nella frase aggiunta da Roncalli, che àncora questo diritto ad una libertà
assoluta della “retta coscienza”, sconosciuta a Pio XII, così come lo era ai
suoi predecessori. A mio avviso, nel
difendere il diritto naturale di ciascun uomo a praticare il culto della propria
religione di appartenenza, Pio XII, anche se si serviva dell’espressione
moderna “diritto fondamentale della persona”, non si discostava in realtà dallo
spirito con il quale S. Gregorio Magno, in una lettera al vescovo di Napoli
Pascasio, proibiva nell’AD 602 di impedire agli Ebrei di Napoli l’esercizio
pubblico e privato del loro culto (DS 250/480).
In un famoso sinodo
“degli Israeliti di Francia e del Regno d’Italia”, ordinato da Napoleone I nel
1806, Monsieur Avigdor, nizzardo, elevò spontaneamente ed inaspettatamente un
ispirato ringraziamento al Papato, approvato all’unanimità dall’assemblea, “per
aver protetto Israele durante la servitù di diciotto secoli tra le
Nazioni”. Dopo aver ricordato come i più
celebri “moralisti cristiani” antichi avessero sempre proibito le persecuzioni
e professato la tolleranza e la carità fraterna (faceva i nomi di S. Atanasio,
S. Giustino martire, S. Agostino, Lattanzio, S. Bernardo), egli si profondeva
nell’elogio dei Pontefici Romani, i quali, diceva, “hanno protetto e accolto
nei loro Stati gli Ebrei perseguitati ed espulsi da varie parti d’Europa”, e
degli “ecclesiastici di ogni paese che li avevano spesso difesi in vari Stati
di questa parte del mondo”, contro i Cattolici troppo zelanti o contro le
plebi, quando li volevano massacrare.
Seguiva un lungo ma incompleto elenco di nomi di Pontefici, a partire da
S. Gregorio Magno[32].
Perché ho voluto
ricordare questi precedenti storici, oggi
forse ignorati dai più? Per
arrivare a questa riflessione: il culto
ebraico, pubblico e privato, non era certo considerato culto al vero Dio,
come quello cattolico. E tuttavia era
ammesso ed anche protetto dal Papa. Se
diciamo che era solo “tollerato”, cosa cambia?
Era ammesso solo sulla base dello spirito di carità e per la futura
conversione di Israele o sulla base di un riconoscimento, anche tacito, di un
diritto, per forza di cose naturale, degli Ebrei a celebrare la religione nella
quale nascevano ed erano stati educati, anche se notoriamente ostile alla
nostra? A mio avviso, il riconoscimento
implicito di un diritto c’era, così come c’era nella dichiarata nullità
canonica del Battesimo dei figli degli Acattolici somministrato contro la
volontà dei loro genitori. Qui, non si
riconosceva il diritto naturale dei genitori sui propri figli, per ciò che
riguardava anche l’educazione religiosa?
Ora, il riconoscimento, sia pure implicito, di questo diritto non
impediva l’esistenza di limitazioni al suo esercizio. Le feste religiose ebraiche non erano certo
riconosciute come festività e il Sabato non era certo considerato giorno di
festa. C’erano poi altre restrizioni di
carattere pubblico. Similmente,
esistevano restrizioni giuridiche (a prescindere dalla loro effettiva
applicazione) nei confronti degli Ebrei per ciò che riguardava i loro rapporti
con i Cristiani. Ma le restrizioni
all’esercizio del culto non contraddicevano il riconoscimento (implicito) alla
titolarità di questo esercizio come titolarità di un diritto naturale? Si può pensare che vi contraddicessero solo se
si ha una concezione assoluta della libertà religiosa, come diritto
della persona ad una libertà di coscienza che non tollera alcun effettivo
limite al suo esercizio. Fino al
Vaticano II, questa concezione non è mai stata accettata dalla Chiesa Cattolica. Il diritto fondamentale alla libertà di culto
proposto da Pio XII mi sembra, pertanto,
compatibile con la distinzione tra titolarità del diritto e suo
esercizio, non sopprimibile questa titolarità ma gravata dalla possibilità di
restrizioni al suo esercizio nei confronti dell’esercizio dell’unica e vera
religione rivelata, quella Cattolica. La
proposta di Pio XII sembra limitarsi a formulare l’obbligo per lo Stato di non
perseguitare nessuno per la sua religione di appartenenza, non quello di
considerare tutte le religioni meritevoli di un’uguale tutela, in nome della
libertà individuale di coscienza, come farà poi il Vaticano II.
Dopo aver chiarito
quest’aspetto, torniamo alla cantoniana apologia della continuità della nuova
dottrina.
La dottrina dei sommi
pontefici “più recenti” (del solo Pio XII) si dimostra dunque solo in apparenza
conforme a quanto proposto poi dal Concilio.
Fa eccezione la Pacem in terris ma con essa siamo già alla
dottrina nuova, al Concilio. Ma la
fedeltà al deposito della fede sarebbe comunque garantita, secondo il prof.
Cantoni, dalla Professione di fede contenuta nel Proemio di DH, da me
già ricordata (vedi supra). Una
dichiarazione di intenzioni non è di per sé sufficiente a garantire
l’ortodossia di una dottrina che si presenti come nuova, poiché bisogna
comunque e sempre analizzarne il contenuto commisurandolo con la dovuta acribia
alla dottrina tramandata. E proprio da
questa analisi risalta l’ambiguità di DH 1.
“DH dichiara
piuttosto, anzi “il sacro concilio anzitutto professa [profitetur]”- e
l’espressione è di particolare gravità e importanza – che: “[…] Dio stesso ha fatto conoscere al genere
umano la via attraverso la quale gli uomini, servendolo, possono in Cristo divenire salvi e
beati. Crediamo che questa unica vera
religione sussista nella Chiesa cattolica e apostolica, alla quale il Signore
Gesù ha affidato il compito di comunicarla a tutti gli uomini, dicendo agli
Apostoli [segue il testo di Mt 28, 19-20].
E tutti gli uomini sono tenuti a cercare la verità, specialmente in ciò
che riguarda Dio e la sua Chiesa, e una volta conosciuta abbracciarla e
custodirla”[33].
I
motivi di perplessità che questo testo solleva sono molteplici: 1.
Ricorda che Cristo è “la via” ma non dice che è “l’unica via”, come forse
avrebbe dovuto; 2. il “possono in Cristo divenire salvi e beati”
è in realtà nell’originale “possano”(possint), che nella versione
francese, per motivi grammaticali, diventa “potrebbero”; 3. “l’unica e vera
religione” è sempre quella di LG 8 e UR 3, che “sussiste” nella Chiesa
Cattolica e nelle “Chiese e comunità” degli Acattolici, tant’è vero che il
testo non dice che sussiste “unicamente” nella Chiesa Cattolica, avverbio che
suggerirebbe la doverosa esclusione degli Acattolici; 4. la “Chiesa di Dio” è sempre la “Chiesa di
Cristo” che sussiste nella Chiesa Cattolica e presso gli Acattolici, come si è
visto. Il Concilio, nonostante l’uso del “profitemur” non sembra affatto
esprimersi con la gagliardia di una vera professione di fede. L’espressione “profitemur” potrà anche
apparire al prof. Cantoni “di particolare gravità ed importanza” ma resta il
fatto che essa si traduce in una “professione” di fede che usa il congiuntivo o
il condizionale, immergendo il tutto nell’aura incerta della possibilità, offerta
per di più da una Chiesa di Cristo che “sussiste” nella Chiesa Cattolica nel
modo che sappiamo cioè non integralmente.
3. Una
timida critica del prof. Cantoni al Concilio, che coglie tuttavia una lacuna
essenziale di DH
Anche i suoi difensori
ed apologeti rilevano che DH sembra accontentarsi di uno Stato “assolutamente
neutrale” in materia religiosa, cosa lontana dalla realtà. E in pratica impossibile, “perché
‘l’evangelizzazione integrale’ comporta anche l’evangelizzazione della società
e quindi, come risultato, anche dello Stato”. E “l’evangelizzazione”, mi
chiedo, può non essere “integrale”? Può
trascurare la salvezza dell’anima di una sola “pecorella smarrita”? Lo stesso Proemio
della DH, appena citato, non dice forse che permane intatta la dottrina
cattolica tradizionale sul dovere “delle società” nei confronti della vera
religione?[34]
Dovere di fare che
cosa, mi chiedo: il Concilio non
avrebbe potuto essere più esplicito? E
dovere “delle società” o anche dello Stato?
I due concetti non sono identici, indicano realtà strettamente connesse
ma non uguali. Se lo Stato diventasse
cristiano, osserva il prof. Cantoni, non potrebbe comunque mai applicare la
coercizione in materia religiosa, “perché il principio della non-coercizione in
materia religiosa, è un diritto naturale, che uno Stato cristiano è tenuto a
rispettare”[35]. Tant’è vero che la DH si è voluta cautelare
in questo senso, affermando addirittura che se in una determinata società
“viene attribuita ad un determinato gruppo religioso una speciale posizione
civile, è necessario che nello stesso tempo a tutti i cittadini e a tutti i
gruppi religiosi venga riconosciuto e
sia rispettato il diritto alla libertà in materia religiosa” (DH 6.3). Come a dire:
se la Chiesa Cattolica venisse nuovamente riconosciuta come religione
dello Stato italiano, questo riconoscimento non dovrebbe mai danneggiare “il
diritto alla libertà in materia religiosa” delle altre religioni riconosciute
dallo Stato. E poiché “il potere civile”
deve far sì che “l’uguaglianza giuridica dei cittadini non sia mai lesa per
motivi religiosi”, bisogna che non ci siano “discriminazioni” per questi
“motivi” (DH 6.4). Che cosa può
significare un asserto del genere, se non che tutte le religioni esistenti
nello Stato italiano avrebbero diritto agli stessi privilegi eventualmente
concessi alla religione cattolica, che, oltre ad essere l’unica vera, è parte
integrante della nostra identità nazionale da circa due millenni? Il centurione Longino, originario di
Lanciano, che per dovere d’ufficio trafisse con la lancia Nostro Signore
morente sulla croce, ricevendone in viso uno spruzzo di sangue che lo guarì da
un difetto alla vista, secondo una consolidata tradizione si fece
cristiano. E i primi pagani in assoluto
a farsi cristiani non furono il centurione Cornelio e altri componenti della
Coorte “detta l’Italica” di stanza a Cesarea Marittima in Palestina, composta
di volontari italici (Atti 10, 1 ss.)?
Il principio generale
che risulta da DH 6 mi sembra oggettivamente ostile al Cattolicesimo
perché impedisce ad uno Stato di diventare cristiano. Esso costituisce una pietra d’inciampo posta
alla conversione. Infatti, se lo Stato
deve sempre rispettare il supposto inviolabile diritto naturale di ogni singolo
e comunità religiosa ad esercitare il proprio culto senza restrizione alcuna,
non potrà mai diventare cattolico dato che il vero Cattolicesimo non può
ammettere un “diritto naturale” concepito in modo da non poter distinguere tra
il diritto dell’unica vera religione ad esser professata e quello delle
altre. L’intrinseca superiorità della
vera religione implica “discriminazioni” a sfavore delle altre, pur ammesse,
quando si tratti del loro esercizio. Si
ripropone pertanto in termini contraddittori il problema del rapporto tra “verità”
e “libertà”, lucidamente messo in rilievo da Mons. Gherardini (vedi supra,
§ 1 del capitolo). Come ha osservato di
recente uno studioso citato dal prof. Cantoni, “è un difetto di questo testo
conciliare che non sia andato sino in fondo nella sua problematica, astenendosi
dall’affrontare la temibile questione dei doveri dello Stato nei confronti di
Dio”[36].
Ma perché il Concilio
“non è andato sino in fondo”, tralasciando una questione così importante? Esso ha scritto che “le società” hanno il
dovere di ricercare in coscienza il vero Dio ma non ha avuto il coraggio di
proclamare questa verità anche per lo Stato.
Ciò che vale per “le società” non vale anche per gli Stati cioè per le
classi dirigenti e di governo, per le leggi che esse fanno? In realtà, mi sembra che la minoranza
progressista che ha menato le danze in Concilio sia rimasta coerente con sé
stessa. Data la prevalenza che si è
voluta concedere alla libertà della coscienza, intesa come diritto naturale,
per logica conseguenza lo Stato, vincolato al rispetto assoluto di questo
diritto, doveva restare neutrale e relegato nel ruolo di “guardiano notturno”
per quanto riguardava la libertà di coscienza.
Se si fosse detto che anche lo Stato aveva il dovere di ricercare il
vero Dio, sarebbe stato come dire che aveva il dovere di farsi cristiano, visto
che per un Concilio ecumenico della Chiesa Cattolica “il vero Dio” non può che
essere la Santissima Monotriade. E uno
Stato cristiano, pur ammettendo l’esercizio di culti diversi, non può certamente
metterli tutti sullo stesso piano della religione cristiana, che è la vera ed
unica e come tale da esso professata.
Uno Stato cristiano, come è avvenuto in passato, farebbe prevalere la
“verità” (della Rivelazione) sulla “libertà” (della coscienza individuale).
Esiste quindi “un
limite” in DH, riconosce il prof. Cantoni: “limite ma non errore. La contemporanea insistenza del magistero
sulle radici cristiane dell’Europa tende a superarlo”[37]. Questo “limite” non è dunque “un
errore”? Forse in sé non lo è, ma a mio
avviso deriva da un errore, quello di voler concepire come diritto naturale
inviolabile della persona il diritto alla libertà religiosa per tutte le
religioni. Diritto assoluto, di
fronte al quale lo Stato deve inchinarsi, rinunciando così a priori alla
propria eventuale conversione a Cristo!
Che Giovanni Paolo II
e Benedetto XVI abbiano tentato di “superare” questo limite, cercando di far
inserire nei princìpi fondamentali della Costituzione dell’Europa Unita la
clausola sulle “radici cristiane” del nostro continente, è senz’altro
vero. Ma ogni tentativo è fallito, come
ben sappiamo. L’ideale dello Stato
cristiano, cacciato dalla porta ad opera del Concilio, non poteva rientrare
dalla finestra, mediante la Costituzione dell’Unione europea. Ed era inevitabile che fosse così, se si
guarda al contenuto ultralaico ed anticristiano dei princìpi fondamentali di
questa Costituzione: al di là della
retorica umanitaria e solidaristica essi codificano il materialismo e
l’edonismo spinto oggi dominanti nelle
nostre società atee e miscredenti.
La menzione delle “radici cristiane” in un documento del genere sarebbe
stata a dir poco fuori posto.
4. La
DH “caso tipico moderno dello sviluppo dottrinale”?
Nonostante
l’ammissione di questo (grave) “limite” della DH, che comporta di per sé la
messa in ombra di un aspetto essenziale della dottrina della Chiesa sui
rapporti tra il potere civile e la religione, il prof. Cantoni vuol presentare
la DH addirittura come un “caso tipico” dello “sviluppo dottrinale che
caratterizza il magistero cattolico”:
altro che “rottura” con la Tradizione della Chiesa! A questo proposito,
nella seconda metà del capitolo, riespone sinteticamente la dottrina del
cardinale Newman sul concetto di “sviluppo” ortodosso del dogma, con i
tradizionali richiami al Lerinense e a S. Tommaso[38]. Secondo l’Autore, la dottrina newmanniana
permetterebbe di contemplare anche una “discontinuità”, purché appunto in
armonia con la dottrina di sempre. Ora,
quest’esposizione riassuntiva dell’idea dello “sviluppo dottrinale” non mi
sembra interessi tanto di per sé.
Interessa vederla all’opera ossia vedere se essa possa applicarsi al
Concilio. In altre parole: con il ricorso a Newman riusciamo a
dimostrare che la nuova dottrina proposta dal Concilio sulla libertà religiosa
è conforme al Deposito della Fede?
Il riscontro l’abbiamo nell’interpretazione
della condanna di Pio IX della moderna libertà religiosa nell’encliclica Quanta
cura[39]
. Si concilia il dettato di Pio IX con
quello del Vaticano II? La conciliazione
l’Autore, richiamandosi espressamente ai contributi di teologi contemporanei,
la vede nel fatto che Pio IX non avrebbe condannato lo stesso diritto
oggetto invece della tutela di DH. Egli avrebbe condannato l’erronea concezione
della libertà religiosa intesa come “diritto individuale dell’assolutismo
liberale”. Pio IX avrebbe condannato il
diritto che risultava dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del
Cittadino, avrebbe condannato il 1789, la Rivoluzione Francese, non il vero diritto
naturale alla libertà religiosa[40]. Egli lottò contro il “liberalismo
indifferentista e laicista”, che non era (secondo il prof. Cantoni) quello di
cattolici liberali come Montalembert e Acton[41]. Ragion per cui, “non ha senso affermare che
Pio IX ha condannato la libertà religiosa così come la concepisce la Dignitatis
humanae e come si andava affacciando alla storia attraverso la vicenda
degli Stati Uniti d’America, perché all’epoca la democrazia americana era
ancora, secondo la colorita espressione di Joseph de Maistre, “un bambino in
fasce””[42]. Non la Tradizione della Chiesa per la Chiesa,
dunque, ma il modello americano, di una democrazia che pone il diritto alla felicità
terrena, materiale dell’individuo tra i suoi princìpi fondamentali e in
quest’ottica concepisce la “libertà religiosa”!
Pio IX non avrebbe
dunque condannato la vera libertà religiosa ma solo la concezione deformata che
ne avevano certe correnti liberali, che riflettevano le componenti estreme
della Rivoluzione Francese. Non solo, la
corretta visione della libertà religiosa, adottata dal Concilio, farebbe tesoro
dell’esperienza della democrazia americana.
In questa sua conciliazione degli opposti (le condanne di Pio IX e la
laica libertà religiosa), l’Autore segue una tendenza oggi prevalente nella
pubblicistica cattolica. Dove si
riscontra un’evidente incompatibilità con la dottrina della Chiesa, si cerca di
dimostrare che si tratta di conflitto apparente o di equivoci. Così, nei confronti di Pio IX, e dei suoi
fulmini contro la libertà di coscienza nella religione, si cerca di dimostrare
che egli ha condannato un diverso modo di concepire quella libertà o
semplicemente il suo esercizio. A mio avviso si tratta di distinzioni di lana
caprina: la libertà religiosa propugnata
in nome della libertà di coscienza riconosciuta dalla Rivoluzione Francese non
è meno assoluta, in quanto principio, di quella esaltata dalla Rivoluzione
Americana. Entrambe presuppongono che il
fondamento della religione sia nella coscienza e sentimento dell’individuo non
in una Rivelazione sovrannaturale, storicamente avvenuta.
Cercherò di replicare
alla vulgata professata dal prof. Cantoni e da altri, concentrandomi sui
seguenti punti: l’origine anticattolica
ed anticristiana dell’istanza moderna della tolleranza religiosa, con
particolare riguardo a quel suo classico esponente che fu Spinoza; le contraddizioni presenti nella definizione
conciliare della libertà religiosa (DH 2,9-11); il vero significato della
testimonianza dei Martiri, per i quali la libertà di coscienza era un valore
del tutto secondario; il carattere anomalo del concetto di “diritto naturale”
proposto dal Vaticano II che, nella DH, non sembra tale da conservare al
Cattolicesimo la sua unicità.
5. L’idea
della “libertà religiosa” è storicamente un risultato delle Guerre di Religione
e del deismo professato dalle filosofie secolaristiche
L’art. 9 DH
afferma: “Quanto questo Concilio
Vaticano dichiara sul diritto degli esseri umani alla libertà religiosa ha il
suo fondamento nella dignità della persona, le cui esigenze la ragione umana
venne conoscendo sempre più chiaramente attraverso l’esperienza dei secoli [cuius
exigentiae rationi humanae plenius innotuerunt per saeculorum experientiam]”. Uno sviluppo plurisecolare della “ragione
umana” avrebbe condotto dunque al presente concetto di “libertà religiosa”, che
il Concilio non esita a far suo. A
questo sviluppo la Chiesa non avrebbe ovviamente partecipato (sino al Vaticano
II escluso), opponendovisi con decisione, come si è visto. Con il Vaticano II, nuova Pentecoste, l’illuminazione
e la conseguente entusiastica accettazione dell’opera secolare della
laica ragione.
Ora, la tesi proposta
qui dal Concilio mi sembra semplificare alquanto le vere vicende storiche,
quali ce le mostra “l’esperienza dei secoli”.
La “libertà religiosa” è presentata come una conquista della “ragione”,
che avrebbe gradualmente enucleato le “esigenze” della “dignità della
persona”. Questa interpretazione
recepisce acriticamente un canone ermeneutico tipico del pensiero moderno. In realtà, l’istanza della “libertà
religiosa”, nella prassi “libertà di culto”, quale espressione della libertà di
coscienza, che si attua mediante la libertà di parola, si era posta
storicamente solo dopo la rottura dell’unità cattolica dell’Europa occidentale
a causa dello scisma dei Protestanti eretici e le conseguenti guerre di
religione. Si era posta in modo grave
già nell’ambito delle lotte fra le varie sette protestanti. Si era imposta alla fine come soluzione di
compromesso elaborata dai politici e dalla ragion di Stato assai più che dalla
“ragione”. In Francia il partito dei Politiques, il cui teorico fu Jean
Bodin, anche per controbattere l’endemica guerra civile confessionale e la
conseguente anarchia, cominciò a teorizzare un concetto assoluto di sovranità,
indipendente dalla religione e fondato sullo Stato stesso. Il mancato rientro dello scisma, dopo lotte
sanguinose, aveva dato vita ad una realtà basata sul compromesso, con la
coesistenza forzata di Protestanti e Cattolici in uno stesso Stato in alcuni
paesi dell’Europa continentale:
Germania, Francia, Olanda, Svizzera.
Dove i protestanti avevano la netta supremazia, controllando interamente
il potere, come a Ginevra, nel regno d’Inghilterra, in Scozia, nei paesi
scandinavi, la persecuzione dei cattolici era durissima e spietata. Qui una libertà di coscienza anche relativa
non esisteva in nessun modo. Come non esisteva in Ispagna e negli Stati
italiani, con la parziale eccezione della Repubblica di Venezia.
La cultura, nelle sue
componenti laiche, che si andavano affermando sempre più grazie anche alle
scoperte che creavano una nuova immagine del mondo, proclamava il principio
della tolleranza, con il conseguente riconoscimento statale della libertà
di coscienza ossia di professione religiosa e di culto per le varie fedi. Ma tale indirizzo (che annoverò gli Spinoza,
i Locke, i Voltaire tra i suoi maggiori esponenti) si ispirava in modo evidente
ad una concezione deista e razionalista della divinità, che metteva ogni
religione storicamente esistente sullo stesso piano, aprendo la strada
all’indifferentismo e all’agnosticismo non solo nei confronti della religione
rivelata ma anche del fenomeno religioso in quanto tale. Credere in Dio, per il gentiluomo e l’uomo
colto, stava assurdamente diventando sinonimo di “superstizione”. Il laico principio di tolleranza in nome
della libertà individuale di coscienza stabiliva in tal modo (all’insegna
dell’indifferentismo e dell’agnosticismo) il presupposto concettuale della
“libertà religiosa” che sarebbe stata poi professata dallo Stato laico,
liberale, affermatosi in Europa dopo la Rivoluzione Francese.
L’esigenza della
“dignità della persona” di cui all’art. 9
DH citato, era in realtà l’esigenza fatta valere dal deismo razionalista
e panteista che gli intellettuali rivendicavano contro la religione
rivelata. Vi confluirono il panteismo di
due apostati come Bruno e Spinoza, il razionalismo protestante e quello degli
Illuministi. Però questa esigenza si
presentava mascherando la sua vera
natura poiché affettava una completa neutralità nei confronti della
religione, in nome delle esigenze della libertà individuale e della pace
sociale. Una cosa che il Concilio sembra
aver dimenticato, nel suo elogio del progresso della “ragione umana” nel corso
dei secoli, è che la “ragione” ha rivendicato la libertà di coscienza in
religione come fase essenziale della sua lotta contro il Sovrannaturale, al
fine di emanciparsi interamente da esso.
Ma questa dimenticanza non deve stupire, visto che la mens
progressista affermatasi nel Concilio non ha voluto lasciar spazio alcuno al
concetto del Sovrannaturale (vedi supra, cap. V e XIII).
6. La critica tendenziosa di Spinoza alle
Sacre Scritture quale presupposto del concetto di “libertà religiosa”
La connessione tra
libertà religiosa e negazione del Sovrannaturale e quindi del carattere
autenticamente rivelato della religione rivelata, è particolarmente evidente
nel Tractatus theologico-politicus pubblicato anonimo da Spinoza nel
1670, uno dei testi fondamentali della rivendicazione della moderna “libertà
religiosa”. Il lavoro, condannato dalle
autorità della protestante Olanda nel 1674, nonostante il clima di relativa
tolleranza esistente in un paese nel quale le fazioni politico-religiose
protestanti (arminiani fedeli alla tradizione erasmiana contro gomaristi
calvinisti) ancora si fronteggiavano duramente, procurò inevitabilmente
all’Autore un crescente “odio teologico”, che lo spinse a rinviare la
pubblicazione dell’Ethica (la cui stesura lo aveva impegnato per
quindici anni) avvenuta postuma nell’anno stesso della sua morte per tisi, il
21 febbario 1677 all’Aja. Il Trattato
spinoziano è considerato dalla cultura laica dominante un esempio ancora valido
e persino classico di quella conoscenza sempre più chiara della dignità
della persona e dei suoi diritti che la ragione avrebbe sviluppato
nell’esperienza degli ultimi secoli, per esprimermi nel linguaggio di DH 9,
sopra citato.
Non bisogna lasciarsi fuorviare dal carattere
esteriormente affabile e mite di Spinoza, dalla coerenza e anche dal coraggio
delle sue scelte di vita, dalla logica ferrea che sa imprimere ai suoi
ragionamenti in relazione alle premesse da cui muove, dall’ eccezionale
capacità di ordinare il suo pensiero in sistema, dalle sue professioni di “amor
Dei intellectualis”. Il Trattato è
un testo pervaso da cima a fondo di orgoglio luciferino, nel quale l’Autore
sottopone l’Antico Testamento e in subordine il Nuovo ad una critica che mira
ad una loro radicale delegittimazione in quanto fonti della Verità Rivelata,
dell’autentica Parola di Dio.
Caratteristico è il Cap. VI
Dei miracoli, tutto inteso a dimostrarne l’impossibilità.
6.1 L’immanentismo
di Spinoza nega a priori la possibilità stessa del Sovrannaturale e quindi del
miracolo
I cosiddetti miracoli
non sono altro che “un fatto di cui si ignora ordinariamente la causa”. È cosa comune che “il volgo chiami miracoli,
e cioè opere di Dio, i fatti non comuni della natura”, poiché esso “preferisce
ignorare le cause naturali delle cose”[43]. Furono “gli antichi Ebrei” a presentare come
miracoli certi fatti per dimostrare ai pagani “che l’intera natura era regolata
a loro esclusivo vantaggio dalla potenza del Dio che essi adoravano”[44]. Alla fede nei miracoli, Spinoza oppone
un’impossibilità logica. Infatti, nella
realtà, “nulla avviene contro la natura, ma questa, al contrario, procede
secondo un ordine eternamente fisso e immutabile”. L’immutabilità della natura dipende dal modo
nel quale Spinoza si rappresenta Dio: “E
siccome nulla è necessariamente vero, se non per il solo decreto divino, ne
segue nel modo più evidente che le leggi universali della natura non sono se
non decreti di Dio, discendenti dalla necessità e dalla perfezione della natura
divina. Perciò, se avvenisse in natura
qualcosa che ripugnasse alle sue leggi universali, ciò ripugnerebbe
necessariamente anche alla volontà, all’intelletto e alla natura di Dio;
ovvero, se si affermasse che Dio opera alcunché contro le leggi della natura,
si dovrebbe contemporaneamente affermare anche che Dio agisce contro la propria
natura”[45].
Osservo: le “leggi
della natura” dipendono sì dalla “perfezione della natura divina” ma non dalla
sua “necessità”, come se Dio non potesse esistere di per sé, come l’Essere
perfettissimo che non ha bisogno della natura per esser ciò che è. Spinoza, rifiutando l’idea di creazione,
identifica Dio con la natura (Deus seu natura, come scrisse in una
celebre pagina dell’Ethica)[46]. In tal modo, le leggi della natura sono
divine e non possono mutare senza contraddirsi, perché Dio è immutabile, in
quanto Sostanza infinita che è nello stesso tempo pensiero ed estensione. Ergo:
il miracolo non può esistere.
Esso è “fandonia” o “finzione”, come diceva in altri suoi scritti[47]. L’errore di fondo di Spinoza nasce dal suo
rigetto dell’esistenza di un Dio creatore, Dio personale, Dio vivente, come
quello, appunto, già testimoniato nell’Antico Testamento. Se è Dio che ha creato la materia e quindi
tutta la natura, compreso l’uomo, dal nulla, cioè non dalla potenza
all’atto ma dal non–essere all’essere (poiché la natura non poteva in alcun
modo preesistergli), dando Egli stesso alla natura le sue leggi; è logico
ammettere che Egli stesso, nella sua onnipotenza, possa modificare in tutto o
in parte, secondo il suo intendimento, quelle leggi mentre sono in atto, in un
dato momento nel tempo e nello spazio.
Si può sostenere l’impossibilità logica del miracolo solo se si nega
l’atto di Creazione, togliendo così a Dio l’onnipotenza con la quale dispone
della materia. Ma ciò tuttavia comporta
che la materia, che pur appare come ciò che viene sempre formato secondo un
modello o idea o disegno, debba esser considerata eterna e capace di darsi un
ordine e quindi di pensare, il che sembra chiaramente assurdo.
Tornando al Trattato. L’esistenza di Dio non si deduce dai miracoli
ma si percepisce meglio “attraverso l’ordine fisso e immutabile della
natura”. Anzi, i miracoli, “come fatti
contrari all’ordine naturale ci indurrebbero invece a dubitare di essa; mentre,
prescindendo da essi, potremmo averne l’assoluta certezza, sapendo che ogni
cosa segue l’ordine certo e immutabile della natura”[48]. Spinoza rovescia il modo normale di
ragionare: il miracolo non dimostrerebbe
ma addirittura negherebbe l’esistenza di Dio.
Ma siamo sempre lì: tale
rovesciamento è possibile solo sulla base del Deus seu natura,
dell’identificazione arbitraria ed irrazionale, panteistica di Dio con la
natura e del conseguente determinismo.
Se poi volessimo
comunque spiegare il miracolo come un fatto effettivamente avvenuto, naturale o
non, bisogna ammettere, secondo Spinoza, che il miracolo “è un fatto che non si
può spiegare mediante la sua causa, cioè è un fatto che supera l’umana
comprensione. Ma da un fatto, e in
assoluto da ciò che supera la nostra comprensione, noi non possiamo conoscere
nulla. Infatti, tutto ciò che noi
intendiamo in modo chiaro e distinto deve essere a noi noto, o per sé o per
mezzo di altro che è per sé conosciuto chiaramente e distintamente. Per la qual cosa dal miracolo, ossia da un
fatto che supera la nostra comprensione, noi non possiamo capire né l’essenza
né l’esistenza di Dio, né in modo assoluto alcunché intorno a Dio o alla
natura”[49].
Si vede qui all’opera
il razionalismo spinoziano, desunto come metodo da Cartesio ma applicato
all’idea di Dio peculiare a Spinoza. Dal
“fatto” in sé non comprensibile non possiamo risalire alla sua causa,
dice. Altrimenti sarebbe comprensibile. Ma osservo, contro Spinoza: nemmeno dal fatto in sé comprensibile, ovvero
dalla natura nella sua per noi normalità quotidiana, possiamo risalire alla sua
causa, se quest’ultima è da vedersi nel “decreto” di un Dio che è però la
natura stessa. Identificando Dio e natura, viene meno la necessaria
distinzione tra la causa e l’effetto. Tutto si confonde. Tale indispensabile
distinzione può mantenersi solo se si separa nel concetto una mente ordinatrice
della realtà dalla realtà stessa, ordinata appunto in seguito all’azione
concreta di questa mente (creazione e suo mantenimento).
E proprio questa distinzione
riporta S. Paolo nel famoso passo di Rm 1, 20, sulla deducibilità
dell’esistenza di Dio per chi usa rettamente della sua intelligenza, nel senso
comune del termine: “poiché le
perfezioni invisibili di Lui fin dalla creazione del mondo, comprendendosi
dalle cose fatte, si rendono visibili, quali la sua eterna potenza e la sua
divinità [Invisibilia enim ipsius, a creatura mundi, per ea quae facta sunt,
intellecta, conspiciuntur: sempiterna
quoque eius virtus, et divinitas”]”.
Ora, se le “cose fatte” non ci permettono di risalire a Chi le ha fatte,
perché non esiste per Spinoza un Dio come ente e mente separati dalla natura e
anteriore ad essa, bisogna dire che nella sua filosofia c’è comunque
l’impossibilità di avere l’idea dell’esistenza di Dio, sia che si tratti di
dedurla dalla natura dei miracoli che da quella della normalità quotidiana.
6.2 Anche
la filologia dimostra, contro Spinoza, che gli Apostoli non insegnavano come
semplici “dottori privati”
Vengo ora al modo nel
quale Spinoza (nel cap. XI del Trattato) cerca di dimostrare che gli
Apostoli non parlavano per autorità divina ma come “dottori privati” e per di
più senza aver avuto un fondamento dottrinale comune, cosa che sarebbe stata
all’origine delle eresie che affliggono periodicamente la Cristianità. Con
questi assurdi argomenti, Spinoza tenta chiaramente di delegittimare anche il
Nuovo Testamento in quanto fonte della Verità Rivelata. Le analisi scritturistiche con le quali cerca
di dare un fondamento alle sue tesi, sono condotte all’insegna di un
pregiudizio, affermatosi poi nella critica biblica successiva, in particolare
protestante razionalista: che gli
Scrittori sacri non abbiano mai cercato di riferire fedelmente fatti
effettivamente avvenuti ma abbiano scritto soprattutto per educare il
popolo alla pietà e alla devozione, sulla base delle idee e dei modi di sentire
di loro stessi che scrivevano o raccontavano[50].
