Sessant'anni dal Concilio -- V I I I : la pastorale anomala, la dogmaticità visionaria del Vaticano II-Nuova Pentecoste.
Sessant’anni dal Concilio – V I I I
di Paolo
Pasqualucci
[Nota
previa. Eccomi all’ultima puntata
di questa mia carrellata sul Concilio Vaticano II, tratta dal mio libro : ‘Unam Sanctam. Studio sulle deviazioni dottrinali nella
Chiesa Cattolica del XXI secolo”, sempre con la cortese autorizzazione
dell’editore Marco Solfanelli. Questa
volta riporto il penultimo capitolo, il XIX dedicato al problema
dell’infallibilità o meno di quel Concilio, che si è voluto espressamente
“pastorale” cioè privo di definizioni dogmatiche e di condanne solenni degli
errori. Sembrerebbe impossibile considerare “infallibile” l’insegnamento di un
Concilio ecumenico che si è espressamente delimitato all’ambito pastorale, rinunciando
a priori al crisma dell’infallibilità (vedi le ‘Notificazioni’ apposte in
appendice alla costituzione ‘Lumen Gentium’). Eppure ci sono stati e ci sono
molti che sostengono l’infallibilità del pastoral Concilio, accusando pertanto
di eresia coloro che si permettono di criticarlo, anche solo in parte.
Tesi assurda e che va confutata.
Prima di questo capitolo XIX ce n’erano due
dedicati entrambi ai gravi problemi suscitati dalla costituzione ‘Dei Verbum’
sulla divina Rivelazione, che sembra oscurare il dogma dell’inerranza delle
Sacre Scritture, grazie ad una formulazione ambigua della nozione stessa di
inerranza, perché interpretabile
(riduttivamente) come inerranza delle sole verità di fede; inoltre, introduce
il dubbio concetto di “tradizione vivente”, caratterizzata cioè dall’evoluzione
continua invece che dal mantenimento inalterato del Deposito della fede, e
questo al fine di giustificare il principio dell’aggiornamento ai valori del
Secolo, in teoria per innalzarli ad una superiore visione (cap. XVII e cap.
XVIII). Dovendo procedere ad una scelta ho pensato di tralasciarli.
Ho dimenticato di precisare che tutte queste
“puntate” tratte dal mio libro, riproducono integralmente il testo a stampa
dell’originale, del 2013. Non ho
proceduto a rimaneggiamenti o integrazioni.
Ho solo corretto i rari refusi].
Cap.
XIX - Se esiste un’infallibilità implicita e
surrettizia, allora anche il Vaticano II è un Concilio dogmatico.
Sommario : 1. Mons. Gherardini sottolinea come
per sua stessa scelta il Vaticano II sia “pastorale” e non dogmatico; 2.
L’articolata dimostrazione gherardiniana della non-dogmaticità del Vaticano
II; 3.
L’inesistente ‘minimalismo magisteriale’ di mons. Gherardini e il
‘massimalismo’ del prof. Cantoni; 4. Irrilevanza delle repliche del prof. Cantoni
ai cinque punti di mons. Gherardini; 5.
La questione della validità del Concilio:
5.1 Il fine dell’’aggiornamento’ rappresenta un’intenzione valida?; 5.2
L’idea-guida del Concilio come Nuova Pentecoste che apre la Chiesa al
mondo, configura un’intenzione valida? 6.
La falsa accusa di eresia a chi critica l’anomala dottrina del Concilio: 6.1
Per la prima volta nella storia della Chiesa, un Concilio ecumenico
dichiara di insegnare “novità”; 6.2 Ogni fedele è legittimato ad indagare la
“congruentia” delle “novità” professate da un Concilio pastorale; 6.3
Negare la “congruentia” dottrinale di un testo ambiguo del Concilio, non
comporta alcun peccato di eresia.
* * *
1. Mons. Gherardini sottolinea come per sua
stessa scelta il Vaticano II sia “pastorale” e non dogmatico.
Il prof. Cantoni contesta ovviamente anche le
critiche e le riserve di Mons. Gherardini sull’effettivo valore dei documenti
del Vaticano II, riportando quanto da lui dichiarato in un intervento in una
rivista elettronica[1]. Lo
contesta perché l’illustre teologo nega valore dogmatico agli insegnamenti del
Vaticano II. Lo nega in base a due
elementi essenziali, così esposti dal prof. Cantoni:
“[pur essendo] espressione del supremo magistero
della Chiesa Cattolica nella sua forma più solenne, il Concilio manca nel modo
più chiaro di una “voluntas definiendi” e per due ragioni: - perché ha voluto essere pastorale e non
dogmatico e perché mancano ad esso
alcune forme che sono essenziali ad esprimere una volontà di definire, cioè una
formulazione mediante “canoni” e la condanna dell’errore contrapposto”[2].
Ne consegue che “avendo rinunciato a definizioni
dogmatiche infallibili (anzi a qualunque carattere dogmatico) l’assenso dovuto
ai documenti del concilio è quello di “un religioso ossequio interno ed
esterno”. I suoi insegnamenti non sono
cioè assolutamente vincolanti come sarebbero se si trattasse di pronunciamenti
infallibili”[3].
Sul carattere “vincolante” o meno di una pronuncia
dell’autorità ecclesiastica, voglio annotare quanto segue, anche per rendere
edotti i lettori, semplici credenti come me, della reale portata di ciò che è
qui in ballo. Se il Papa da solo o un
Concilio ecumenico di tutta la Chiesa (il Papa con tutti i vescovi) dichiarano
che una verità di fede è un dogma ossia, nel linguaggio tramandato, lo definiscono
in modo solenne come verità di fede divina e cattolica da credersi come tale da
parte di ogni fedele, quali le conseguenze?
Solo gli anatemi ossia le scomuniche comminate a chi disobbedisce? No.
Chi non crede al dogma ufficialmente dichiarato viene coscientemente ed
ostinatamente a dubitare in tutto o in
parte o a negare in tutto o in parte una
verità di fede proclamata come tale e quindi diventa eretico. E cade pertanto nel peccato di eresia. E se muore senza essersi ravveduto, muore da
eretico ossia in peccato mortale e va all’Inferno. Mortale, questo peccato perché
riguarda la fede stessa attraverso l’assenso dovuto all’insegnamento dei
legittimi discendenti degli Apostoli. La
questione dell’assenso dovuto alle deliberazioni di un Concilio ecumenico è
quindi di vitale importanza per ognuno di noi, così come lo è, del resto,
quella dell’assenso all’insegnamento ordinario del Magistero poiché diventiamo
eretici, anche quando rifiutiamo scientemente il nostro assenso ai dogmi di
fede in esso contenuti.
Naturalmente, per ciò che riguarda le pronuncie
dogmatiche di un Concilio Ecumenico, che è sempre stato considerato esercizio straordinario
del magistero (perché effettuato straordinariamente dal Papa in
unione temporanea in un unico luogo con tutti i vescovi riuniti da lui in un
Concilio), c’è il problema di sapere con chiarezza quando ci si trovi in
presenza della dichiarazione di un dogma della fede. La “voluntas definiendi”, ossia di definire
come dogma un articolo di fede, deve risultare non solo dai concetti
manifestati ma anche dal linguaggo usato, da certe espressioni caratteristiche,
da segni indubitabili. Nella
costituzione dogmatica Pastor aeternus del 18 luglio 1870, si
dichiarò che il Papa quando “definisce [= proclama
solennemente] che una dottrina riguardante la fede o i costumi dev’essere
ritenuta da tutta la Chiesa, per quell’assistenza divina che gli è stata
promessa nel beato Pietro, gode di quell’infallibilità, di cui il divino
Redentore ha voluto dotata la sua Chiesa, allorché definisce la dottrina
riguardante la fede o i costumi.
Pertanto queste definizioni sono irreformabili per virtù propria, e non
per il consenso della Chiesa”. Questa
proclamazione risultava essere un dogma di fede perché preceduta da queste
parole: “Noi, quindi, [Noi, il Papa]
aderendo fedelmente ad una tradizione accolta sin dall’inizio etc., con
l’approvazione del santo concilio, insegniamo e definiamo essere dogma
divinamente rivelato [docemus et divinitus revelatum dogma esse definimus]
che il Romano pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando […]
definisce che una dottrina etc.”. E la
dichiarazione era rafforzata da queste altre:
“Se poi qualcuno – Dio non voglia! – osasse contraddire questa nostra
definizione: sia anatema”, sia cioè
scomunicato[4].
E nel proclamare il dogma dell’Immacolata
Concezione, l’8.12.1854, ben prima del Vaticano I, Pio IX aveva usato, nella
Bolla Ineffabilis Deus, simili espressioni: “declaramus, pronuntiamus et definimus” ed
inflitto l’anatema a coloro che non avessero voluto credere, precisando che “si
sarebbero condannati da sé stessi” [se proprio iudicio condemnatos][5]. Condannati, a che cosa? All’eterna dannazione, è ovvio, perché caduti
nel peccato di eresia, qualora fossero anche morti in quel peccato. Per la mentalità di oggi, superficiale e
scettica in tutto, la pena attribuita al peccato di eresia sembra
eccessiva? Direi proprio di no. La sentenza del Pontefice si fonda sempre
sulla Tradizione della Chiesa e sulla Scrittura. Essa applica Gv 8, 24, che testimonia questo
grave ammonimento di Nostro Signore ai Giudei increduli: “Per questo vi ho detto che morrete nei
vostri peccati; perché, se non credete che io sono il Messia, voi morrete nei
vostri peccati”. E chi rinnega una
verità di fede professata da tutto il Magistero della Chiesa, rinnega “il
Messia”, ossia Cristo e il suo insegnamento.