Ma vediamo il suo
attacco al Nuovo Testamento.
Con quale autorità
parlavano gli Apostoli, si chiede?
Leggendo il Nuovo Testamento, essi appaiono come “profeti”. Ma “profeti”, come? Spinoza non specifica. Si capisce tuttavia che per lui il vero
profeta è solo quello dell’Antico Testamento. È pertanto lecito chiedersi, “se
gli apostoli abbiano scritto le loro lettere in qualità di profeti in seguito a
rivelazione e per espresso mandato, come Mosè, Geremia e altri, ovvero come
privati e dottori. E ciò tanto più
perché nella prima Epistola ai Corinti 14.6 Paolo distingue due generi
di predicazione, l’una per rivelazione e l’altra per conoscenza: onde si può dubitare, dico, se nelle
espistole essi si presentino come profeti o come dotti”[51].
Questa distinzione di
“due generi di predicazione” attribuita a 1 Cr 14,6 in realtà non esiste, come
vedremo. Per l’intanto rilevo che la
distinzione stessa non è neutra, quanto ai suoi effetti: se gli apostoli parlano come semplici “dotti”
allora la loro testimonianza è solo quella di individui privati (“privati e
dottori”, in modo simile ad un semplice interprete privato della Legge). Già dallo “stile” delle loro lettere,
continua Spinoza, “diversissimo da quello profetico”, si vede che essi non si
presentavano come profeti. I profeti attestavano continuamente di parlare per
volontà di Dio, usando le espressioni “Così dice Dio”, “Dice il Dio degli
eserciti” etc. Nelle lettere degli
Apostoli non c’è nulla di simile. “Al
contrario, nella prima Epistola ai Corinti 7,40 Paolo parla secondo il suo
parere. In moltissimi luoghi, ricorrono
espressioni che denotano incertezza e perplessità, come nell’Epistola ai Romani
3, 28: “Crediamo dunque”, e nell’8, 18: “Infatti io ritengo”; e così in molti altri luoghi”. Nel cap. 7 di 1 Cr S. Paolo dà ordini e anche
semplici consigli sullo stato matrimoniale e sul celibato. Spinoza ne conclude che “quando, nel detto
capitolo egli dichiara di avere o di non avere un precetto o mandato di Dio,
non intende un precetto o un mandato a lui rivelato da Dio, ma soltanto gli
insegnamenti che Cristo diede ai discepoli sulla montagna”[52].
Si impongono alcune osservazioni.
I luoghi nei quali incorrono quelle che Spinoza chiama “espressioni di
incertezza e perplessità” non sono affatto “moltissimi”. Che poi certe espressioni indichino
“incertezza e perplessità”, non è vero. Ugualmente, sono pochi i casi nei quali
S. Paolo “parla secondo il suo parere”, tant’è vero che Spinoza è costretto a
citare tre volte in proposito sempre lo stesso capitolo 7 di 1 Cr, che è quello
nel quale la cosa è evidente.
Vediamo subito i due
esempi di prosa paolina che rivelerebbe una supposta incertezza da parte
dell’Apostolo. Nel primo caso (Rm 3,28), se il “crediamo dunque” esprime
“incertezza”, quest’ultima dovrà risultare dal contesto nel quale il verbo si
trova. Spinoza isola completamente dal
loro contesto le espressioni da lui scelte, il che mi sembra scorretto dal
punto di vista di una sana ermeneutica.
Vediamo dunque il contesto. Il
verbo in questione si trova a conclusione di una lunga esposizione che dimostra
come la salvezza delle anime non dipenda dall’osservanza delle opere della
Legge giudaica (con tutto il suo formalismo) ma dalla fede in Cristo, Figlio di
Dio, il Messia atteso. Rivolgendosi al
suo ideale contraddittore israelita, S. Paolo scrive: “Dov’è dunque il tuo vanto? è escluso. Per qual legge [la salvezza]? quella delle opere? No, ma per la legge della
fede [in Cristo], poiché riteniamo [loghizómetha gár, arbitramur enim]
essere l’uomo giustificato [di fronte a Dio] per la fede, all’infuori delle
opere della Legge [giudaica]. Forseché
soltanto dei Giudei è Dio? no, anche delle genti; sicuro, anche delle genti, se
è unico Dio quello che giustificherà i circoncisi in seguito alla fede [in
Cristo], come i non circoncisi mediante la fede [in Cristo]. Annulliamo dunque la Legge per via della
fede? Non sia mai; anzi confermiamo la Legge” (Rm 3,27-31). La “confermiamo” perché l’insegnamento di
Cristo, depurandola degli elementi caduchi, rappresenta il compimento della
Legge, non la sua negazione.
In questa potente
pagina dobbiamo forse ritenere che il “poiché riteniamo” o “crediamo dunque”
esprima dubbio ed incertezza? Direi che
esprime proprio il contrario! Questo
verbo afferma con forza il concetto predicato dall’Apostolo: che la salvezza
viene solo dalla fede in Cristo non dalle opere della Legge giudaica, perché
Dio è Dio di tutti non dei soli Ebrei.
L’affermazione è netta e recisa.
Spinoza prevarica sul significato autentico del passo e anche la
filologia gli dà torto. “Arbitramur”, con il quale si è tradotto l’originale
greco, ha anche il senso di “tener per certo, fermamente” e corrisponde ad uno
dei significati di “loghízomai”, che non vuol dire solamente “calcolo” o
“penso”, come sembra ritenere Spinoza, nella nota erudita che egli appone nel
suo testo al punto. Seguito
dall’infinito, come in questo caso, ha il significato di “far conto fermamente
su qualcosa”.
E vengo a Rm 8, 18. Qui S. Paolo dice, ad un certo punto,
“infatti io ritengo”. Ma ritiene, che
cosa? Se non abbiamo tutto il periodo
come possiamo farci un’idea precisa?
Certo, all’epoca il limitato pubblico colto conosceva abbastanza bene i
Testi Sacri e non abbisognava di lunghe citazioni. E tuttavia è impossibile verificare l’assunto
di Spinoza senza collocare il verbo nella sua frase e questa nella parte
dell’Epistola che le compete. Anche qui
il verbo è retto da un “poiché” o “infatti” che lo connette al periodo
precedente. In esso, S. Paolo spiegava
come i convertiti al Cristianesimo fossero diventati “figli adottivi di Dio” ai
quali è destinata in eredità la vita eterna:
“e se figli, anche eredi; eredi di Dio, coeredi in Cristo, se pur
soffriamo con lui al fine di esser anche con lui glorificati” (Rm 8,
12-17). Coeredi nella Gloria
futura ma solo se accettiamo le sofferenze della nostra vita terrena “con
Cristo”, cioè mantenendo la fede in Lui e sopportandole come Lui le ha
sopportate. “Poiché io ritengo [loghízomai
gár, existimo enim] che le sofferenze del tempo presente non han nulla a
che fare colla gloria che dev’essere manifestata in noi, giacché l’ansiosa
aspettativa del mondo creato attende la manifestazione dei figli di Dio…” (Rm
8, 18-19).
“Ritengo”,
“existimo”. Questa non è forse
l’opinione personale di S. Paolo? Egli
sta incoraggiando i fedeli a resistere di fronte alle grandi difficoltà della
vita, doppie per i Cristiani perseguitati.
In effetti, come potremmo paragonare la miseria attuale con la Gloria
futura degli Eletti, nella vita eterna presso Dio, nel godimento perpetuo della
Visione Beatifica? Bisogna dunque aver
coraggio e aver fiducia nella Provvidenza, che ci darà un premio
incommensurabile, in termini umani. Il
verbo usato qui dall’Apostolo è sempre “loghízomai”, che però il latino rende
stavolta con “existimo”, che contiene indubbiamente una valenza soggettiva. La diversa traduzione è giustificata dal
costrutto, oltre che dal contesto: qui
“loghízomai” non regge l’infinito ma hóti, quod.
“Existimo quod, ritengo che…”:
costruzione usata quando il verbo greco ha più il significato di
ponderare, ritenere. In Rm 3, 28 S.
Paolo usava il plurale, qui parla in prima persona. Perché il plurale? Sembra il “noi” maiestatico della fede
professata dalla Chiesa, per divina rivelazione. In ogni caso, possiamo dire
che lo “existimo” di Rm 8,18 esprima “incertezza o perplessità” come vuol far
credere Spinoza? Direi proprio di no.
L’affermazione dell’Apostolo appare fatta in assoluta sicurezza. Essa non costituisce articolo di fede, come
l’asserto sulla salvezza dalla fede in Cristo e non dalle opere della Legge
giudaica. È una constatazione offerta
alla riflessione dei fedeli per rafforzarli nella fede; offerta senza dubbi di
sorta, da ritenersi conforme al vero perché sempre fondata sulla Rivelazione,
dato che la “Gloria futura” dei predestinati è creduta sempre per rivelazione,
è parte del Deposito della Fede.
Ma con quale
fondamento Spinoza afferma che quando S. Paolo dichiara di insegnare un
precetto ricevuto per rivelazione da Dio non intende un precetto “a lui
rivelato da Dio ma soltanto gli insegnamenti del Discorso della Montagna”? La sicurezza con la quale Spinoza fa
quest’affermazione lascia sbalorditi dato che S. Paolo ha più volte detto di
aver ricevuto direttamente dal Signore, per rivelazione privata, la dottrina
che insegnava. Tant’è vero che quando
parla a titolo personale (dando semplici consigli di vita cristiana o esortando
alla perseveranza nella fede) lo dice espressamente, come appunto in 1 Cr
7. Nella lettera ai Galati, che si
stavano allontanando dalla retta dottrina ricevuta da lui, scrisse: “Dovete sapere, o fratelli, che il Vangelo da
me predicato non è secondo l’uomo, e di fatto non l’ho mica ricevuto da un
uomo, né io ne fui ammaestrato, ma l’ho avuto per rivelazione di Gesù Cristo”
(Gal 1, 11-12). L’affermazione è
ripetuta in 1 Cr 11,23, a proposito
dell’istituzione dell’Eucaristia (“Poiché quello che io ho trasmesso, anche a
voi, l’ho ricevuto dal Signore; e ciò è che il Signore Gesù la notte in cui fu
tradito, prese del pane, etc.”); nonché nella Lettera agli Efesini, 3,3 (“e
come per rivelazione fu da me conosciuto il mistero” della redenzione dei
Gentili); e fors’anche in Tess 4, 15, in relazione alla Parusia di Nostro
Signore: “Questo vi diciamo colla parola
del Signore…”. Non bisogna poi dimenticare
i “detti indicibili” e quindi le rivelazioni che udì quando fu rapito in ascesi
al terzo cielo – 2 Cr 12, 2-9)[53].
Dati tutti questi
elementi, come fa Spinoza ad affermare senza mezzi termini, contro la lettera
delle dichiarazioni dell’Apostolo, che egli “non intendeva” in realtà riferirsi
ad un precetto “rivelato da Dio” quando diceva di insegnare un precetto
rivelato da Dio? Quali prove ci dà di
questa contraddizione, che farebbe di S. Paolo in sostanza un impostore? Prove, non ne può offrire alcuna. Può solo speculare sulle dichiarazioni
dell’Apostolo. Infatti cosa dice quest’ultimo
in 1 Cr 7? “Ai coniugati invece ordino
[paraggéllo, praecipio] non io ma il Signore, che la moglie non si
separi dal marito, ma qualora si separasse, non passi ad altre nozze, o si
riconcili col marito; e il marito non ripudi la moglie. Agli altri poi dico io, non il Signore: se un fratello ha una moglie non credente…”(1
Cr 7, 10-11). Qui viene dichiarata
l’indissolubilità del matrimonio e il divieto del ripudio. Ma tutto ciò non era stato già insegnato da
Nostro Signore e non solo nel Discorso della Montagna? Ecco che allora, insinua Spinoza,
quest’insegnamento che viene dichiarato frutto di una rivelazione privata a
Paolo, è in realtà sempre quello pubblico di Gesù, durante la sua predicazione
terrena. Se le cose stanno così, allora
l’invocazione paolina di una specifica rivelazione privata nei suoi confronti
dovrebbe considerarsi o una bugia o una metafora.
In realtà, Spinoza può
apportare solo quest’esempio a sostegno della sua tesi. Deve passare sotto silenzio tutti i passi
delle lettere paoline nei quali l’Apostolo dichiara di aver ricevuto
direttamente da Cristo insegnamenti che non si trovano nel Discorso della
Montagna. Così per l’istituzione dell’Eucaristia, per il mistero della
redenzione dei Gentili. E anche le
dichiarazioni espresse di aver ricevuto tutta la sua dottrina direttamente dal
Cristo Glorioso. Ma anche riandando a 1
Cr 7 cosa troviamo? Che S. Paolo espone
con chiarezza i suoi personali consigli in assenza di mandati ricevuti
direttamente da Nostro Signore sull’argomento di specie. E che tali mandati costituissero norme
imperative risulta anche linguisticamente dall’ultimo suo riferimento: “Riguardo a chi è vergine non ho nessun
ordine da parte del Signore, ma dò un consiglio, come uomo che, per grazia del
Signore, è degno di fede” (1 Cr 7, 25). Ordine:
epitagé, praeceptum, nel senso appunto di comando, precetto, come lo
erano stati quelli precedenti nel corso dello stesso cap. 7 della lettera. È vero che in 1 Cr 7, 10-11 egli usa il verbo
paraggéllo, che significa anche consiglio. Ma significa anche comando, ordino, come fa
fede la traduzione latina con praecipio.
E che valore ha l’obiezione che si trattava degli stessi insegnamenti
del Cristo terreno sul matrimonio?
Nessuno, secondo me. S. Paolo non
aveva certo ricevuto il mandato di insegnare dottrine sue personali o nuove,
rispetto a quello che il Cristo ci aveva già fatto sapere. Si trattava di svilupparle nel modo dovuto e
di applicarle al caso concreto. E
difatti, nel cap. 7 di 1 Cr egli
risponde ad una serie di questioni che gli erano state poste per lettera dai
fedeli sul matrimonio e il celibato. Si
trattava dunque di applicare la dottrina di Cristo al caso concreto, che poteva
favorire l’eccezione o spingere alla violazione della norma. Ebbene, forte dell’autorità di Cristo che
ribadisce in modo imperativo attraverso di lui la dottrina a sua tempo
insegnata sulla terra, S. Paolo dirime le varie questioni. Il fatto, dunque, che si tratti qui degli stessi
insegnamenti del Cristo terreno non dimostra di per sé che Nostro Signore
non abbia ordinato di osservarli direttamente tramite l’Apostolo, la cui
predicazione, tranne espressa dichiarazione in contrario, rendeva sempre noti
ed applicava i “mandata” del Signore, con l’aiuto dello Spirito Santo.
Ma procediamo con gli
argomenti di Spinoza. Egli fa molto caso
alla differenza di stile riscontrabile tra il linguaggio dei profeti e quello
degli Apostoli. I profeti, osserva,
usano sempre argomenti perentori mentre gli Apostoli, poiché “ragionano”,
sembra “discutano”. Le profezie
veterotestamentarie “contengono solo dogmi e decreti, perché in esse è Dio che
prende la parola, Dio che non ragiona ma decreta secondo l’autorità assoluta
della sua natura, e perché l’autorità del profeta non sopporta il ragionamento,
giacché chiunque voglia sostenere con la ragione i dogmi che espone, li
sottopone per ciò stesso al giudizio e al discernimento di ciascuno”[54]. Ma, annoto, nel passo di S. Paolo appena
visto, nel quale scrive “ai coniugati invece ordino, non io ma il Signore”,
“discute” egli o si esprime al modo “perentorio” dei profeti?
Inoltre i profeti non
usano il lume naturale e proprio da questo si capisce che essi sono dotati di
una conoscenza soprannaturale, che si traduce nell’enunciazione di “puri dogmi
o decreti o massime”. Pertanto ritengo,
continua Spinoza, “che il sommo profeta Mosè non ha prodotto alcun legittimo
argomento; mentre ammetto che le lunghe deduzioni e argomentazioni di Paolo,
quali si trovano nell’Epistola di Romani, non sono state scritte in alcun modo
per rivelazione soprannaturale”. Le
epistole apostoliche sono state scritte “soltanto sulla scorta di un naturale
giudizio”. Esse non contengono “altro se non fraterni ammonimenti, mescolati a
cortesia (dalla quale rifugge del tutto l’autorità profetica), come nella
formula con la quale Paolo, nell’Epistola ai Romani 15,15 si scusa
dicendo: “Vi ho scritto in termini un
po’ troppo arditi, o fratelli”[55].
Spinoza equivoca del
tutto il significato di Rm 15,15:
l’arditezza cui si riferiva l’Apostolo riguardava solo il fatto che la
Chiesa di Roma non era stata fondata da lui.
L’aveva fondata S. Pietro ma egli aveva tuttavia avuto l’ardire di
scriver loro pur non essendo da essi conosciuto, nell’AD 57. Non si trattava di scuse per presunti termini
troppo arditi della sua lettera. Ma
Spinoza sembra anche contraddirsi in re ipsa. Infatti, prima dice che la Lettera ai Romani
contiene “lunghe deduzioni e argomentazioni” e poi che tutte le epistole degli Apostoli
contengono solo “fraterni ammonimenti, mescolati a cortesia”. Dobbiamo allora
ritenere che le “ lunghe deduzioni ed argomentazioni” dell’Epistola ai Romani,
ossia tutta la profonda e complessa teologia rivelata sul rapporto tra la fede
e le opere, sulla giustificazione, sulla predestinazione, sul destino finale di
Israele e la parte parenetica, che applica l’etica cristiana alla vita sociale
con esortazioni, consigli e comandi; che tutto questo sia nient’altro che
“fraterni ammonimenti, mescolati a cortesia”?
Qui “l’ermeneutica” di Spinoza sfiora addirittura il ridicolo.
E circa la profezia
sulla conversione finale di Israele a Cristo (Rm 11, 25) che conto ne tiene
Spinoza? Nessuno, anche se essa dimostra
come si potesse esser profeti senza ricorrere allo stile dei profeti
dell’Antico Testamento.
6.3 La
predicazione apostolica è unitaria e in ogni sua forma viene dallo Spirito
Santo
S. Paolo avrebbe
dunque distinto “due generi di predicazione, uno per rivelazione e uno per
conoscenza”. Questi due generi sarebbero
tra loro alquanto diversi, dato che uno comporta una rivelazione divina e
l’altro no, esprimendosi solo “per conoscenza”, si intende secondo i criteri
della conoscenza umana. Ma cosa dice S. Paolo?
“Difatti, o fratelli, se io mi presentassi a voi parlando le lingue, di
qual profitto vi sarei, se non vi parlassi per rivelazione, o per conoscenza, o
per profezia, o per dottrina?”. Altri
traduce: “se non vi parlassi con qualche
rivelazione, o con la scienza, o con la profezia, o con qualche
ammaestramento?”. Non inquadrato nel suo
contesto, il passo paolino appare difficilmente comprensibile. E di nuovo si vede l’arbitrarietà del
metodo di Spinoza, che isola dal contesto la distinzione tra predicazione
“per rivelazione” e “per conoscenza”, come se si trattasse di due categorie generali
e assolute elaborate dall’Apostolo a fondamento della sua predicazione. Il che non è.
Leggendo l’intero
passo si vede, infatti, che il contenuto della predicazione S. Paolo lo divide
in quattro argomenti: rivelazione,
scienza o conoscenza, profezia, dottrina nel senso di ammaestramento. E questa specificazione egli la fa a che
proposito? A proposito del fenomeno della glossolalía o “parlar in
lingue”: se egli avesse predicato
“parlando le lingue” nessuno lo avrebbe capito. Di quali “lingue” si trattava?
Di lingue arcane e misteriose, incomprensibili ai presenti. Venivano recitate in uno stato estatico e
tradotte agli astanti da un fedele che a sua volta aveva ricevuto il dono di
tradurle. La traduzione rivelava lodi a
Dio, a Nostro Signore. Il fenomeno della
“glossolalìa”era frequente nei primi tempi del Cristianesimo. Si trattava di uno dei “càrismi” o doni
spirituali particolari ed eccezionali
che lo Spirito Santo effondeva sulla Chiesa nascente, per aiutarla. Nella prima Lettera ai Corinti S. Paolo si
sofferma a lungo su questi “carismi” (capp. 12-14) spiegando che cosa sono e
come devono esser utilizzati. Su tutto
ciò Spinoza si guarda bene dall’aprir bocca.
I diversi “doni” o “carismi” vengono dallo
Spirito Santo per l’utilità della Chiesa.
“Poiché c’è bensì diversità di doni, ma lo Spirito è il medesimo; come
c’è diversità di ministeri, ma il medesimo Signore; e diversità di operazioni
ma il medesimo Dio, che opera tutto in tutti.
La manifestazione dello Spirito è data a ciascuno per l’utilità
comune. Infatti dallo Spirito ad uno è
dato il linguaggio della sapienza; ad un altro il linguaggio della scienza,
però secondo il medesimo Spirito; ad uno la fede, nel medesimo Spirito; ad un
altro il dono delle guarigioni, nell’unico Spirito; ad uno il dono di operar
miracoli; ad un altro la profezia; ad uno il discernimento degli spiriti, a un
altro la diversità delle lingue, e a un altro l’interpretazione delle
lingue. Or, tutte queste cose le compie
un solo e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno in particolare secondo
vuole” (1 Cr 12, 4-11).
Si vede chiaramente da
questo passo che i due generi di “predicazione” individuati da Spinoza nel
testo paolino, in realtà non esistono, in quanto categorie fondamentali e non
conciliabili tra loro della predicazione apostolica (non conciliabili perché
una di origine divina e l’altra umana).
La “sapienza”, la “scienza” (o “conoscenza”), la “profezia”, così come
gli altri doni, vengono tutte da un unico Spirito, dallo Spirito Santo, per il
bene e l’utilità della Chiesa nascente.
Sono manifestazione di un’unica realtà sovrannaturale, rappresentata
sempre dallo Spirito Santo; emanano come tanti raggi da un unico centro.
Pertanto realizzano in modo diverso ma complementare la “predicazione”, in tutti
i suoi aspetti. Spiegando il loro
significato ai fedeli, S. Paolo dimostra che il dono della profezia è superiore
a quello delle lingue (1 Cr, 14 1 ss.) anche se non bisogna mai dimenticare che
tutti questi “doni” o “carismi” sono perfettamente inutili se non si ha la
carità poiché “la scienza gonfia ma la carità edifica” (il cap. 13 della
lettera contiene il celebre elogio della carità cristiana, come atteggiamento
spirituale di chi si rimette completamente al vero Dio in tutto ciò che fa e
pensa, per obbedirne sempre e comunque la volontà).
Un’analisi precisa e
ancora valida dei “carismi nel Cristianesimo primitivo” si trova, a mio avviso,
nella classica biografia di S. Paolo dell’abate Ricciotti. Di questi particolari fenomeni, S. Paolo è
colui che ne parla più ampiamente e più a lungo. Li chiama “sia carismi (charísmata
[doni], Rm 12,6), sia (cose) spirituali (1 Cr 12,1), sia semplicemente spiriti
(1 Cr 14,12-32). La ragione di questa
omonimia è chiara, giacché il carisma è il prodotto della cháris ossia
della grazia, e la fonte unica di tutti questi carismi si ritrova in
colui che è chiamato lo Spirito per eccellenza (1 Cr 12,4), il quale è Dio
(ivi, 6); quindi, per spontanea metonimia, questi prodotti dello Spirito
potevano chiamarsi anche (cose) spirituali, oppure spiriti”[56]. Più volte S. Paolo ci dà un elenco di questi
carismi, senza pretesa di completezza.
In questi elenchi troviamo:
“Discorso di sapienza (Apostoli), Discorso di conoscenza (Profeti), Fede
(Insegnanti), Guarigioni (Possanze), Operazioni di possanze (Guarigioni),
Profezia (Incarichi), Discernimenti di spiriti (Governi), Generi di lingue
(Generi di lingue), Interpretazioni di lingue”[57].
Dalla prima lettera ai
Corinti (1 Cr 14, 23-39) si desume l’azione dei carismi nelle prime adunanze
cristiane. “Quel primo oratore che,
subito dopo la celebrazione dell’Eucaristia, parlò in lingua sconosciuta dagli
astanti, possedeva il carisma dei Generi di lingue, chiamato anche Glossolalìa. Il secondo oratore, che tradusse nella lingua
usuale il discorso del primo, aveva il carisma delle interpretazioni di
lingue. Quel tal fedele che impose le
mani sul vecchio malato e pregando lo guarì, aveva il carisma delle Guarigioni. L’ultimo che con le parole consolò la vedova,
aveva il carisma del Commiserante”[58].
E veniamo ai carismi
che più ci interessano, in relazione all’ermeneutica di Spinoza: quello della profezia e quello dell’insegnante,
che ricomprende il discorso di conoscenza.
“Di particolare
rilievo è il carisma della Profezia.
Il profeta aveva un compito affine, ma non uguale, al profeta
dell’Antico Testamento. La sua era
parola di edificazione ed esortazione e consolazione [nam qui
prophetat, hominibus loquitur ad aedificationem et exhortationem et
consolationem] (1 Cr 14,3); egli poteva anche svelare i segreti
del cuore altrui (ivi, 25), e annunziare eventi futuri. Secondo la Didaché il profeta parla
in Spirito (XI, 7), ha diritto dopo la celebrazione dell’Eucaristia di
rendere pubbliche grazie a Dio conforme alla sua propria ispirazione (X, 7) e
gode di vari privilegi in seno alle comunità già costituite (XIII,1-6). Questo è il carisma sommamente raccomandato
da Paolo (1 Cr 14,1 ss.), a causa della sua diretta efficacia nelle comunità”[59]. Per ciò che riguarda il ministero della parola
in senso stretto, abbiamo “i tre carismi dell’Insegnante (didáskon,
didáskalos), del Discorso di sapienza e del Discorso di
conoscenza, che dovevano avere un fondo comune pur con talune divergenze
specifiche. Queste oggi a noi
sfuggono: forse il Discorso di
sapienza (lógos sophías) era abituale al profeta, mentre il Discorso di
conoscenza (lógos gnóseos) era abituale all’insegnante; il primo si
rivolgeva piuttosto al sentimento e al cuore, il secondo all’intelligenza e
all’erudizione. Tutti e tre, in genere
dovevano mirare a far conoscere ed amare la dottrina di Cristo mediante il
ministero della parola. La Didaché (XV,2)
fa sapere che l’insegnante era onorato al pari del profeta; di esso parla
spesso anche il Pastore di Erma”[60].
Da tutta questa messe
testuale si vede come S. Paolo pregiasse assai più lo spirito di profezia
perché contribuiva potentemente all’edificazione della comunità cristiana. La figura del profeta che qui appare si
distingue da quella dell’Antico Testamento.
Mentre quest’ultimo aveva ricevuto da Dio soprattutto il compito di
scuotere la classe dirigente e il popolo dai loro vizi, per ricondurli al
rispetto dell’autentica Rivelazione, mediante una predicazione incentrata in
prevalenza su visioni, comandi, minacce ed imperiose esortazioni, che faceva
nello stesso tempo apparire una concezione più morale, più spirituale e
veramente universale della Rivelazione; il dono della profezia nella primitiva
comunità cristiana era conferito da Dio – come spiega lo stesso Apostolo delle
Genti – soprattutto “per edificare, esortare, consolare”; per svelare
occasionalmente “i segreti del cuore” e per predire all’occorrenza eventi
futuri. Profeta, in questo
molteplice significato, si rivela lo stesso S. Paolo, come appare dalle sue
stesse Lettere.
I primi Cristiani
erano dei convertiti dal Paganesimo o dall’Ebraismo, rinascevano alla vera vita
per opera della Grazia e quindi in seguito alla predicazione e all’esempio di
vita cristiana offerto dagli Apostoli e dai loro collaboratori, uomini e donne. Era con la mansuetudine dello spirito di
carità che essi venivano salvati dalle tenebre spirituali che li
opprimevano. Si trattava di fondare una
nuova religione, anche se rappresentava il compimento di una precedente,
dell’Ebraismo. Una religione che non
aveva una base nazionale ma mondiale, in tutta l’umanità. Il Profeta dell’Antico Testamento era invece
“l’araldo”, il “parlatore” di Jahwé, che fustigava senza riguardo tutte le
colpe del popolo e dei capi, per ricondurli a Dio. Agiva spinto da un impulso irresistibile,
chiaramente sovrannaturale, ed era sempre uomo di vita coraggiosa ed
eroica. Un santo, che finiva quasi
sempre ammazzato dai potenti di turno[61].
Gli Apostoli non
appaiono molto diversi dai Profeti dell’Antico Testamento. Anche la loro vita fu santa ed eroica,
infaticabilmente al servizio di Dio, ora rivelatosi definitivamente nel Verbo
incarnato, Nostro Signore Gesù Cristo. E
se la loro predicazione privilegia l’argomentazione, l’esortazione e la
consolazione rispetto alle visioni e alle minacce di castighi, anche presso di
loro si trovano severi ammonimenti e profezie, in specie sugli ultimi
tempi. E anch’essi, come i Profeti,
preferirono sempre fare la volontà di Dio piuttosto che quella degli uomini,
senza curarsi delle conseguenze. Non per
nulla, quasi tutti gli Apostoli subirono il martirio, come i Profeti.
Tornando a
Spinoza. Dal fatto che, a suo avviso, la
conoscenza sovrannaturale dei profeti si manifestasse solo “in puri dogmi,
decreti o massime”, egli ne ricava che le Lettere degli Apostoli, non
rientrando in nessuna di queste categorie, non potevano esser scritte per
mandato divino. Ma questa
contrapposizione appare del tutto arbitraria.
Se non si guarda allo stile ma al contenuto si vedrà che, come si è
detto, anche le Lettere degli Apostoli contengono dogmi, i dogmi della nuova
fede che perfezionava l’antica, e “decreti e massime” ossia ordini, ammonimenti
e massime dal significato imperativo.
Chi ha detto, poi, che nei profeti dell’Antico Testamento non si trovino
mai “ragionamenti”? Basta leggere, tanto
per fare un esempio, il cap. 7 di Zaccaria, che profetò attorno al 520 a.C.,
per trovare una dettagliata spiegazione data da Dio tramite il profeta di come
debba intendersi il giusto rapporto tra il digiuno e le opere buone. L’insegnamento qui impartito è di una
chiarezza cristallina, allo stesso modo del ragionamento che lo sostiene
esponendo il giusto significato delle opere buone.
Ma le argomentazioni
di Spinoza non si fermano qui. Egli
cerca di trovare tutti gli argomenti possibili per dimostrare che gli Apostoli
non avevano ricevuto da Dio alcun mandato, quando scrivevano le loro lettere
apostoliche. Un suo ulteriore argomento
è il seguente: all’opposto dei Profeti,
gli Apostoli non erano inviati da Dio nei luoghi dove si recavano a
predicare. “Al contrario, si trovano
alcuni passaggi, i quali – scrive – indicano esplicitamente che gli apostoli
sceglievano di loro iniziativa le località in cui si recavano a predicare: donde la divergenza di opinioni, che diede
luogo perfino al dissidio tra Paolo e Barnaba, sul quale vedi gli Atti
15.37, 38, ecc. E spesso tentarono anche
inutilmente di recarsi in talune località etc.”. Da tutto ciò si dovrebbe concludere “che gli
apostoli predicavano in veste di dottori soltanto, e non anche in quella di
profeti” [62]. Di nuovo Spinoza ignora bellamente tutti i
passi del Nuovo Testamento che contraddicono la sua ermeneutica perché vi si
dimostra che gli Apostoli si recarono o non si recarono in un luogo in seguito
ad un’ispirazione divina. Per S. Paolo,
l’Abate Ricciotti ne elenca otto[63]. E S. Pietro, non iniziò ad evangelizzare i
Pagani in seguito ad una famosa visione personale, che gli ingiungeva di farlo
(At, 10, 9 ss.)?
Inoltre, la
ricostruzione testuale di Spinoza è ancora una volta imprecisa. Il “dissenso” tra S. Paolo e S. Barnaba non
fu sulla direzione da prendere, proposta da S. Paolo, ma sul compagno di
viaggio. Barnaba aveva proposto il giovane
Marco suo cugino (il futuro evangelista) che Paolo invece non voleva, perché
già in precedenza non li aveva accompagnati in maniera continuativa, per motivi
a noi ignoti. In conseguenza del
dissenso che ne nacque, Barnaba, “preso con sé Marco, si imbarcò per Cipro”,
sua patria, mentre Paolo, “sceltosi a compagno Sila”, partì per la Siria e la
Cilicia, rivisitando le comunità già fondate, secondo il piano originario, al
quale Barnaba non aveva fatto obiezioni.
Il momentaneo dissenso tra i due Apostoli verteva dunque su una
questione marginale. Sarebbe del tutto
sbagliato ricavarne che gli Apostoli dibattessero di frequente dove andare, nei
loro viaggi missionari[64].
Ma anche questi
temporanei dissensi o i desideri incompiuti di andare a predicare in un paese
invece che in un altro, cosa dimostrano?
Solo la giusta autonomia delle Cause seconde, permessa da Dio, che ci
vuole liberi cooperatori della sua volontà, avendoci dotati di libero
arbitrio, e che si serve anche di quell’autonomia per realizzare il suo
disegno di salvezza. Ma dell’esistenza di un effettivo libero arbitrio, che
concorra al piano divino di salvezza, un determinista come Spinoza non
voleva evidentemente sentir parlare.