Tale ripulsa diventa poi in genere pietra d’inciampo a praticare la
morale insegnataci da Nostro Signore.
È quindi di vitale importanza sapere quale sia
l’effettiva “nota teologica” di un Concilio ecumenico, vale a dire la qualità
del suo insegnamento dal punto di vista teologico (e canonistico). Ci sono stati nella storia della Chiesa dei
Concili ecumenici che non hanno definito dogmi:
notoriamente, tre Concili
lateranensi durante il Medio Evo. Se non
definisce dogmi e non condanna errori, il magistero straordinario di un
Concilio ecumenico può definirsi ugualmente dogmatico? Deve il semplice credente ritenere che un
Concilio ecumenico sia come tale “dogmatico”, a prescindere dal carattere
dogmatico o meno delle sue pronunce? No,
evidentemente, almeno in base alla dottrina tradizionale, che è quella cui si
affida Mons. Gherardini. In effetti, di
fronte ad un dogma di fede il credente non può discutere, né avere un’opinione
personale: deve solo credervi e farsene
una ragione. Ma se un Concilio ecumenico
non si presenta con dogmi e condanne, ma vuole essere solamente “pastorale”,
perché il credente non può avere un’opinione personale, si intende sempre nel
modo dovuto, non tanto per averla?
Voglio dire, l’opinione di chi, con la dovuta prudenza e rispettando le
gerarchie, sottopone all’indagine della recta ratio e del senso comune questa
“pastorale”. Tanto più se questa “pastorale”
dice apertamente di aver introdotto delle “cose nuove” nella Tradizione e
dottrina della Chiesa, sia pure “in armonia” con quelle antiche, si
capisce. Un’affermazione del genere, non
va verificata sui testi, visto che il Signore vuole sempre da noi un “ossequio
razionale”? E tanto più, verificata, di
fronte alla tempesta che si è abbattuta sulla Chiesa dopo il Concilio e che
sembra ben lungi dall’essersi esaurita.
E tanto più quando ci si trova di fronte a rilievi
come quelli di Mons. Gherardini, che non escludono la possibilità “in astratto”
di errori in testi che non contengono “pronunciamenti infallibili”. Queste sue affermazioni fanno gridare allo
scandalo il prof. Cantoni, tanto più che l’illustre teologo le conclude
sostenendo che, qualora si dimostrasse l’esistenza di questi errori, “un
Concilio cesserebbe d’esser tale”[6]. Il che non fa ovviamente una grinza sul piano
logico: se un Concilio ecumenico contenesse degli errori dottrinali, non
potrebbe più considerarsi un vero Concilio.
Allora lo si dovrebbe considerare di per sé invalido od occorrerebbe una
pronuncia ad hoc del Sommo Pontefice? O
di un Concilio ecumenico?
Rilevare che un Concilio ecumenico non può
contenere errori dottrinali, altrimenti è invalido, equivale ad enunciare il
principio, del resto ovvio, che la dottrina di un Concilio ecumenico deve
dimostrarsi sempre in perfetto accordo con la dottrina di tutti i precedenti
Concili ecumenici. Questo accordo, da
intendersi come vera e propria condizione di validità sine qua non di un
Concilio, fu anche enunziato espressamente al secondo Concilio di Nicea,
nell’AD 787, che riaffermò il valore della Tradizione e condannò l’eresia
iconoclasta[7]. Il Niceno II, settimo tra i Concili
Ecumenici, dichiarò illegittimo, e quindi mero conciliabulum, il
Concilio convocato a Costantinopoli nel 753 dall’imperatore per legittimare
l’eresia cioè la lotta alle immagini, assise che aveva del resto avuto una
partecipazione limitata di vescovi. A
Nicea fu approvata all’unanimità una appassionata dichiarazione del Diacono
Giovanni, ucciso poi a bastonate da una banda di iconoclasti in una strada di
Costantinopoli, contro il Concilio illegittimo, nella quale si enunciavano
appunto i criteri di validità di un sinodo ecumenico. Per ciò che riguarda la
dottrina, l’eroico Diacono affermò che non può esser considerato “il settimo”
dei veri Concili, quello che favorì l’eresia, dimostrando così che esso “non
concorda (he mè symphonésasa) con i sei santi ed ecumenici concili
precedenti”. Non è in armonia, “non concorda” con i precedenti, vale a dire con
la dottrina da essi insegnata. La syn-phonìa
è il parlare ad una voce, assieme, il consuonare, l’essere all’unisono[8].
La “dimostrazione” di questa perfetta consonanza
dottrinale, chi è autorizzato a darla?
Si suppone che sia il Magistero stesso e che essa sia implicita,
nel caso della proclamazione di un dogma o della condanna di un errore.
Implicita, nel senso che la definizione del dogma o la condanna dell’errore
possono aver luogo solo sul presupposto di una continuità dottrinale con il
Magistero precedente, garantita dall’assistenza dello Spirito Santo.
Ma di fronte ad un Concilio Ecumenico sì, ma
“pastorale” e di una “pastorale” insolita come quella del Vaticano II, che
introduce “cose nuove” e in modo tale da non escludere il sospetto dell’errore;
e per di più riforma completamente la Chiesa, con le conseguenze che sappiamo,
questa “dimostrazione” non è legittimato a cercarla, affidandosi all’autorità
dei teologi ortodossi, anche il semplice credente, che si senta
sufficientemente preparato dallo studio e sorretto dal sensus fidei? È legittimato, a mio avviso, e l’eventuale
suo non-assenso a determinate proposizioni non dogmatiche del Concilio, non
implica affatto peccato di eresia da parte sua.
Naturalmente, fornire questa dimostrazione
spetterebbe in primo luogo ai teologi.
Come scrive Mons. Gherardini:
“Un’ermeneutica veramente teologica dovrebbe perciò risponder alla
seguente domanda: il Vaticano II
s’inscrive o no nella Tradizione ininterrotta della Chiesa, dai suoi inizi ad
oggi?”[9]. Naturalmente, quest’affermazione non piace
per niente al prof. Cantoni. Egli
afferma che è addirittura “teologicamente mal posta”[10]. E perché mai?
Per questo motivo: “Il magistero
vivente infatti è norma prossima della fede, mentre la Tradizione (a cui
appartengono i documenti del magistero del passato) è – assieme alla Scrittura
– norma remota”(ivi). Lo sappiamo
tutti. Dov’è allora lo scandalo? “Quello che
non si può assolutamente accettare è il mettere la norma remota come ultimo
criterio di validità della norma prossima:
questo infatti significa invertire i ruoli e vanificare proprio quello
che la formula, felice o infelice che sia, intende salvaguardare”[11].
A me sembra che l’Autore non colga il punto
essenziale, che è quello stesso individuato e affermato con forza dal Diacono
Giovanni e che il sensus fidei dei credenti trascrive in questo semplice e
diretto modo: la dottrina insegnata dal
Vaticano II è in perfetta armonia (syn-phonìa) con quella dei Concili precedenti
oppure no? I Concili precedenti fanno
infatti parte della “Tradizione ininterrotta della Chiesa”, sino a prova
contraria. Se fosse vero quello che
afferma apoditticamente il prof. Cantoni allora ogni valutazione della dottrina
(non infallibile ma solo pastorale) di una fonte magisteriale sarebbe
illegittima perché “metterebbe la norma remota come ultimo criterio di validità
della norma prossima”, rappresentata appunto dal Magistero. Sarebbe addirittura un peccato mortale perché
non è accettabile utilizzare “la Tradizione” come “criterio di giudizio a
proposito del Magistero”[12]. Si tratterebbe, in realtà, di Protestantesimo
mascherato, o addirittura di una visione incartapercorita della Tradizione,
fissa ai documenti dei primi secoli, come quella degli Ortodossi, fermi ai
primi otto Concili Ecumenici, che presso di loro sarebbero la “norma
remota”. Questi ultimi giudizi (ma
atteggiamento protestantico ed ortodossia come li coniughiamo?) sono espressi
nell’ultimo capitolo del libro, quello intitolato Che cosa è successo,
nel quale domina una polemica astiosa nei confronti della Fraternità
Sacerdotale S. Pio X (i cosiddetti “lefebvriani”), alla quale l’Autore fa
capire di aver appartenuto in passato; polemica nella quale il Nostro cerca di
coinvolgere Mons. Gherardini, accusandolo (del tutto erroneamente) di essersi
appiattito sulle posizioni della suddetta Fraternità, solo perché (aggiungo)
egli ne ha dato un giudizio il più possibile obiettivo, coraggiosamente
lodandone, dopo la nota remissione della scomunica, la fedeltà alla vera
Tradizione della Chiesa, in tutti i suoi aspetti[13].
E per
tornare al rapporto tra “fonte prossima” e “fonte remota” della fede, quando S.
Paolo, per la seconda volta in carcere a Roma e sentendosi prossimo alla morte
per mano dei persecutori, scrive a Timoteo suo discepolo, da lui elevato
all’episcopato e pastore del gregge di Efeso, le famose parole: “Ma tu rimani fedele a quello che hai
imparato e di cui sei pienamente convinto, perché non solo sai bene da chi
l’hai appreso, ma anche perché sin da fanciullo tu hai conosciuto le sacre
Scritture, le quali possono darti la sapienza che conduce alla salvezza
mediante la fede in Cristo Gesù” (2 Tm 3, 14-15), ribadendo quanto gli aveva
scritto nella chiusa della prima lettera: “O Timoteo, custodisci il deposito [delle
verità rivelate]” (1 Tm 6,20); quando scrive queste parole, S. Paolo non pone
il “deposito della fede”, che costituiva già la Tradizione, come la “norma
remota” in base alla quale il vescovo Timoteo, che era la “norma prossima”, ed
ogni futuro vescovo avrebbero dovuto giudicare gli errori, le eresie, le false
dottrine, a volte professate addirittura da vescovi, come ad esempio Nestorio,
e quasi sempre da sacerdoti o monaci, come Ario, Eutiche?
* * *
Ma torniamo a bomba. Gli argomenti di Mons.
Gherardini contrari al riconoscimento di un carattere dogmatico al Vaticano II,
come ripresi dal prof. Cantoni, sono succintamente i seguenti:
“[1] Il
concilio ecumenico Vaticano II è indubbiamente magisteriale; [2] altrettanto
indubbiamente non è dogmatico, bensì pastorale essendosi sempre come tale
presentato; [3] le sue dottrine son infallibili ed irreformabili solo se e là
ove son desunte da pronunciamenti dogmatici; [4] quelle che non godono di
supporti tradizionali costituiscono, nel loro complesso, un insegnamento
autenticamente conciliare e quindi magisteriale, se pur non dogmatico,
ingenerando così l’obbligo non della fede, ma d’un’accoglienza attenta e
rispettosa, nella linea d’una leale e riverente adesione; [5] quelle, infine,
la cui novità appare o inconciliabile con la Tradizione, o ad essa
contrapposta, potranno e dovranno esser seriamente sottoposte ad esame critico
sulla base della più rigorosa ermeneutica teologica”[14].
Ricordo tuttavia al lettore che Mons. Gherardini
analizza in modo dettagliato la qualifica teologica del Vaticano II nel cap. II
di Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, intitolato: Valore
e limiti del Vaticano II [15]. Il
prof. Cantoni ha preferito rifarsi alla sintesi rappresentata dall’intervista
apparsa in rete. Da questo capitolo si
traggono fondamentali elementi di riflessione.
2. L’articolata
dimostrazione gherardiniana della non-dogmaticità del Vaticano II.
Che il Concilio abbia voluto darsi un’indole solo
pastorale, ciò risulta in maniera ufficiale dall’Introduzione alla Nota
explicativa praevia, apposta in calce alla Lumen Gentium, da me già
ricordata nel cap. XV di questo lavoro, oltreché dal “tenore” e contenuto dei
documenti conciliari stessi. La Nota
praevia fu diramata, come si sa, per rispondere a quei numerosi Padri i
quali, di fronte alle grandi e poco chiare novità contenute nello schema di
costituzione sulla Chiesa, diventato poi la Lumen Gentium, volevano
sapere quale fosse appunto la “qualificazione teologica” di questo schema. Era, per esempio, dogmatico? Si definivano nuovi dogmi nelle nuove idee
che vi apparivano? L’Introduzione della Nota
praevia in primo luogo ricordava che la Commissione Dottrinale (Mista)
aveva risposto al quesito nella seguente maniera: “Come è di per sé evidente,
il testo del Concilio deve sempre essere interpretato secondo le regole
generali da tutti conosciute”, riproponendo nello stesso tempo una sua
dichiarazione del 6.3.1964, la quale recitava:
“Tenuto conto dell’uso conciliare e del fine pastorale del presente
Concilio, questo definisce come obbliganti per tutta la Chiesa [cioè come
dogmi] i soli punti concernenti la fede o i costumi, che esso stesso abbia
apertamente dichiarato come tali”. Si
noti l’apertamente.
Commenta Mons. Gherardini: “L’importanza del testo [citato da ultimo]
discende da una duplice considerazione:
generale per un verso, particolare per un altro. In generale si rileva che la definizione
dogmatica è conforme all’uso conciliare; in particolare si dichiara la pastoralità
del Vaticano II, ma anche l’obbligatorietà di ciò ch’esso “abbia apertamente”
definito [cioè dichiarato come dogma], nonostante la sua indole pastorale. L’enunciato, come si vede, è astratto; si
verificherà in seguito se, effettivamente, esistano dottrine dogmaticamente
definite dalla Costituzione dogmatica sulla Chiesa e, in genere, dal Vaticano
II”[16]. La dichiarazione della Commissione Dottrinale
si concludeva nel seguente modo: “Le
altre cose che il Concilio propone, in quanto dottrina del Magistero supremo
della Chiesa, tutti e singoli i fedeli devono accettarle e tenerle secondo lo
Spirito dello stesso Concilio, il quale risulta sia dalla materia trattata, sia
dalla maniera in cui si esprime, conforme alle norme d’interpretazione teologica”.
E qui si nota, osservo, che il criterio cui il
fedele deve ispirarsi per “accettare le altre cose” proposte, ossia insegnate
dal Concilio, è costituito dallo “spirito del Concilio”, dalla sua mens,
dall’intenzione del Legislatore, se vogliamo applicare una categoria della
scienza giuridica profana. Ma il fedele come fa a coglierlo, questo “spirito”,
in base a quali criteri? I criteri sono
forniti dalla “materia trattata” e dal “modo di esprimersi”. Ma questi criteri sono sicuri solo sulla
carta tant’è vero che ancor oggi si discute e si litiga su quale sia stato il
vero “spirito del Concilio”. Quello che
mi sembra sicuro, in questa dichiarazione, è che in ogni caso questo “spirito”
non è lo Spirito Santo ma semplicemente l’intenzione dei Padri conciliari,
quale emerge dai documenti stessi. Se
poi quest’intenzione sia stata sorretta dall’aiuto dello Spirito Santo, la
cosa, com’è noto, è piuttosto dibattuta, per i noti motivi, riassumibili nella
domanda che da cinquant’anni circa ci brucia nella mente: può lo Spirito Santo aver aiutato la stesura
di certe dichiarazioni inserite nei “capitoli” del Concilio, che chiaramente
non concordano con la dottrina di sempre della Chiesa?
Ma ritorniamo a Mons. Gherardini, che così
prosegue: “Dico subito che neanche una
sola definizione dogmatica rientrò negli intenti della LG o degli altri
documenti del Vaticano II. Il quale – è
bene non dimenticarlo – non avrebbe nemmeno potuto proporla, avendo rifiutato
di mettersi sulla linea tracciata dagli altri Concili”. Che significato bisogna allora conferire
all’aggettivo “dogmatica” attribuito alla Lumen Gentium e alla Dei
Verbum, prive dei “consueti canoni di condanna” tipici delle costituzioni
dogmatiche? Il significato sarebbe
duplice: dogmatiche, perché “recepirono dogmi precedentemente definiti, ma
anche perché il loro contenuto dottrinale potesse ammantarsi d’un carattere
d’indiscussa sicurezza, che peraltro si rende esplicito solo se trovi conferma
nell’applicazione dei princìpi ermeneutici richiamati nella Nota praevia”. In ogni caso, tale “dogmaticità” non potrebbe
valere per tutti i documenti del Vaticano II, visto che è espressamente
richiamata solo per due d’essi[17]. Il carattere dogmatico di un Concilio
Ecumenico si determina anche dalla condanna degli errori, in genere
inseparabile dalla definizione del dogma.
Tale condanna è mancata nel Vaticano II, ricorda Mons. Gherardini, anche
perché fu esclusa a priori da Giovanni XXIII nell’Allocuzione con la quale egli
dichiarò aperto il Concilio, dell’11.10.1962, nella quale disse che la Chiesa
doveva al presente basarsi più sulla “medicina della misericordia, che
impugnare le armi della severità” e “provvedere alle odierne necessità, più che
con le condanne, con un’ulteriore spiegazione della sua dottrina”. Il concetto fu ribadito con enfasi da Paolo
VI, nel 1963[18]. Ricordo, comunque, che sin da quando aveva
cominciato a parlare di un Concilio prossimo venturo, Giovanni XXIII aveva più
volte ribadito che non ci sarebbero state “condanne degli errori”. Già in quelle
dichiarazioni si poteva scorgere il prender forma della “pastoralità” ambigua
del Vaticano II, che sembra aver voluto porre a suo presupposto il
depotenziamento del Magistero, incapacitatosi da sé stesso a far valere le
verità di fede anche mediante la condanna dell’errore che le insidia e
corrompe.
Da questo quadro emerge, senz’ombra di dubbio, la
tesi principale della critica gherardiniana: “È pertanto lecito riconoscere al
Vaticano II un’indole dogmatica solamente là dov’esso ripropone come
verità di Fede dogmi definiti in precedenti Concili. Le dottrine, invece, che gli son proprie non
potranno assolutamente considerarsi dogmatiche, per la ragione che son prive
dell’ineludibile formalità definitoria e quindi della relativa “voluntas
definiendi”[19]. Critica ineccepibile, direi, che si basa sul
dato soggettivo (il modo nel quale il Concilio ha rappresentato sé stesso) e su
quello oggettivo (la mancanza effettiva della “ineludibile formalità
definitoria”). Si noti l’aggettivo
“ineludibile”, che riflette la dottrina di sempre della Chiesa sul punto. “Ineludibile”, anche dal punto di vista di
una corretta predicazione del Verbo ai fedeli.