6.4 Per
sostenere che le Lettere degli Apostoli non erano ispirate, Spinoza altera il
senso di Mt 10,19-20 e dell’incipit delle lettere stesse
Ma qual è, comunque,
la conclusione finale di Spinoza? Che
gli Apostoli agivano in tutto come privati dottori ossia come privati
cittadini? No. Bisogna ammettere,
scrive, che essi ricevettero effettivamente un mandato da Cristo. Però Cristo non è ovviamente, per Spinoza, il
Verbo incarnato. Egli è colui che “non fu tanto il profeta, quanto la bocca di
Dio”. Espressione di origine biblica, ci
informa il commento al Trattato, anche se non di immediata
evidenza. Per Spinoza, “attraverso la
mente di Cristo, Dio rivelò alcune cose al genere umano, così come prima le
aveva rivelate attraverso gli angeli, ossia attraverso una voce creata, visioni
ecc.”[65]. Un’immagine di Cristo che non sarebbe
dispiaciuta ad un a r i a n o .
Come si deve concepire
il mandato ricevuto da Cristo? Gli
Apostoli, al contrario dei Profeti, lo ricevettero per “convertire tutte le
genti alla religione. Dovunque andavano,
infatti, essi eseguivano il mandato di Cristo, né avevano bisogno che, prima di
partire, fossero loro rivelate le cose che dovevano predicare”. E perché non ne avevano bisogno? Ce lo spiegherebbe un passo di S.
Matteo. Prosegue, in effetti, il Nostro: “Lo stesso Cristo, infatti, aveva detto ai
suoi discepoli: “Ma quando vi
consegneranno a loro, non preoccupatevi di come e di che cosa dobbiate dire; vi
sarà infatti suggerito in quella circostanza che cosa dobbiate dire”, ecc.
(vedi Matteo 10, 19-20).
Concludiamo, dunque, che gli apostoli ricevettero mediante singolare
rivelazione soltanto quelle cose che predicarono a viva voce e che confermarono
anche con i segni; mentre invece le cose che insegnarono semplicemente a viva
voce o per iscritto, senza servirsi né di testimonianza né di segni, le dissero
o le scrissero per conoscenza (cioè naturale); intorno a ciò vedi la prima Epistola
ai Corinti 14.6”[66].
Si nota come Spinoza,
sempre analizzando la Bibbia con la Bibbia (come diceva), cerchi di imbastire
un’ermeneutica volta a dimostrare che le Lettere degli Apostoli non
erano divinamente ispirate. Tutta la sua
costruzione poggia sul versetto di Mt 10,19-20, che abbiamo già incontrato
precedentemente (vedi supra cap. V, § 1). Come ognuno può vedere, il significato del
versetto non è quello che gli attribuisce Spinoza. Qui, infatti, Nostro Signore promette l’assistenza
decisiva dello Spirito Santo nel momento della persecuzione, che sarebbe
puntualmente giunto durante la missione apostolica. Della persecuzione, non della predicazione. Era inutile prepararsi mentalmente anzitempo
ad affrontare i persecutori, cosa molto difficile e praticamente impossibile
per lo spirito umano. L’unica cosa da
fare era aver fiducia in Dio: al momento
opportuno, lo Spirito Santo avrebbe sorretto gli Apostoli nella prova
suggerendo e dettando loro ciò che avrebbero dovuto dire, così come avrebbe poi
sorretto tutti i fedeli nella medesima situazione.
Questo versetto è
stato sempre inteso nel suo valore universale di promessa dell’assistenza
divina al credente, per consentirgli di rimaner fedele e perseverare nell’ardua
prova della p e r s e c u z i o n e
. Appare, perciò, del tutto errato
volerne applicare il significato alla predicazione stessa, per dimostrare la
tesi (evidentemente preconcetta) che gli Apostoli non possedevano una dottrina rivelata
da predicare; rivelata, ossia loro insegnata da Gesù anteriormente alla
predicazione. In questa loro prima
missione, ci informa S. Matteo, essi ricevettero i poteri taumaturgici del
Signore: “Diede loro potere sopra gli
spiriti immondi per cacciarli e guarire ogni malattia e ogni infermità”(Mt 10, 1). Inoltre, i Dodici avevano ben ascoltato gli
insegnamenti morali di Cristo, che dovevano evidentemente a loro volta
predicare alla “Casa di Israele”.
Su quell’errato
fondamento, Spinoza enuncia dunque il canone della sua “esegesi”: gli Apostoli ebbero una “singolare
rivelazione” (ossia ad hoc) solo per ciò che predicarono “a viva voce” e che
“confermarono anche con i segni”. Cosa
intende egli con “segni”? Nel cap. II
del Trattato, dedicato ai Profeti, ricorda che, secondo Deut. 18, 21, il
segno che si esigeva dal profeta era “la predizione di un evento futuro” che si
sarebbe avverato[67]. Questo era il “segno” in senso proprio. Ma anche con i “segni”, osserva Spinoza, si
aveva sempre “una certezza profetica soltanto morale”, come risulta dalla
Scrittura stessa, che denuncia l’esistenza di falsi profeti che potevano
compiere “segni e miracoli” e ingannare il popolo (Deut., 13), concetto
ribadito da Cristo in Mt 24, 24, a proposito dei “segni” degli ultimi tempi[68].
L’effettivo
significato sovrannaturale del “segno” dell’autentico profeta resta allora
dubbio, se anche i falsi profeti possono ingannarci con falsi “segni”. Tuttavia il segno ci doveva sempre essere,
presso i Profeti, anche se la Bibbia ne parla raramente[69]. E noi dobbiamo supporre ci fosse sempre anche
presso gli Apostoli, nella loro predicazione “a viva voce”, per “rivelazione
singolare”. Non c’era invece in tutto il
resto del loro insegnamento, “a voce o per iscritto”, privo di “testimonianze o
di segni”[70]. Qui essi agivano per mera conoscenza
naturale. A sostegno, Spinoza cita di
nuovo 1 Cr 14,6. Ma ho già dimostrato
come la sua tesi di una distinzione paolina radicale tra due tipi
ontologicamente diversi di predicazione, sia del tutto insostenibile. Tutta la sua teoria poggia dunque solo su Mt
10, 19-20, estrapolato dal suo contesto ed utilizzato per dimostrare una cosa
chiaramente contraria a quanto detto nella Scrittura, che ci testimonia come
Nostro Signore istruisse gli Apostoli nella dottrina e li dotasse degli
opportuni “carismi”, prima di mandarli in missione.
A questo punto resta
un’ultima possibile obiezione alla quale Spinoza deve rispondere. Il mandato divino di predicare e di essere
quindi “profeti” (uomini di Dio, che parlano in luogo di Dio) gli Apostoli non
lo attestano forse all’inizio di quasi tutte le loro Epistole, quando si
presentano alle Chiese appunto come inviati da Cristo, Figlio di Dio? “Paolo, chiamato apostolo di Cristo Gesù per
volontà di Dio…grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e Signore Gesù
Cristo!”; “Paolo, apostolo di Cristo
Gesù per volontà di Dio, ai Santi che sono in Efeso e ai fedeli in Gesù
Cristo…”; “Giacomo, servo di Dio e del Signor nostro Gesù Cristo, alle dodici
tribù che sono nella dispersione, salute!”; “Simon Pietro, servo e apostolo di
Gesù Cristo, a coloro che nella giustizia del nostro Dio e Salvatore Gesù
Cristo hanno ottenuto una fede pari alla nostra…”; etc.
Come risponde Spinoza all’obiezione? Che il fatto “non rappresenta per noi una
difficoltà”. Gli Apostoli avevano
ricevuto anche “l’autorità di insegnare”, onde era logico che iniziassero le
loro lettere “con la dichiarazione del loro apostolato”. Anzi, prosegue, per “conciliarsi più
facilmente l’animo del lettore”, vollero dichiarare che “erano appunto quelli
che tutti i fedeli conoscevano per la loro predicazione”. E che questo fosse il significato delle
attestazioni dell’apostolato, è dimostrato, secondo Spinoza, dal fatto che
“tutto ciò che in quelle lettere si dice della vocazione degli apostoli e dello
Spirito Santo e divino, che li ispirava, si riferisce alle predicazioni che
essi avevano tenuto, ad eccezione soltanto dei passi in cui le espressioni
“Spirito di Dio” e “Spirito Santo” sono usate per indicare una mente sana,
beata e dedicata al servizio di Dio ecc., come abbiamo detto nel cap. I
[dedicato al tema della profezia]”[71].
Nelle Lettere, gli
Apostoli si riferivano certamente alle predicazioni “che essi avevano tenuto”,
ma questo impediva loro di ribadirle sviluppando e approfondendo, in relazione
ai temi nuovi, sollevati dai fedeli, cui le lettere dovevano rispondere? Sembra che per Spinoza le lettere apostoliche
dovessero avere a proprio contenuto solo argomenti del passato! Ma questo non è del tutto assurdo? I fatti dimostrano il contrario: le lettere nascevano proprio per rispondere a
domande e problemi correnti, anche dottrinali, posti dalla comunità, dalla
singola Chiesa. Nelle risposte, la
dottrina veniva affinata e a volte sviluppata in modo più approfondito rispetto
alla predicazione orale anteriore, come si vede chiaramente nelle lettere di S.
Paolo. Si doveva evitare il sorgere di
errori ed eresie, divisioni. Ridurre
pertanto il contenuto delle Lettere apostoliche alla sostanziale ripetizione
del precedente insegnamento orale degli stessi Apostoli è cosa del tutto falsa.
Allo stesso modo della
consueta riduzione spinoziana di ogni elemento sovrannaturale ad una dimensione
puramente umana. Giocando
sull’interpretazione di alcune espressioni dell’Antico Testamento, egli vuol
far intendere che ogni riferimento apostolico allo “Spirito Santo” sia in
realtà un modo di indicare la mente dell’uomo.
E a sostegno di questa sua “ermeneutica”
cita ancora il cap. 7 di 1 Cr., là ove S. Paolo scrive: “ma è felice [la vedova], secondo il mio
avviso, se essa rimane quale è, giacché credo anch’io che lo Spirito di Dio sia
in me”. E qui, appunto, secondo Spinoza,
“per “Spirito di Dio” egli intende la sua stessa mente, come indica lo stesso
contesto del discorso, il cui senso è:
la vedova che non vuol passare a seconde nozze, è giudicata beata da me,
che ho deciso di vivere celibe e mi stimo a mia volta beato”[72].
In realtà, S. Paolo si
riferisce allo Spirito Santo proprio per conferire efficacia al suo
consiglio. Anche se non erano comandi, i
consigli degli Apostoli provenivano sempre da uomini di santa vita, assistiti
dallo Spirito Santo. Questo vuol
sottolineare S. Paolo. La traduzione
letterale è: “e credo di aver anch’io lo
Spirito di Dio”, cioè lo Spirito Santo, che mi consente di dare buoni consigli
di vita cristiana, se necessario. Il
consiglio di non risposarsi sembrava non incontrare il favore della
maggioranza, che riteneva la vedova più felice se si fosse risposata. E forse anche la vedova la pensava così. Ma S. Paolo, che aveva appena fatto il giusto
elogio della verginità, ribatte che se la vedova non si risposa è meglio per
lei. E nel dir questo, conclude, non
parlo da dissennato o da insensibile ma come uomo che, come gli altri fedeli,
ha anch’egli il dono dello Spirito Santo.
E lo Spirito Santo, dal quale ricevevano tanti “carismi”, non era certo,
per i fedeli e S. Paolo, la stessa cosa della loro mente, del loro io! Sapevano ben distinguere! Insinuare, come fa Spinoza, che l’Apostolo in
realtà parlasse per metafora, intendendo riferirsi alla sua propria mente, di
uomo che si considerava sano e beato nel suo stato, significa stravolgere
completamente la frase, appiccicandole un significato del tutto alieno, che la
separa in maniera radicale dal contesto nel quale si trova, rendendola priva di
senso.
6.5 Per
sostenere, alla fine, che gli Apostoli non predicavano una dottrina comune,
Spinoza altera il senso di Rm 15, 20
La conclusione cui
giunge Spinoza, sulla base della sua errata esegesi, limita dunque fortemente
il “mandato” ricevuto dagli Apostoli:
esso valeva solo per la predicazione orale, confermata con i
“segni”. Qual è allora il valore delle
loro Lettere, ridotte da lui ad esser testimonianza di un insegnamento
dipendente unicamente dal loro intelletto o “lume naturale”?
“Stabilito, dunque,
che le lettere degli apostoli furono dettate dal solo lume naturale, è ora da
vedersi come gli apostoli potessero insegnare in base alla sola conoscenza
naturale le cose che non rientrano nel dominio di questa”[73]. La risposta è abbastanza semplice, secondo
Spinoza: la religione che essi
predicavano era “semplicemente il racconto della storia di Cristo”, cosa che
non rientrava nel “dominio della ragione” (per qual motivo, non è spiegato). Tuttavia, essa “poteva nel suo complesso esser
compresa da ciascuno col lume naturale, essendo essa costituita, come tutta la
dottrina di Cristo, essenzialmente di precetti morali”, quali risultano,
precisa in nota, dal Discorso della Montagna[74]. L’insegnamento di Cristo è sempre e solo
quello di un predicatore ebreo itinerante, che era “la bocca di Dio” per ciò
che riguardava gli insegnamenti lasciatici nel Discorso della Montagna. Altro non c’è. Stop.
Pertanto lo scopo delle lettere degli Apostoli era appunto questo: “istruire ed ammonire gli uomini con quei
mezzi che ciascun apostolo ritenesse più adatti a confermarli nella religione”[75]. Se l’insegnamento di Cristo era nient’altro
che un’etica comprensibile da ognuno col lume naturale (cosa che sicuramente in
parte è), allora poteva esser insegnato per iscritto sulla base del semplice
lume naturale degli Apostoli, che quindi potevano scegliere “il mezzo più
adatto per istruire e ammonire”. Noto,
sul punto, che se l’insegnamento di Cristo era tutto racchiuso nel Discorso
della Montagna, accessibile con il lume naturale di ognuno, non si comprende
allora perché gli Apostoli avessero bisogno di un suo mandato ad hoc per la
predicazione a voce, da confermare in ogni circostanza con “segni”
particolari. A voce o per iscritto, non
si trattava sempre di insegnare le stesse cose ossia delle verità morali
accessibili a tutti? C’era bisogno di
“segni” particolari che ne dimostrassero la verità? Non c’era già il “lume naturale”? Seguendo la logica intrinseca
all’argomentazione spinoziana, resta quindi privo di vera motivazione il
“mandato” a predicare determinate verità servendosi di “segni”, allo stesso
modo dei profeti. Resta privo, si
intende, all’interno del discorso messo in piedi da Spinoza.
Comunque sia, dalla
(arbitraria) riduzione dell’insegnamento scritto degli Apostoli a mera
esposizione del loro lume naturale di una dottrina a sua volta accessibile al
semplice lume naturale di tutti, Spinoza ne ricava che ogni apostolo potesse
scegliere i mezzi di esposizione da lui stesso ritenuti più opportuni e
addirittura il suo personale “metodo”, cosa che impediva l’unità della dottrina
insegnata. Ciò a suo dire risulterebbe
da un passo della Lettera ai Romani.
“[Dalla Scrittura] risulta chiaramente infatti che ciascuno degli
apostoli seguì una propria via, come si vede dalle parole di Paolo, nell’Epistola
ai Romani 15,20: “Avendo cura di predicare non là dove era già
invocato il nome di Cristo, per non edificare sopra un fondamento posto da
altri”. Poiché Paolo chiama quelli di un
altro apostolo “fondamenti altrui, si deve necessariamente concludere che
ciascuno costruì l’edificio della religione sopra un diverso fondamento”. Quale la conseguenza ultima? Il caos dottrinale, gli errori: “vediamo che gli apostoli convenivano bensì
nella medesima religione, ma non erano d’accordo circa i fondamenti di essa”[76]. La prova si ha, secondo Spinoza, nella
salvezza per la sola fede che S. Paolo avrebbe insegnato nella lettera ai
Romani, di contro alla giustificazione per mezzo delle opere riproposta da S. Giacomo,
nella sua lettera[77]. Per ovviare a questo stato di cose e ai mali
che ne sono seguiti, occorre allora ritornare all’insegnamento primitivo di
Cristo, “a quei pochissimi e semplicissimi dogmi che Cristo insegnò ai suoi
discepoli”[78].
Questo il risultato
cui giunge l’esegesi filologica dell’irreligioso Spinoza, considerato uno dei
padri della moderna critica (detta storico-critica) al Testo Sacro, e pertanto
celebrato come uno dei padri spirituali del Modernismo: le Lettere degli Apostoli sono piene di
contraddizioni, ognuno insegna una dottrina sua particolare, i Cristiani devono
ritornare al primitivo insegnamento di Cristo, semplice e lineare, con pochi e
semplici dogmi, accessibili a tutti!
Suona familiare? Ma si è visto di
quante arbitrarie interpretazioni si
serva Spinoza per giungere alle sue false conclusioni. E la conta degli errori ermeneutici del
filosofo non è finita, altri ce ne sarebbero da denunciare. Non posso comunque tralasciare la sua
clamorosa distorsione di Rm 15, 20. Il “fondamento” o la “base” altrui cui
l’Apostolo si riferisce non riguarda la dottrina: è invece la Chiesa già fondata da altri, alla
quale egli non voleva in linea di principio aggiungere la sua opera proprio
perché la sua vocazione era quella di fondare la Chiesa tra i Gentili, dove
nessuno era ancora arrivato. Lui ha
avuto l’onore di esser chiamato a questo compito dal Signore in persona[79].
Ricorrendo sempre al
metodo ermeneutico corretto, situo il passo nel suo contesto specifico. Siamo prossimi all’epilogo della grande Lettera
ai Romani, siamo alle notizie di
carattere personale. La lettera fu
scritta nell’AD 57 da Corinto. Paolo non
era ancora mai stato a Roma ed era ardente il suo desiderio di visitarvi la
comunità cristiana. La Provvidenza ve
l’avrebbe fatto giungere circa tre anni dopo, per esservi alla fine
martirizzato durante la persecuzione di Nerone, nel 67, all’età di circa
sessant’anni[80]. Egli si giustifica, come si è visto, per
l’iniziativa insolita di predicare per iscritto ad una Chiesa non fondata da
lui ed espone sinteticamente la sua attività di Apostolo delle Genti, sempre
guidata da Cristo e dallo Spirito Santo, sviluppatasi in tutti quegli anni, “da
Gerusalemme e dai paesi all’intorno fino all’Illirico” (Rm 15, 17-19), cioè nel
bacino orientale del Mediterraneo e nei Balcani centro-meridionali. La Macedonia e la Tracia (dove c’era la città
di Filippi, di cui alla Lettera ai Filippesi) erano provincie balcaniche
dell’impero romano, confinanti con l’Illirico, regione che dai Balcani centrali
giungeva sino all’Adriatico, nel cuore dell’impero.
“Da Gerusalemme e dai
paesi intorno fino all’Illirico ho
adempiuto la mia missione rispetto al Vangelo di Cristo. E mi sono studiato di evangelizzare non là
dov’era già stato nominato Cristo, per non edificare su base [themélion,
fundamentum] d’altri, secondo sta scritto:
“Vedranno quelli a cui non è giunta notizia di lui, e quelli che non
l’hanno udito l’intenderanno” (Rm 15,19-21)”.
Perché S. Paolo, sempre per mandato divino, “si è studiato” di svolgere
la sua missione in quelle parti dell’impero romano dove Cristo non era stato
ancora “nominato” ossia non era ancora conosciuto, evitando in tal modo di
“edificare su base d’altri”, sulle Chiese già fondate da altri prima di lui? Perché era lui, Paolo, colui che era stato
scelto per far conoscere la Buona Novella della venuta del Messia a chi non ne
aveva avuto notizia, in adempimento della profezia di Isaia.
Il passo
veterotestamentario citato dall’Apostolo è Isaia 52, 15. La sua presenza è fondamentale alla
compresione dell’esatto significato del testo ma Spinoza lo passa completamente
sotto silenzio. Si tratta dei versetti
introduttivi al famoso testo nel quale il grande profeta preannuncia l’avvento
del Messia nella figura del “Servo di Jahwé”, l’uomo dai molti dolori; di un
Messia non nazionale (liberatore temporale di Israele) ma redentore di tutti
gli uomini. Il “servo del Signore”,
vaticina Isaia, sarà “senza gloria” nel suo aspetto, sarà l’uomo della
sofferenza, ma “aspergerà molte genti; dinanzi a lui i re si chiuderanno la
bocca; perché quelli che non avevano sentito parlare di lui lo vedranno, e
quelli che non avevano nulla udito lo contempleranno” (Is 52,14-15). Lo “vedranno” e “l’intenderanno” i Pagani
“che non avevano sentito parlare” di Nostro Signore Gesù Cristo, tramite la
fondazione presso di loro (dai paesi a Nord di Gerusalemme sino all’Illirico)
delle comunità della Chiesa di Cristo ad opera di Paolo, apostolo di Cristo.
Questo è il senso del
riferimento paolino al fondamento della Chiesa.
Il greco e il latino significano sia base in senso proprio di tempio,
città, trono, che fondamento in senso figurato[81]. Qui sembra esserci soprattutto il significato
concreto del fondamento di una Chiesa (intesa non come edificio ma come comunità),
fatto da altri e/o da Paolo. La dottrina
non c’entra. S. Paolo vuol solo
ricordare ai fedeli di Roma, molti dei quali convertiti dal Paganesimo, che
egli finora non ha svolto la sua opera missionaria là ove Cristo era già
conosciuto (dove la “base” era già stata costruita “da altri”) ma unicamente
dove era completamente sconosciuto, cooperando in tal modo all’attuazione della
profezia messianica di Isaia. Si tratta
di fondazione di comunità cristiane, di Chiese, non di fondamenti dottrinali.
L’altro grave fraintendimento testuale di
Spinoza riguarda la contrapposizione tra S.Paolo e S.Giacomo in ordine al
rapporto tra la fede e le opere per la salvezza. Non occorre profondersi qui in
complesse analisi testuali per confutare quest’eresia, basta rimettersi
all’insegnamento ufficiale della Chiesa e della teologia ortodossa da essa
utilizzata . Mi limito a ricordare che
S. Paolo, in una delle sue ultime lettere, la prima a Timoteo, da lui
convertito e consacrato vescovo di Efeso, scritta verso l’AD 65, nelle raccomandazioni finali, per la parte
dedicata alla pastorale dei ricchi, raccomanda di incitarli oltre che alla
fede, ad “arricchirsi di opere buone [divites fieri in bonis operibus]”,
in modo da costituirsi “un buon fondamento per l’avvenire”, cioè per la vita
eterna (1 Tm 6,18-19). Anche per S.
Paolo, dunque, le buone opere, non meno della fede, sono indispensabili per la
salvezza della nostra anima.
Quest’ultimo
fraintendimento di Spinoza deriva direttamente, direi, dagli errori teologici
professati dall’ambiente protestante del suo Paese. La conoscenza che Spinoza aveva del
Cristianesimo proveniva da fonti inquinate.
Infatti, a vent’anni, insofferente di quella ebraica, cominciò a
frequentare la scuola privata di un
ex-gesuita e libero pensatore, tale Franciscus van den Enden, dalla cultura
poliedrica, nella cui casa si incontravano cristiani liberali e liberi
pensatori e dove imparò il latino e si perfezionò nell’olandese[82]. Fu poi influenzato, almeno in parte, dalla
“esegesi” razionalistica del materialista Hobbes, il cui famoso libro sullo
Stato, il Leviathan, uscito in inglese nel 1651 e nel 1668 in latino, in
versione ridotta, proprio ad Amsterdam, si occupava ampiamente della religione
e del rapporto tra Stato e religione[83].
6.6 Il
diritto ad una libertà religiosa fondata sulla coscienza individuale presuppone
una religione di Stato solo “civile”, priva di ogni elemento sovrannaturale,
incompatibile con il Cristianesimo
L’esegesi razionalista
di Spinoza fa ulteriormente progredire l’arbitraria separazione protestante fra
S. Scrittura e insegnamento orale della Chiesa, costitutivo anch’esso del
dogma. Ma in un senso del tutto opposto
e non meno esiziale per il Cristianesimo.
Infatti, Spinoza preferisce l’insegnamento orale perché sarebbe avvenuto
per mandato di Cristo, e svaluta completamente quello scritto degli Apostoli,
riducendolo a produzione di “dottori privati”.
Ma in realtà svaluta tutti e due, poiché gli insegnamenti di Cristo li
riduce al Discorso della Montagna, per di più reinterpretato in chiave
razionalistica, come semplice sistema di precetti morali ragionevoli,
sintetizzabili nel comandamento di praticare la giustizia e amare il
prossimo. Li riduce ad un insegnamento e
ad una dottrina che di per sé non presuppongono e non contengono alcunché di
sovrannaturale.
Né devono trarre in
inganno le sue affermazioni sull’insegnamento dei profeti, che, di contro a
quello degli Apostoli, sembrerebbe effettivamente godere di un “mandato”
divino. L’analisi spinoziana del
profetismo (nei primi due capitoli del Trattato) mira in realtà ad
eliminare la possibilità stessa di ogni effettiva origine sovrannaturale della
“missione” dei profeti. Infatti, una
conoscenza come quella professata da loro (e dagli Apostoli) di verità
effettivamente rivelate da Dio, nell’ottica di Spinoza non può esistere. E perché non può? Perché tra “conoscenza naturale” e profezia
non c’è differenza: “la conoscenza
naturale si può chiamare profezia”. E
com’è possibile? È possibile alla luce
dell’identificazione spinoziana di Dio con la Natura (vedi supra, §
6.1). “Infatti, le cose che conosciamo
per lume naturale dipendono tutte dalla sola conoscenza di Dio e dai suoi
eterni decreti”. Anche la conoscenza
naturale “si può chiamare divina allo stesso titolo di qualunque altra perché
essa ci viene dettata dalla natura di Dio, in quanto noi ne siamo partecipi, e
dai decreti divini”[84].
Nella visione
immanentistica e panteistica di Spinoza, la sostanza infinita che è Dio è ab
aeterno res cogitans e res extensa, senza atto di creazione che stabilisca un
realtà gerarchicamente ordinata di creatura e Creatore, onde la mente umana
partecipa di per sé della natura di Dio e pertanto della mente di Dio, per il
solo fatto di essere res cogitans. La
nostra mente “ha la potenza di formare talune nozioni esplicative della natura
delle cose e direttive della vita”. E ce
l’ha questa potenza, “per il fatto solo che contiene in sé obiettivamente la
natura di Dio e di essa partecipa”[85]. Non è questa la divinizzazione della nostra
mente? O, all’opposto: non si ha qui
l’estinzione dell’idea di Dio, ridotto alla dimensione limitata della nostra
mente? Posto in tal modo il concetto
della conoscenza ed il rapporto tra la nostra mente e Dio, la conclusione
ultima, luciferina, non può che esser
questa: “possiamo ben affermare
che nella natura della mente, concepita come tale, consiste la causa prima
della divina rivelazione; tutte le cose, infatti, che noi conosciamo
chiaramente e distintamente sono a noi dettate (come or ora abbiamo detto)
dall’idea e dalla natura di Dio, non a parole, ma in modo assai più eccellente
e conforme alla natura della mente, come ha potuto sperimentare in se stesso
chiunque abbia gustato la certezza dell’intelletto”[86].
Su simile fondamento,
cosa ci dobbiamo aspettare dalla definizione spinoziana della conoscenza
profetica? Che essa è nient’altro che un
prodotto della mente dei profeti, dotata di una “immaginazione” sconosciuta al
comune degli uomini. Ciò che
caratterizza il profeta è “una più viva facoltà di immaginare”[87]. La predicazione dei profeti mostra la
capacità della loro immaginazione, non che ciò che essi dicono venga da
Dio. Cosa caratterizza il profesta? l’immaginazione, i segni, l’animo “inclinato
soltanto all’equità e al bene”[88]. Consistendo il sapere profetico soprattutto
nell’immaginazione del profeta stesso, esso dipende in misura rilevante dalla
personalità del profeta e quindi dalle sue opinioni personali. Si può perciò dire, a proposito delle visioni
di Dio narrate dai profeti, “che ciascuno, senza dubbio, vide Dio così come era
solito immaginarlo”[89]. Ma Spinoza, come fa a dirlo? Egli non crede nell’esistenza di un Dio
personale ossia nell’esistenza effettiva di Dio: deve quindi dire che le visioni di Dio dei
profeti erano quelle delle immagini di Dio che i profeti possedevano, nella
loro accesa immaginazione; in sostanza, un parto della loro mente
esaltata. I profeti, inoltre,
“professarono opinioni contrastanti”[90]. Come faccia a dirlo, resta per me un
mistero. Chi legge i libri dei Profeti
senza preoccuparsi delle bizantinerie di certe scuole esegetiche ma
immergendosi nello spirito del Testo, agitato dalla Parola di Dio, non ha
affatto l’impressione di trovarsi di fronte ad “opinioni contrastanti”. È Dio che parla ed ammonisce attraverso
visioni, immagini e ragionamenti. Anche
se a volte in modo assai aspro, parla sempre per il nostro bene: sono sempre gli stessi concetti, le stesse
verità che vengono ripetute, anzi ribattute.
L’evoluzione dottrinale che appare nei Profeti, il perfezionarsi della
Rivelazione, che, grazie all’Incarnazione e all’opera dello Spirito Santo, si
concluderà con la dottrina insegnata dagli Apostoli, è invece, per Spinoza,
nient’altro che sintomo di “opinioni contrastanti”.
Lo schema interpretativo
costruito per i profeti, che espunge il sovrannaturale e riduce la profezia ad
un’opinione personale del profeta e il profetismo biblico ad un coacervo di
“opinioni contrastanti”, lo ritroviamo paro paro nello schema applicato agli
Apostoli. Eliminato il sovrannaturale
dalla religione rivelata, che cessa pertanto di esser rivelata, Spinoza può
allora procedere alla parte “politica” del suo Tractatus, nella quale
viene teorizzato il concetto della libertà religiosa come espressione della
libertà di coscienza (capp. XVI-XX). Ma
la libertà religiosa intesa come espressione della libertà della coscienza
individuale per ciò che riguarda la fede, presuppone una fede di tipo
deistico-razionalistico ovvero l’eliminazione delle religioni rivelate e la loro
sostituzione con una religione “civile”, i cui articoli di fede siano stabiliti
dalla ragione come i più adatti alla convivenza pacifica tra i cittadini.
Lo Stato “ben
ordinato” ossia costruito secondo ragione nasce (alla maniera di Hobbes) dal
patto sociale con il quale gli individui rinunciano in favore del potere
sovrano al loro (supposto) diritto ad ogni cosa, tipico della loro condizione
naturale, regno della “forza” e della “cupidigia”. Nello stato di natura non ci sono pertanto né
giustizia né ingiustizia né religione né idea del peccato. La ragione ci impone dunque di uscire dalla
natura e di sottometterci allo Stato, per il nostro vantaggio ed utilità non
per attuare la giustizia. Solo vivendo
secondo i dettami della ragione si è liberi[91]. E la ragione spinge l’uomo ad accettare la
Rivelazione “perché ciò gli è utile, oltre che necessario alla salvezza”[92]. Ma la Rivelazione vale per l’uomo in società
unicamente come “diritto divino rivelato” che si accetta con un patto
esplicito, con il quale gli uomini “promettono di obbedire a Dio in ogni cosa”[93].
La “suprema autorità”
dello Stato mantiene e garantisce il “diritto divino rivelato” senza esser
vincolata dall’opinione dei singoli in materia.
Lo Stato spinoziano, come quello teorizzato da Hobbes, gode di una
sovranità assoluta, che gli deriva dal modo nel quale è concepito il patto
sociale. Il potere sovrano ha il diritto
di imporre un culto pubblico cui tutti devono obbedire, religione senza dogmi
di origine sovrannaturale, costruita dalla ragione per realizzare la pace
sociale ed evitare la guerra civile.
Religione non rivelata, dunque,
ma i suoi princìpi o articoli di fede o “nozioni di Dio” tutti li devono
rispettare perché coincidono con la vera “fede cattolica” o “universale”, che
Spinoza estrae dalla religione rivelata.
Essi sono: 1. Esiste Dio, “un
ente supremo sommamente giusto e misericordioso esemplare della vera
vita”; 2. È un Dio unico; 3. È
presente ovunque; 4. Ha “di diritto il dominio supremo su ogni cosa”; 5. “Il
culto di Dio e l’obbedienza a lui consistono nella sola giustizia e nella
carità, ossia nell’amore verso il prossimo”;
6. Sono “salvi” unicamente coloro
che seguono la “regola di vita” del punto n. 5, gli altri, sono “perduti”; 7. Dio
perdona i peccati a coloro che ne sono pentiti[94].
Questa, dunque, la
vera “religione cattolica”, nel senso letterale di “universale”, che tutti,
secondo Spinoza, possono accettare perché conforme a ragione e che tutti devono
accettare in quanto imposta dallo Stato come unico culto pubblico. Si tratta, come ognun può vedere, di un
eptalogo deista, con reminiscenze veterotestamentarie e protestanti. Sono i sette “dogmi” di una vera e propria religione
civile, laica, che lo Stato deve sostituire a quella rivelata; religione
che circa un secolo dopo ritroveremo, fatte le opportune differenze,
nell’ultimo capitolo del Contrat Social di Jean-Jacques Rousseau (aprile
del 1762), dedicato alla laica “religione civile”. Non mi sembra anacronistico designare la
“fede” civile elaborata da Spinoza con il posteriore appellativo di “religione
civile”, che quella fede già adombra[95].
Il punto essenziale per ciò che riguarda la
libertà religiosa è il quinto ,
dato che il culto reso pubblicamente a questo Dio costruito dalla ragione deve
integrarsi con la libertà di coscienza che si deve riconoscere a ciascuno. Scrive, infatti, Spinoza, che, per evitare le
discordie e le guerre civili, “nulla di più sicuro si può escogitare per lo
Stato che riporre la pietà e il culto religioso nelle sole opere, e cioè
nell’esclusivo esercizio della carità e della giustizia, lasciando a ciascuno
libertà di giudizio in tutto il resto”[96]. La “carità” verso il prossimo e la
“giustizia” sono per Spinoza l’unico vero contenuto della Rivelazione,
deducibile dal Discorso della Montagna e in definitiva dall’intera Bibbia; sono
i due precetti che la ragione può legittimamente dedurre dalla Rivelazione, che
viene così ridotta a due massime ragionevoli della vita in comune, gravate di un preminente significato sociale
dal momento che vengono a dipendere dalla legge del Sovrano e si esercitano
“soprattutto in vista della pace e della tranquillità dello Stato”[97].
La libertà di
coscienza nelle cose della religione appare nell’inciso: “lasciando a ciascuno libertà di giudizio su tutto
il resto”. Come si giustifica questa
“libertà di giudizio”? E che significa
“tutto il resto”? E da dove emerge? Con il patto sociale, l’individuo non ha
forse alienato al potere sovrano anche questa libertà? Ma questa “libertà di giudizio” è assoluta
nel suo principio dal momento che non può essere alienata dall’individuo. Non è però assoluta nella sua attuazione
pratica. La manifestazione di questo
diritto inalienabile della persona è legittimamente sottoposta a limiti da
parte dello Stato. Infatti, “se è
impossibile togliere completamente ai sudditi questa libertà, d’altra parte
sarà assai pericoloso concederla loro senza riserve”[98]. Differenziandosi qui da Hobbes, Spinoza
teorizza che nel patto l’individuo non trasferisce tutti i suoi diritti allo
Stato. Non li trasferirà al punto da
“cessare di essere uomo; e nemmeno si darà mai un potere così assoluto, che
possa fare tutto ciò che vuole. Così, inutilmente esso ordinerebbe al suddito
di odiare colui che lo ha beneficiato, di amare chi lo ha danneggiato, di non
reagire alle offese etc.”[99]. Sono esempi per assurdo, che ancora non ci
illuminano sul motivo per il quale l’individuo non alieni il suo diritto alla
libertà di coscienza in fatto di religione.
Perché la religione occupa presso ognuno una sfera che non può
costituire materia di contrattazione pattizia con il potere sovrano dello
Stato?
Perché, come spiega
l’Autore nel cap. VII, Dell’interpretazione delle Scritture, non
consistendo “tanto negli atti esterni, quanto nella semplicità e nella
sincerità dell’animo, essa non è di competenza di alcun diritto pubblico né di
alcuna pubblica autorità. La semplicità
e la sincerità dell’animo infatti non si infondono negli uomini con l’imperio
delle leggi e con la forza della pubblica autorità, e nessuno assolutamente può
essere costretto con la forza o con le leggi a raggiungere la beatitudine”[100].
La religione è
costituita per Spinoza unicamente dalla “semplicità e sincerità
dell’animo”, dalla nostra buona disposizione interiore (che pur deve esserci). Il suo è un concetto incompleto, parziale
della religione e della fede perché è un concetto puramente soggettivo
di religione, simile a quello dei Protestanti ma anche caratteristico di chi
non ammette l’esistenza di un Dio vivente, creatore, personale, che si sia
rivelato con delle verità alle quali il nostro intelletto deve prestare
l’assenso dovuto. Queste “semplicità e
sincerità dell’animo” non sono quelle invocate da Profeti e Apostoli quando
esortano gli uomini a credere in Dio e ai suoi comandamenti non solo a parole,
con le labbra, esteriormente ma anche e soprattutto col cuore, con tutta
l’adesione della loro anima, del loro intelletto e quindi con le buone opere
che traducono quell’adesione in vita concreta.
La “sincerità” evocata nella Bibbia riguarda sempre il modo con il quale
si deve assentire alla verità rivelata, mettendone poi in pratica ogni giorno
gli insegnamenti, ribaditi da Profeti ed Apostoli. Invece in Spinoza la “semplicità e sincerità
interiore” sono disposizioni che legittimano il nostro diritto a “pensare
liberamente”: non sono concepite in
funzione della verità proclamata da Dio ma di una libertà interiore fondata in
modo assoluto sull’io stesso, per il fatto stesso di esistere.
“Godendo ognuno del
pieno diritto [naturale] di pensare liberamente, anche in materia di religione,
e non potendosi concepire che alcuno possa perdere questo diritto, ognuno avrà
anche il pieno diritto e la piena autorità di giudicare liberamente in materia
religiosa e, per conseguenza, di spiegarla e interpretarla a se stesso”[101]. Il “libero esame” dei Protestanti era
concepito inizialmente come indagine affidata espressamente dal singolo
credente alla guida dello Spirito Santo.
Ma ogni connessione con il sovrannaturale scompare nel “libertinismo”
teologico di Spinoza. Le verità della
religione appartengono solo al singolo e al suo diritto, sono un puro fatto di
coscienza, privato, senza intromissioni sovrannaturali qualsivoglia. Questo diritto del singolo è, in linea di
principio, assoluto, nel senso che non deriva dal riconoscimento di
un’autorità superiore, anche se (come si vedrà) esso può ed anzi deve esser
limitato quanto al suo esercizio. E che
sia assoluto lo si deduce dal paragone stabilito subito dopo da Spinoza con il
diritto “del magistrato”. “Per nessun
altro motivo, infatti, la somma autorità di interpretare le leggi e di
giudicare dei pubblici interessi è affidata al magistrato [al potere politico],
se non perché si tratta di diritto pubblico:
e per lo stesso motivo la somma autorità di spiegare la religione e di
giudicare in materia religiosa resta propria di ciascuno, per la ragione che
appartiene al diritto di ciascuno”[102]. Né i teologi né i Papi né i rabbini possono
pretendere di interpretare per noi le Scritture: “la norma di interpretazione non può essere
che quella del lume naturale che è comune a tutti, e non un lume sovrannaturale
né un’autorità esterna”[103]. Prevale il “lume naturale”, che non è
vincolato all’“autorità esterna” (sia essa della Chiesa Cattolica, del Concistoro
calvinista o della Sinagoga), ma nemmeno (annoto) all’autorità delle Scritture
in sé e per sé considerate, se esso può giungere ad elaborare l’eptalogo di cui
sopra o comunque ad aderirvi. Il “lume
naturale” può evidentemente fabbricarsi o comunque scegliersi la religione che
vuole, purché la ritenga conforme alla ragione.
Il “lume naturale” è
tuttavia vincolato a riconoscere la “religione civile”, l’eptalogo posto dallo
Stato come religione (apparentemente) semplice e naturale i cui principi devono
esser accettati da tutti i cittadini.
Come si concilia, allora, un diritto naturale alla libertà di coscienza
proclamato in modo così radicale con il culto pubblico di Stato all’Ente
Supremo, che impone di attuare la “giustizia” e la “carità” verso il prossimo
sulla base di un teismo che si sostituisce alle religioni rivelate? Si concilia, dal punto di vista di Spinoza,
perché la religione civile o dello Stato deve limitarsi a imporre le buone
opere, così come concepite dal punto di vista dello Stato. “Per tutto il resto”, invece, il cittadino
conserva il suo diritto naturale o assoluto alla libertà di pensiero e può
giudicare le Scritture con il suo “lume naturale”.
Ci sono almeno due
osservazioni da fare. La prima è la
seguente: lo Stato non si limita ad
imporre le “buone opere” senza entrare nel dogma religioso, visto che a sua
volta esso impone degli articoli di fede, che sono quelli di una religione
diversa da quella rivelata, il teismo.
Le “buone opere” richieste dalla “religione civile” si sorreggono per
l’appunto sui dogmi della “religione civile”.
La posizione dello Stato spinoziano è quindi solo in apparenza neutrale
rispetto alla religione: esso al
contrario oppone la sua propria religione (il teismo civile, potremmo
chiamarlo) alla religione rivelata e a tutte le religioni.
Seconda
osservazione. Se lo Stato riconosce ai
singoli il diritto innato di interpretare le Scritture con il loro “lume
naturale”, non ricomincieranno le dispute teologiche, le fazioni ed infine le
lotte civili? È chiaro che, nella
prassi, l’esercizio del nostro assoluto diritto naturale deve esser sottoposto
a dei limiti, che incideranno nel merito delle varie opinioni religiose. Ma il “lume naturale” può anche condurmi a
negare validità ai sette comandamenti della spinoziana religione civile imposta
dallo Stato, del tutto inaccettabile per un Cattolico. Cosa succederà, in questo caso? Che il Cattolico verrà considerato un
“sovversivo” (seditiosus).
Il limite insuperabile
che trova l’esercizio della “propria libertà di giudizio” nei confronti della
religione è quello del diritto sovrano dello Stato, che non può esser messo in
discussione. L’esercizio di questa libertà non può “arrecar pregiudizio al
diritto della suprema potestà”, derivante ad essa dal patto sociale. Questo “diritto” si manifesta nello “ius
circa sacra” dello Stato: diritto di
regolare tutti gli affari ecclesiastici o diritto pubblico ecclesiastico, che
dir si voglia. Con esso, lo Stato regola
“l’esercizio esterno del culto religioso” in modo da mantenere “la pace della
Res Publica”, la pace sociale. E quand’è
che l’esercizio della suddetta libertà si rivela “sedizioso”? Quando si manifestano opinioni che
contraddicono il patto sociale sì da “annullarlo”, per esempio negando la
legittimità del potere sovrano, negando l’obbligo di mantenere le promesse o
affermando il diritto di ciascuno di vivere “a proprio arbitrio”, come se fosse
ancora nello stato di natura[104]. E quando si professano opinioni che incitano
alla “vendetta, all’odio etc.”, anche se esse devono considerarsi “sovversive”
in uno Stato già corrotto da "uomini superstiziosi e ambiziosi, che non
possono tollerare gli spiriti liberi”[105].
Ora, come non vedere
che chi non si riconosce nei sette comandamenti della religione civile può
esser facilmente accusato di essere un “sovversivo” dallo Stato e perseguito
come tale? Ho già detto che l’eptalogo
spinoziano è inaccettabile per un Cattolico (si intende, che abbia mantenuto il
sensus fidei). Glielo impedisce
proprio la sua coscienza di credente. Il
Dio professato dalla Res publica spinoziana non è il Dio vivente, che si è
rivelato, e ha parlato tramite i Profeti e gli Apostoli; non è la Santissima Monotriade; è un’idea della ragione che viene
onorata non con un vero culto religioso, in pratica impossibile, ma unicamente
con un comportamento conforme ad un’idea laica ed umanitaria (solidale,
si direbbe oggi) di giustizia e carità, idea socialmente utile e imposta dallo
Stato. Le verità rivelate della salvezza
e della dannazione eterna sono ridotte a burletta al punto n. 6, visto che
sarebbero salvi o dannati solo coloro che si dimostrassero o non caritatevoli
nel senso laico del termine, gradito allo Stato. Il “perdono dei peccati” è poi concepito alla
maniera dei Protestanti eretici. Di sacerdozio,
liturgia, Sacramenti e S. Scrittura nessuna traccia, ovviamente.
Non potendo in
coscienza accettare un simile caricatura della vera religione, un Cattolico non
negherebbe con ciò, anche solo implicitamente, la legittimità dello “ius circa
sacra” dello Stato che se lo fosse attribuito?
E non potrebbe venir pertanto considerato alla stregua di un “sedizioso”
che incita, anche indirettamente, i suoi compatrioti alla disubbidienza,
foriera di discordia civile? I limiti
posti necessariamente da Spinoza all’esercizio della libertà di coscienza, sono
dunque tali da impedire di fatto ai Cattolici di professare pubblicamente la
loro religione. Di professarla
pubblicamente – si intende – sempre come opinione privata perché come
culto pubblico essa si troverebbe già sostituita dalla religione civile dello
Stato o comunque ad essa adattata. Spinoza non fa cenno della permanenza e
liceità di un culto pubblico diverso da quello teistico voluto dalla
Respublica e configurato nella “religione civile”. Diverso, perché non conforme ai suoi
sette articoli di fede.
La verità è che,
nell’ottica di Spinoza, la religione rivelata non ha un proprio diritto ad
esser riconosciuta come tale dallo Stato.
Ce l’ha solo l’opinione privata dell’individuo purché non attenti
al diritto dello Stato per ciò che riguarda le cose della religione. E questo è perfettamente logico, trattandosi
di uno Stato che riconosce solo il culto della religione che esso stesso si dà,
regolando a suo modo il ius circa sacra, e che ho chiamato teismo
civile (o politico, se si preferisce). Ed è autorizzato a darselo, secondo Spinoza,
in conseguenza del patto sociale (naturalmente, come inteso da un pensatore che
professa il Deus seu natura e nega il libero arbitrio). Sulla falsariga di Hobbes, afferma anch’egli
la competenza esclusiva dello Stato in materia di culto religioso
pubblico. Pertanto, la religione
acquista “forza giuridica”(vis iuris) nello Stato “soltanto in seguito
al decreto di coloro che hanno il diritto di imperio”, cioè che detengono il
potere sovrano. Le “somme potestà” hanno
quindi in esclusiva il diritto di stabilire e regolare “il culto religioso e
l’esercizio della pietà”, dato che entrambi “devono conformarsi alla pace e
all’interesse dello Stato”. Le “somme
potestà devono essere anche le interpreti” del culto[106]. Se ne deduce, perciò, che se un culto
pubblico cattolico fosse ammesso, lo sarebbe solamente dopo esser stato
“interpretato” dal potere sovrano ovvero reinterpretato e modificato
da quest’ultimo secondo i dogmi della sua “religione”, quella “civile”.
Nel “culto esterno” si
realizzerebbe, inoltre, anche il Regno di Dio perché “quello è regno di
Dio, nel quale la giustizia e la carità hanno vigore di legge e decreto”[107]. Per l’immanentista Spinoza il Regno di Dio
può realizzarsi solo in questo mondo e ad opera dello Stato. “Giustizia” e
“carità” non possono ricevere il loro “vigore” se non “dal diritto d’imperio”
cioè dalla legge dello Stato. Infatti, “Dio non esercita sugli uomini alcuna
sovranità, se non per mezzo di coloro che sono investiti del potere” e questa è
la “vera religione”, dato che “solo nel diritto della giustizia e della carità”
è la “vera religione”[108]. Pertanto, obbedire alla volontà di Dio
significa far sì che “il culto religioso esterno ed ogni esercizio della pietà
debbono uniformarsi alla pace e alla conservazione dello Stato”[109]. Ogni “atto di pietà” verso il prossimo che
provochi (senza volerlo, evidentemente) “un danno per lo Stato”, si risolve
oggettivamente “in empietà” ed è giusto che chi l’ha posto in essere sia
punito, anche con la morte[110]. Persino il significato dell’”atto di pietà”
viene stravolto da Spinoza. Lo Stato è quindi “interprete e vindice” della
religione. Di quale religione? Di
nessuna religione storica, si intende, tantomeno se rivelata, ma – ripeto –
della “religione civile” racchiusa nei sette comandamenti che tutti devono
osservare nel loro culto esterno di Dio.
Su questi fondamenti,
in che senso può allora affermare Spinoza, nell’ultimo capitolo del Trattato,
che “il vero fine dello Stato è la libertà”?
La libertà perché il suo fine non è quello di dominare, schiacciare col
terrore, angustiare col timore, ma di garantire una vita sicura in modo che
ognuno “possa godere nel miglior modo del proprio naturale diritto di vivere e di
agire senza danno né suo né degli altri”[111]. È dunque quello di permettere un certo grado
di libertà nella vita privata e pubblica.
Cosa su cui possiamo esser in generale tutti d’accordo. Ma ciò non basta.
Poiché ciascuno è “per
diritto imprescrittibile della natura padrone dei propri pensieri” sì da non
poter “rinunciare ad esprimere il proprio giudizio intorno a qualunque cosa”
(dalla religione alla “filosofia”) e di fatto non vi rinunzia, come dimostra
l’esperienza, bisogna consentire a ciascuno di “pensare e giudicare, e quindi
anche parlare, contro il decreto” della pubblica autorità, ma con una
condizione: “purché parli o insegni
semplicemente, e sostenga ciò che dice seguendo la sola ragione, e non con inganno,
con ira e con odio, né con l’intenzione di introdurre qualcosa
nell’amministrazione dello Stato basandosi sull’autorità della propria
decisione”[112]. È quindi lecito criticare una legge ma da
filosofo e saggio, senza agitarsi troppo, rimettendosi sempre al giudizio
dell’autorità e senza far nulla contro la legge stessa. Non è, infatti, lecito criticare “con
l’intenzione di accusare il magistrato di iniquità e di renderlo odioso al
popolo”; e chi critica con “il sedizioso proposito di abrogare quella legge
contro la volontà del magistrato, è senz’altro un ribelle e un perturbatore”[113].
Secondo questa logica,
chi critica oggi la normativa aberrante che concede alle donne nell’odierna
laicissima Respublica la libertà indiscriminata di abortire, con l’intento
evidente di vederla abrogata, sarebbe da considerarsi un sedizioso e un
ribelle!
La libertà di
espressione deve quindi esercitarsi “senza pregiudizio del diritto e
dell’autorità del potere supremo e cioè senza pregiudizio della pace dello
Stato”, ossia a condizione “che si lasci all’autorità costituita la facoltà di
decidere tutto il da farsi e di non contravvenire in nulla alla sua decisione”[114]. In questo modo Spinoza è convinto di aver
conciliato il “diritto” del potere sovrano ad esercitare le sue funzioni e
l’incoercibile diritto naturale di ognuno a pensare liberamente e a manifestare
il suo pensiero, anche nell’ambito della religione oltreché della
“filosofia”. Lo Stato non può entrare
nelle coscienze e il suo potere “viene limitato alle azioni” vale a dire alla
sfera esterna, pubblica, sia in campo civile che religioso. Pertanto, ad ogni cittadino “è consentito non
solo di pensare quello che vuole ma anche di dire quello che pensa”[115].
6.7 La
vantata libertà di coscienza teorizzata da Spinoza è fictio ed instrumentum
regni
La tanto vantata
libertà di coscienza teorizzata da Spinoza poteva sembrare un’importante
innovazione ai suoi tempi, dominati dal bisogno di trovare un compromesso tra
l’esigenza di pace e di ordine e il permanere dei conflitti politico-religiosi. Ma la condanna che all’epoca ricevette dai
rappresentanti di tutte le religioni è significativa. Oltre a dare
un’interpretazione tendenziosa delle Scritture, il Trattato propugna una
libertà che appare fittizia. Infatti, se
chi la esercita mira “ad abrogare la legge contro la volontà del magistrato”
ossia del potere che l’ha emanata, deve esser considerato un “sovversivo” e
sottoposto al rigore delle leggi. Come a
dire: alla coscienza individuale è
consentito solamente di fare “l’opposizione di Sua Maestà”, come si diceva una
volta, che si svolga cioè rispettosamente nell’ambito del sistema ed ordine
costituito, senza mai pretendere di modificarlo. Per ciò che riguarda la religione, è evidente
che è proibito esprimere opinioni che mirino anche solo a modificare il deismo imposto
dallo Stato, con i suoi sette comandamenti elaborati a tavolino da
Spinoza. La “religione civile” che
sostituisce quella rivelata è intoccabile, chi non l’accetta e non la mette in
pratica è un “sovversivo”, un “sedizioso”, e come tale va trattato.
La concezione di
Spinoza mi sembra falsa e contraddittoria.
Falsa la libertà di coscienza ipotizzata, perché in funzione
dell’ordine costituito (per di più non cristiano) e subordinata in maniera
radicale alle sue esigenze. Falsa,
perché, dietro l’apparente neutralità lo Stato, mediante il culto esteriore da
esso predisposto e mantenuto, impone in realtà a tutti il suo culto deista e
razionalista. Abbiamo allora una
religione (quella “civile” dello Stato) contro tutte le altre, ammesse solo
come opinione privata di saggi o eruditi, che non graffi e non morda, quando si
manifesti in pubblico. C’è poi la c o n t r a d d i z i o n e di una libertà così raccorciata nel suo
esercizio e così funzionale all’interesse del potere sovrano, da sembrar concepita
addirittura come “instrumentum regni” del potere stesso.
La libertà di
coscienza postulata da Spinoza offre, a mio avviso, meno tutele alla religione
delle minoranze di quante ne offrissero la dottrina e la prassi della Chiesa
Cattolica. Consideriamo i due rispettivi
schemi concettuali.
Cosa troviamo in
quello cattolico tradizionale, durato sino al Vaticano II escluso? Il riconoscimento (tacito sino a Pio XII) di
un diritto naturale dell’Acattolico a praticare la propria religione di
appartenenza, compatibilmente con il rispetto dovuto alla vera religione
(quella cattolica, riconosciuta e protetta dallo Stato cattolico e socialmente
dominante) per ciò che ne concerne l’esercizio, ossia il culto pubblico. Ciò comportava dei limiti evidenti all’esercizio
del diritto dell’Acattolico, come si è ricordato sopra, ed una posizione di
privilegio della religione cattolica. Il
riconoscimento tacito o espresso di questo “diritto naturale” non costituiva in
nessun modo riconoscimento di un supposto diritto innato dell’individuo a
professare e praticare qualsiasi religione egli ritenesse la vera ed unica,
sulla base del suo sentimento interiore o “lume naturale”, in definitiva della
sua semplice o p i n i o n e . La libertà innata di pensiero dell’individuo in
materia religiosa non era pertanto riconosciuta, né avrebbe potuto esserlo,
perché in tal modo si sarebbe negata la validità della Rivelazione.
Cosa offre, invece, la
libertà di coscienza propugnata da Spinoza?
La libertà di criticare pubblicamente e in modo ragionevole come
individuo privato “il decreto del sovrano” senza però mai pretendere di
“abrogarlo”. Tale libertà dovrebbe
esercitarsi anche nei confronti della “religione civile”, visto che anch’essa
risulta da un decreto del sovrano. Ma
ciò è impossibile. Essa è intoccabile,
essendo l’unico culto pubblico ammesso dallo Stato. A che serve, allora, questa libertà di
critica? Inoltre, gli altri culti (com’è
ovvio) non risultano ammessi, in quanto culti pubblici. Ciò significa che la laica Respublica di
Spinoza non riconosce un diritto naturale all’esercizio pubblico (anche se
limitato) della propria religione di appartenenza, come riconosciuto invece
dalla Chiesa Cattolica. Spinoza ammette
l’individuale libertà di critica (sempre ragionevole, immune dalle passioni)
non nei confronti del culto pubblico posto dallo Stato ma solo nei confronti di
quello che egli chiama “tutto il resto” e nel modo estremamente limitato che si
è visto. Ma non ammette la libertà di
professare, anche in modo limitato, una religione diversa da quella ufficiale,
cosa ammessa invece dalla Chiesa Cattolica.
Allora: libertà individuale di critica più apparente
che reale e nessuna vera libertà di culto per le minoranze. Mi sembra meno di quanto concedesse la
Chiesa. Essa non ammetteva la libertà di
opinione in religione ma concedeva libertà di culto, sia pure con limiti
evidenti al suo esercizio. Il sistema di
Spinoza sembra concedere molto sul piano della libertà d’opinione ma in realtà
partorisce una libertà del tutto accademica per non dire platonica e non
concede alcuna libertà di culto. E dico:
accademica, non per il fatto in sé di esser sottoposta a limiti.
I limiti alla manifestazione della “libertà di giudizio” di ciascuno sono
necessari, se non si vuole che la società sprofondi nel caos. Solo un’epoca che
abbia smarrito il vero concetto della libertà può pretendere una libertà di
coscienza senza limiti, per tutti. Accademica,
dunque, per come sono concepiti questi limiti:
tali da rendere di fatto innocqua la libertà di pensiero. In ogni caso, applicato al Cattolicesimo,
considerato religione di minoranza rispetto al teismo della “religione
civile", il sistema di Spinoza implica la scomparsa ufficiale del culto
cattolico, salvo la sua “reinterpretazione” secondo i dogmi del teismo di
Stato, della “religione civile”. Questo
lo schema che risulta dal principio di tolleranza di Spinoza, ancora
considerato a tutt’oggi un apostolo della libertà di coscienza, anche dai
Cattolici di tendenza liberale.
Lo schema spinoziano
è tipico di un pensiero che vuole eliminare la religione rivelata dalla
vita di relazione. Prendendo a pretesto
le dispute e le lotte provocate dagli eretici e facendo leva su di un legittimo
desiderio di pace sociale, il pensiero moderno ha voluto ridurre la religione
in senso proprio a semplice elaborazione del sentimento individuale e del lume
naturale di ciascuno, ad un fatto del tutto privato, che non deve incidere sul
surrogato che lo Stato o la “Volontà Generale” propinano per religione ufficiale,
in nome della pace e della sicurezza di tutti.
In tal modo si elimina Dio dallo Stato e dalla società e si dichiara
l’incompatibilità del Cattolicesimo (ma anche di tutte le altre religioni) con
lo Stato “ben ordinato” che la ragione pretende di sostituire a quello
Cristiano, dilaniato dalle guerre confessionali. La messa al bando del Cattolicesimo è ancora
implicita in Spinoza. Diventerà
esplicita nella “religione civile” propugnata a sua volta da Rousseau, vero e
proprio invito alla persecuzione che troverà i suoi esecutori nei rivoluzionari
dell’89.
“Vi è dunque una
professione di fede puramente civile, della quale spetta al corpo sovrano
fissare gli articoli, non precisamente come dogmi di religione, ma come
sentimenti di socialità senza i quali è impossibile essere buon cittadino o
suddito fedele. Senza poter obbligare
nessuno a credere in essi, può bandire dallo Stato chiunque non vi creda; può
bandirlo, non in quanto empio, ma in quanto insocievole, in quanto incapace di
amare sinceramente le leggi, la giustizia, e di immolare, se occorra, la sua
vita al suo dovere. Se qualcuno, dopo
aver riconosciuto pubblicamente quegli stessi dogmi, si comporta come se non vi
credesse, sia punito di morte; egli ha commesso il più grande dei delitti, ha
mentito dinanzi alle leggi. I dogmi
della religione civile devono essere semplici, pochi di numero, enunciati con
precisione, senza spiegazioni né commenti.
L’esistenza della divinità potente, intelligente, benefica, previdente e
provvida, la vita futura, la felicità dei giusti, il castigo dei malvagi, la
santità del contratto sociale e delle leggi; ecco i dogmi positivi. In quanto ai dogmi negativi, io li limito ad
uno solo: l’intolleranza; essa rientra
nei culti che abbiamo escluso”[116].
Tra i culti “esclusi”,
nella prima parte dello stesso capitolo, era stato messo “il cristianesimo
romano”, detto anche “religione del prete”, perché (a dire di Rousseau ma si
trattava di una vecchia e consunta accusa) dava agli uomini “due legislazioni,
due capi, due patrie” impedendo loro di essere “allo stesso tempo devoti e
cittadini”[117]. Il Cattolicesimo era dunque un culto da
escludersi dalla società nuova, che si voleva fondare sul Patto Sociale, sulla
ragione, su sentimenti di socialità e umanità.
Escluso proprio per la sua pretesa fondamentale, derivante dall’insegnar
esso la vera Parola di Dio, l’unica che dà la salvezza. Non è più il tempo delle religioni “nazionali
ed esclusive”, conclude Rousseau. Si
devono tollerare tutte quelle che tollerano le altre e “fin tanto che i loro
dogmi non abbiano niente di contrario ai doveri del cittadino”. Ma questa “tolleranza” il nuovo Stato non può
esercitarla nei confronti del Cattolicesimo.
Perché? Perché “chiunque osi
dire: ‘Fuori della Chiesa non vi è salvezza’, deve essere espulso dallo Stato,
a meno che lo Stato non sia la Chiesa, e il principe non sia il pontefice”[118].
7. Come
ha potuto il Concilio “far suo” questo principio della libertà religiosa quale
diritto assoluto della persona, che presuppone uno Stato agnostico e ateo,
quale lo Stato moderno? Su quali basi?
Quanto appena visto a
proposito di un autore esemplare per la moderna “libertà di pensiero” come
Spinoza, permette, anche alla luce dello sviluppo storico successivo, di
ricavare un concetto generale del rapporto tra lo Stato e la “libertà
religiosa” nel senso moderno del termine?
A mio avviso, il concetto è il seguente:
il riconoscimento di una paritaria libertà di coscienza per le religioni
esistenti in uno Stato presuppone che quello Stato non ne professi alcuna. Se ne professasse qualcuna, inevitabilmente
la favorirebbe rispetto alle altre.
Presuppone, quindi, uno Stato agnostico o ateo. Lo Stato di Spinoza si presenta con un suo
culto pubblico, i cui articoli di fede sono estrapolati dal monoteismo ebraico
e dal Protestantesimo. Ma abbiamo ben
visto che essi altro non sono se non gli articoli di quel deismo o
concezione puramente “razionale” di Dio fabbricata dall’uomo, che la filosofia
nemica della Rivelazione opponeva alla Rivelazione stessa. E il d
e i s m o , come sappiamo, oltre a comportare l’agnosticismo nei confronti
della verità rivelata, è in realtà l’anticamera dell’ateismo, quando non è esso
stesso vero e proprio ateismo mascherato.
Il primo passo
nell’ateismo consiste in genere nel negare la storicità della Rivelazione e
l’esistenza di un Dio vivente e personale, che ci ha creato e ci giudicherà
subito dopo la nostra morte. Il secondo,
nel proporre per l’appunto il Deus seu natura. Il terzo, nel proclamare il puro e semplice regno
della natura, quale unica realtà, increata, eterna ed immutabile,
irresistibile nelle sue pulsioni. Una
lettura del Trattato libera dalle pastoie del politicamente corretto,
non può che confermare l’impressione negativa dei contemporanei, che scorsero
immediatamente la mano dell’ateo nell’”esegesi” razionalista dell’anonimo
Autore: “infamem illum discursum theologico-politicum cuius auctor creditur
Benedictus Spinoza qui ex Judaeo factus est deista, si non atheus…”, scriveva
l’arminiano olandese Limborch ad un suo amico, inviandogliene un esemplare[119]. Lo Stato moderno, aconfessionale, in
apparenza ancora legato in Spinoza a forme di religiosità, ha poi, nel suo
sviluppo storico, gettato la maschera, nel senso che il sostrato ateistico
della sua ideologia è venuto sempre più allo scoperto. Lo constatiamo noi oggi anche nel nostro
Stato repubblicano, una democrazia atea che ha messo completamente da parte
Dio, e più non vuole professare, come in passato, il Cattolicesimo come
religione ufficiale dello Stato.
Il Concilio ha voluto
proporre una “libertà religiosa” che ricalca quella dello Stato laico agnostico
e ateo del nostro tempo, accettandola cioè come diritto insopprimibile della
coscienza individuale, la cui “dignità” riposa su sé stessa, poiché la “coscienza”
per i Moderni si pone da sé come valore in sé, è autopoietica. Ma come poteva far ciò, non solo senza
contraddire l’insegnamento precedente della Chiesa ma anche senza aprire le
porte all’agnosticismo e all’ateismo? E
difatti queste malattie dello spirito hanno o non attecchito ampiamente nel
corpo un tempo sano della Cattolicità, a partire dal Concilio? Ma il Concilio non sembrava rendersi conto
delle gravi antinomie presenti nel principio della “libertà religiosa”, in
particolare per ciò che riguarda il nesso Stato agnostico-ateo/libertà
religiosa; antinomie che credo di aver fatto emergere dall’analisi del pensiero
di Spinoza sul tema. Il Concilio
presentava quella libertà come una sorta di coronamento della riflessione
sempre “più chiara” della “ragione umana” sulle esigenze autentiche della
“dignità della persona” (DH, 9), come se quella libertà fosse stata il
risultato di uno sviluppo intellettuale lineare e positivo, cui anche la Chiesa
doveva ora allinearsi, e non, invece, il risultato dell’affermarsi di una
filosofia anticristiana, agnostica ed atea, la quale, oltre a sostituire la
verità della coscienza individuale alla verità rivelata da Dio, faceva dello
Stato un nemico del Cattolicesimo e alla fine di ogni religione.
L’inserimento del tema
della “libertà religiosa” laicamente concepita nella dottrina della Chiesa
avveniva pertanto al prezzo di una falsificazione di prospettiva per ciò che
riguardava l’esatto significato storico di quella “libertà”, costruita in
antitesi al Cattolicesimo e proprio in odio al dogma “fuori della Chiesa non
c’è salvezza”. Ma il Concilio doveva
nello stesso tempo giustificare le sue tesi anche alla luce della dottrina
della Chiesa, nel senso di farvi apparire in qualche modo il tema della
“libertà religiosa”. Mancando un
appiglio sicuro nel Magistero, poiché la strombazzata “apertura” di Pio XII,
oltre ad esser troppo recente, in realtà non faceva concessioni alla “libertà
religiosa” intesa come diritto individuale assoluto della coscienza (vedi supra,
§ 2.1 di questo capitolo), bisognava trovare dei riferimenti nel Nuovo
Testamento. Questo ha cercato di fare DH
agli articoli 9-11.