Voglio dire con ciò che, se tutti i vescovi riuniti con il Papa in un
Concilio Ecumenico definiscono come dogmi articoli di fede e condannano
determinati errori, il fedele deve saperlo:
deve esser messo nella condizione di conoscere queste importantissime
pronuncie da segni certi, risultanti dal linguaggio tramandato delle
definizioni e delle condanne. È un
obbligo morale, da parte della Gerarchia, dato che l’osservanza del dogma è
fondamentale per la salvezza dell’anima di ciascuno, provocando essa il peccato mortale di eresia
formale in chi non la pratichi. Il Papa
e i vescovi riuniti in un Concilio Ecumenico non possono perciò proporre
insegnamenti infallibili impliciti, senza le dovute forme, come sostiene
qualcuno (vedi infra). Si
tratterebbe di un magistero surrettizio, per così dire, cosa
inconcepibile.
Ma come risponde Mons. Gherardini alla “tesi
contraria”, che sostiene ugualmente la dogmaticità del Vaticano II? “Non basta a legittimarla la presunzione che
tali dottrine si presentino come sviluppo ed esplicitazione di quelle
precedentemente definite anche quando altro non sono che novità, talvolta
perfino assolute; e nemmeno basta la loro collocazione verbale nel solco della
Tradizione ecclesiastica, il cui accostamento lascia dietro di sé l’impressione
stridente della non conciliabilità”[20]. L’infondata pretesa che il Vaticano II sia un
Concilio dogmatico si basa su due argomenti o tesi: 1. Le dottrine del Vaticano II si presentano
come “sviluppo ed esplicitazione” ossia come compimento di dottrine
precedentemente definite come dogmi, continuandone quindi l’insegnamento
infallibile dal punto di vista sostanziale;
2. dal punto di vista della terminologia, diverse volte esse si
“collocano verbalmente” nel solco della “Tradizione ecclesiastica”, utilizzando
cioè termini classici delle definizioni dogmatiche, quali ad esmpio: il
Concilio docet (insegna), docemus et declaramus (insegniamo e
dichiariamo)[21]. Ma questa “collocazione verbale” non cancella
“l’impressione stridente dell’inconciliabilità” con la Tradizione della Chiesa,
impressione che abbiamo del resto ampiamente constatato, direi, nei capitoli
precedenti di questo mio lavoro. Basti
pensare alla nuova definizione (non dogmatica) della “Chiesa di Cristo”, quella
del “subsistit in”, o della collegialità; per l’appunto “novità assolute”,
difficilmente conciliabili con la Tradizione.
Al punto n. 1, bisogna rispondere che, con ogni
evidenza, i dogmi del passato richiamati dai testi solo “pastorali” del
Concilio non trasformano questi ultimi in dogmatici per il solo fatto della
presenza di questo richiamo. La
“dogmaticità” resta confinata alla verità richiamata, già dichiarata
infallibile ed irreformabile in passato:
quella verità, insegnata in quel capitolo del Vaticano II,
va accettata come dogma della fede, dato che già lo era e viene solo
riproposta. Se poi l’analisi comparata
dei testi dimostra che le nuove dottrine insegnate dal Vaticano II non sono
“conciliabili” con la Tradizione della Chiesa, allora il problema non si pone
nemmeno, nel senso che di infallibilità dell’insegnamento del Vaticano II non
si può nemmeno parlare, nel modo più assoluto.
Al punto n. 2, lo stesso Mons. Gherardini risponde
con quaranta citazioni (alle quali rimando il lettore) di passi del Vaticano II
che mostrano l’imposizione di un dover-essere, di un comportamento dovuto da
parte di chierici o laici e danno l’impressione di un Magistero che stia dando
ordini, collegandosi all’insegnamento del passato. Ma, anche prescindendo da ulteriori verifiche
sulla effettiva qualità di siffatto collegamento, afferma Mons. Gherardini,
“tali citazioni testimonian il collegarsi del Vaticano II ai pilastri del
passato, ma non un suo intento anche solo vagamente dogmatico”[22].
Per ciò che riguarda la “pastoralità” del Vaticano
II, l’illustre teologo procede ad una analisi simile, che si concentra alla
fine sulla costituzione “pastorale” per definizione, la Gaudium et spes. Rimando
anche qui il lettore al testo, con tutti i suoi numerosi riferimenti
agli articoli del Concilio. La
conclusione è una sola: non emerge un
chiaro concetto di “pastorale”, la “pastoralità” tanto vantata del Vaticano II
appare confusa, nella molteplicità delle sue formulazioni, e ciò risulta in
modo evidente proprio dalla Gaudium et spes [23].
La conclusione generale che risulta da queste
precise analisi, è la seguente: “il
Vaticano II non può definirsi in senso stretto “dogmatico” e le sue dottrine,
non riconducibili a precedenti definizioni, non sono né infallibili né
irreformabili, e dunque nemmeno vincolanti:
chi le negasse non per questo sarebbe formalmente eretico. Chi poi le imponesse come infallibili ed
irreformabili andrebbe contro il Concilio stesso”[24]. Questo non significa, naturalmente, che il
suo insegnamento sia privo della “dignità ed autorevolezza non comuni” che
spettano ad un Concilio Ecumenico. Il
suo magistero dovrà sempre “esser religiosamente accolto come insegnamento
conciliare”, anche se “ovviamente non alla stregua delle dottrine rigorosamente
dogmatiche”[25].
3.
L’inesistente “minimalismo magisteriale” di Mons. Gherardini e il
“massimalismo” del prof. Cantoni.
Prima di esaminare partitamente i cinque punti
riassuntivi di cui sopra e dopo aver ricordato genericamente che “il teologo
appoggia questa sua analisi su un testo ufficiale”, rappresentato dalla celebre
Nota explicativa praevia, testo che appunto precisava non aver il
Vaticano II carattere dogmatico – Don Cantoni accusa Mons. Gherardini di
professare “un estremo minimalismo magisteriale, che non si allontana troppo
nella sostanza da quella dei cosiddetti “teologi del dissenso””. Questo minimalismo “forse è da leggere
in una prospettiva di derivazione storica con la linea che ha seguito almeno
una parte della minoranza conciliare:
insistere sul carattere pastorale dell’insegnamento che – in questo modo
– si ridurrebbe ad avere un carattere puramente edificante ed esortatorio, tale
da non configurare nessun vincolo di obbedienza, che non sia quello del
rispetto dovuto alla dignità del magistero e contestualmente interpretare nel
modo più restrittivo possibile le condizioni richieste perché si dia una
definizione dogmatica in senso stretto”[26].
Vediamo allora che cos’è il “minimalismo
magisteriale”, addirittura “estremo”, che inquinerebbe l’interpretazione di
Mons. Gherardini e di quelli che la condividono. Si tratta di un atteggiamento individuato dal teologo Leo cardinal Scheffczyk, scomparso
nel 2005, caratteristico però degli avversari del dogma dell’infallibilità del
Papa, definito al Vaticano I; dei “teologi del dissenso”, che attaccarono
ignobilmente il Papa in occasione della Humanae vitae, allorché Paolo VI
si decise finalmente a condannare gli anticoncezionali. Si tratta in realtà di un’impostazione
teologica che non ha nulla a che vedere con quella di Mons. Gherardini, che di
certo non contesta il dogma dell’infallibilità pontificia in materia di fede e
costumi, ma si limita a trarre le dovute conseguenze dal fatto che il Vaticano
II, in base alle sue stesse dichiarazioni, non ha voluto essere e non è stato
un Concilio dogmatico. Stop.
Qual è, dunque, l’orientamento “minimalista”? Scrive il cardinale Scheffczyk, nel
1988: “si mette accanto al magistero
infallibile un cosiddetto magistero fallibile, cosicché la fallibilità
apparterrebbe a tale magistero quasi come un attributo permanente”. Il magistero “fallibile” sarebbe quello
semplicemente “autentico”, proveniente dall’autorità ecclesiastica legittima
nella vita di tutti i giorni, Papa e vescovi, ed è quello in base al quale si
richiede normalmente l’assenso ai fedeli.
Partendo da questo elemento, i teologi del dissenso “costruiscono l’equazione: infallibilità è incapacità di errore,
autenticità è capacità di errore, e perciò anche incertezza e di per sé più
esposta al rifiuto”. Ne consegue,
allora, che nell’insegnamento della Chiesa, tranne il pochissimo che è
infallibile, tutto il resto è “fallibile” e si ha quindi il diritto di
rifiutarlo. Grazie a quest’assurda
teoria, il Magistero viene in tal modo “a perdere di significato”[27].
Una teoria del genere non è stata certamente
insegnata dal Vaticano II né, afferma il cardinale Scheffczyk, si può dedurre
dai suoi testi. Si cita infatti sempre e
giustamente l’art. 25 della Lumen Gentium che ribadisce l’obbligo
dell’assenso al magistero autentico dei vescovi, che esprime di per sé
l’infallibilità non del singolo vescovo (che non può averla) ma del Magistero ordinario
della Chiesa, rappresentato dall’insegnamento autentico di tutti i vescovi
cattolici sparsi sulla terra che, in comunione morale con il Papa, propongono
sempre le stesse dottrine[28]. Mi sembra di capire che i “minimalisti”
neghino l’infallibilità del Magistero ordinario, come concepita secondo
la Tradizione della Chiesa, e costruiscano la loro teoria proprio su questa
negazione, con la quale il punto di vista di Mons. Gherardini non ha nulla a
che vedere. Egli si occupa solo del magistero
straordinario del Vaticano II per vedere se possieda o meno la
qualificazione teologica della dogmaticità, che una certa scuola vorrebbe
attribuirgli anche contro la lettera delle dichiarazioni in contrario messe a
verbale dal Concilio stesso. E a questa
“scuola” appartiene infatti il prof. Cantoni.