Ho richiamato dianzi
le perplessità di Mons. Gherardini, che fa valere in termini rispettosi i suoi
dubbi sulla validità dell’esegesi proposta dalla Dignitatis humanae, che
si sofferma sul “modo di agire di Cristo e degli Apostoli” al fine di
dimostrare che essi già praticavano la “libertà religiosa” nei confronti di
coloro che volevano convertire. A
sostegno delle tesi del Concilio, Benedetto XVI, nel famoso discorso alla Curia
tenuto nel Natale del 2005, ha introdotto un nuovo concetto, che chiama in
causa il significato della testimonianza dei Martiri cristiani. Come si è già visto, egli ha richiamato
proprio la “libertà di religione” quale esempio di continuità dottrinale nella
Chiesa, pronunciando le frasi ormai celebri:
“Il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo con il Decreto
sulla libertà religiosa un principio essenziale dello Stato moderno, ha ripreso
nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa”. Questo patrimonio era quello dei
Martiri. Infatti, “i martiri della
Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in
Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la libertà di coscienza e per
la libertà di professione della propria fede – una professione che da nessuno
Stato può essere imposta, ma invece può essere fatta propria solo con la grazia
di Dio, nella libertà della coscienza”[120].
Da questo intervento
del Papa si deduce che il Concilio sarebbe appunto tornato alle origini,
riprendendo “il patrimonio più profondo della Chiesa”, patrimonio che
evidentemente era stato trascurato durante tutti i secoli fin qui
intercorsi. E nel far ciò, avrebbe
“fatto suo” un principio dello Stato moderno, laico e anticristiano sino al
midollo. Come si è potuta realizzare una
simile quadratura del cerchio? Ma, prescindendo da quest’aspetto della tesi del
Pontefice, ciò che conta è il concetto che nel sacrificio dei Martiri cristiani
la rivendicazione della libertà di coscienza nel senso moderno sarebbe stata un
motivo essenziale. Con tutto il rispetto
per l’opinione del Romano Pontefice, manifestata qui del resto in qualità di dottore
privato, sulla validità di una simile interpretazione della testimonianza
dei Martiri avrei più di un dubbio.
Prima di analizzare la questione, devo però soffermarmi su DH 2, che
contiene la definizione della libertà religiosa, e DH 9-11, che cerca di
trovare nel Nuovo Testamento un fondamento alla nuova dottrina.
8. DH 2, che definisce il nuovo concetto della
libertà religiosa, appare minato da gravi aporie e propone un concetto di
verità incompatibile con quello di “verità rivelata” da Dio
L’art. 2 della DH, che
ha a contenuto l’”oggetto e fondamento della libertà religiosa”, stabilisce che
“la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa”(DH 2.1). Non semplicemente (annoto) quello di
praticare il culto della religione di appartenenza senza esser perseguitati
(Pio XII) ma alla “libertà religiosa”:
concetto assai più ampio, perché è il diritto di un soggetto
indeterminato, della persona umana ossia di ogni uomo in quanto persona,
che deve poter manifestare il dettato della sua “retta coscienza”, secondo
l’espressione di Giovanni XXIII. Posto
il principio, l’articolo distingue poi tra il “contenuto” e il “fondamento” di
questo diritto. Il contenuto consiste
nell’assenza di coercizione (da parte di singoli, gruppi, poteri di ogni tipo),
in modo che “in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua
coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad
essa: privatamente o pubblicamente, in
forma privata o associata”(ivi). Il
principio qui affermato è in linea con la dottrina tradizionale della Chiesa,
da ultimo ribadita, come si è visto, nella Mystici Corporis. Nessuno deve esser convertito a forza né
costretto ad agire contro la propria coscienza, né impedito a praticare la
propria religione, in pubblico o in privato.
Si tratta di quelle che Mons. Gherardini chiama “le due immunità sempre
difese dalla Chiesa” (vedi supra, § 1 di questo capitolo).
La novità dottrinale
appare invece nella definizione del “fondamento” di questo diritto. “Il diritto alla libertà religiosa si fonda
realmente sulla stessa dignità della persona umana quale l’hanno fatta
conoscere la parola di Dio rivelata e la stessa ragione [fundatum in ipsa
dignitate personae humanae, qualis et verbo Dei revelato et ipsa ratione
cognoscitur]”(DH 2.1). In nota l’articolo cita a sostegno la dottrina dei
Pontefici al tempo più recenti. Abbiamo
visto che solo la contemporanea Pacem in terris di Giovanni XXIII poteva
esser legittimamente invocata in aiuto (vedi supra). Il fondamento di questo diritto è dunque
costituito dalla “dignità della persona umana”.
Ciò significa che questo diritto è posto come un valore assoluto poiché
la “dignità della persona umana” è a sua volta un valore assoluto. Fa parte di quelli che la tradizione
giusnaturalistica laica chiama “diritti inalienabili della persona”.
Ora, secondo il
Concilio, questa “dignità” risulterebbe dalla Rivelazione (dalla “parola di Dio
rivelata”) e dalla “ragione stessa”. Che
cosa si deve intendere qui con “ragione stessa”? Evidentemente la “ragione umana” menzionata
poi in DH 9, che avrebbe chiarificato nei secoli “le esigenze” della “dignità
della persona”. Questa “ragione umana”
che ha indagato le profondità del concetto della persona nella sua dignità, non
può che essere, come si è già detto, il pensiero filosofico moderno, che ha
appunto elaborato l’idea dei diritti della persona e delle connessa dignità
della persona. Va notato che DH 2 pone
sullo stesso piano la “Parola di Dio rivelata” ossia – mi sembra evidente - il
Nuovo Testamento e la “ragione”:
entrambi avrebbero concorso a costituire il concetto della “dignità
della persona” e dei suoi “diritti”.
A me sembra che questo
accostamento sia del tutto errato. Come
credo di aver fatto vedere a proposito di Spinoza, il modo in cui la “ragione”
ossia la filosofia moderna ha inteso la dignità della persona con i suoi
diritti, ivi compresa la “libertà religiosa”, non solo non ha nulla a che
vedere con il concetto di persona che (secondo il Concilio) si può rinvenire
nella S. Scrittura o con quello elaborato dalla filosofia del Cristianesimo, ma
vi si oppone radicalmente, già per il fatto di negare da un lato il concetto
della sostanza e dell’essenza dell’ente; dall’altro, quello del peccato
originale, che ci ha fatto perdere la somiglianza con Dio, ulcerando le nostre
capacità intellettuali, e dato vita ad un conflitto continuo tra di esse e le
passioni, che solo con grande fatica e con l’aiuto della Grazia riusciamo a
dominare.
Il Concilio vuol
vedere unità concettuale là ove unità non può esservi. Esso ingiunge allo Stato di sancire come “diritto
civile” un concetto di libertà religiosa presentato come risultato unitario di
una tradizione di pensiero cui avrebbero contribuito e “la Parola di Dio” e la
“ragione”, senza contraddizione reciproca.
Ma una tradizione di pensiero unitaria, tra la Rivelazione e la laica e
moderna “ragione”, non esiste né può esistere, per il semplice fatto che
la moderna e laica “ragione”, come si è detto e ripetuto, si è affermata
proprio in antitesi alla Rivelazione, pretendendo di sostituirsi essa
stessa alla Parola di Dio e ponendo essa stessa l’uomo al centro dell’universo,
al posto di Dio. Si noti che il testo
dice: “la Parola di Dio”; non può dire:
“la filosofia cristiana” o “la tradizione cristiana”, non può mettere
assieme Boezio, S. Tommaso e Spinoza.
Questa è dunque la
prima contraddizione che mi sembra doveroso rilevare in DH 2,
contraddizione lesiva della verità, per quanto riguarda la “storia delle
idee”. Nel secondo paragrafo dell’art. 2
si stabilisce l’importante principio dell’obbligo morale per ogni uomo di
ricercare la verità e la connessione di quest’obbligo con la libertà
religiosa. Anche qui si palesano, a mio
avviso, evidenti difficoltà.
Si ripropone il
tradizionale principio cattolico dell’obbligo morale della ricerca della verità
religiosa da parte del soggetto, dotato da Dio di libero arbitrio. A causa della loro “dignità” tutti gli
uomini, in quanto “persone” (homines cuncti, quia personae sunt), “sono
dalla loro stessa natura e per obbligo morale tenuti a cercare la verità, in
primo luogo quella concernente la religione”, e ad “aderirvi”, una volta
conosciutala, “ordinando la loro vita ad essa” (DH 2.2). Osservo:
ciò risulta espressamente dalla S. Scrittura. “Credete in Dio e credete anche in Me” (Gv
14,1). “Or, senza la fede è impossibile
piacere a Dio, perché è necessario che chiunque si accosta a Lui, creda che Dio
esiste e dà la ricompensa a quelli che lo cercano” (Eb 11,6). Difatti, “Egli [Dio Padre] ha voluto che gli
uomini cercassero Dio e si sforzassero di trovarlo, come a tastoni…”(Atti 17, 27,
discorso di S. Paolo all’Areopàgo).
A quest’obbligo però,
continua il Concilio, gli uomini non possono soddisfare “se non godono della
libertà psicologica e nello stesso tempo dell’immunità dalla coercizione
esterna” (DH 2.2). Occorre, dunque, che
non vi siano né coercizione interna né esterna perché la coercizione
impedirebbe non solo l’esercizio del diritto alla libertà religiosa ma anche
l’adempimento dell’obbligo di ricercare la vera religione. Il diritto alla libertà religiosa sembra
allora correlativo all’obbligo di cercare la verità ossia la vera
religione.
A mio avviso, si ha
qui una connessione paradossale:
si vuol far dipendere l’adempimento di un obbligo dal godimento di un diritto, godimento che presuppone già
adempiuto l’obbligo (dato che presuppone l’aver già trovato la religione che si
vuole professare). Osservo, inoltre, che
un obbligo è un obbligo, a prescindere da un diritto corrispondente o collegato
e dalle circostanze che ne impediscano in tutto o in parte l’adempimento. L’individuo, in quanto persona, dotato quindi
di volontà, ragione e perciò responsabile (come ricorda la stessa DH 2.2), se
ha moralmente l’obbligo innato di cercare la verità nella religione, ce l’ha a
prescindere dal suo diritto a professare pubblicamente e privatamente la
verità che abbia trovata. L’obbligo va
adempiuto ex sese, senza condizioni, soprattutto un obbligo morale di questo
tipo, scaturente dalla nostra stessa natura di uomini, creati da Dio come
esseri dotati di libero arbitrio (indebolito ma non eliminato dal peccato
originale).
Quest’obbligo
incondizionato e senza nessun riferimento alla “libertà religiosa”, non lo
ritroviamo, oltre che nei passi appena visti, anche nell’esortazione di Nostro
Signore, che è in realtà un comando:
“Cercate prima di tutto il Regno di Dio e la sua giustizia, e il resto
vi sarà dato in sovrappiù”(Mt 6,33)?
L’obbligo di credere in Dio, cercare di attuare il suo Regno in questo
mondo ossia la sua giustizia nei rapporti con il nostro prossimo, deriva da un
comando che esige in modo incondizionato (un imperativo incondizionato, direbbe
Kant). Un comando del genere non può
esser condizionato dalla presenza di
coercizioni interne o esterne. Non può
esserlo, dal momento che il mondo è “il regno del principe di questo mondo”,
che già esercita tutte le coazioni possibili ed immaginabili, interne
(tentazioni, cattivi pensieri) ed esterne (intimidazioni, calunnie,
persecuzioni), su chi vuole credere in Dio e attuare il suo Regno con
l’osservare la sua giustizia nella vita di ogni giorno. Non sembra pertanto esatto porre la libertà
da ogni forma di costrizione quale condizione pregiudiziale al
soddisfacimento dell’obbligo di cercare il vero Dio. Storicamente, molti si
sono convertiti a Cristo nelle situazioni di vita più difficili, circondati
dall’odio e dal disprezzo, e senza godere di alcuna libertà religiosa, al posto
della quale hanno spesso trovato spietate persecuzioni e la morte. La libertà di professare la vera fede se la
sono presa, pronti a pagarne le conseguenze sino in fondo, con l’aiuto dello
Spirito Santo: “Non pensate che io sia
venuto a portar la pace sulla terra; non sono venuto a portar la pace, ma la
spada” (Mt 10,34). Naturalmente, molti
si sono convertiti grazie anche ad un clima opposto, nel quale la religione
cristiana veniva riconosciuta, accettata ed onorata. La conclusione, allora, qual’è? Che l’esistenza della libertà religiosa, che
pur può favorire le conversioni, non può tuttavia esser ritenuta conditio
sine qua non dell’attuazione del dovere morale di cercare il vero Dio.
C’è poi un altro
aspetto da considerare, nel dettato di DH 2.2.
Il fatto che il diritto alla libertà religiosa abbia, secondo il
Concilio, natura ontologica, implica che esso “si fonda sulla natura stessa della
persona”. Ciò significa che tale
diritto, “perdura [perseverat] anche in coloro che non soddisfano
all’obbligo di cercare la verità e di aderire ad essa”(ivi). Che significato può avere una frase del
genere? E a chi si riferisce? La risposta mi sembra evidente: agli
agnostici, agli scettici, agli atei.
Sembra qui di trovarsi di fronte ad un nuovo paradosso: che la libertà religiosa, in quanto “fondata
sulla natura” di ciascuno, deve esser riconosciuta anche ai nemici dichiarati
della religione rivelata e di ogni religione, quali appunto agnostici,
scettici, atei. DH 2.2 sembra allora
usare il concetto di “natura umana” in modo del tutto ambivalente perché
costitutivo di due realtà tra loro nettamente contrapposte. Riflettiamo.
Infatti, per il Concilio: 1) la
“natura umana” fa nascere simultaneamente il diritto alla libertà di coscienza
e l’obbligo di cercare il vero Dio, quando in realtà l’una e l’altro non si
implicano necessariamente a vicenda. Nei
Testi Sacri troviamo l’obbligo di cercare Dio non il diritto alla libertà
religiosa quale condizione imprescindibile di questa ricerca. 2) La
“natura umana” comporterebbe l’esistenza di questo diritto anche per chi nega l’esistenza
di Dio o si dichiara non interessato a stabilirla, come se la “natura umana”
amasse la contraddizione e vivesse di essa.
Infatti, se da essa natura si ricava il diritto alla libertà religiosa
per chi cerca Dio, questo stesso diritto non può essere dalla natura umana
attribuito anche a coloro il cui credo consiste nel negare la legittimità
stessa della religione e di quella ricerca, convinti come sono che Dio non
esiste o, se c’è, che non si cura del mondo.
Seguendo la logica qui professata dal Concilio, si dovrebbe dire che la
“natura umana” costituisce nello stesso tempo in ognuno di noi un diritto
individuale di adorare il vero Dio e uno di negare il vero Dio. Allora, cos’è questa “natura umana”? Il suo concetto non appare incoerente?
DH 2.2 non dice che
anche per atei e miscredenti perdura l’obbligo di cercare Dio. Che perduri, è ovvio; non c’è bisogno di
dirlo. Dice che permane il diritto
all’immunità (ius ad hanc immunitatem perseverat) da ogni coercizione
anche per gli atei e miscredenti, i quali non perdono questo diritto, dato che
esso non dipende “dalla disposizione subbiettiva della persona” ma, appunto,
dalla “sua stessa natura”. Ciò può
significare una cosa sola: che scettici
ed atei hanno il diritto di veder tutelate le loro opinioni contro Dio e la
religione, come se fossero opinioni religiose di segno contrario. L’ateismo e l’irreligiosità non possono esser
perseguiti o comunque limitati il più possibile quanto alla loro pubblica
professione: devono esser tutelati come se si trattasse della libertà
religiosa, ma di segno opposto.
Tutelati, anche se si tratta di antireligioni. A conferma di quanto dico, si consideri
l’atteggiamento della Gerarchia odierna di fronte alle proteste dei devoti
verso pubblicazioni o spettacoli apertamente e volutamente blasfemi nei
confronti del Cristianesimo, cosa che sta diventando abbastanza frequente. In primis, l’attuale Gerarchia si preoccupa
di difendere il diritto alla libertà di espressione, la libertà di coscienza,
qui irreligiosa perché dell’autore blasfemo e anticristiano, che
peraltro viene in genere riprovato in termini assai blandi, quasi sempre su
sollecitazione pubbliche dei devoti, quasi mai ad iniziativa della stessa
Gerarchia, che evidentemente ritiene la libertà di coscienza più meritevole di
tutela della Verità Rivelata stessa e dell’onore e decoro della nostra
religione.
Se questa conclusione
appare eccessiva, guardiamo che cosa dice il Concilio in uno dei tre articoli
dedicati dalla Gaudium et spes all’ateismo (GS 19-21). “Pur respingendo in maniera assoluta
l’ateismo”, recita GS 21.7, la Chiesa “riconosce sinceramente che tutti gli
uomini, credenti e non credenti, devono contribuire alla giusta costruzione di
questo mondo, entro il quale si trovano a vivere insieme: ciò sicuramente non può avvenire senza un leale
e prudente dialogo”. Ancora una volta
compare qui la rinuncia a convertire le anime a Cristo, tipica del Vaticano
II: l’invito alla conversione è
sostituito da quello ad un “leale e prudente dialogo”. Nel prosieguo dell’articolo, infatti, il
Concilio “invita cortesemente” gli atei (i discepoli di Spinoza, di Voltaire,
di Marx, di Darwin etc.) “a voler prendere in considerazione il Vangelo di
Cristo con animo aperto” (GS 21.8). In
quest’ottica, l’articolo “deplora la discriminazione tra credenti e non
credenti che alcune autorità civili ingiustamente introducono, a danno dei
diritti fondamentali della persona umana. Rivendica poi, in favore dei
credenti, una effettiva libertà…” (GS 21.7).
A quali “autorità civili” si riferiva l’articolo? A quelle comuniste? In ogni caso, sembra evidente dal testo che
la libertà di espressione dei “non credenti” è posta dal Concilio sullo stesso
piano di quella da attribuirsi ai “credenti”.
Connettendo GS 21.7 con il passo sopra visto di DH 2.2, se ne ricava,
allora, che il diritto alla libertà di opinione nelle cose religiose deve
intendersi come specie del genere “diritti della persona” e quindi includere
anche il diritto a manifestare la propria opinione in religione da parte di
atei e miscredenti, come diritto naturale, innato.
A questo punto,
bisogna chiedersi: qual è il concetto di
“natura umana” che emerge da DH 2.2? È
esso in armonia con la Tradizione della Chiesa e il pensiero cristiano? A me sembra di no poiché la “natura umana”
per la dottrina cattolica non può esser altro che quella creata da Dio, perché
lo onorasse e glorificasse. Cosa che,
con l’aiuto di Dio, può riuscire a fare nonostante gli effetti nefasti del
peccato originale. La negazione
dell’esistenza di Dio, in qualunque modo manifestata, è sempre stata intesa,
oltre che come peccato, anche come stoltezza, vacuità intellettuale
che rappresenta una caduta rispetto al retto ragionamento e una diminuzione
della “natura umana” nel senso proprio, profondo del termine. Come dice il Salmo 14,1: “Dixit insipiens in corde suo: Non est Deus”: “Ha detto lo stolto in cuor suo: Dio non c’è”.
E perché l’ha detto? Per colpa
della superbia e malvagità dell’animo suo, ribelle al Creatore, che per
punizione lo lascia nella sua confusione intellettuale e nei suoi peccati: “I falsi ragionamenti separano da
Dio/L’Onnipotente messo alla prova/Confonde gli stolti” (Sap 1, 3).
Questa mi sembra
dunque la seconda grave contraddizione di DH 2.2: proporre un concetto di libertà religiosa
come libertà di adempiere l’obbligo di cercare il vero Dio, fondandola su una
“natura umana” che, come tale, costituirebbe anche il fondamento della libertà
di opinione antireligiosa di chi è ateo e miscredente e non intende in alcun
modo assolvere quell’obbligo, che anzi avversa.
8.1 Quale
concetto di verità ci propone la ‘Dignitatis humanae’? Un concetto non conforme alla Tradizione
della Chiesa, perché incompatibile con quello di verità rivelata
Tutto l’impianto del discorso conciliare si
basa, a sua volta, su di un concetto utopistico, non cattolico di verità,
come appare in DH 1.3 o Proemio della Dichiarazione. Si afferma, infatti, che “la verità non si
impone che per la forza della verità stessa, la quale si diffonde nelle menti
soavemente e insieme con vigore”. Poiché
la “libertà religiosa […] riguarda l’immunità dalla coercizione nella società
civile, essa lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere
morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di
Cristo” (ivi). Dovere, si suppone, di
ricercare la verità sulla “vera religione e l’unica Chiesa di Cristo”. Ho ripetuto qui questa frase solamente in
relazione al concetto della verità.
Poiché la verità possiede una sua intrinseca “forza”, si suppone che,
grazie al “dialogo”, le menti dei dialoganti si lasceranno convincere dalla
verità ossia dal fatto dell’esistenza della “vera religione e dell’unica Chiesa
di Cristo”. Soprassedendo all’ambiguità
della formulazione (già rilevata in antecedenza), mi limito al punto
essenziale.
Perché ho definito utopistica
la concezione della verità qui propugnata?
Non è forse vero che la verità possiede una sua intima forza di
convinzione, cui è difficile resistere?
È vero. La verità, una volta
accertata, ci costringe con la sua indefettibile autorità. La verità possiede un’autorità di fronte alla
quale non possiamo far valere la nostra opinione personale: dobbiamo invece inchinarci ed obbedire. La verità e l’autorità si implicano a
vicenda, nel senso che la verità ha come tale autorità. Ma chi la riconoscerà l’autorità della
verità, della verità in sé e per sé, nella sua intrinseca oggettività? Tutti gli uomini, senza eccezione, una volta
convinti con validi ragionamenti?
La riconosceranno
soprattuto coloro che sono disposti ad accettare la verità. Non
quelli, in genere la maggioranza, che non sono disposti, per i più vari
motivi, e che anzi arrivano persino a respingere la verità proprio perché è la
verità. Con la sua predicazione, le
profezie, i miracoli, Nostro Signore ha forse convinto tutto Israele o solo una
piccola parte? S. Giovanni scrive che
molti “tra i capi” di Israele (anche tra i Farisei) credettero in Cristo, “ma
non lo confessavano per paura di esser scacciati dalla sinagoga” ad opera dei
Farisei (Gv 12, 42). Avevano capito Chi era effettivamente Gesù di Nazareth ma
le loro passioni e le loro paure facevano velo alle loro volontà, e in quelli
che non credettero, al loro intelletto.
Pensare che la verità possa convincere semplicemente con la sua propria
forza, e portare di per sé all’azione, significa avere un concetto utopistico
della natura umana, misconoscere come le passioni, i pregiudizi, i vizi, gli
interessi facciano spesso aggio sull’intelligenza. E tanto più nelle verità sovrannaturali della
nostra fede, cui non possiamo credere senza l’aiuto dello Spirito Santo poiché
esse sono “scandalo per i Giudei e follia per i Greci” (1 Cr 1, 23). Come ripetevano i Santi Padri, senza amare le
S. Scritture è impossibile comprenderle (“non introitur in veritatem, nisi per
charitatem” – S. Agostino) e non si amano senza la fede. Senza la fede è impossibile comprendere le S.
Scritture: esse restano un libro chiuso
con sette sigilli. Senza la fede, vuol
dire senza l’aiuto dello Spirito Santo, della Grazia[121]. Per tal motivo, la Chiesa Cattolica ha sempre
insegnato che il senso delle Scritture (che non è mai facile a cogliersi)
spetta alla Chiesa stessa stabilirlo, godendo essa sempre dell’aiuto
sovrannaturale dello Spirito Santo (il quale, nei momenti di crisi del
Magistero, impedisce alle cattive dottrine di radicarsi, e successivamente
illumina e sostiene il Magistero stesso nell’opera di pulizia e restaurazione).
Il concetto del vero
posto dal Concilio a fondamento dell’intera Dignitatis humanae, che ne
costituisce come lo spirito, appare utopistico, irrealistico, non conforme alla
Tradizione della Chiesa, al suo sano realismo e al giusto concetto della verità
da applicarsi alla comprensione dei dogmi della fede. E forse, non immune da una tinta pelagiana. Consideriamo, infatti, come debba esser
condotta la “ricerca della verità in materia religiosa” secondo DH 3.
Rifacendosi a S.
Tommaso, il Concilio ci ricorda che “norma suprema della vita umana è la legge
divina, eterna, oggettiva e universale, per mezzo della quale Dio con sapienza
e amore ordina, dirige e governa l’universo e le vie della comunità umana” (DH
3.1). Di questa legge, Dio “rende
partecipe l’essere umano, cosicché l’uomo, sotto la sua guida soavemente
provvida, possa sempre meglio conoscere l’immutabile verità” (ivi). Ma come deve esser concretamente ricercata
“l’immutabile verità”? Già il fatto che
il Concilio senta il bisogno di stabilire il criterio di questa ricerca suscita
perplessità. Che cos’è “l’immutabile
verità”? Sarà la verità che concerne Dio
e l’ordine da Lui stabilito. La sua
ricerca da parte dell’uomo sarà la ricerca della presenza della “legge divina”
che ordina e regge l’universo e la “comunità umana”. Ora, dalla Rivelazione e dal Magistero della
Chiesa, dalla teologia ortodossa e dalla filosofia cristiana, non abbiamo noi
un’idea sufficiente dell’immutabile verità, sia nelle sue componenti
strettamente religiose che in quelle morali e metafisiche? E per conseguenza sociali e politiche? Voglio solo dire che l’immutabile verità
invece che come saldo possesso, sulla base del Deposito della Fede, che
garantisce tutta una serie di verità fondamentali anche non strettamente
religiose, viene qui presentata e sentita come problema, come se essa
dovesse risultare da un’ulteriore “ricerca”.
DH 3 si propone,
pertanto, di illustrare i giusti criteri di questa “ricerca”, che devono tener
conto del valore assoluto della “dignità umana”. Prosegue, infatti, nel seguente modo: “La verità, però, va cercata in modo
rispondente alla dignità della persona umana e alla sua natura sociale: e cioè con una ricerca condotta liberamente,
con l’aiuto dell’insegnamento e dell’educazione, per mezzo dello scambio e del
dialogo con cui, allo scopo di aiutarsi vicendevolmente nella ricerca, gli uni
rivelano agli altri la verità che hanno scoperta [invenerunt] o che
ritengono di aver scoperta” (DH 3.2). Il
principio qui affermato fa consistere la verità “in materia religiosa” in
qualcosa che è “scoperto”, trovato dalla coscienza individuale nella ricerca
con “gli altri”, nello “scambio e nel dialogo” reciproci, ove gli “altri” [alii]
non sono semplicemente gli altri Cattolici, ma gli altri in generale, tutti
gli altri uomini, a qualsiasi credo appartengano. Una “ricerca” della verità circa Dio
concepita in questo modo ha sì ad oggetto la lex aeterna, la legge
morale naturale, ma alla maniera dei deisti:
coinvolgendo tutti (senz’escludere nemmeno i miscredenti – vedi supra)
non può avere ad oggetto la Verità Rivelata, negata in toto dai
non-cristiani e in parte dagli eretici e scismatici, pur invitati alla
“ricerca”).
DH 3.1 dice, come si è
visto, che l’uomo gode della “guida soavemente provvida” da parte di Dio, per
conoscere “sempre meglio l’immutabile verità”.
Ma a questo riferimento di carattere generale, il Concilio, nell’indicare
il metodo della ricerca, non dovrebbe fare seguire un preciso
riferimento allo Spirito Santo? Detto
altrimenti: non avrebbe dovuto
aggiungere che senza l’aiuto dello Spirito Santo la “libera ricerca” della
verità “nel dialogo” non approderebbe a nulla?
Invece il Concilio tace completamente dell’indispensabile apporto dello
Spirito Santo! E come avrebbe potuto
parlarne, nel propugnare una “ricerca dell’immutabile verità” da farsi in
comune con tutti gli Acattolici, i non-cristiani e persino gli atei e
miscredenti? Non è vero che anche con
gli atei e miscredenti dobbiamo noi Cattolici lavorare “in leale e prudente
dialogo” per costruire un mondo migliore?
Vedi GS 21.7, già citato.
Questa dottrina sulla
“libera ricerca” della verità in materia religiosa, a mio parere contraddice
apertamente l’insegnamento tradizionale, secondo il quale, per il Cattolico, la
verità “in materia religiosa” e nella morale è una verità rivelata da Dio e
conservata nel Deposito della Fede custodito dal Magistero; verità
assolutamente oggettiva che esiste indipendentemente da noi e che perciò
richiede, esige l’assenso del nostro intelletto e della nostra volontà,
assenso possibile solo con l’aiuto determinante della Grazia. Essa esige di esser riconosciuta e fatta
propria dal credente, non di essere da lui “trovata” con le sue sole forze e
per di più in una cosiddetta ricerca comune con gli eretici, gli
scismatici, i non-cristiani, i miscredenti!
Non ha qui il Concilio in maniera evidente messo in comune Cristo e
Beliar? Al criterio oggettivo e
tipicamente cattolico della verità “in materia religiosa”, che è tale perché
rivelata da Dio, si sostituisce quello soggettivo, di origine
protestante e tipico del pensiero moderno, suo vero e proprio feticcio, di una
verità che è tale perché “trovata” dalla coscienza individuale nella sua
“ricerca” in comune con gli “altri”, perché risultato della “ricerca” del
soggetto, individuale e collettiva. In
questo modo non si è aperta la porta all’irruzione nel Cattolicesimo di una religiosità
individuale anomala; una religiosità della “ricerca”, del “cuore”, del
“sentimento di umanità” o di “solidarietà”, della “coscienza”, del “dialogo”,
caramellosa, falsa e dolciastra, che ricorda la pappa del cuore
scodellata dai romanzi sentimentali del Settecento?
Quest’idea della verità
come ricerca viene applicata dal Concilio anche alla definizione del
concetto di “progresso estrinseco” nella conoscenza delle verità di fede
risultanti dalla “tradizione di origine apostolica”. L’art. 8.2 della costituzione Dei Verbum
sulla divina rivelazione afferma, infatti, che, nel crescere della comprensione
delle verità di fede, “la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente
alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le
parole di Dio”(DV 8.2). La “verità
divina”, ossia la verità rivelata nella sua “pienezza”, la Chiesa non la
possiederebbe ancora, dopo venti secoli.
Essa vi “tende incessantemente” così come la “coscienza morale” dei
Cattolici tende alla verità rappresentata dalle “norme oggettive” della morale,
nel dialogo planetario con tutti gli uomini! (Sul punto, infra, cap.
XVIII, § 3).
Infatti, l’idea della “verità come ricerca”
anche nelle cose della religione, è a sua volta basata su di un certo modo di
intendere la coscienza. “L’uomo
coglie e riconosce gli imperativi della legge divina attraverso la sua
coscienza, che è tenuto a seguire fedelmente in ogni sua attività per
raggiungere il suo fine che è Dio. Non
si deve quindi costringerlo ad agire
contro la sua coscienza” (DH 3.3). Giustissimo.
Il principio è sacrosanto. Ma andiamo a
vedere più da vicino il ruolo della “coscienza” nella “ricerca della verità”,
nell’art. 16 di GS, dedicato alla “dignità della coscienza morale”. L’articolo fa un grande elogio della
“coscienza morale” del soggetto, nella quale l’uomo scopre “la legge di Dio
scritta nel suo cuore”, alla quale deve obbedire. Anche questo principio è coerente con la
dottrina cattolica di sempre. Ma le cose
cambiano subito dopo, allorché il testo introduce il tema della “ricerca della
verità” in comune con gli altri uomini.
È il medesimo principio di cui a DH 3.2.
“Nella fedeltà alla
coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per
risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita
privata quanto in quella sociale. Quanto
più, dunque, prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi si
allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme
oggettive della moralità” (GS 16.2). Di
quale “verità” si tratta qui?
Verosimilmente, di quella concernente la religione ed i costumi. E questa verità non dovrebbe già risultare
dall’insegnamento infallibile della Chiesa Cattolica, dalla Tradizione e dal
Magistero? Al possesso sicuro della
verità della fede e dei costumi stabilito nei secoli dal Magistero, il Concilio
sostituisce la “ricerca” della verità
come criterio generale, della verità in generale; qualcosa di indeterminato,
ma conforme, come sappiamo, allo spirito del Secolo, che ama la “ricerca”, cioè
l’esperimento, la novità, la stravaganza, il moto perpetuo. Non solo. Questa ricerca, sempre in conformità allo
spirito del Secolo, deve aver luogo in unione “con gli altri uomini”, e quindi
anche e soprattutto con gli Acattolici e i non-cristiani, cioè con coloro che
negano tutte o quasi tutte le verità insegnate dalla Chiesa Cattolica. Come può una “ricerca” del genere pervenire a
risultati positivi per la fede e per i credenti, tanto più che essa deve applicarsi
anche ai “problemi morali”? I Cristiani,
i Cattolici, i “problemi morali” li dovranno d’ora in poi risolvere ecumenicamente,
nel dialogo con gli altri, non in applicazione delle regole tramandate
della loro fede e della loro morale.
Infatti, l’intesa “con gli altri uomini” è affidata alla certezza
dell’esistenza di “norme oggettive della moralità”, che possono esser trovate
in comune da tutti gli uomini cosiddetti di buona volontà, che si affidino alla
loro coscienza morale.
L’insostenibilità
dell’assunto mi sembra palese. Come
possano, tanto per fare un esempio, trovare una norma morale comune per una
sana vita familiare, i Cattolici, per i quali l’indissolubilità del matrimonio
è dogma di fede, ed i Protestanti e gli Ortodossi, che invece la negano (per
tacere di chi ammette la poligamia, il concubinato, il ripudio, il matrimonio
temporaneo), non si riesce a comprendere.
E quando mai le “norme oggettive” della moralità sono state stabilite in
questo modo, nella ricerca comune di tutti? Ma ciò che colpisce di più è la separazione
della morale dalla Rivelazione: le
“norme oggettive” della moralità non dipendono più dalla Rivelazione, ma dalla
“coscienza morale”, che le trova nella ricerca comune con gli “altri
uomini”, con tutti gli “altri uomini”.
La contraddittorietà intrinseca a questo concetto di “norme oggettive”
della moralità mi sembra del pari evidente. Le norme “oggettive” vengono in
realtà ad esser poste dalla coscienza, e sono quindi “soggettive”. E come possono esprimere un ordine “oggettivo”
norme che dovrebbero essere trovate in comune da uomini che professano
concezioni morali diverse e persino opposte?
E come può costruirsi una vita sociale in comune su queste basi?
GS 16.2 fa
riferimento, come si è visto, alla “legge scritta da Dio dentro il cuore”
dell’uomo, in corde suo: questa
legge sarebbe quella che si riscontra nelle “norme oggettive” della
moralità. Ma come si fa a riscontrarla
se le sue “norme oggettive” devono risultare da una ricerca in comune, condotta
da uomini che hanno la loro propria visione soggettiva della moralità, spesso
in contrasto con ciò che prescrive “la legge scritta da Dio dentro il
cuore”? Non è il riconoscimento
dell’intelletto nostro alla Verità
Rivelata, è la coscienza (dialogante) a far emergere la legge dalle profondità
del “cuore”: la coscienza è quindi
l’autorità che determina alla fine le norme della moralità da applicarsi. Compare l’ombra di Jean-Jeacques Rousseau,
della sua “Professione di fede del Vicario Savoiardo”, deistica e pelagiana,
incentrata sulla narcisistica esaltazione della “coscienza” individuale.
Il testo conciliare
precisa, infine, che, quando prevale la coscienza “retta”, gli uomini si
allontanano dal “cieco arbitrio”. Ma per
resistere al “cieco arbitrio” delle passioni, delle tentazioni, dei cattivi
pensieri e desideri, non occorre l’aiuto della Grazia? Come ho già ripetuto più volte, questa è
sempre stata la verità cattolica, basata sulla Tradizione e sulla
Scrittura: senza la Grazia, senza
l’aiuto dello Spirito Santo, non riusciamo ad osservare né la morale naturale
(della legge “inscritta nei nostri cuori”) né quella rivelata che la
perfeziona. Non per nulla il Signore ha
detto: “Senza di Me non potete far
nulla”, Gv 15, 5. Ma della Grazia il
testo del Concilio non fa cenno alcuno.
La “conformità” alle norme “oggettive” della legge morale, posta da Dio
nei nostri cuori, dipende ora, anche per i Cattolici, esclusivamente dalla
“rettitudine” della coscienza e cioè dall’individuo, immerso nella “ricerca
della verità” insieme a tutti gli altri. (E sempre sul presupposto che questi
“altri” siano effettivamente interessati alla ricerca della verità, da soli e
in comune, cosa della quale il sano realismo è costretto a dubitare
fortemente).
E non è estremamente
grave che, al modo dei deisti, si sia concesso di fatto spazio all’idea secondo
la quale la “coscienza morale” unisce gli uomini al di là e al di
sopra delle religioni positive?
Infatti, la coscienza non rappresenta al massimo grado ciò che è umano,
quei “valori umani” tanto cari all’ala progressista del Vaticano II? La quale è riuscita a far filtrare nel testo
il principio non cattolico che la “verità”, anche quella da applicare nelle
questioni morali pratiche, non la possediamo ancora (non si ricava, lo ripeto,
da un Magistero infallibile di circa venti secoli), ma deve risultare dallo
sforzo comune e comunitario della “coscienza” di ciascuno.
Per questo,
cinquant’anni di “dialogo”, condotto secondo le intenzioni di questa dottrina
conciliare, non hanno portato a nulla.
Anzi, hanno sortito l’effetto contrario: inevitabilmente, le “verità”
delle quali si sono “soavemente” imbevuti tanti Cattolici dialoganti sono state
quelle delle controparti ed i cattolici hanno apostatato a milioni o sono
caduti in massa nell’indifferentismo.
E questa potremmo
definirla la terza grave contraddizione di questa Dichiarazione: porre a fondamento del concetto della
“libertà religiosa” un concetto di verità palesemente astratto ed utopistico,
fondato sulla coscienza individuale e pertanto privo di ogni riferimento al
sovrannaturale, per ciò stesso inapplicabile al concetto stesso di verità
rivelata come sempre inteso dalla dottrina della Chiesa. Secondo il suo insegnamento costante,
l’indispensabile adesione del nostro intelletto alle verità di fede avviene
sempre e solamente con l’aiuto dello Spirito Santo e mai per la sola e pura
forza di convinzione di quelle verità o per le sole capacità del nostro
intelletto, che pur deve dare il suo contributo, fin dove può giungere. Ma nemmeno nell’ambito delle conoscenze
profane si può dire che la verità si imponga unicamente per la forza che pur
possiede. Anche qui devono intervenire
altri fattori.
Per concludere, alla
luce di tutti questi rilievi come dobbiamo alla fine valutare l’affermazione
già ricordata del Proemio della DH, secondo la quale la nuova dottrina
della libertà religiosa è da ritenersi coerente alla Tradizione della Chiesa
perché “lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere morale dei
singoli e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo” (DH
1)? Questo dovere di ricercare la vera
religione viene indubbiamente mantenuto.
E tuttavia, se ad esso presiede un concetto di verità succube del
pensiero moderno, che non lascia spazio al concetto stesso di “verità
rivelata”, possiamo dire che quel dovere venga mantenuto nel modo
giusto? Si ponga mente, poi, a
quest’idea nuova di una ricerca della verità nelle cose della morale e della
religione da farsi in modo ecumenico, vale a dire in comunione “con gli
altri uomini”, in nome del vincolo comune rappresentato dalla “coscienza
morale” di ognuno, che si suppone “retta”.
“Retta”, lo sarà anche ma apparterrà pur sempre a membri di religioni
diverse e tra loro antagoniste, che, tanto per restare ai fatti, differiscono
sempre anche su aspetti fondamentali della morale. Come è possibile che una ricerca condotta con
un simile metodo giunga alla conoscenza del vero Dio e trovi la
soluzione di problemi morali comuni? Non
si risolverà in un’impressionante Babele?
Tanto più se si
riflette che nella già ricordata Nostra
Aetate 2.5, sulla relazione della Chiesa con le religioni non cristiane,
sembra addirittura proporsi una vera e propria inversione della missione dei
Cattolici nei confronti dei seguaci delle altre religioni. Invece di esortare i credenti ad un rinnovato
slancio morale e religioso per convertire il maggior numero possibile di
infedeli, il Concilio esorta i Cattolici, “per mezzo del dialogo e della
collaborazione” a “riconoscere, conservare e far progredire i valori
spirituali, morali e socio-culturali che si trovano in essi [illa bona
spiritualia et moralia necnon illos valores socio-culturales, quae apud eos
inveniuntur, agnoscant, servent et promoveant]”. Naturalmente, c’è l’inciso “sempre rendendo
testimonianza alla fede e alla vita cristiana”.
Ma la “fede e la vita cristiana” non vengono concepite, oltre che per la
santificazione personale, anche per la conversione dei non cristiani? Se “la fede e la vita cristiana” devono ora
concorrere, con il “dialogo”, a riconoscere ed anzi addirittura a far
progredire i valori nei quali credono coloro che dovrebbero convertirsi, allora
cosa resta dell’esigenza della conversione?
E dell’autentica nozione di “testimonianza” della propria fede con l’esempio
della propria vita?
Questo che a me sembra
un vero e proprio rovesciamento della missione dei Cattolici nei
confronti degli infedeli, non equivale di fatto a proporre un’oggettiva controverità
quale criterio guida per la ricerca del vero Dio e della soluzione dei
“problemi morali”, da ricercarsi con “gli altri uomini”? E questa direttiva di aprirsi e addirittura
di “far progredire” i valori spirituali, morali e sociali delle altre
religioni, è conforme al comando di Nostro Signore, più volte già ricordato: “Andate e fate miei discepoli tutti i popoli”
(Mt 28,19)? Forse che gli Apostoli
riconoscevano, volevano conservare e cercavano di far progredire i valori
spirituali dei Pagani, che avevano il dovere di convertire all’unico e vero
Dio? E questa direttiva è veramente
conforme alla dottrina tradizionale della Chiesa invocata in DH 1? Forse che la dottrina tradizionale della
Chiesa Cattolica invitava i fedeli a cercare la verità morale e nelle cose
della religione basandosi soprattutto sulla loro libera coscienza morale
individuale e in comunione o dialogo che dir si voglia con “gli altri uomini” e
cioè con tutte le altre religioni, esortando per di più i Cattolici a far
progredire “tutti gli altri uomini” nei valori delle loro religioni;
incitandoli, quindi, in definitiva a far progredire le altre religioni?
9. La
dottrina della “libertà religiosa” affonda le sue radici nella
Rivelazione? Dall’analisi dei testi, non
si direbbe
Procediamo ora ad
indagare “la libertà religiosa alla luce della Rivelazione”, come titola la II
parte di DH (artt. 9-15). Ai fini del
nostro tema, mi limiterò agli articoli 9-11.
Come si è visto, dovrebbe esser qui dimostrata la presenza nella S.
Scrittura di un concetto di “libertà religiosa” non dissimile da quello
propugnato dal pensiero e dallo Stato moderni, come diritto inalienabile della
persona, di ogni uomo a professare la religione che gli detta la sua coscienza.
DH 9, l’ho citato più
volte richiamando la sua frase d’apertura, ove c’è l’acritico elogio, falso sul
piano dell’effettiva “storia delle idee”, alla “ragione umana” in generale (ma
è in realtà soprattutto quella dei Moderni) per il suo contributo al concetto
della “dignità della persona”. Ma la
“ragione umana” non ha lavorato nel deserto, in tutti questi secoli, ci insegna
inaspettatamente il Concilio. “Anzi, una
tale dottrina sulla libertà [religiosa] affonda le sue radici nella rivelazione
divina, per cui tanto più va rispettata con sacro impegno dai cristiani. Quantunque, infatti, la rivelazione non
affermi esplicitamente il diritto all’immunità dalla coercizione esterna in
materia religiosa, fa tuttavia conoscere la dignità della persona umana in
tutta la sua ampiezza, mostra il rispetto di Cristo verso la libertà umana
degli esseri umani [homines] nell’adempimento del dovere di credere alla
parola di Dio, e ci insegna lo spirito che i discepoli di un tale Maestro
devono assimilare e manifestare in ogni loro azione” (DH 9).
Il Nuovo Testamento
non contempla espressamente questo “diritto” e diciamo, più in generale, che
esso non sembra preoccuparsi affatto dei “diritti dell’uomo”, dato che la
Missione del Figlio di Dio è quella di salvare i peccatori dalla perdizione non
quella di far prendere agli uomini coscienza dei loro supposti “diritti”,
esaltandone in tal modo la superbia. Il
diritto alla “libertà religiosa”, come diritto fondato sulla dignità della
persona umana, si può tuttavia ricavare, secondo il Concilio, dai testi stessi,
perché in essi vi si mostra “il rispetto [observantiam] di Cristo per la
libertà umana” di coloro che ascoltavano la sua Parola. E questo “rispetto” devono praticare anche i
suoi discepoli. E l’hanno sempre
praticato, aggiungo, dal momento che il Concilio stesso ci ricorda subito dopo (DH 10) che, per la Chiesa, “nessuno può
esser costretto ad abbracciare la fede contro la sua volontà”. DH 10 ripropone pertanto la dottrina di
sempre della Chiesa sulle famose due “immunità” circa la professione della religione.
È nel lungo art. 11, dedicato al “Modo di agire di Cristo e degli
Apostoli”, che il Concilio vuol trovare nei Testi Sacri il riconoscimento di un
diritto alla libertà religiosa fondato sul concetto della dignità innata della
persona, in quanto tale.
Ma cosa ci mostra
quest’analisi? A mio avviso, niente che
confermi la tesi del Concilio, ossia che la predicazione di Nostro Signore
mostri un riconoscimento di un diritto alla libertà religiosa da parte della
persona umana, a causa della sua dignità.
Citando numerosi passi neotestamentari
l’articolo ricorda come Nostro Signore fosse mite e umile di cuore; come avesse
invitato ed atteso i suoi discepoli pazientemente; come non avesse mai
esercitato coercizione alcuna sui suoi uditori, nonostante i miracoli che aveva
fatto dinanzi a loro, mostrando la sua divina potenza; come, mandando gli
Apostoli per il mondo preannunciasse la condanna di chi non avrebbe creduto (Mc
16,16, citato qui invece che nei paragrafi iniziali di Lumen gentium) ma
precisando che il loglio sarebbe stato separato dal grano solo alla fine dei
tempi; come si presentasse sempre quale perfetto “servo di Dio” e rispettasse
la potestà civile ammonendo tuttavia di “rispettare i superiori diritti di
Dio”; come compisse infine sulla Croce l’opera della redenzione. Insomma, Egli “rese testimonianza alla
verità, però non volle imporla con la forza a coloro che la respingevano” (DH
11.1).
Gesù Cristo Nostro
Signore non era Maometto, lo sappiamo.
Ma tutto ciò, cosa dimostra: che
nel suo modo di agire si rispecchiasse il rispetto per un supposto diritto
innato dei suoi ascoltatori ad esser trattati come persone, vale a dire
come se avessero per natura un diritto a non subire alcuna coazione da
parte sua o degli Apostoli? Per nulla, a
mio modesto avviso. Dimostra solamente
che il Signore operava per divina misericordia, gratuitamente, mosso da una
carità sovrannaturale nei confronti dei peccatori. E la misericordia è al di là e al di sopra di
ogni schema del tipo diritto-dovere, di ogni rapporto di questo tipo. Tra l’altro, non ci poteva essere da parte
sua il riconoscimento alla nostra natura umana di un diritto di questo tipo o
altro che sia. Noi sappiamo che al diritto
di un soggetto corrisponde in genere il dovere di un altro soggetto
di tutelarlo o realizzarlo. Se si dice
che Nostro Signore mostrava di rispettare il supposto diritto alla libertà
religiosa di ciascun uomo, ciò è come dire che tale rispetto costituiva per Lui
un dovere. Conclusione assurda e
in ogni senso poiché il Verbo incarnato non poteva esser obbligato da alcun
dovere nei nostri confronti. E
pericolosa per il dogma, perché di fatto mette in discussione il carattere
gratuito dell’opera della Salvezza.
DH 11.2 si sofferma
sul “modo di agire” degli Apostoli, per rimarcare che essi “hanno seguito la
stessa via” di Gesù Cristo. Non hanno
mai fatto ricorso “ad azioni coercitive” né ad “artifizi indegni del
Vangelo”. Si sono appoggiati solo alla
“forza della Parola di Dio”, avendo riguardo “ai deboli, sebbene fossero
nell’errore”: riguardo, si intende, nel
modo di esporre la dottrina. Come
Cristo, hanno predicato la Parola di Dio “arditamente” di fronte alle autorità
costituite e al popolo, senza curarsi delle loro reazioni, convinti che il
Vangelo “fosse veramente la forza di Dio per la salvezza di ogni
credente”. Come il Maestro hanno
riconosciuto la legittimità dell’autorità civile (Rm 13, 1-5) resistendo però
al pubblico potere quando “si opponeva alla santa volontà di Dio”. In conclusione, si può dire che gli Apostoli
“hanno predicato la parola di Dio pienamente fiduciosi nella divina virtù di
tale parola nel distruggere le forze avverse a Dio e nell’avviare gli esseri
umani alla fede e all’ossequio di Cristo”(DH 11.2).
Anche in questo
riassunto del “modo di agire” degli Apostoli troviamo la dimostrazione che essi
abbiano disdegnato di usare la coercizione perché riconoscevano ai fedeli un
diritto naturale individuale alla “libertà religiosa”? Direi proprio di no. Agendo su mandato sovrannaturale del loro
divino Maestro, lo imitavano in tutto, mossi dalla misericordia e dalla carità,
che sicuramente non vedono le anime da salvare sotto l’aspetto dei diritti e
delle dignità da tutelare e da imporre.
Dal “modo di agire” di Nostro Signore e degli Apostoli, come esposto dal
Concilio, si ha semplicemente la conferma della dottrina tradizionale: che la predicazione della Chiesa ha sempre
garantito l’immunità da costrizioni alla fede - costrizione peraltro di per sé
illogica - senza per questo concepire tale “immunità” come un diritto naturale
della persona. Cosa che si può legittimamente
concepire, se si vuole, ma nei confronti del potere statale.
A proposito
dell’interpretazione conciliare di alcuni tra i passi neotestamentari citati,
vorrei fare delle precisazioni sul significato di alcuni di essi,
che a parer mio è stato deformato o forzato nel senso della nuova dottrina.
1. Nel passaggio nel quale si ricorda che gli
Apostoli hanno sempre avuto riguardo “per i deboli, sebbene fossero
nell’errore”, si aggiunge, di seguito:
“mostrando in tal modo come ‘ognuno di noi renderà conto di sé a Dio’
(Rm 14,12) e sia tenuto soltanto ad obbedire alla propria coscienza [et in
tantum teneatur conscientiae suae oboedire]”. Chi legge ha sicuramente l’impressione che il
senso del versetto paolino citato sia proprio quello di affermare il principio
che ognuno è “tenuto soltanto ad obbedire alla propria coscienza”, frase uscita
dalla penna del Concilio e che commenta S. Paolo in modo da farvi apparire il
principio dell’obbedienza alla propria coscienza quale principio dotato di un
valore assoluto.
A me sembra che S.
Paolo voglia insegnarci un concetto del tutto diverso. Situiamo il passo nel suo contesto e vediamo
come si arriva a questa frase. S. Paolo
sta ammonendo a non giudicare e a non disprezzare gli altri, cioè “i fratelli”,
gli altri Cristiani (Rm 14, 7-8). “Tutti
compariranno, scrive, davanti al tribunale di Dio, poiché sta scritto: “Come è vero che io vivo, dice il Signore,
ogni ginocchio si piegherà avanti a me e ogni lingua liberamente confesserà Dio
[Is 45, 23]”. Così dunque ognuno di noi
renderà conto di se stesso a Dio [itaque unusquisque nostrum pro se rationem
reddet Deo]. Dunque, non
giudichiamoci gli uni e gli altri etc.”.
Dal contesto, si vede nettamente che il “render conto” è quello del
giudizio di fronte a Dio dopo la morte.
Di fronte a Dio, non alla nostra coscienza. Non dovremo “render conto” a Dio degli altri
che abbiamo stoltamente giudicato e disprezzato (e quindi pensiamo ai casi
nostri) ma unicamente di noi stessi, di quello che abbiamo pensato e fatto
nella nostra vita terrena. Punto e a
capo. L’obbedire soltanto alla propria coscienza, di cui a DH 11.2, non c’entra
per nulla. L’Apostolo ci ammonisce a non
dimenticare mai che, il giorno del
Giudizio, ci attende il redde rationem finale dell’anima nostra a Dio e
non certo la proclamazione del principio della coscienza individuale quale
unico nostro giudice al quale “render conto”!
2. Di nuovo il Concilio cita S. Paolo (Ef
6,11-17 e 2 Cr 10,3-5) a sostegno del concetto visto alla fine del nostro
riassunto di DH 11.2, che richiama la fiducia degli Apostoli “nella divina
virtù di tale parola nel distruggere le forze avverse a Dio” e nell’avviare gli
uomini alla fede. Il passo della Lettera
agli Efesini contiene la famosa metafora dell’armatura di Cristo. Come un soldato il Cristiano doveva “rivestirsi
dell’armatura di Dio per affrontare le insidie del diavolo”. E quindi della “corazza della giustizia”,
dello “scudo della fede” sul quale potevano “spegnersi tutti i dardi infuocati
del maligno”, e infine della “spada dello Spirito, che è la parola di
Dio”. La metafora sembra avere un
significato difensivo. Si tratta di
difendersi dai “dardi infuocati” del Diavolo, difesa garantita non solo dalla
“parola di Dio”, come sembra far credere DH 11.2, ma anche dalla pratica della giustizia
e della fede, dopo essersi
preparati “nel Vangelo della pace”. La
“parola di Dio” è “la spada dello Spirito” ossia l’arma dello Spirito Santo.
La connessione tra la
predicazione e lo Spirito Santo, senza il cui aiuto la conversione è
impossibile, non mi sembra sia messa bene in rilievo dalla Dichiarazione, che
sembra privilegiare la “virtù divina” della parola di per sé stessa, nella sua
capacità intrinseca di “distruggere le forze avverse a Dio”. Ma senza l’aiuto sovrannaturale dello Spirito
Santo, inviato da Nostro Signore, questa parola, nonostante sia “divina” quanto
alla sua origine, non distrugge un bel niente.
Nella seconda Lettera
ai Corinti 10, 3-5, S. Paolo, per difendersi dai falsi ragionamenti di
persone che lo calunniavano, parla della sua predicazione come di “armi della
nostra milizia che non sono carnali ma potenti in Dio [sed potentes in Deo]
a distruggere anche delle fortezze, distruggendo noi i falsi ragionamenti [dei
nostri nemici] e ogni rocca elevata contro la conoscenza di Dio etc.”. Ora,
qui egli esalta la potenza della parola che distrugge i falsi
ragionamenti, ma è sempre “potenza di Dio”, che viene da Dio più che dalla
parola, per opera dello Spirito Santo.
3. In quest’esaltazione della forza e della
potenza della Parola di Dio, il Concilio, a mio avviso, non sottolinea come
dovrebbe che la “divina virtù di tale parola” è appunto divina, nel
senso di operare con potenza, soprattutto ad opera dell’influsso dello Spirito
Santo. Quest’esaltazione della forza
della parola in quanto tale è un tratto tipico del Vaticano II, che ha voluto
dare un particolare rilievo alla Liturgia della Parola nella celebrazione
della Nuova Messa e (come si è visto) ha
voluto vedere nella “predicazione della Parola di Dio” la caratteristica
fondamentale del sacerdozio, contro tutta la tradizione della Chiesa, ribadita
dal Tridentino contro i Protestanti eretici, secondo la quale ciò che
caratterizza il sacerdote cattolico è innanzitutto la celebrazione del Santo
Sacrificio della Messa e la facoltà di rimettere i peccati.
10. I
Martiri hanno offerto la loro testimonianza per render gloria a Dio e
convertire i Pagani, assai più che per la “libertà religiosa”, ed aspiravano ad
uno Stato cristiano
L’analisi critica del
tentivo di ritrovare il riconoscimento del concetto della “libertà religiosa”
nella Tradizione della Chiesa, deve ora da ultimo rivolgersi alla tesi, sopra
richiamata, secondo la quale, nel riconoscere un principio fondamentale della
concezione laica (e anticristiana) dello Stato, il Concilio aveva contemporaneamente
ritrovato o riscoperto “il patrimonio più profondo della Chiesa”, quello
costituitosi grazie alla testimonianza del sangue offerta dai
Martiri. Per sostenere simile tesi
bisogna evidentemente attribuire al martirio dei primi Cristiani anche il
significato di un sacrificio consapevole per la libertà di fede e di
culto (ossia di coscienza e di espressione).
Bisogna in sostanza farne dei precursori consapevoli della libertà di
coscienza propugnata in modo uguale per tutte le religioni dallo Stato moderno
(fondato sul principio di immanenza, indifferente se non ostile al fenomeno
religioso in quanto tale). E dico
appositamente: “sacrificio
consapevole”. Infatti, se noi diciamo
che solo oggettivamente (ma senza saperlo né volerlo) essi si sono
sacrificati per la libertà religiosa, da attribuire ugualmente a tutte le fedi
quale diritto inalienabile della persona, non applichiamo al loro sacrificio la
nostra ottica di moderni, alterandone il significato?
Bisogna quindi
accertare se le testimonianze rimasteci dei primi Martiri mostrino in loro il
desiderio di sacrificarsi per la libertà religiosa nel senso moderno del
termine, per tutti e per tutte le religioni, come diritto universale della
persona. Rileggendo gli Atti e le
Passioni dei Martiri non si trova però traccia alcuna, secondo me, di
riferimenti a siffatta “libertà”. Si ha
anzi l’impressione che ai Martiri, che sembravano letteralmente posseduti dallo
Spirito Santo, di questa famosa libertà importasse assai poco. Non voglio dire, con questo, che non
sarebbero stati contenti di goderne. Non
condivido certo le idee dei Donatisti, rigoristi che, nel III e IV secolo, sostenevano essere la
persecuzione il modo normale ed unico di vita dei Cristiani, negando il perdono
a coloro che avevano apostatato durante le persecuzioni (i c.d. lapsi, letteralmente “scivolati”, nell’apostasia) e
attaccando fisicamente chi non la pensava come loro, finendo col cadere
nell’eresia quando cominciarono a rifiutare l’autorità della Chiesa, dopo che
essa ebbe condannato la loro dottrina estremista e il loro comportamento. Qui si tratta solo di verificare l’effettiva
realtà storica, la quale mostra che, nella testimonianza dei Martiri, la
rivendicazione della libertà religiosa resta generalmente implicita, come se
costituisse un elemento secondario. Importava loro, soprattutto, non cadere nel
grave peccato di apostasia. La morte era
consapevolmente accettata e persino invocata per render gloria a Dio e come
sacrificio per la conversione del mondo pagano, grazie alla forza dell’esempio
da essa rappresentato. “Potessi io persuadere voi a farvi cristiani!” gridava
alla folla persecutrice il martire Pionio mentre veniva condotto al supplizio,
respingendo l’invito pressante ad abiurare per salvarsi la vita[122]. L’atteggiamento dei Martiri non aveva,
comunque, nulla di sentimentale.
Pressati com’erano ad abiurare e sottoposti spesso a percosse, torture,
umiliazioni, ingiurie, essi reagivano mantenendo un atteggiamento fiero ed impavido,
a volte “minacciando il Giudizio di Dio” ai persecutori, cioè ricordando loro
che sarebbero stati giudicati dal vero Dio per le loro azioni infami[123].
La religione
cristiana, in quanto unica vera perché unica sicuramente rivelata da Dio, era
per loro incomparabile (oltre che incompatibile) con le altre. Battersi per l’universale libertà di
coscienza in religione avrebbe significato metterla sullo stesso piano delle
altre, tutte false perché non rivelate da Nostro Signore. Esse non venivano da Dio ma dagli uomini, in
particolare il Paganesimo, impestato dal Demonio (Salmo 96, 5; 1 Cr 10, 20). I Martiri volevano la libertà di martirio, di
morire per la loro fede, e sembravano disinteressarsi completamente della
libertà di professarla come una religione uguale alle altre, tra le
altre. Quando S. Perpetua, condotta
con gli altri a morire nell’Arena di Cartagine, vide che per dileggio e per
farli in qualche modo apostatare volevano far indossare a tutti loro indumenti
usati nelle iniziazioni ai misteri pagani, esclamò, ottenendo dal tribuno il
contrordine: “Siamo giunti al martirio
spontaneamente, proprio perché la nostra libertà non venisse incatenata [ne
libertas nostra obduceretur]; abbiamo rinunciato alla nostra vita proprio
per non esser costretti a fare cose simili:
questo era il patto che avevamo concordato [con le autorità]”[124]. Quale libertà temevano venisse loro
conculcata, quella “religiosa”, di “culto”, da riconoscersi per di più su di un
piano di parità anche alle false religioni?
No: era la libertà di poter
correre subito con tutta l’anima e persino con gioia verso il Cristo Risorto,
grazie al “Battesimo di sangue”!
Se poi guardiamo alla
letteratura apologetica, non mi sembra che il quadro subisca mutamenti
sostanziali. Gli Apologisti si
preoccupavano soprattutto di dimostrare la vacuità e l’assurdità delle infami
calunnie diffuse sui Cristiani (“l’ateismo, cene tiestee e unioni edipoidee”,
cioè orge ed incesti [sic], nelle parole di Atenagora), dimostrando la falsità
del politeismo, le ipocrisie di chi li voleva giudicare, la dignità e l’onestà
della loro religione; rivendicando la loro fedeltà all’Impero, in quanto
governo civile legittimo, giusto ed efficiente, purché non pretendesse di
usurpare gli attributi di Dio[125]. Non mi sembra che gli Apologisti presentino i
Cristiani in generale quali vittime della mancata libertà di parola e di
coscienza o i Martiri quali caduti nella lotta per questo tipo di libertà. Di essa non troviamo traccia nella breve
esortazione Ad Martyras di Tertulliano.
La libertà di parola, per la mentalità romana, era da attribuirsi a chi
possedesse auctoritas: non c’era
il concetto moderno di un diritto universale della persona in quanto tale a
siffatta libertà e pertanto a quella di manifestare comunque la propria fede
religiosa, con l’obbligo da parte
dello Stato di garantire tale manifestazione[126].
Che significato bisogna dare, allora, al
riferimento alla “libertas religionis” negata ai Cristiani, che ritroviamo in
un noto passo di Tertulliano? A mio
avviso, il riferimento del grande apologista più che a rivendicare un diritto
mira a far vedere le contraddizioni della legislazione imperiale in materia
religiosa. Ma come, esclama, voi ci
perseguitate già solo per il nostro nome, mettendoci brutalmente di fronte
all’alternativa: abiura o condanna (e
spesso a morte); non ci lasciate esporre il vero contenuto del nostro credo,
che è quello della fede nel vero ed unico Dio; voi vi preoccupate di
“sopprimere la libertà religiosa [adimere libertatem religionis]” nei
nostri riguardi mentre autorizzate tutte le religioni possibili ed
immaginabili, tant’è vero che “è stato permesso agli Egiziani di praticare la
loro fatua superstizione che è tutta nella celebrazione di uccelli e bestie,
condannando a morte chiunque si renda reo di soppressione di uno qualsiasi di
questi dèi. Non c’è provincia, non c’è
città che non abbiano il loro dio: per
la Siria Atargatis, per l’Arabia Dusares, per il Norico Beleno, per l’Africa
Celeste, per la Mauritania i suoi reucci”.
E nei municipi italiani, troviamo “Delventino a Cassino, Visidiano a
Narni, Ancaria ad Ascoli, Norzia a Bolsena, Valenzia a Otricoli” e chi più ne
ha più ne metta. “Solo a noi si contesta
il diritto di una religione propria! [Sed nos soli arcemur a religionis
proprietate!]”. Si arriva così
all’assurdo che voi ammettete “il diritto di adorare chi si vuole fuorché il
vero Dio, quasi questi non fosse piuttosto l’Iddio di tutti perché tutti siam
suoi”[127].
Pur essendo qui
evidente una rivendicazione implicita al riconoscimento della libertà di culto
anche per i Cristiani, che certo (ripeto) sarebbero stati lieti di vedersela
attribuire, lo spirito che la informa non è sicuramente quello moderno della
rivendicazione di un diritto universale della persona e quindi da riconoscersi
allo stesso modo a tutte le religioni. A
Tertulliano preme soprattutto far vedere l’assurdità di una legislazione che
permette libertà di culto a tutte le religioni, anche le più strane, e a tutti
i culti del genius loci, mentre vieta l’unica dedicata al vero Dio e quindi
intrinsecamente superiore a tutte le altre.
Il rilievo sembra in realtà costituire un’ulteriore rivendicazione della
superiorità assoluta del Cristianesimo, non una rivendicazione di una libertà
religiosa uguale per tutti. È questa superiorità,
che gli deriva dalla sua intrinseca, assoluta verità di unica religione rivelata
da Dio, a rendere meritevole il Cristianesimo del riconoscimento di religio
licita (che fu poi accordato tra il 311 e il 313).
Ma i “primi
Cristiani”, secondo la rilettura oggi corrente, si limitavano a richiedere “la
libertà di poter confessare la loro fede religiosa senza esser vessati dallo
stato”, senza “rivendicare la promozione da parte dello stato della verità
religiosa”, facendo di fatto valere l’esigenza di una “libertà di coscienza”
che “corrisponde esattamente” al modo nel quale la si intende oggi[128]. E si limitavano a questo perché “a partire
dal Vangelo e dall’esempio di Gesù Cristo”, il Cristianesimo “è stato concepito
come fondato essenzialmente sulla separazione tra religione e politica”[129]. Ma anche nei Cristiani poco inclini al
martirio – obietto – dobbiamo sempre presumere la stessa convinzione di
Tertulliano: che solo la loro religione
fosse l’unica vera e che a questa, secondo il dettato evangelico, tutto l’orbe
dovesse esser convertito, evidentemente a scapito delle altre, frutto di
testarde apostasie o di perniciose superstizioni, onde la libertà di culto ad
essa eventualmente concessa mai avrebbe potuto avere il significato che già
aveva per le altre. E ciò a prescindere
dalla “promozione” della verità religiosa da parte dello Stato. Ma si può dire che i primi Cristiani si
disinteressassero del rapporto tra Stato e religione, accontentandosi di
ottenere il libero esercizio del loro culto da parte di uno Stato che si
mantenesse neutrale ed imparziale in materia?
Se rileggiamo un famoso passo di Tertulliano, non vi troviamo già
inevitabilmente l’ipoteca cristiana sullo Stato?
Respingendo l’accusa
di “lesa maestà” per via del rifiuto a sacrificare per l’imperatore,
Tertulliano replica che i Cristiani pregano per l’imperatore invocando su di
lui la protezione del vero Dio, che gli ha conferito la sovranità per il bene
dei popoli. Gli imperatori “sanno molto
bene chi ha loro conferito l’impero”. E
ognuno di loro deve capire che “è sovrano in virtù di colui da cui dipende come
uomo prima che come imperatore; la potestà gli viene là donde gli viene pure
l’anima”[130]. I Cristiani possono dunque dire, con pieno
diritto: “Cesare è più nostro che
vostro, perché è il nostro Dio che l’ha costituito come tale”[131]. Ma che significa ciò, se non auspicare da
parte degli imperatori la presa di coscienza della giusta origine divina del
loro potere; presa di coscienza che poteva aver luogo solo mediante la loro
conversione a Cristo? La missione di
convertire tutti i popoli e le nazioni, e non solo Israele, ordinata da Cristo
risorto (Mt 28,18-20), non poteva certo limitarsi alla coscienza individuale
dei privati: essa doveva necessariamente
investire anche i governanti, in quanto individui preposti al bene dei popoli,
e quindi mirare a render cristiano il governo dello Stato. E uno Stato cristiano avrebbe potuto
limitarsi ad una posizione neutra ed equidistante nei confronti della vera
religione, senza promuoverne gli insegnamenti nella società, a cominciare da
quelli morali, e senza difenderla dall’attacco delle eresie, corruttrici delle
anime e dei costumi, e in generale da ogni tipo di ostilità e pericoli? Mi sembra pertanto assai poco credibile fare
dei primi Cristiani una sorta di liberali ante litteram, preoccupati
soltanto della libera manifestazione del loro particulare confessionale,
nel rispetto della “libertà religiosa” altrui, garantita dallo Stato.