Il quale, dalla denuncia del “minimalismo” muove,
citando vari autori importanti, alla sostanziale accettazione della tesi
“massimalista”, secondo la quale tutti i documenti del Vaticano II devono
ritenersi dogmatici, quanto all’assenso richiesto dai fedeli, anche se
formalmente non si presentano come tali.
La tesi, lo dico subito, è a mio avviso insostenibile perché farebbe del
magistero straordinario di un Concilio un magistero ordinario: il che è
impossibile, equivale a misconoscere la natura stessa di un Concilio ecumenico,
che non può in nessun modo esser assimilata a quella del Magistero ordinario,
che è quello “della Chiesa sparsa su tutta la terra”, cioè di tutti i vescovi e
del Papa uti singuli, infallibile per quanto riguarda la fede e i
costumi perché fondato sulla Tradizione della Chiesa e su tutte le fonti
scritte della dottrina stessa, dalla Sacra Scrittura ai documenti della Santa
Sede, alle Lettere pastorali degli stessi vescovi. È un’infallibilità che dipende proprio dall’essersi
ripetuto sempre lo stesso insegnamento nel tempo e nello spazio, dall’essersi
ripetuto in via ordinaria, ogni giorno allo stesso modo, nello stesso
senso: “tenendum est quod ubique, quod
semper, quod ab omnibus creditum est”, nelle famose parole di S. Vincenzo di
Lerino[29]. Mi sembra, inoltre, che questa tesi renda
incerta la distinzione fra magistero ordinario e straordinario.
L’infallibilità del Magisterio straordinario
di un Concilio ecumenico non dipende, invece, dal fatto in sé dell’esser
in concilio (dall’essere i vescovi a consiglio con il Papa, da lui
convocati per questioni di fondamentale importanza per tutta la Chiesa, che
possono essere anche solo temporali), dato che vi sono stati Concili ecumenici
che non hanno prodotto insegnamenti infallibili, come si è ricordato; dipende
dal significato dogmatico che il Concilio voglia dare a questa o a quella sua
pronuncia, se voglia o meno rivestire un articolo di fede di una definizione
dogmatica, condannare solennemente un certo errore. Anche un Concilio “dogmatico” come il
Tridentino, che ha fornito i suoi numerosi decreti di argomentate spiegazioni
teologiche, nei “capitoli”, e di anatemi
solenni, nei “canoni”, ha provveduto (come altri Concili “dogmatici”) ad
emettere canoni su tutta una serie di questioni, che non si presentavano con
l’attributo della dogmaticità. Sono i
canoni contenuti nei vari “Decreti di riforma” emanati da quel grande
Concilio. Ora, l’obbedienza richiesta
dai canoni dei Decreti di riforma è uguale a quella richiesta per i capitoli ed
i canoni che definiscono dogmaticamente verità fondamentali della fede? Sicuramente no, tant’è vero che la scomunica
era prevista solo nel caso della disobbedienza verso le verità di fede, che si
configura come eresia.
Se l’eresia è disobbedienza, non ogni
disobbedienza è eresia. Chi afferma che
il Vaticano II è dogmatico in tutti i suoi documenti ci viene di fatto a dire
che chi non approva tutto il Concilio è un eretico; anche chi, tanto per
fare un esempio, non si trova affatto d’accordo con l’art. 1 della
Dichiarazione Gravissimum educationis, il quale, come ho ricordato, non
esita a propugnare una “positiva e prudente educazione sessuale” pubblica per
“i fanciulli e i giovani, man mano che cresce la loro età”. Non ho difficoltà a dichiarare che una simile
dichiarazione è contraria a tutto l’insegnamento della Chiesa Cattolica in
materia. E ad incitare tutti i cattolici
a considerarla come non scritta, perché indegna di un Concilio Ecumenico della
Chiesa Cattolica Apostolica e Romana. Debbo perciò considerarmi un eretico? Potrò esser considerato un disobbediente, ma
per l’onore di Cristo Nostro Signore e della sua Santa Chiesa (sul punto, vedi infra,
§ 6 di questo capitolo).
Ora vediamo in sintesi come il prof. Cantoni
elabora la sua visione “massimalista” del magistero del Concilio.
Il concetto essenziale, desunto da un saggio del
P. Umberto Betti O.F.M., mi sembra essere il seguente: nel Concilio mancano indubbiamente le
definizioni dogmatiche “in senso stretto”, ma ciò non significa che
“l’infallibilità non si possa dedurre da altri criteri”[30]. Bisogna allora individuare questi altri
“criteri”. Il problema sorge nel
Vaticano II dal fatto che la Lumen Gentium e la Dei Verbum si
fregiano, come sappiamo, del titolo di “costituzione dogmatica”, pur non avendo
definito alcun dogma né condannato alcun errore. In base a quale “criterio” bisogna allora
giustificare il “dogmatica”?
“Dogmatiche” queste costituzioni, perché? Perché trattano di materia attinente al
dogma, e allora si tratterebbe di una dogmaticità puramente descrittiva ed in
fondo ininfluente o perché portatrici di un nuovo concetto di dogma, nuovo
perché da considerarsi per così dire implicito nel loro dettato
“pastorale”?
Il criterio individuato dal P. Betti è il
seguente: la dottrina di una
costituzione conciliare è insegnata da quelli che abbiamo visto esserne i
“capitoli”, cioè i paragrafi più o meno lunghi che la espongono. Questa dottrina la si deve ritenere già
infallibile, anche se la sua infallibilità non è ancora formalmente garantita
dai “canoni” che contengono le scomuniche urbi et orbi a chi non professa la
suddetta dottrina come verità di fede.
Applicando il principio al Vaticano II abbiamo che: LG e DV nei loro “capitoli” espongono una
dottrina concernente il dogma della fede, che deve considerarsi come tale
solenne o infallibile. Esse non si sono
dotate di “canoni” con le relative condanne e scomuniche. Ma la mancanza di questi “canoni” nulla
toglie all’infallibilità della dottrina proposta nei “capitoli”. Ergo, concludeva il P. Betti: “la dottrina esposta nella costituzione Lumen
Gentium è irrevocabile” ossia infallibile[31]. Perciò i “capitoli” della LG “hanno lo stesso
valore dei capitoli dottrinali degli altri Concili ecumenici e in particolare
del Tridentino e del Vaticano I”[32].
Ma il prof. Cantoni aggiunge in nota: “Qui si sta parlando ex professo di
questa costituzione [LG], ma queste considerazioni [del P. Betti] si possono
estendere, come abbiamo visto, all’insieme dei documenti del concilio” (ivi). In tal modo, l’Autore estende il
“massimalismo” del P. Betti a tutti i documenti del Concilio, nella loro
totalità. Il suo, lo si potrebbe
definire un “massimalismo estremo”. A
sostegno indiretto della sua tesi cita anche un grande teologo come Scheeben,
il quale affermò che la nota teologica di doctrina catholica si doveva
applicare “ai capitoli dottrinali del Tridentino e del Vaticano I”, cioè di
dottrina prossima ad esser tenuta come di fede divina e cattolica, ossia
infallibile, come se costituisse già una definizione dogmatica (come se,
però). Ma S. Bellarmino, pur
riconoscendo “un’autorità grave” alle ragioni addotte nei capitoli, affermava
però che esse non costituivano ancora “definizioni infallibili”[33]. Insomma, per il Nostro diversi grandi teologi
avrebbero considerato questi famosi “capitoli” come delle quasi-definizioni
dogmatiche. I tempi erano maturi.
“Già secondo la dottrina affermata nell’immediato
preconcilio era assolutamente possibile immaginare un concilio ecumenico che
non definisse in senso stretto del termine.
In questa prospettiva però i suoi documenti hanno il massimo
dell’autorità possibile al di sotto della definizione e non si può escludere
che “secondo le norme dell’interpretazione teologica”, non si possa ravvisare
in essi delle formulazioni che, a causa del tenore dell’espressione e della
dichiarata connessione con la Rivelazione richiedano un assenso assoluto
oppure, come dice padre Betti: si
possano ricavare dalla dottrina insegnata da questi documenti delle conclusioni
che – anche se non formulate dalla stessa autorità in termini perentori – si
impongono come irrinunciabili”[34].
Dal faticoso procedere dell’argomentazione si
ricava, comunque, che dai suddetti documenti si possono dedurre delle
formulazioni capaci di richiedere “un assenso assoluto” o “conclusioni
irrinunciabili”. Ma in base a quali
princìpi si possono ricavare queste “formulazioni”? “A causa del tenore dell’espressione” e della
“dichiarata connessione con la Rivelazione”.