I sostenitori di
questa tesi - di recente il prof. Rhonheimer citato - accusano il Magistero anteriore,
in particolare Pio IX, di aver trasformato “la giusta battaglia contro l’indifferentismo e il relativismo”, fatali
alla religione, in una “battaglia contro il diritto civile alla libertà
religiosa e di culto”, perché avrebbero fatto prevalere considerazioni
storicamente datate, secondo le quali “lo stato è il garante della verità
religiosa e la Chiesa possiede il diritto a servirsi dello stato come del suo
braccio secolare per assicurare le sue responsabilità pastorali. Ora, una tale
concezione dello Stato non riposava minimamente sui princìpi della dottrina
della fede e della morale cattoliche ma piuttosto sulle tradizioni e le
pratiche del diritto religioso di origine medievale così come sulle loro
giustificazioni teologiche”. Riposava,
allora, unicamente “su modelli medievali e della tarda antichità cristiana ma
che hanno acquistato la loro forma definitiva soltanto all’interno dello stato
confessionale moderno”[132].
Queste affermazioni mi
sembrano del tutto inaccettabili:
l’Autore sostiene in pratica che tutta la dottrina della Chiesa sulla
necessità per lo Stato di essere cristiano e di operare pertanto anche come
braccio secolare in difesa della vera religione e della Chiesa, “non riposava
minimamente sulla fede e sulla morale cattoliche” e pertanto nemmeno sul
dogma! La Gerarchia avrebbe sbagliato
per così tanti secoli, dunque! E non
solo, osservo, dalla tarda antichità ma da sùbito. Il tetrarca Agrippa non interruppe forse
l’incalzante argomentare di S. Paolo, dicendogli: “Poco manca che tu non mi fai diventar
cristiano!”, ricevendo questa risposta:
“Manchi poco o molto, desidero da Dio che non solo tu, ma quanti oggi mi
ascoltano, diventiate tali quale son io, salvo queste catene [della prigionia]”
(Atti 26, 28-29; ma vedi anche: 2 Tm 4,1 ss.).
S. Paolo stava forse perorando per la “libertà religiosa”, perché la
vera fede si vedesse elargita l’elemosina del riconoscimento di religio
licita? I Martiri e gli Apologisti
(come si è visto) non sentivano e non parlavano diversamente da S. Paolo. Proselitismo, dunque, anche trovandosi
in catene, e fino all’ultimo respiro, affinché il più gran numero possibile di
convertisse e si salvasse! E nel pieno
delle persecuzioni di Marco Aurelio, Melitone, vescovo di Sardi, non ebbe il
coraggio di affermare che “la fede cristiana doveva diventare la filosofia [la
concezione della vita] dell’impero romano?”[133] Rischiavano la morte per il solo fatto di
esser tali eppure già pensavano di poter conquistare l’impero romano, di fare
della Fede la sua “filosofia”. Che anche
lo Stato debba esser cristiano, che debba perciò proteggere la vera religione e
la Chiesa e farne applicare la morale, è dottrina (e prassi) costante, da S.
Ambrogio a S. Agostino a S. Tommaso, allo “Stato confessionale moderno”;
dottrina inalterata, possiamo dire, sino a Pio XII, fondata sulla Scrittura,
oltre che sulla Tradizione. Ma davvero
dobbiamo credere che tutti avrebbero sbagliato, che solo il Vaticano II, dopo
un’oscurità di circa venti secoli, avrebbe fatto chiarezza?
E per qual motivo
questa dottrina non riposerebbe “né sulla fede né sulla morale
cattoliche”? Come giustifica il prof.
Rhonheimer un’affermazione del genere?
Con l’intendere il “rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare e a Dio
quel che è di Dio” (Lc 20, 25) come se Nostro Signore avesse comandato una separazione
radicale tra “religione” e “politica” e quindi fra lo Stato e la
Chiesa. Già l’epoca “post-costantiniana
del cristianesimo” avrebbe rappresentato una deviazione, mediante “decisioni
concrete [quali?]” poi “cristallizzatesi in tradizioni canoniche e nelle loro
interpretazioni teologiche corrispettive, grazie alle quali la Chiesa ha
cercato di difendere la sua libertà, la “libertas ecclesiae”, dagli attacchi
incessanti delle potenze temporali: si
pensi in particolare alla dottrina medievale delle due spade che,
all’epoca, cercava di giustificare teologicamente e biblicamente la
comprensione della “plenitudo potestatis” del papa”. Dalla teoria delle due spade, che sembra non
godere la simpatia dell’Autore, si è giunti, nei secoli più vicini, a “una
giustificazione dello stato cattolico ideale”, quello della simbiosi tra “il
trono” e “l’altare”, nel quale lo statista cattolico zelante “sosteneva la
causa dei ‘diritti della Chiesa’ invece che dei diritti civili alla libertà
religiosa; si è giunti al trionfo del “clericalismo” e ad una “società
clericale”, cose che “hanno oscurato il volto della Chiesa”[134].
Insomma, il Papa
teorico delle “due spade” sarebbe stato tra i responsabili del “clericalismo”
che (sino al Vaticano II escluso) avrebbe “oscurato il volto della
Chiesa”. Ma il significato della celebre
frase del Signore sul rapporto tra Cesare e Dio, tra Stato e Chiesa, mi chiedo,
chi lo deve stabilire? Non è
compito che spetta alla Chiesa stessa, come ribadiscono i dogmatici Tridentino
e Vaticano primo? E se la Chiesa stessa
l’ha interpretato in un medesimo senso per così tanti secoli, con quale
autorità il prof. Rhonheimer ne dà un’interpretazione diversa e persino opposta,
proponendo l’idea della separazione là ove si tratta invece di distinzione? Infatti, nel famoso passo dell’epistola
dell’AD 494 indirizzata ad Anastasio imperatore d’Oriente, Gelasio I affermò
che “le due spade”, i due poteri i quali, per volontà divina, reggevano il
mondo (la “auctoritas sacrata pontificum” e la “regalis potestas”) erano due
“dignitates distinctae”, poiché presiedevano la prima “all’eterna vita”, la
seconda “al corso delle cose temporali”, e tuttavia coordinate nella
subordinazione a Cristo, unico vero Capo[135].
Distinzione e non
separazione
poiché lo Stato, pur essendo distinto ed autonomo nella sua sfera (così come la
Chiesa nella sua), deve tuttavia considerarsi sempre subordinato allo
Spirituale, dal quale dipendono le norme morali che lo Stato ha il dovere di
attuare sia per realizzare il suo fine specifico (il Bene comune, con la sua
giustizia) sia per concorrere anch’esso (per ciò che gli spetta e quindi sempre
nella sua sfera) alla finale fruizione del Bene Sommo da parte di ciascun
cittadino, costituito dalla salvezza della sua anima. La separazione è inaccettabile perché
implica divergenza quanto ai rispettivi fini specifici. Invece, anche lo Stato deve ritenersi ordinato
nella sua sfera alla realizzazione del Bene Sommo, che è
sovrannaturale: rappresentato dalla
Visione Beatifica, della quale godranno un giorno gli Eletti da Dio, in
eterno. Che questa plurimillenaria
dottrina della Chiesa, fondata da sempre su Rm 13, 1-6, e su di
un’interpretazione costante della celebre frase di Nostro Signore sopra
ricordata, non sia in accordo con la fede e la morale cristiane, e quindi con
il dogma, è affermazione che mi sembra a dir poco temeraria.
La Chiesa non poteva
accettare l’unione di politica e
religione che si realizzava nella persona pagana dell’imperatore romano. Ma essa ha ovviamente sempre respinto l’idea
di una separazione tra Stato e Chiesa poiché quest’ultima comporta
appunto la concezione laica dello Stato, indifferente ad ogni credo
religioso e alla vita eterna, inteso solo alle finalità di questo mondo. E comporta quel pluralismo religioso
che sicuramente non è mai stato insegnato da Nostro Signore, il quale ha detto
e ripetuto che solo Lui è la verità, la via, la vita, la Porta attraverso la
quale il buon pastore può far uscire le pecore, le anime dei fedeli da questo
mondo per condurle al pascolo della vita eterna (Gv 10,7 ss.). Dal punto di vista veramente cristiano, ossia
cattolico, non può esistere uno Stato che sia neutrale ed imparziale rispetto alla religione e
quindi indifferente a Cristo. Il Signore
stesso ci ha ammonito: “Chi non è con Me
è contro di Me e chi non raccoglie con Me disperde”(Lc 11, 23). La profonda verità racchiusa in queste parole
colpisce vieppiù oggi, costretti come siamo a constatare il carattere sempre
più anticristiano della nostra società, governata da uno Stato che vuole essere
laico, cioè senza religione, senza Dio, senza morale, preoccupato
soprattutto dei bisogni materiali dei cittadini, piaceri carnali
inclusi, anche i più bassi!
11. La DH salvaguarda l’unicità del
Cattolicesimo? La cosa è alquanto dubbia
Se la nuova dottrina crede ancora che la religione cristiana ossia
cattolica (perché bisogna evidentemente escludere gli eretici e gli scismatici)
sia l’unica vera perché l’unica autenticamente rivelata da Dio, allora non può
porre la sua rivendicazione della connessa “libertà religiosa” sullo stesso
piano di quella delle altre religioni, nessuna delle quali può considerarsi
rivelata. Se la fa, tale equiparazione
deve prescindere totalmente dal contenuto della religione ossia dalla sua verità. Adoratori delle cipolle sacre,
della dea Kalì, adepti del Vûdû, Totemisti, Cattolici, Protestanti, Ebrei,
Mussulmani, sono posti tutti sullo stesso piano in quanto titolari di un
supposto “diritto naturale” della persona alla “libertà religiosa”, diritto
fondato sulla “dignità della persona stessa” (DH 2). In quanto “diritto
naturale”, esso spetta ontologicamente ad ogni individuo, perché ogni individuo
è persona, sia esso un uomo civilizzato o un cacciatore di teste. In quanto diritto naturale, si tratta poi di
un diritto assoluto, che lo Stato deve riconoscere e che implica di per sé l’equiparazione
assoluta di tutte le religioni.
Ma in tal modo, la nuova dottrina non viene a contraddire
implicitamente il dogma della fede, secondo il quale la religione predicata da
Cristo, essendo l’unica vera a causa della sua indiscussa origine divina, non può esser mai
considerata uguale alle altre, con le relative conseguenze che ciò
comporterebbe? Insomma, che ne è dell’unicità della nostra
religione, del Cattolicesimo in quanto Verità divinamente rivelata, unico strumento della
salvezza? Se la religione cattolica è
l’unica vera, la rivendicazione di cui sopra non può esser paritaria; se la si
vuole paritaria, ciò equivale a negare che la religione cattolica sia l’unica
vera.
Come esce il Concilio da questo dilemma, provocato dall’aver concepito
la “libertà religiosa” come un diritto naturale assoluto, di ogni individuo in
quanto persona a professare la religione che la sua coscienza gli detta;
diritto che non solo lo Stato ma anche la Chiesa e tutte le religioni devono
riconoscere, se non vogliono violare la “dignità” della suddetta
“persona”? Dopo aver concepito questo
“diritto” in modo così universale e rigido, il Concilio riesce ad accordarlo
con il principio, assoluto dato il suo fondamento sovrannaturale, dell’unicità
della religione cattolica, in quanto unico strumento di salvezza? Dal tenore della Dignitatis
humanae sembra indubbiamente che tutte le religioni si
equivalgano. Ma i difensori del Decreto
sostengono che esso si mantiene in linea con l’insegnamento tradizionale. Vediamo la loro tesi.
Lascio di nuovo la parola al prof. Rhonheimer. “Come insegna il
Vaticano II, il diritto alla libertà di religione e di culto non implica in
alcun modo che tutte le religioni si equivalgono. Questo diritto è in effetti un diritto delle
persone e non concerne la questione di sapere in
quale misura ciò che le persone credono contraddica alla verità. In altri termini, riconoscere che
i fedeli di tutte le religioni godano del medesimo diritto civile alla libertà
di culto, non significa che, poiché è un diritto di tutti, allora tutte le
religioni debbano essere “ugualmente vere”[136]. Il Concilio sarebbe dunque rimasto, in
sostanza, a quanto proposto da Pio XII nel citato discorso radiofonico del
Natale del 1942. Ma dove insegna il
Concilio che non c’è questa equivalenza tra tutte le religioni? Verosimilmente in DH 1.2, già citato, ove si
dice che : “E poiché la libertà
religiosa […] riguarda l’immunità dalla coercizione nella società civile, essa
lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere morale dei singoli
e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo” che
“sussiste nella Chiesa cattolica e apostolica”.
Sull’ambiguità di questa formulazione mi sono già soffermato (vedi supra, § 2 di questo capitolo). Ma per capire come la nuova dottrina lasci
“intatta” la dottrina tradizionale cattolica, si dovrebbe avere un’idea chiara
della dottrina tradizionale cattolica, che qui non sembra facilmente
identificabile, dato che il suo oggetto viene indicato con l’oscura espressione
“dovere verso la vera
religione etc.”. Dovere di far che cosa,
ripeto?
Il significato di queste affermazioni, ci ricorda il prof. Rhonheimer,
è chiarito dal Catechismo della
Chiesa Cattolica, al n. 2105, il quale afferma, “citando il
passaggio sopra menzionato, che è dovere tanto dell’individuo che della società
“rendere a Dio un culto autentico”.
Culto che la Chiesa realizza “evangelizzando senza posa gli uomini”,
affinché essi possano penetrare di spirito cristiano “la mentalità e i costumi,
le leggi e le strutture della comunità in cui vivono”. A ogni Cristiano si chiede di far conoscere “l’unica
vera religione che sussite nella Chiesa cattolica ed apostolica”. Questo è il modo – conclude l’articolo del
CCC – nel quale la Chiesa manifesta “la regalità di Cristo su tutta la
creazione e in particolare sulle società umane”[137].
La dottrina nuova esprimerebbe dunque gli stessi concetti della
“dottrina tradizionale”, quando stabilisce i doveri dell’uomo verso Dio. E questi “doveri” si sintetizzano nel
“dovere” di rendere a Dio “un culto autentico” (non di riconoscere nel solo
culto cattolico l’autentica Rivelazione).
Questo dovere – osservo – vale come sappiamo per ogni uomo, non solo per
i Cristiani. Ma poiché i culti sono non
solo diversi ma persino opposti tra loro, quale sarà allora “il culto
autentico”? È possibile ricavare un concetto universale di “culto
autentico”? Sarà forse quello di una
religione naturale, che viene dal cuore, come per i Pietisti, o dalla
sensibilità, come per il rousseauiano “Vicario Savoiardo”? Che vuol dire poi “autentico”? L’animista che adora il suo feticcio o il
quacchero che recita parole incomprensibili torcendosi sotto l’émpito dello
“Spirito”, offrono un culto meno “autentico” o più “autentico” di chi prega
devotamente in una chiesa cattolica o invoca Allâh inginocchiato nel
deserto? Applicato al concetto generale
del culto a Dio, il termine “autentico” non resta indeterminato? Ricordo che la Mediator
Dei, in modo netto e preciso, parlava invece del
dovere per tutti gli uomini di offrire:
“debitum cultum atque obsequium per religionis virtutem Deo uni et
vero”: “il debito culto ed ossequio,
mediante la virtù della religione, all’unico e vero Dio”[138]. E con “unico e vero Dio” si intendeva sempre
la Santissima Trinità, “unico Dio in tre persone uguali e distinte”.
Comunque sia, siffatto “culto autentico” da cosa è costituito, per la
Chiesa, anzi per “i cristiani”?
Dall’”evangelizzazione”. Per convertire gli uomini,
praticando il proselitismo della dottrina tradizionale? No.
Per far sì che “la mentalità, i costumi, la società etc.” siano
“penetrati” dello “spirito cristiano”.
Questo il dovere dei singoli Cristiani, per “affermare la regalità di
Cristo su tutta la creazione e in particolare sulle società umane”. Bisogna che il mondo sia “penetrato” ed anzi
“impregnato dello spirito di Cristo” (LG 36); che i Cristiani “animino e
perfezionino con lo spirito cristiano l’ordine delle realtà temporali” (Decreto
Apostolicam actuositatem sull’apostolato dei laici, 4).
La dottrina tradizionale sosteneva che la missione della Chiesa era
quella stessa degli Apostoli: convertire
(“render discepoli di Cristo”) i popoli e gli individui, perché solo diventando
Cristiani potevano esser graditi a Dio ed ottenere la vita eterna. La nuova dottrina, invece, afferma che
l’evangelizzazione deve limitarsi a “impregnare”[imbuere] gli uomini di spirito cristiano, facendo loro conoscere “l’unica vera
religione”, che è quella “che sussiste [anche o solamente?] nella Chiesa cattolica ed apostolica”. “Penetrare”, “impregnare”, “animare”: tanti termini oscuri al posto di uno semplice
e chiaro quale: “convertire”.
Ma ammettiamo pure che il Concilio, nonostante le ambiguità,
mantenga la dottrina tradizionale sulla
necessità imprescindibile della conversione delle Genti per la loro
salvezza. Si concilierebbe tale
professione con il riconoscimento della libertà di religione quale diritto
naturale e quindi assoluto della persona?
Si concilierebbe con l’accettazione di fatto del conseguente pluralismo
religioso?
Il Concilio, a proposito della “libertà religiosa”, propugna, dunque,
“un diritto della persona e non della verità”[139]. Esso separa (alla maniera dei Moderni) la
libertà della persona, con le sue esigenze di libera manifestazione del
pensiero, dalla verità religiosa, che ha le sue proprie esigenze. Quest’ultima, il Concilio l’avrebbe salvata
dall’indifferentismo perché avrebbe mantenuto (nel modo che si è appena visto)
l’idea dell’unicità del Cattolicesimo per la salvezza, onde graverebbe sempre
sulla persona singola l’obbligo morale di ricercare la verità, sì da giungere
alla conoscenza della vera religione. Ma
quest’unica e superiore verità, costituita dalla Verità Rivelata, non resta
come in una sorta di limbo, se non se ne proclama il diritto ad esser predicata
nei confronti delle altre religioni (tutte non rivelate tranne l’Ebraismo,
caduto però nell’apostasia a causa del suo rifiuto cosciente e persistente del
Messia preannunciato, Gesù Cristo Nostro Signore) affinché i loro seguaci le
abbandonino per convertirsi al Cattolicesimo, cioè a Cristo? Se la religione cattolica ha effettivamente
preservato, grazie al Magistero della Chiesa, la Parola del Dio che si è fatto
uomo, non c’è alcun (supposto) “diritto naturale” alla libertà religiosa che
possa esserle opposto, per impedirle di convertire i popoli e gli individui,
sostituendosi alle altre religioni, facendole sparire (sostituendovisi di
fatto, grazie alla conversione dovuta alla predicazione e all’esempio di vite
veramente cristiane, illuminate dalla Grazia, non ad un intervento dello Stato,
la cui azione come “braccio secolare” ha del resto sempre avuto un significato
secondario, di intervento a difesa).
Invece il Concilio afferma che lo Stato non deve “promuovere” la
religione cristiana e deve invece garantire l’opportuna libertà di culto a
tutte le religioni (DH 2,4,6). Il
rispetto del diritto naturale alla libertà religiosa da parte dello Stato deve
esser assoluto: lo Stato ha il dovere di
garantirla a tutti come “diritto civile” (DH 2,4,7,13). Ad individui e gruppi. Ai “gruppi religiosi” deve esser concesso il
culto pubblico del “numen supremum”, dell’Essere supremo (si noti la formulazione
deista-massonico-giacobina), con l’unico limite generico delle “giuste esigenze
dell’ordine pubblico”(DH 4).
Ma questo rispetto assoluto ha una conseguenza anche per la
Chiesa: quella di rendere praticamente impossibile
l’opera di conversione degli infedeli.
Anche la conversione, inattuabile senza proselitismo, sarebbe, infatti,
una coartazione del diritto naturale alla libertà religiosa degli Acattolici,
perché essa (come si vede dall’intero corpo neotestamentario) consiste
nell’investirli frontalmente con la proclamazione della Parola di Dio, che
incita al pentimento, a mutar vita, ad affidarsi alla Grazia, ad abbandonare le
loro vane credenze anteriori. Tutto ciò,
oltre a provocare la reazione (spesso violenta) delle altre religioni,
nell’ottica adottata dalla DH non appare comunque un far violenza all’altro? Violenza in senso
psicologico, si intende, menzionata espressamente dal
Concilio, quando afferma che gli uomini sono sì tenuti a ricercare la verità nella
religione e ad ordinare ad essa tutta la loro vita, una volta conosciutala, ma
alla condizione di godere sempre della “libertà psicologica” oltre che
dell’assenza di “coercizione esterna” (DH 2).
Si comprende, allora, il perché degli impegni formali della Gerarchia
attuale con Grecoscismatici o Ebrei a non far opera di proselitismo nei loro
confronti o perché una Madre Teresa di Calcutta non abbia mai cercato di
convertire nessuno alla vera fede[140]. In realtà Acattolici e scismatici non hanno,
a ben vedere, motivo di preoccuparsi: le dottrine deuterovaticane
sull’ecumenismo e la libertà religiosa eliminano di per sé la possibilità
stessa della conversione perché cercare di convertire eretici, scismatici ed
infedeli, per la salvezza della loro anima, viene ora inteso come un coartarli
nella loro “libertà psicologica”!
La concezione della libertà religiosa della DH appare astratta,
radicale ed utopistica. Astratta ed utopistica anche nel prevedere i limiti di questa libertà,
in DH 7, che sono solo quelli dell’ordine pubblico, da tutelarsi con norme giuridiche uguali per tutti, senza favorire
“iniquamente una delle parti” (e quindi nemmeno la Chiesa); norme pertanto che
siano “conformi all’ordine morale obiettivo”, il cui concetto non viene però
specificato. L’eguaglianza di
trattamento che tali norme devono mantenere deve essere assoluta. I “gruppi religiosi” hanno diritto a non
essere intralciati dal potere nell’esercizio del loro culto, nella loro
autonomia organizzativa e giuridica, nella loro libertà di movimento (DH 4) ed
infine – cosa più importante – non devono essere “impediti di manifestare
liberamente la virtù singolare della propria dottrina [singularem suae doctrinae virtutem] nell’ordinare la società e nel vivificare ogni umana attività”(DH 4.5). Come appare chiaramente dal contesto, tra i
“gruppi religiosi”(communitates
religiosae) è incluso anche il Cattolicesimo, su di un piano
di perfetta parità con gli altri. Ne
consegue che, per il Concilio, la “virtù singolare” dell’unica Religione rivelata
non è tale da farle assumere una posizione di supremazia assoluta nei confronti
delle altre religioni, che non sono rivelate! Ciò significa affermare di
fatto che tutte le altre religioni hanno lo
stesso diritto del Cattolicesimo a manifestare pubblicamente
il loro culto, contraddicendo apertamente la proposizione n. 78 del Sillabo,
che condanna un simile diritto, non riconosciuto nemmeno da Pio XII nel celebre
messaggio radiofonico del Natale 1942, di cui supra. Ci troviamo o no di fronte ad
una grave deviazione dottrinale, che consiste nel conferire all’errore gli
stessi diritti dell’unica Verità Rivelata, facendo venir meno, per i credenti,
la differenza tra Verità ed Errore, tra la Luce e le Tenebre?
La perdita dell’unicità del Cattolicesimo, imposta quest’unicità dall’identificarsi della
Chiesa di Cristo unicamente con la sola Chiesa Cattolica Romana, perché l’unica rimasta fedele
nella continua successione apostolica al Deposito della Fede, completatosi con
la morte dell’ultimo Apostolo; questa perdita risulta anche da altre
affermazioni della DH.
Dall’illegittima inclusione paritetica della Chiesa Cattolica nei
“gruppi religiosi”, cioè dall’equiparazione a tutti gli effetti del
Cattolicesimo con le altre religioni, il Concilio trae dunque la logica
conclusione che la libertà religiosa spettante alla Chiesa Cattolica è solo specie del genere libertà religiosa, che si deve concedere a tutti i “gruppi religiosi”, indistintamente,
fatta salva la tutela dell’ordine pubblico in nome di un indeterminato “ordine
morale obiettivo”. Questo appiattimento
radicale risulta a mio avviso con chiarezza dalla seguente frase: “la Chiesa rivendica a sé la libertà in quanto è una comunità di esseri
umani che hanno il diritto di vivere nella società civile secondo i precetti
della fede cristiana”(DH 13.2). La frase
sembra tratta da un documento di Pio XI, citato in nota[141]. Ma in quel documento il Papa si limitava ad
esporre un argomento ad hominem nei confronti di quegli Stati che negano alla Chiesa persino il comune
diritto all’esistenza, che il Papa vuole invece le venga giustamente
riconosciuto, come ad ogni altra associazione legittima.
Il Concilio, invece, trasforma questa richiesta di una libertà minima e
preliminare in un principio fondamentale del diritto pubblico della Chiesa,
come se quest’ultimo avesse propugnato per la Chiesa nient’altro che una
libertà di diritto comune, “ quasi la Chiesa fosse semplicemente
un’associazione paragonabile ad altre esistenti nello Stato”[142]. Si tratta, anche qui, di un grave errore
dottrinale, sempre condannato dai Pontefici poiché esso misconosce la superiore
natura della Chiesa, che è quella di una societas
perfecta, ed il suo necessario primato su tutte le altre societates, ex sese imperfectae, intrinsecamente imperfette, che concorrono in maniera subordinata a
procurare alla “comunità politica” il bene comune temporale. Si tratta inoltre di un incredibile regresso
sul piano storico. In pieno XX secolo,
sopravvissuta alle persecuzioni comuniste e naziste, assediata dal secolarismo
montante dal lato dell’incombente democrazia di massa, la Gerarchia chiede
tuttavia che la Chiesa, anche nei paesi nei quali è riconosciuta come unica
religione dello Stato, sia ridotta alla semplice condizione di religio licita, di culto ammesso,
ed accettata in questa veste: un culto
permesso accanto a tutti gli altri, come ai tempi dell’Editto dell’imperatore
Costantino, che pose termine alle persecuzioni (AD 313). In questa deminutio
capitis, in quest’autodiminuzione, come non vedere
all’opera (e con successo) l’odio per la Chiesa Cattolica Romana, che
insultavano abitualmente come “costantiniana”, da parte di Modernisti e
Neomodernisti, impadronitisi del Concilio nel modo che sappiamo?
E questa perdita dell’unicità della Chiesa Cattolica mi sembra risulti anche da un altro passaggio
di DH 13. Si tratta dell’affermazione
che “la libertà della Chiesa”, intesa nel modo appena visto, sia da intendersi
quale “principio fondamentale nelle relazioni fra la Chiesa e i poteri pubblici
e tutto l’ordinamento giuridico della società civile” (DH 13.1). L’affermazione appare non conforme alla
dottrina tradizionale della Chiesa perché il principio fondamentale del diritto
pubblico della Chiesa è da sempre quello secondo il quale lo Stato ha il dovere
di riconoscere la “regalità sociale di Cristo”.
Si tratta di una interpretazione costante nei secoli dello “oportet
illum regnare” (“occorre che Egli regni”, di 1 Cr 15,25), per ciò che riguarda
i rapporti tra lo Stato e la Chiesa e nell’ambito della società stessa. Ma il principio dello “oportet illum regnare”
è stato lasciato cadere nell’oblio a partire dal Vaticano II. Una conseguenza è stata, per l’appunto, il
ridurre sul piano teorico l’aiuto che lo Stato deve prestare alla Chiesa al
solo riconoscimento della sua libertà, della sua indipendenza, al solo aspetto
negativo del non-impedire, quando invece la Chiesa Cattolica, proprio a causa
della sua unicità di sola e vera Chiesa di Cristo, ha diritto anche ad un aiuto
positivo, che consiste nell’aiutarla secondo le sue necessità e riconoscendo la
sua legittima preminenza.
12. Quale “diritto naturale” ci propone la
‘Dignitatis humanae’?
Di fronte ad un quadro
del genere, poiché DH 2 presenta la libertà naturale come un “diritto” che ha
il suo fondamento “sulla stessa dignità della persona umana”, ne consegue che
tale diritto è posto come un vero e proprio diritto naturale, anche se
il Concilio preferisce parlare in genere di “diritti umani”, servendosi di una
terminologia più moderna. Bisogna quindi
chiedersi, a questo punto, se questo diritto naturale alla libertà religiosa
sia in armonia con l’idea del diritto naturale professata dalla Tradizione
della Chiesa. In altre parole: quale
concetto di “diritto naturale” è posto a
fondamento della libertà religiosa?
Non si tratta certo di quello elaborato dalla Scolastica e sempre
insegnato dal Magistero preconciliare. E
perché differisce dalla Tradizione della Chiesa? Perché “il diritto [naturale] della persona”
alla libertà religiosa, di cui a DH 2, riposa esclusivamente sulla persona
stessa, sull’uomo, sull’individuo in sé e per sé considerato, sulla sua
supposta “sublime dignità”, come scrive GS 22.
È in sostanza un diritto naturale dell’uomo in quanto uomo.
Ma questo è appunto il
concetto laico del diritto naturale, espressione della sua ben nota
visione antropocentrica del diritto e della giustizia. Nella plurisecolare
concezione cristiana tradizionale, invece, il diritto naturale è visto sempre
come l’espressione di un’idea di giustizia il cui fondamento è nella volontà
stessa di Dio: esso non riposa mai
sull’essere umano in quanto tale, riposa in Dio. Ciò risulta con chiarezza dall’architettura
dei concetti di legge, diritto e giustizia elaborata da S.
Tommaso nella Summa. In questa
sede non posso addentrarmi in un’analisi approfondita. Mi limito a ricordare
che, per il Doctor Angelicus, l’idea del diritto è inseparabile da quella della
giustizia, onde “ius est obiectum iustitiae”, “il diritto è l’oggetto della
giustizia”, il suo “oggetto” in senso proprio.
Ciò significa che il suo “contenuto” concreto non può contraddire l’idea
della giustizia, che dipende sempre dalla legge divina, come si attua nella
“legge naturale”, la quale, secondo la famosa definizione è: “partecipazione della legge eterna nella
creatura razionale [participatio legis aeternae in rationali creatura]”[143]. Può allora concepirsi come fondato “sulla
dignità della persona” ossia sulla “natura” della persona e quindi sulla “legge
naturale” il diritto che si vuole attribuire ad ogni uomo di professare come
meglio crede un qualsiasi credo religioso od antireligioso? Non può, ovviamente, se la “natura” in
questione è quella da determinarsi sempre secondo la “legge di natura”
stabilita dalla “legge divina” ossia dal vero Dio, Uno e Trino, incarnatosi in
Nostro Signor Gesù Cristo; Dio il quale, nel dare i suoi Comandamenti, ha messo
al primo posto il comando: “Non avrai
altro Dio all’infuori di Me”.
Può, invece, se la
“dignità della persona” è quella fabbricata dal pensiero laico, sulla base di
un concetto di natura che esclude sia la legge divina che quella naturale da
essa necessariamente dipendente, intendendo per legge di natura un principio
razionale riferibile soltanto all’uomo, che diventa così l’autore del suo
proprio diritto e dell’idea di giustizia che ad esso si debba riferire. Ma tale concezione della “dignità della
persona” non ha niente di cattolico, non si può in alcun modo inserire nella
Tradizione della Chiesa. E, come credo
di aver dimostrato, vani sono apparsi i tentativi del Concilio stesso (in DH
11) di rinvenire tale concetto di “dignità della persona” nella S. Scrittura
(vedi supra, § 9 di questo capitolo).
In realtà, il “diritto
naturale” posto dal Concilio a fondamento della libertà religiosa è parente
stretto dei Diritti dell’Uomo dell’89, come vengono chiamati, dichiarati in 17
articoli dall’Assemblea Nazionale rivoluzionaria “en présence et sous les
auspices de l’Être suprême”, come se quell’Assemblea fosse stata una Loggia. Lo conferma indirettamente lo stesso prof. Rhonheimer quando ricorda che
Benedetto XVI, sempre nel famoso discorso alla Curia del dicembre 2005, di
contro alla doverosa condanna di Pio VI di quella famosa dichiarazione, “prende
le difese della prima fase, quella “liberale” della Rivoluzione francese, che
egli distingue anche così dalla seconda, la fase giacobina, plebiscitaria e
radical-democratica, che portò al Terrore e alla ghigliottina. Facendo ciò, riabilita ugualmente la “Dichiarazione
dei diritti dell’uomo e del cittadino” del 1789, sorta dallo spirito del
parlamentarismo rappresentativo e dal pensiero costituzionale americano”[144].