Che vuol dire? Per il modo in cui
si esprimono e perché si occupano della Rivelazione? Non è questo un criterio puramente
formale? Dire tenore dell’espressione significa
servirsi di un canone ermeneutico tradizionale; e se quel “tenore” è quello di
un’esposizione pastorale, come può far emergere una definizione dogmatica? Nel merito dei documenti, poi, che cosa ci
dice il prof. Cantoni? Non conta la
qualità della dottrina, se essa sia buona o cattiva in relazione al Deposito?
Ma subito dopo egli si esprime in termini più
chiari: “Detto in altri termini: mentre a Trento e al Vaticano I i capitoli
trovavano per lo più (ma non sempre…) nei canoni la conclusione perentoria del
loro discorso, qui questa formulazione – che sarebbe infallibile in se stessa
nella sua propria formulazione – manca per dichiarata scelta
dell’autorità. Nulla però impedisce che
una tale conclusione venga tirata dal teologo e dal fedele”[35].
Questa dunque la conclusione di questa singolare
teoria, che potremmo chiamare dell’infallibilità implicita dei
documenti pastorali di un Concilio Ecumenico. I capitoli dei documenti del Vaticano II
contengono in potenza la “conclusione perentoria del loro discorso”, che ne
garantirebbe in senso formale l’infallibilità che possiedono in senso
sostanziale: però solo in potenza,
stando al teologo e al fedele di tradurla in atto, dall’implicito
all’esplicito. Come? Semplicemente considerando come infallibili
ed irreformabili le dottrine contenute in questi capitoli. Considerandole in pubblico, in privato, nella
loro mente solamente? In ogni caso, la
dichiarazione dell’infallibilità dei documenti del Concilio verrebbe fatta non
dall’Autorità ma dai fedeli, come semplici fedeli o come teologi. Questa sì, che si potrebbe chiamare una
concezione democratica dell’infallibilità, ben in accordo con lo spirito
dei nostri tempi.
Ma, per evitare un marchingegno così complicato ed
improbabile, non sarebbe bastato che l’autorità legittima avesse fornito i
capitoli delle costituzioni conciliari dei relativi canoni? Perché non l’ha fatto? Perché, insomma, il Vaticano II ha voluto
essere solo “pastorale” e perché ha cercato poi di attribuire una nota
dogmatica a due sue costituzioni, pur conservandone la natura pastorale? Si voleva creare un nuovo, terzo
tipo di infallibilità, quella implicita dei documenti pastorali di
un Concilio Ecumenico? Un nuovo tipo
che, come ognun può vedere, “non sta né in cielo né in terra”?
Che tale teoria manchi dell’ubi consistam, risulta
anche dalla giustificazione teologica che il prof. Cantoni cerca di conferirle. “Qual’è – si chiede – la base di questa
affermazione?”, che cioè il teologo e il fedele devono concludere da soli
l’infallibilità dei documenti del Concilio?
La base è costituita da “un paragrafo della costituzione De fide
catholica del Concilio Ecumenico Vaticano I”. Questo notissimo paragrafo recita:
“[…] con fede divina e cattolica, si deve credere
tutto ciò che è contenuto nella parola di Dio scritta o tramandata, e che la
Chiesa propone da credere come divinamente rivelato sia con un giudizio
solenne, sia nel suo Magistero ordinario e universale”[36].
Francamente, non si vede cosa offra questo testo a
sostegno della tesi cantoniana. Che cosa
dobbiamo credere – ci insegna esso – “con fede divina e cattolica” ossia come
dogma di fede? Tutto ciò che “è
contenuto nella Parola di Dio”. Ma quale
Parola di Dio? La Parola di Dio “scritta
o tramandata” (scripto vel tradito).
Vale a dire: contenuta nella S.
Scrittura o nella Tradizione orale della Chiesa, nelle due Fonti della
Rivelazione. E proposte da chi, queste
fonti, come fonti della Rivelazione: dal semplice credente, dal teologo, dal
sacerdote? Proposte dalla Chiesa come
divinamente rivelate cioè come dogmi della fede, in due modi tradizionali: con “giudizio solenne”, che è quello della
definizione dogmatica del Magistero straordinario (del Papa da solo, quando
proclama un dogma ex cathedra, o del Papa in Concilio, con il Concilio
Ecumenico); con “il magistero ordinario
universale”, che è quello, come si è ricordato, dei vescovi e del Papa uti
singuli, predicato ogni giorno,
e in quanto dispersi sulla
terra. In questa dichiarazione non c’è
spazio alcuno per l’inserimento del fedele e del teologo quali fonti che
stabiliscano di fatto l’infallibilità della pastorale insegnata da un Concilio Ecumenico
o addirittura dal Magistero ordinario universale.
Che il Vaticano I intendesse nel modo tradizionale
il concetto del Magistero ordinario universale, risulta già dalla Lettera Tuas
libenter inviata dal beato Pio IX all’arcivescovo di Monaco-Frisinga il 21
dicembre 1863, sette anni prima di quel Concilio. In quell’importante epistola, il Papa
ribadiva il concetto dell’infallibilità del Magistero ordinario, chiarendo in
qual modo essa dovesse intendersi, contro coloro che volevano ridurre
l’infallibilità della Chiesa alle sole pronunce dogmatiche. La “sottomissione” che si deve “in atto
prestare di fede divina”, ossia alle verità di fede proclamate come dogmi, “non
può tuttavia esser limitata alle cose definite [come dogmi] nei decreti
espressi dei Concili Ecumenici o dei Romani Pontefici di questa Sede
[Apostolica]; deve invece estendersi anche alle cose che sono trasmesse come
Rivelazione divina nel magistero ordinario di tutta la Chiesa dispersa nel
mondo e sono pertanto [ideoque] ritenute dal consenso universale e
costante dei teologi cattolici come attinenti alla fede [rivelata]”[37].
Tutta la
Chiesa “dispersa nel mondo” è appunto la Chiesa universale vista nel suo
magistero ordinario universale in quanto risultante dall’insegnamento di
soggetti “dispersi”, ossia operanti uti singuli nello spazio della terra, anche
se sempre in comunione spirituale e
morale con il Papa e tra di loro. Il
prof. Cantoni riporta il principio espresso nella Tuas libenter, ma
vediamo come. A coloro che volevano “ridurre
i credenda solo ai dogmi solennemente definiti”, il Papa “rispose con la
Tuas libenter […] chiarendo che le definizioni si appoggiano a monte su
un magistero ordinario e universale che è anch’esso infallibile. Anzi l’infallibilità di questo magistero è
fondamentale e primaria”[38]. Secondo quest’interpretazione (che non cita
direttamente il passo della Lettera) Pio IX farebbe quasi dipendere
l’infallibilità delle definizioni solenni da quella del magistero ordinario
universale, che sarebbe “fondamentale e primaria”. Ma a me non sembra che questo sia il senso
delle parole del Pontefice. Egli non fa
questione di “primati”. Rileva solamente
che l’ossequio di fede che si deve ai dogmi solennemente definiti, lo si deve anche
alle verità rivelate insegnate nel Magistero ordinario universale della Chiesa,
“dispersa sulla terra”, e che per tal motivo il consenso universale e costante
dei teologi ritiene rivelate. Nessuna
preminenza; piuttosto, si ha l’impressione di una certa equiparazione tra le
due forme del Magistero.
Si noterà che, nel riassumere il pensiero del
Papa, l’Autore elimina qualsiasi riferimento alla Chiesa “dispersa sulla
terra”, come se questa precisazione del Papa non avesse importanza. Ed aggiunge
subito dopo una citazione da un articolo del cardinale Bertone sull’Osservatore
Romano del 20 dicembre 1996, che confermerebbe la di lui mutila resa della
pronuncia papale: “Essenziale […] è
conservare il principio che un insegnamento può essere proposto infallibilmente
dal Magistero ordinario e universale, anche con un atto che non ha la forma
solenne di una definizione”. Ma questa
citazione, presentata fuori dal suo contesto, a mio avviso non dimostra nulla,
ai fini della tesi del prof. Cantoni:
ripete in sostanza l’idea che anche negli atti del Magistero ordinario
universale si può dare l’infallibilità, senza specificare su come si debba
intendere l’universalità.
La citazione mutila del pensiero di Pio IX
permette al prof. Cantoni di rappresentare l’infallibilità del Magistero
ordinario universale come se essa concernesse il solo annuncio della fede
ovvero la sua forma pastorale, non dogmatica, e non comprendesse invece anche
la “dispersione” di tutta la Chiesa sulla faccia della terra. Concepita in questo modo, la suddetta
infallibilità può allora esser staccata dal suo contesto ed attribuita (almeno
come tentativo) ad ogni annuncio sulla fede fatto insieme da Papi e vescovi,
anche a quello di un Concilio Ecumenico.
A tal fine egli utilizza in nota citazioni, sempre fuori contesto, di
Joseph Ratzinger, dell’anno 1971:
“Questo magistero ordinario, secondo la solenne definizione del Vaticano
I, è infallibile: papa e vescovi sono
quindi infallibili in ciò che essi insieme ed unanimemente annunciano quale
dottrina di fede […]”[39]. Anche queste citazioni, secondo me, non
dimostrano nulla. Anche Joseph Ratzinger
ignorava volutamente la “dispersione” che caratterizza il Magistero ordinario
universale? Non lo sappiamo, da una
citazione tronca.