Il primo di questi
famosi articoli proclama che: “Les
hommes naissent et demeurent libres et égaux en droits”[145]. Poiché si parla di nascita senza menzionare
un Dio creatore, si deve ritenere che siffatta uguaglianza sia considerata
intrinseca agli uomini in quanto tali, in quanto prodotto di una natura che si
riferisce solo a sé stessa. La libertà e
l’uguaglianza sono allora caratteristiche naturali dell’uomo che la ragione
coglie da sé stessa, nel porsi come quella coscienza di sé che l’uomo possiede
in quanto io pensante, che è però nello stesso tempo parte della natura a sua
volta increata e solo della natura, senza dover render conto a nessun Ente
sovrannaturale. In tal modo la libertà e
l’uguaglianza, intese come “diritti” che ci appartengono per natura,
vengono in realtà ad essere un prodotto dell’io pensante, ossia della ragione
che concepisce l’uomo come quella parte della natura increata che deve
ritenersi sempre uguale ed indipendente da ogni altra parte della stessa
natura: quella parte che si presenti come essere umano. Siffatta visione naturalistica del diritto
naturale è nello stesso tempo antropocentrica, nel senso che è l’uomo a
rappresentarsi come “diritto” il suo semplice modo di essere, in quanto natura,
ponendosi come legislatore al centro del Tutto della natura. L’idea laica di un’uguaglianza di tutti gli
uomini per il solo fatto di esser tali e non perché creati da Dio, Padre
comune; idea che degrada l’idea legittima di uguaglianza ad anarchico
ugualitarismo, anche nell’epoca attuale costituisce uno dei principali
fondamenti della “dignità dell’uomo” e dei diritti “naturali” od “umani” che su
di essa si vogliano costruire.
Di contro a tutto ciò,
bisogna invece richiamare il limpido insegnamento della Chiesa del passato ma
in realtà di sempre. Ho già ricordato (supra,
§ 2.1) che Leone XIII escludeva a chiare lettere la possibilità di concepire
come “diritti naturali” i vari “diritti” riconducibili alla libertà di
coscienza. L’esclusione si imponeva
innanzitutto sul piano logico, poiché essi apparivano in perfetta antitesi con
il concetto stesso di “verità rivelata”, sulla quale, oltre alla religione, si
fonda anche la morale cristiana. Non
solo. Come si è visto già nel pensiero
di Spinoza l’ideologia della “libertà religiosa” si presenta sotto il segno
dell’impostura. In che senso? Nel senso che essa si presenta come neutrale
nei confronti della religione, compresa
quella rivelata, in nome delle esigenze di una giusta libertà individuale e
della pace sociale, che richiede siano evitate le dispute dei teologi e le
conseguenti lotte delle fazioni politico-religiose. Ma in realtà, come si è visto, quell’ideologia
era ed è profondamente ostile alle religioni basate su di una Rivelazione ed in
verità a qualsiasi religione. In
particolare essa avversa il Cattolicesimo, la cui dottrina mantiene intatta sia
la natura sovrannaturale della vera Rivelazione che l’etica su di essa
fondata. Il Cattolicesimo era calunniato
come superstizione buona al massimo a tenere a freno la canaglia con la paura
dell’Inferno e comunque respinto sul piano del concetto, dal momento che Dio
doveva ritenersi, dal punto di vista dei liberi pensatori, solamente un ente
di ragione i cui attributi venivano elaborati dalla ragione stessa. In tal modo Dio diventa un prodotto della
ragione stessa e l’uomo finisce con il divinizzarsi, con il porre la sua
“ragione” al centro dell’universo al posto di Dio, come abbiamo appena
ricordato.
Come se non bastasse,
tale laica concezione comportava la dissoluzione dell’etica cristiana ed anzi
di ogni etica, con il toglierle ogni fondamento oggettivo, dal momento che il
principio morale delle nostre azioni lo si faceva sempre ed esclusivamente
dipendere dalla nostra libera coscienza individuale, dal sentimento morale che
c’è in noi o dalla nostra volontà, obbediente ai dettami di una “ragion
pratica” fondata sempre sul nostro io.
Ma l’etica cristiana non dipende dal sentimento del soggetto né dalla
sua coscienza di sé né dalla sua volontà:
è fondata sulla Verità Rivelata, ossia sugli insegnamenti del Signore e
su quelli degli Apostoli infusi dallo Spirito Santo che spira dal Padre e dal
Figlio, e mantenuti nei secoli dal Magistero della Chiesa. Essa si compone di precetti che il nostro
libero arbitrio (la “libertas” di cui all’Enciclica Libertas
praestantissimus di Leone XIII), con l’aiuto indispensabile delle Grazia,
deve riconoscere come obbliganti, sia per il retto agire in questo mondo che
per la salvezza dell’anima.
Era perfettamente
logico che i Papi condannassero nel modo più energico la “libertà religiosa”
propugnata, alla fine, dall’ideologia liberale dell’Ottocento, fondata com’era
su quel deismo che conduceva inevitabilmente all’indifferentismo e
all’agnosticismo in campo religioso e morale e in campo politico ad una
inaccettabile separazione tra Chiesa e Stato (da non confondersi con la
legittima distinzione delle rispettive sfere di competenza). Infatti, lo Stato moderno, dandosi
giustificazione e fini solo terreni, non riconosceva più come propri i
valori religiosi (cosa che comportava il venir meno della difesa della morale
cristiana e della Chiesa Cattolica) e pertanto non si considerava più come
ordinato anch’esso da Dio (nella sfera di sua competenza, che è quella del Bene
comune) alla realizzazione del fine sovrannaturale per il quale ciascuno di noi
è stato creato, fine costituito dal conseguimento della vita eterna. In tale condanna si distinsero, come
sappiamo, pontefici del XIX secolo quali Gregorio XVI e Pio IX, senza escludere
Leone XII e XIII.
Per i Papi, la
condanna della “libertà religiosa” propagandata dai Liberali realizzava la
difesa della verità religiosa, l’unica autentica perché rivelata da Nostro
Signore. I Liberali, più ancora che
negare l’esistenza “di una verità religiosa”, negavano la possibilità stessa
dell’esistenza di una verità assoluta, sulla fede e suoi costumi, come
quella costituita appunto dalla Verità Rivelata. Ciò era conforme alla loro nozione soggettivistica
della verità, cui non conferivano un sicuro fondamento oggettivo fuori di noi,
dipendendo essa sempre (dicevano) dai nostri sensi e dal concetto elaborato
dalla nostra mente e pertanto alla fine dalla nostra opinione, dal nostro modo
di sentire. Per i Liberali, la Bibbia
era (ed è) nient’altro che mitologia, allo stesso modo, per dire, del Rig
Veda. Tra Cattolicesimo e Liberalismo
c’era (e c’è) un contrasto insanabile nel modo di intendere la verità e per
conseguenza la libertà. Il
soggettivisimo e il relativismo del punto di vista liberale privilegiava la
“libertà” intellettuale, morale e pratica del soggetto, dandole un valore
assoluto, prevalente sulle esigenze della verità, che non potevano mai esser
tali da impedire quella libertà; veritas
ancilla libertatis, potremmo dire:
della libertà incondizionata del nostro io, condizionata solo da
esigenze esterne quali la correttezza contrattuale, l’ordine pubblico e la pace
sociale.
Il punto fu colto egregiamente
da Leone XII nell’Enciclica Mirari vos, del 1832. Egli sottolineò come l’indifferentismo,
che metteva sullo stesso piano tutte le religioni, fosse figlio della “libertas
opinionum” proclamata dalla coscienza moderna, noncurante dell’ammonimento di
S. Agostino: “At quae peior mors animae,
quam libertas erroris?”[146]. “ La morte dell’anima non è peggiore della
libertà di errare?”. Lo è, dato che
essa, provocata dal peccato mortale, comporta la “morte seconda” o dannazione
eterna. Ma, per la coscienza moderna, “l’errore” non esiste, negando essa
assurdamente l’esistenza di una verità oggettiva, tanto più se assoluta
perché di origine sovrannaturale.
Per il Cattolicesimo,
invece, l’errore esiste e può condurci alla dannazione eterna. La libertà di coscienza in religione, nella
forma di assoluta ed indifferenziata “libertà religiosa” non poteva pertanto
essere ammessa, derivando essa dall’errore di far derivare la religione dal
sentimento o dalla ragione. “E poiché
iniquamente [i nemici di Cristo e della Chiesa] osano derivare dalla virtù
naturale della umana ragione tutte le verità religiose, così a ciascun uomo
attribuiscono un tale quasi primario diritto, per il quale egli sia libero di
pensare e di parlare a suo senno di religione, e rendere a Dio quell’onore e
quel culto, che secondo suo piacimento giudica migliore”[147].
Qui è espressa
chiaramente la ripulsa di un “diritto naturale”, come “diritto” della persona
in quanto tale alla “libertà religiosa”, consistente in un culto a Dio
stabilito unilateralmente dalla “virtù naturale della umana ragione” della
persona stessa. Diritto negato
implicitamente anche da Pio XII, come si è detto. E non potendo riconoscere una tale “diritto
naturale”, che, facendo strame della Verità Rivelata, avrebbe precipitato la
vera religione nel caos, dandola in pasto alle sette e aprendola all’assalto
delle altre religioni (come poi è successo), i Papi non potevano nemmeno
riconoscerne la logica conseguenza, ossia “il diritto civile” ad esercitarlo
come libertà di culto o “religiosa”, estesa per di più anche al suo contrario,
e quindi da intendersi anche come libertà “di culto” per l’irreligione, alla
maniera della Dignitatis humanae!
Nelle loro condanne i
Papi del passato si attenevano al vero concetto cristiano del diritto naturale,
il cui contenuto, per esser giusto, deve sempre esser conforme alla legge di
natura, della quale partecipa la legge divina.
L’impianto logico che sorregge il giusnaturalismo cattolico è quello
della metafisica classica, di Platone, Aristotele e di S. Tommaso, e si fonda
sul principio di identità e non contraddizione e su quello di causalità. Che il “diritto naturale” contemplato nella
DH esprima invece un concetto distorto, lo si deduce già dal fatto che
esso, violando impunemente il principio di non contraddizione, pretende di
ricomprendere sia la libertà della coscienza religiosa che di quella
irreligiosa.
[1] C,
55-78.
[2]
Vedi GHERARDINI, D, 163-188; Quod et tradidi vobis, pp. 376-7.
[3] C,
63.
[4] C,
55. Il testo citato si trova in Quod
et tradidi vobis, pp. 376-7.
[5]
Ivi.
[6] C,
56.
[7] C,
56-7.
[8]
GHERARDINI, Quod et tradidi vobis, p. 376.
[9]
Ivi, p. 377.
[10]
D, 169.
[11]
D, 170.
[12]
C, 58-9.
[13]
C, 60.
[14]
Ivi.
[15]
C, 60-1.
[16]
C, 61.
[17]
Ivi.
[18]
Ivi.
[19]
C, 62.
[20]
C, 63.
[21]
“In hominis iuris hoc quoque numerandum est, ut et Deum, ad rectam conscientiae
suae normam, venerari possit, et religionem privatim et publice profiteri” (DS
3961). L’editore mette in rapporto in
nota questa dichiarazione con l’art. 18
della Universal Declaration of Human Rights, proclamata dall’ONU
il 10 dicembre 1948: “Everyone has the
right to freedom of thought, conscience and religion; this right includes
freedom to change his religion or
belief, and freedom, either alone or in community with others and in public or
private, to manifest his religion or belief in teaching, practice, worship and
observance”. La Convenzione con la quale
gli Stati vi aderirono, all’art. 9 § 2 conteneva restrizioni all’esercizio di
questo diritto, da applicarsi per legge in una società democratica: “in
funzione della sicurezza pubblica, dell’ordine pubblico, della sanità o della
morale pubbliche, o della libertà o diritti altrui” (DS, p. 804). Di tali limitazioni non sembra esservi
traccia nella Pacem in terris.
[22]
GIOVANNI XXIII, Pacem in terris,
tr. it. Ediz. Paoline, Roma, 1983, § 8.
Il passo di Lattanzio è tratto da:
Divinae institutiones, 4, 28, 2 (PL, 6, 535); per il passo dell’enciclica vedi DS 3250, che
lo riporta quasi integralmente. Si ferma
a: “vindicavere Apostoli…”.
[23]
Per le tre citazioni, vedi nell’ordine EP, 633, 634, 637. L’originale dell’ultima recita: “Sola igitur
catholica ecclesia est quae verum cultum retinet. Hic est fons veritatis, hoc domicilium fidei,
hoc templum Dei; quo si quis non
intraverit vel a quo si quis exierit, a spe vitae ac salutis alienus est”.
[24]
EP, 630.
[25]
DS, 3252.
[26]
DS, 3245-3249.
[27]
DS, 3250.
[28]
PIO XI, Mit brennender Sorge [Con bruciante afflizione], 10.4.1937, AAS
29 (1937) pp. 145-167; p. 160.
[29]
Ivi.
[30]
PIO XII, Radiomessaggio natalizio del 1942, AAS 1943 (XXXV) pp. 9-24; p.
23.
[31]
Ivi, p. 19. Sottolineatura mia.
[32]
JOSEPH LÉMANN, Napoléon et les juifs (1891), rist. Avalon, Paris, 1989,
pp. 78-81.
[33]
C, 63, che riporta DH 1.
[34]
C, 64-5.
[35]
C, 65.
[36]
C, 66, nota n. 17.
[37]
C, 66.
[38]
C, 67-8.
[39]
C, 74 ss.
[40]
C, 75-6.
[41]
C, 77-8.
[42]
C, 78.
[43]
BENEDETTO SPINOZA, Trattato teologico-politico, introd. di Emilia
Giancotti Boscherini, tr. it. e commenti di Antonio Droetto e E. Giancotti
Boscherini, Einaudi, Torino, 1972, p. 150.
L’edizione contiene un ricco apparato di note, del quale mi sono
servito, sempre valido per l’erudizione anche se tendenzioso per via del
pronunciato anticattolicesimo ed eccentrico in certi paralleli tra il
“cattolicesimo di Spinoza” e quello “di S. Paolo”. Per l’edizione latina originale, vedi la
recente, fondamentale edizione critica dell’intera opera di Spinoza: BARUCH SPINOZA, Tutte le opere. Testi originali a fronte, Saggio
introduttivo, presentazioni, note e apparati di Andrea Sangiacomo, traduzioni
di M. Buslacchi, A. Dini, G. Durante, S. Follini, A. Sangiacomo, Bompiani,
Milano, 2010, pp. 629-1139. La parte del
saggio introduttivo di A. Sangiacomo dedicata al Trattato è però solo
apologetica. L’Autore non sente la
necessità di una revisione del lascito spinoziano (op. cit., pp. 7-88; 44-54).
[44]
Ivi, p. 151.
[45]
Ivi, p. 152.
[46]
“Abbiamo dimostrato nell’Appendice della Prima Parte che la Natura non agisce
secondo un fine: questo Essere eterno e
infinito che chiamiamo Dio o la Natura agisce secondo la medesima necessità per
la quale esiste [aeternum namque illud et infinitum Ens, quod Deum seu
Naturam appellamus, eadem, qua existit, necessitate agit]” (Ethica,
IV, Praefatio, ed. Appuhn).
[47] Trattato,
pp. 179-80 nota n. 38.
[48]
Ivi, pp. 154-5.
[49]
Ivi, p. 155.
[50]
Ivi, pp. 161-3. “Nella Scrittura infatti
sono raccontati come reali e come tali anche erano creduti, molti fatti che
tuttavia non furono che semplici rappresentazioni e cose immaginarie” (ivi, p.
164).
[51]
Ivi, p. 308.
[52]
Ivi, pp. 308-9.
[53]
GIUSEPPE RICCIOTTI, Paolo Apostolo. Biografia con introduzione critica e
illustrazioni, Coletti, Roma, 1957⁵, pp, 264-5. In 1 Cr 15, 1-3, c’è di nuovo
l’espressione: “Vi ho infatti trasmesso,
in primo luogo, quello che io stesso ho ricevuto, cioè che Cristo è morto per i
nostri peccati etc.”. Manca però il
riferimento esplicito a Nostro Signore.
Nella sua edizione delle Lettere ai Corinzi, Mons. ROSSANO nega
l’attendibilità del riferimento paolino a Cristo quale sua fonte privata. “[In 1 Cr 11, 23] Si notino i due termini
tecnici della tradizione ecclesiastica: ho
ricevuto (gr. parélabon), ho trasmesso (gr. parédoka). Ci si domanda se la fonte di questo
insegnamento sia direttamente il Signore, il quale avrebbe rivelato a S.
Paolo i termini di questo evento e la sua significazione. Ma anche se qualcuno ha voluto pensarlo, sia
il contesto, sia le stesse parole adoperate indicano sufficientemente una
derivazione e una trasmissione di tale insegnamento attraverso normali organi
ecclesiali” ossia, concludo io, attraverso gli altri Apostoli, dai quali pure
aveva ricevuto la formazione cristiana necessaria (Le lettere di S. Paolo,
Edizioni paoline, Milano, 1985³, p. 159 n. 23).
Perché “il contesto” debba escludere la rivelazione privata della quale
parla S. Paolo, non si riesce a comprendere.
L’argomento filologico mi sembra poi alquanto debole: di quali termini avrebbe dovuto servirsi S.
Paolo se non di quelli già in uso? Non scriveva per farsi capire da convertiti
di cultura e lingua greca? Il verbo e il sostantivo per indicare il
“trasmettere” e il “ricevere” una dottrina, non si trovavano già nel greco classico?
(cfr. LGNT, sotto le due voci, paralambáno e parádosis). Mons. Rossano mostra di dubitare anche del
carattere sovrannaturale dell’Apparizione sulla via di Damasco, che egli
presenta come “una folgorazione improvvisa”, termine che in italiano si riferisce
in genere ad un pensiero improvviso non a un fatto esteriore improvviso (op.
cit., Introduzione generale, p. 16).
Siamo stati invasi da un’esegesi succube del razionalismo di quella
protestante, che cerca costantemente di eliminare la presenza del Sovrannaturale
dai Testi Sacri, ricorrendo senza batter ciglio agli argomenti più superficiali
o alle pure, immotivate negazioni.
[54] Trattato,
p. 309.
[55]
Ivi, pp. 310-11.
[56]
GIUSEPPE RICCIOTTI, Paolo Apostolo.
Biografia con introduzione critica e illustrazioni, Coletti, cit., pp. 195-207; p. 200. Scarsi cenni in KARL HERMANN SCHELKLE, Paolo. Vita, lettere, teologia, tr. it. Umberto
Proch, Paideia, Brescia, 1988, p. 118, 212, che mi sembra riduttivo nella sua
interpretazione: “In Paolo lo Spirito è
la forza dell’impensato e del miracoloso, ma è anche sperimentabile in gesti e
azioni nei quali si dimostra quotidianamente la vita cristiana. Lo Spirito è così sempre “lo Spirito della
fede” (2 Cr 4,13)”(ivi, p. 212). I
dettagliati riferimenti di cui al commento di Mons. ROSSANO alle due Lettere
ai Corinti, mi sembrano troppo preoccupati di ricondurre il fenomeno alla
religiosità mediterranea, locale, pagana, oscurandone in tal modo il
significato genuinamente cristiano (vedi Le lettere di S. Paolo, cit.,
p. 168 ss.).
[57]
RICCIOTTI, pp. 200-1. Vedi anche la voce
Carismi nel Dizionario Biblico cit.
[58]
Ivi, p. 201. “Supponiamo che tutta quanta la Chiesa si raduni insieme e tutti
parlino le lingue: se vi entrano dei
semplici catecumeni o degl’infedeli, non diranno forse che siete tutti
impazziti? Ma se tutti invece
profetizzano, qualora entri un infedele o un semplice catecumeno è convinto da
tutti, è giudicato da tutti; i segreti del suo cuore vengono svelati, e così,
gettandosi con la faccia a terra, adorerà Iddio e proclamerà che Dio è
veramente in mezzo a voi” (1 CR 14, 23-25).
La Chiesa primitiva godeva di carismi eccezionali, in seguito non più
concessi dalla S.ma Trinità in quella misura.
[59]
Ivi, p. 202.
[60]
Ivi.
[61]
RICCIOTTI, Storia di Israele, I. Dalle origini all’esilio, SEI,
Torino, 1937³, pp. 381-395. Vedi anche
la voce Profeta. Profetismo nel Diz. Bibl. citato.
[62]
SPINOZA, Trattato, pp. 311-2.
[63]
RICCIOTTI, Paolo Apostolo, cit., p. 265.
[64]
Atti 15, 36-41. Vedi anche la voce Barnaba nel Diz. Bibl.: S.
Paolo successivamente mutò opinione su Marco e se ne servì nel suo ministero
(Col 4,10). S. Paolo e S. Barnaba
rimasero sempre in buoni rapporti (1 Cr 9,6; Gal 2,1).
[65]
SPINOZA, Trattato, p. 110.
[66]
Ivi, pp. 312-3.
[67]
Ivi, p. 48.
[68]
Ivi, pp. 48-9.
[69]
Ivi, p. 49.
[70]
L’uso del termine “testimonianze” appare inspiegabile, non avendo Spinoza
accennato in precedenza a “testimonianze” diverse dai “segni”. Ma egli, nonostante scriva tamquam
testibus, signis, voleva probabilmente dire “testimonianza dei segni”, come
traduce Alessandro Dini nell’edizione del Trattato ricompresa in BARUCH
SPINOZA, Tutte le opere, cit., p. 937.
[71]
Ivi, p. 313.
[72]
Ivi. Il passo è da 1 Cr 7,40.
[73]
Ivi, p. 313.
[74]
Ivi, p. 314.
[75]
Ivi.
[76]
Ivi, p. 315.
[77]
Ivi, 325-6.
[78]
Ivi, p. 326.
[79]
Senza entrare nei dettagli, Leo Strauss, nel suo importante studio su Spinoza
esegeta della Bibbia, rileva che l’interpretazione spinoziana di S. Paolo “può
valere solo con le opportune riserve” (LEO STRAUSS, Die Religionskritik
Spinozas als Grundlage seiner Bibelwissenschaft. Untersuchungen zu Spinozas
Theologisch-Politischen Traktat [La critica spinoziana alla religione quale
fondamento della sua esegesi biblica. Ricerche sul Trattato teologico-politico
di Spinoza], Berlin, Akademie-Verlag 1930, rist. anast. Wissenschaftliche Buchgesellschaft,
Darmstadt, 1981, p. 254). Le “ricerche”
di Strauss sulla “esegesi biblica” di Spinoza sono dedicate soprattutto al
rapporto tra Spinoza e l’Ebraismo. Egli
mette molto bene in rilievo l’ostilità preconcetta di Spinoza per la religione
rivelata, che per lui, nella migliore tradizione epicurea e “libertina”, era
solo “superstitio”, prodotto dell’”immaginazione” per rispondere a passioni e
bisogni puramente umani, economici e politici (ivi, pp. 207-16) e come la sua
“critica della religione” fosse in realtà “il presupposto della sua esegesi
biblica” ovvero come egli leggesse la Bibbia già da convertito alla miscredenza
(ivi, pp. 259-64). Nell’analizzare “la
funzione sociale della religione”, così come la intende Spinoza, sulla base dei
dogmi di un teismo imposto dallo Stato, mi sembra tuttavia che Strauss non
sottolinei a sufficienza il carattere autoritario ed esclusivo, di instrumentum
regni che la religione (in quanto culto pubblico di Stato) viene ad avere per
Spinoza (ivi, pp. 241-6). Questo
carattere non sfugge a Gioele Solari, che tuttavia, in maniera per me
incomprensibile, insiste nel presentare la religione di Spinoza come
“espressione dell’esperienza etica cristiana fissata nei suoi princìpi
essenziali e perenni”, anche per ciò che riguarda il rapportro tra lo Stato e
la fede (GIOELE SOLARI, La politica religiosa di Spinoza del “Jus Sacrum” (1930),
ora in ID., Studi storici di filosofia del diritto, con prefaz. di L.
Einaudi, Giappichelli, Torino, 1949, pp. 73-117; 84, 110).
[80]
DB, voce Paolo apostolo.
[81]
LGNT, voce themélion.
[82]
SPINOZA, Trattato, p. XXXVII.
[83]
L’influenza di Hobbes è accuratamente documentata dai curatori nelle note al Trattato. Per l’influenza sulla “esegesi biblica”
spinoziana della “critica alla religione” che riprende nel Seicento i noti temi
epicurei, vedi le precise e penetranti ricostruzioni nella parte introduttiva
di LEO STRAUSS, Die Religionskritik Spinozas, cit., pp. 1-86.
[84]
SPINOZA, Trattato, pp. 19-20.
[85]
Ivi, p. 20.
[86]
Ivi, pp. 20-1.
[87]
Ivi, p. 47.
[88]
Ivi, p. 49.
[89]
Ivi, pp. 48-52; 52.
[90]
Ivi, p. 61. Strauss fa vedere come
questa svalutazione radicale del profetismo dipendesse anche dalla metafisica
spinoziana, già ampiamente elaborata all’epoca del Trattato: dalla
concezione delle facoltà umane su di essa fondate (op. cit., pp. 211-14).
[91]
SPINOZA,Trattato, p. 384.
[92]
Ivi, p. 389.
[93]
Ivi.
[94]
Ivi, p. 348-9.
[95]
Solari si scaglia contro gli interpreti che hanno messo in rilievo il nesso tra
il teismo imposto dallo Stato spinoziano e la rousseauiana “religione civile” a
sfondo teistico, ugualmente professata dallo Stato e ugualmente ostile al
Cattolicesimo. Il paragone non
reggerebbe perché “la religione civile del Rousseau è l’etica dello stato
spogliato da qualsiasi prestigio religioso; né si fonda sui dogmi della Scrittura,
ma su postulati razionali con forte tinta nazionalistica, incompatibile con
l’universalismo essenzialmente politico religioso di Spinoza. Nel quale lo stato ottimo ha significato
essenzialmente religioso e attua il regno di Dio secondo i principii della
morale cristiana rivelata”(op. cit., p. 110).
Mancano in Spinoza i rousseauiani nessi tra religione “civile” e
patriottismo e tuttavia l’orientamento del Trattato, a prescindere dalle
apparenze, non sembra meno laico di quello del Contratto sociale. E la Respublica spinoziana su quali “dogmi
della Scrittura” si fonderebbe? Per
Spinoza la Scrittura non è verità rivelata né lo è la “morale cristiana”, alla
quale egli contrappone la sua “etica”, fondata su di una concezione
utilitaristica della morale e del diritto.
Ricordo che, per Spinoza, il bene e il male in senso assoluto non
esitono, egli afferma un integrale relativismo etico, ancora più estremo di
quello di Hobbes. Scrive, infatti, che
“la conoscenza del bene e del male non è altro che il risultato dell’esser
affetti dalla gioia o dalla tristezza, per quanto se ne sia coscienti” (Ethica
IV, Propositio VIII).
Affermare, poi, che lo Stato spinoziano “attua il Regno di Dio secondo i
princìpi della morale cristiana rivelata” significa o non aver capito la vera
natura dello Stato pensato da Spinoza o aver una concezione del tutto
razionalistica dei principi della morale cristiana, tanto da assimilarli ai
“precetti” che Spinoza vuol riduttivamente ricavare dal Discorso della
Montagna.
[96] Trattato,
p. 453.
[97]
Ivi, p. 483.
[98]
Ivi, p. 482.
[99]
Ivi, p. 412.
[100]
Ivi, p. 207.
[101]
Ivi, p. 207.
[102]
Ivi.
[103]
Ivi.
[104]
Ivi, p. 484.
[105]
Ivi.
[106]
Ivi, p. 460.
[107]
Ivi, p. 462.
[108]
Ivi, p. 463.
[109]
Ivi, p. 465.
[110]
Ivi, p. 466.
[111]
Ivi, p. 482.
[112]
Ivi, pp. 481-3.
[113]
Ivi, p. 483.
[114]
Ivi.
[115]
Ivi, p. 490.
[116]
JEAN-JACQUES ROUSSEAU, Il Contratto Sociale, con un saggio intr. di
Robert Derathé, tr. it. e note di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino, 1966,
p. 181.
[117]
Ivi, p. 176.
[118]
Ivi, p. 182.
[119]
Citato da SOLARI, op. cit., p. 95, nota n. 1.
Nel sigillo che si era fabbricato, riprodotto a p. 101 di Tutte le
opere, cit., Spinoza aveva raffigurato una rosa, simbolo di riservatezza e
segreto, con sotto la scritta: “caute”,
cautamente, con circospezione. Il motto
di Cartesio si ispirava ad un’idea simile:
“larvatus prodeo”, je m’avance masqué.
[120]
C, 58-9.
[121]
Ho trovato il riferimento a S. Agostino in MARTIN HEIDEGGER, Sein und Zeit,
§ 29, p. 139 dell’edizione di Niemeyer, Tübingen, 1963¹⁰, nota n. 1 (p. 403 della traduzione
italiana curata da Alfredo Marini con testo tedesco a fronte: ID., Essere e tempo, Mondadori,
Milano, 2006). Heidegger utilizza il
concetto ai suoi fini, per la sua peculiare nozione del “comprendere”, fondata
sull’idea della “precomprensione” quale essenza del “comprendere” stesso.
[122]
Atti e Passioni dei Martiri, nell’edizione critica apparsa nella collana
della Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano, 1995³, p. 167. Dichiararsi cristiano significava rischiare
la condanna a morte, se non si abiurava sacrificando agli dèi del culto ufficiale
e per o all’imperatore. Ma compiere
questo “sacrificio” significava appunto apostatare, violare il Primo
Comandamento.
[123]
Ivi, p. 139, Passione di Perpetua e Felicita.
[124]
Ivi, p. 141.
[125]
ATENAGORA, Supplica per i cristiani, tr. it. introd. e note a cura di P.
Gramaglia, Ed. Paoline, 1965, p. 36, per le calunnie. Sembra che queste
mostruose falsità trovino ancora largo credito tra le plebi musulmane. Ma le calunnie più incredibili investono di
nuovo il Cattolicesimo in Occidente grazie alle campagne mediatiche organizzate
sulla scorta di romanzi di terz’ordine, che sembrano scritti con il preciso
scopo di attaccare la nostra religione, quali il tristemente noto: The Da Vinci Code, dell’americano Dan
Brown.
[126]
Sul nesso libertà di espressione-autorità, cfr.: ARNALDO MOMIGLIANO, La libertà di parola
nel mondo antico (1971), ora in ID., Sesto contributo alla storia degli
studi classici e del mondo antico, Ediz. di Storia e letteratura, Roma,
1980, pp. 403-36; 432. Sottolinea
inoltre l’illustre Autore: “Per quel che
ne so, nessuno presentò la disputa pro o contro il cristianesimo come una
questione che coinvolgesse il principio della libertà di parola” (ivi, p.
433). La libertà di parola è sempre
stata considerata aspetto essenziale della libertà di coscienza e religiosa nel
senso moderno del termine.
[127]
Apologeticum, 24, tr. it. con testo a fronte di E. Buonaiuti, introduz.
revis. e commento di Ettore Paratore, Laterza, Bari, 1972, pp. 150-3.
[128]
MARTIN RHONHEIMER, L’”herméneutique de la réforme” et la liberté de religion,
in ‘Nova et Vetera’, No. 4, Oct.-déc. 2010, http://www.novaetvetera.ch/Art%20Rhonheimertm.,
14 pp. Traduzione italiana, sotto la
rubrica: “Chi tradisce la
tradizione. La grande disputa” di
SANDRO MAGISTER, in: http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1347670,
14 pp. Poiché il testo italiano omette
alcuni passaggi e le note, l’ho a volte integrato con quello in francese,
apparso inizialmente in tedesco, in forma più ridotta, nel 2009, su “Die
Tagespost” del 26.9.2009. Tr. it., p. 4.
[129]
Op. cit., p. 11.
[130]
Apol., 30, ed. cit., pp. 175-7.
[131]
Ivi, 33; pp. 181-3.
[132]
RHONHEIMER, op. cit., p. 11, ed. it.
Corsivi miei.
[133]
ETIENNE GILSON, La filosofia del Medioevo.
Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo (1952), tr. it.
di M. Assunta della Torre, present. di M. Dal Pra, La Nuova Italia, Firenze,
1995, p. 31.
[134]
Ivi, p. 27, ed. it. Corsivi miei.
[135]
FRANCESCO CALASSO, Medio Evo del diritto. I – Le fonti, Giuffrè, Milano,
1954, p. 140.
[136]
RHONHEIMER, op. cit., p. 8. Corsivi
miei.
[137]
Ivi, p. 7. Il CCC evita di dire: “che
l’unica vera religione sussiste esclusivamente
nella Chiesa Cattolica”.
[138]
Mediator Dei, ed. cit., p. 12 e 13.
[139]
RHONHEIMER, op.cit., p. 5.
[140]
A proposito dei moribondi di Calcutta, era solita dire: “Noi diamo loro ciò che desiderano, secondo
la loro fede” (H. GRESLAUD, Madre Teresa, una beatificazione equivoca,
in ‘La Tradizione Cattolica’, XVI (2005) 2 (59), pp. 25-39; 36-7. Su Madre Teresa di Calcutta, vedi supra,
il rilievo critico di Mons. Gherardini (cap. VIII).
[141]
S.S. PIO XI, Lettera Apostolica, Firmissimam constantiam, del 28.3.1937
in AAS 29 (1937), p. 196.
[142]
Cfr. l’Enciclica Immortale Dei, dell’1.11.1885 di Leone XIII, Acta
Leonis, V, p. 118.
[143]
ST, I-II, q. 91, a. 2. Vedi
inoltre: ST, II-II, q. 57, a.2.
[144]
RHONHEIMER, op. cit., p. 6.
[145]
FELICE BATTAGLIA (a cura di), Le carte dei diritti, Sansoni, Firenze,
1934, p. 122.
[146]
DS, 3731.
[147]
PIO IX, Allocuzione Maxima quidem, del 9.6.1862, in Appendice a
PIO IX, Il Sillabo, nuova ediz. it. con testo a fronte e appendice
documentaria, a cura di G. Vannoni, Cantagalli, Siena, 1985², pp. 189-98; p.
192.
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