Ma la “dispersione”, cacciata dalla porta, rientra
dalla finestra, per esser dichiarata nozione del tutto “descrittiva” e in
realtà ininfluente. Vediamo come. La cosiddetta “teologia dei manuali” è
accusata dal prof. Cantoni di aver “eclissato questo punto di dottrina
essenziale”, riassunto nella citazione del cardinale Bertone, e cioè che il
Magistero ordinario ed universale è infallibile sic et simpliciter. L’ha eclissato, questa teologia,
interpretando a suo modo il Vaticano I e la Tuas libenter, “descrivendo
il magistero universale come quello dei vescovi dispersi nel mondo in comunione
con il Papa”[40]. E non era giusto, mi domando? Che cosa aveva detto Pio IX nella Tuas
libenter? Ma la verità è un’altra,
ci spiega il prof. Cantoni: “Non è inesatto, ma impreciso. La definizione di questo magistero come quello
dei vescovi dispersi nel mondo è infatti solo descrittiva e non coglie
propriamente la differenza di modo che il termine vuole esprimere. “Ordinario” infatti indica la modalità
costante e normale con cui la parola rivelata di Dio è sempre presente nella
Chiesa, e presente in modo infallibile”.
Queste affermazioni sono completate da un’altra citazione isolata di
Joseph Ratzinger: “[…] la Chiesa nel suo
insieme possiede questa “infallibilità”; essa la realizza però nel modo
molteplice della realtà viva, specialmente nella doppia forma dell’ascoltare e
dell’insegnare”[41].
Onestamente, non comprendo che cosa significhi
l’infallibilità della Chiesa “nell’ascoltare”.
Per dare un senso ad un’affermazione del genere bisognerebbe poterla
situare nel suo contesto proprio. Ma
vediamo perché il principio della “dispersione della Chiesa” sarebbe stato
inteso in modo “impreciso” dalla cosiddetta “teologia dei manuali”. Essa non avrebbe capito che la “dispersione”
è nozione puramente “descrittiva”. E il
beato Pio IX l’aveva capito, secondo il prof. Cantoni? Credo di no, dal momento che nel passo che ho
sopra riportato la nozione di “dispersione di tutta la Chiesa” appare intesa in
modo tutt’altro che semplicemente descrittivo:
essa è costitutiva dell’universalità del Magistero ordinario,
risultante appunto dalla “dispersione su tutta la terra”, per ciò che riguarda il rapporto di questo
magistero con lo spazio e il tempo di questo mondo (“ id teneamus quod ubique,
quod semper, quod ab omnibus creditum est”).
Se la nozione di “dispersione” è puramente
descrittiva allora al prof. Cantoni corre l’obbligo di darci un’altra
definizione dell’universalità del Magistero ordinario, visto che quest’ultima
si basa proprio sul fatto della “dispersione”:
una definizione che non sia “descrittiva”. Ma egli passa a parlare del significato del
termine “ordinario”. E l’universalità
che fine fa? Quale sarebbe il significato
del Magistero ordinario, allora?
Qual è questo magistero? È quello nel quale “la parola rivelata di Dio è
sempre presente nella Chiesa, e presente in modo infallibile”. Questa “presenza” avrebbe luogo attraverso
“una modalità costante e normale”, che non si sa quale sia, visto che l’Autore
non ce la spiega. Allora: il Magistero ordinario è quello nel quale “la
parola di Dio è sempre presente nella Chiesa, e presente in modo
infallibile”. Come si sia certi del modo
“infallibile” di questa “presenza” l’Autore non dice. È infallibile e basta, in quanto Parola di
Dio sempre presente nella Chiesa. Anche
gli odierni “carismatici” sarebbero d’accordo, presumo. Un Magistero “ordinario” inteso in questo
modo lo può esercitare chiunque nella Chiesa, chiunque se lo può arrogare. Ogni
documento della Chiesa diventa in tal modo infallibile, basta che contenga la
presenza della Parola di Dio. In tal
modo si risolve anche il problema dell’universalità, che non ha più bisogno di
ricorrere alla nozione scomoda della “dispersione”, checché ne pensasse Pio IX. Perché se ogni atto del Magistero, contenendo
la Parola di Dio nella sua presenza presentificante (direbbe un Karl Rahner), è
di per sé infallibile, l’universalità di questo “magistero” è bell’e
fatta.
4. Irrilevanza delle repliche del prof.
Cantoni ai cinque punti di Mons. Gherardini.
Dopo aver costruito la sua “teoria”
dell’infallibilità del Magistero ordinario (non più universale), in quella che
chiama “premessa storico-teologica”, il prof. Cantoni passa all’esame dei
cinque punti gherardiniani costituenti la “qualificazione teologica” del
Vaticano II (vedi supra).
Il punto [1] è evidente di per sé e cioè che il
Vaticano II sia “magisteriale” ovvero un effettivo Concilio Ecumenico della
Santa Chiesa.
Il punto [2] batte sul tasto che il Concilio è
pastorale e non dogmatico, dal momento “che si è sempre presentato come
tale”. Replica: “Il concilio ha presentato i suoi documenti
come aventi una indole e un fine pastorale, ma non ha mai detto di non essere
dogmatico”. Seguono due citazioni, di Paolo VI e di un Sinodo dei Vescovi, del
1985[42]. Osservo:
poiché non ha mai detto di non essere dogmatico allora dobbiamo
ammettere che lo sia? È questo il senso
della replica? Se è questo, la sua
illogicità si spiega solo alla luce della suesposta convinzione dell’esistenza
di Concili Ecumenici dall’infallibilità implicita o nascosta, che i fedeli
devono tuttavia saper cogliere!
I punti [3] e [4] sono unificati nella
replica. In essi Mons. Gherardini
afferma che le dottrine del Vaticano II sono infallibili solo dove sono
“desunte da pronunciamenti dogmatici” del Magistero precedente; altrimenti,
costituiscono un insegnamento conciliare e quindi magisteriale, però non
dogmatico, che quindi non esige da noi la fede ma solo “l’accoglienza attenta e
rispettosa, nella linea d’una leale e riverente adesione”. A questa precisa suddivisione delle categorie
nelle quali è possibile intendere l’insegnamento del Concilio, l’Autore risponde ribadendo la
quasi-infallibilità dei documenti del “supremo magistero ordinario”, che egli
attribuisce, come si è già visto, ai “teologi di migliore dottrina”[43]. La “scuola romana” stessa avrebbe definito
l’opinione di Mons. Gherardini “come assurda”, perché riduce “l’infallibilità e
quindi l’irreformabilità anche solo straordinaria, ai canoni e alle condanne”
(ivi). Lascio al prof. Cantoni la responsabilità
di simili affermazioni. Noto invece che
egli non sembra riferire in modo esatto il pensiero dell’illustre teologo.
“Scrive, infatti:
“Il passaggio da “non in assoluto vincolante” a “in assoluto non
vincolante” è logicamente scorretto, ma psicologicamente facile, e infatti
mons. Gherardini lo compie: “[…] le sue dottrine [del Vaticano II], non
riconducibili a precedenti definizioni, non sono né infallibili né
irreformabili, e dunque nemmeno vincolanti”(Concilio…, p. 51)”[44]. Riferendosi al magistero del Concilio, che
per lui è magistero solo autentico, Mons. Gherardini passerebbe, nel
qualificarlo, da “non in assoluto vincolante” (nell’intervista concessa in
rete) a “in assoluto non vincolante”, che è ovviamente un concetto molto più
ampio e radicale. Questo passaggio
sarebbe “logicamente scorretto”. Ciò
avverrebbe in Concilio…Un discorso da fare, p. 51. Tuttavia, non ho trovato nel testo
gherardiniano il concetto di “in assoluto non vincolante” riferito al magistero
(solo) autentico del Concilio. Tale
concetto, in realtà, si ricaverebbe
dalla citazione di Concilio …Un discorso da fare, come riportata
da Don Cantoni.
Per l’esattezza, nel passo di Concilio etc. Un
discorso da fare, già citato da me nel § 2 di questo capitolo, abbiamo: “Ciò conferma che il Vaticano II non può
definirsi in senso stretto “dogmatico” e che le sue dottrine, non riconducibili
a precedenti definizioni, non sono né infallibili né irreformabili, e dunque
nemmeno vincolanti: chi le negasse non
per questo sarebbe formalmente eretico.
Chi poi le ponesse come infallibili ed irreformabili andrebbe contro il
Concilio stesso”. E subito dopo continua
così: “Non ne segue, però, che il suo
insegnamento, anche se si muove al di fuori dell’ambito dogmatico, non rivesta
dignità ed autorevolezza non comuni. È anzi doveroso riconoscere il contrario
etc.”. E conclude affermando che tale insegnamento “dovrà sempre esser
religiosamente accolto come insegnamento conciliare, ovviamente non alla
stregua di dottrine rigorosamente dogmatiche”[45]. Allora: non si dice, mi sembra, che siano da
ritenersi in assoluto non vincolanti ma che, non essendo dogmatiche, le
dottrine del Concilio non possono esigere da noi il vincolo della fede,
sì da far dichiarare “formalmente eretico” chi non conferisse loro il suo
assenso. Sono vincolanti,
relativamente al loro contenuto pastorale e assolutamente vincolanti
dove ripropongono dogmi già definiti dal Magistero.
E vengo al punto [5] ultimo della serie, nel quale
Mons. Gherardini ha il coraggio di affermare che le novità del Vaticano II
inconciliabili con la Tradizione o ad essa contrapposte dovrebbero essere
sottoposte ad un esame critico “sulla base della più rigorosa ermeneutica
teologica”. E ha anche il coraggio di
dire, in un altro testo, che anche nel caso di un Concilio Ecumenico, non si
può negare la possibilità che in esso penetri l’eresia, quando il suo
insegnamento non sia dogmatico.
Questi rilievi provocano l’indignazione del prof.
Cantoni, che accusa incredibilmente “monsignore” di confondere il caso del
“papa eretico” con un inesistente caso del “concilio eretico”[46]. In sede puramente teorica, è stato discusso
il caso del Papa che, come dottore privato, abbia professato delle eresie (non
tanto teorica, direi: ci fu il celebre episodio di Giovanni XXII, morto nel
1334, costretto dalla levata di scudi della Sorbona a rimangiarsi un’errata
opinione sul destino immediato dell’anima individuale subito dopo la morte,
manifestata in alcune prediche). Ma il caso di un Concilio “eretico” non è mai
venuto in mente a nessun autore cattolico.
“È anzi dottrina comune che un concilio veramente ecumenico non possa
assolutamente proporre eresie”[47]. A queste affermazioni, il Nostro fa seguire
lunghe citazioni della migliore dottrina, da S. Tommaso, a S. Bellarmino, a
Scheeben, nelle quali si dimostra che un vero Concilio Ecumenico della
S. Chiesa, godendo dell’assistenza infallibile dello Spirito Santo, non può
effettivamente insegnare eresie. Perciò,
esclama il prof. Cantoni, bisogna credere che i vescovi e il Papa “non possono
tutti quanti, moralmente parlando, cadere in eresia”[48].
5. La
questione della validità del Concilio.
La presa di posizione anticonformista di Mons.
Gherardini dovrebbe scomparire di fronte alla mole di citazioni di tanti e
grandi teologi. A mio modesto avviso,
però, il prof. Cantoni manca il bersaglio.
Il problema non riguarda il Concilio Ecumenico in quanto tale ma quel
particolare Concilio Ecumenico che è stato il Vaticano II. L’assistenza dello Spirito Santo bisogna
anche volerla. Se si rinuncia
all’infallibilità in senso proprio, è stato detto, pur occupandosi ampiamente
di dottrina e mettendo per di più in cantiere una riforma totale della Chiesa,
non è questo un modo di privare il Concilio di un’efficace assistenza dello Spirito
Santo? L’assistenza dello Spirito Santo
si presuppone poi nel caso di un Concilio che sia veramente tale. Ora, si riconosce che il Vaticano II è stato
un valido concilio ecumenico perché validamente convocato e per la totale
partecipazione di tutti i vescovi. Ma il
suo svolgimento è da considerarsi altrettanto valido? Questo è il punto. Mi sono sinteticamente soffermato su questo delicato
aspetto nell’Introduzione di questo lavoro e non tornerò a riproporre
gli stessi argomenti. Mi limiterò a questa
considerazione: che ripetute illegalità,
tollerate dalla Suprema Autorità, abbiano deviato il Concilio dal suo corso
naturale, facendo naufragare tutto l’accurato lavoro preparatorio e aprendo la
strada ai propugnatori della Nouvelle Théologie, ai Neomodernisti, mi
sembra difficile si possa negare. E non
è stata proprio la presenza massiccia di costoro nelle Commissioni conciliari
(grazie al “buon cuore” di Giovanni XXIII) a conferire ai documenti del Concilio
la loro caratteristica ambiguità, tale da non escludere gli errori
dottrinali? Se questo è vero, possiamo
considerare il Vaticano II un effettivo
Concilio ecumenico? Io ragiono da
semplice quisque de populo tra i credenti, non esperto delle
sottigliezze dei teologi. Mi limito a porre un problema affermando, nel
contempo, che questo problema qualcuno, nell’ambito della Gerarchia, un giorno
dovrà pur affrontarlo, volente o nolente, se vorrà veramente risolvere la
terribile crisi della Chiesa Cattolica.
5.1 Il fine dell’”aggiornamento” rappresenta
un’intenzione valida?
Ma, a prescindere dal delicato problema delle
illegalità che hanno alterato in modo decisivo il corso del Concilio, vi sono
anche altri aspetti da considerare ai fini della sua validità, in quanto
Concilio Ecumenico. Aspetti, voglio
dire, non di legalità in senso formale (pur fondamentali) ma coinvolgenti la
sua intenzione, che fa scorgere una pastoralità singolare ed
anomala. La peculiarità del Vaticano
II più ancora che nella scelta di esser solamente pastorale, si rivela nella natura
singolare di questa pastorale. Nel
Medio Evo ci furono Concili Ecumenici solo pastorali, ad esempio i primi tre
Lateranensi, che non emisero condanne dottrinali né proclamarono dogmi. I Concili ecumenici solo pastorali del
passato si occupavano in genere di importanti questioni pratiche contingenti,
riguardanti la Chiesa o i suoi rapporti con lo Stato, e si risolvevano spesso
in misure disciplinari, canoni intesi a riformare questo o quell’abuso. Con il Vaticano II, invece, abbiamo un Concilio
che, pur dotandosi di un fine espressamente “solo pastorale”, ha preteso di riformare
dalle fondamenta l’intera Chiesa (come ho già ricordato, con ben 4
Costituzioni, 9 Decreti, 3 Dichiarazioni, per 596 pagine scritte in corpo dieci
nel volume dedicato dalle Edizioni Paoline ai documenti del Concilio). Di riformare completamente l’intera Chiesa con
l’intenzione di aggiornare la dottrina e la pastorale tradizionali della
Chiesa ai valori del mondo contemporaneo, per “purificarli” ed innalzarli al
loro autentico significato, così come inteso dal Concilio (GS 11.2). Tutto questo, si intende, con l’ovvia e
conclamata garanzia del rispetto “del sacro patrimonio ricevuto dai
Padri”. Ma un simile evento non
rappresenta un unicum nella storia bimillenaria della Chiesa? E non autorizza ogni credente a chiedersi se
il Vaticano II, convocato in modo formalmente valido, abbia dimostrato di
possedere effettivamente un’intenzione conforme a quella tradizionale della
Chiesa Cattolica, che non può mai mancare in tutto ciò che fa la Gerarchia,
e che deve pertanto riscontrarsi anche quando ha luogo un suo Concilio
ecumenico? E cosa significa intenzione
tradizionale? Questo: che il magistero del Concilio, anche se solo autentico,
anche se solo pastorale, non può avere un’intenzione diversa da quella
di Nostro Signore risorto quando ha fondato la sua Chiesa, fissandone
l’inalterabile missione: “Andate dunque
e fate [miei] discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del
Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutte le cose che io
ho comandato a voi” (Mt 28, 19-20).
Studi approfonditi dei teologi della Fraternità
Sacerdotale S. Pio X hanno affrontato la delicata questione, giungendo alla
conclusione che, a causa dell’intenzione anomala (evidente già
nell’Allocuzione inaugurale di Giovanni XXIII) di “aggiornare” la Chiesa ai
princìpi “liberali” del mondo moderno, intenzione mantenuta e sviluppata nei
documenti conciliari e da porsi all’origine delle ambiguità e degli errori
dottrinali in essi rintracciabili, il “valore magisteriale” degli insegnamenti
stessi deve ritenersi praticamente n u l
l o [49]. L’analisi accurata dei testi del Concilio
mostrerebbe che l’intera dottrina da essi proposta di fatto predica un “nuovo
cristianesimo” perché vi appaiono:
“l’inversione dei fini”, che mette la Chiesa al servizio dell’uomo,
invece di mettere tramite la Chiesa l’uomo al servizio di Dio; “la coscienza
come fonte della religione” assai più che Dio stesso, cosa che conferisce alle
verità di fede un contenuto soggettivo e fa della Tradizione della Chiesa una
realtà “vivente” ossia a sua volta mutevole secondo le esigenze storiche; una
trasformazione della teologia della Messa in una “teologia della
partecipazione” dell’assemblea dei fedeli alla celebrazione del rito,
presentato inoltre come “memoriale” della Cena assai più che della Croce; la
visione della Chiesa come “sacramento” che realizza l’unità del genere umano
senza convertirlo a Cristo e quindi rinuncia di fatto al dogma secondo il quale
fuori della Chiesa non c’è salvezza; la riduzione del Regno di Dio (che non è
di questo mondo) a questo mondo, ossia all’umanità, nel perseguimento
dell’unità del genere umano nella pace universale come scopo essenziale della
Chiesa grazie al progresso, alla democrazia, al dialogo ecumenico; il dogma della salvezza distorto dalla
dottrina spuria della “redenzione universale”, che trova il suo caposaldo
nell’inaccettabile rappresentazione dell’Incarnazione di GS 22, indubbiamente
uno dei testi più impressionanti del Vaticano II (vedi supra).
Questi studi, al pari di quelli di Mons.
Gherardini, colgono indubbiamente molti, per non dire tutti, gli aspetti
ambigui ed erronei presenti nel dettato del Vaticano II, li riducono a sistema
e ne traggono le ultime conseguenze. In
effetti, può un vero Concilio ecumenico della Chiesa Cattolica insegnare
dottrine del genere? Non può,
evidentemente. E se lo fa, allora
non può ritenersi un vero Concilio ecumenico e la sua autorità è del tutto
nulla. La conclusione dei teologi della
SSPX va al di là di quanto Mons. Gherardini pur concede al Vaticano II, di
essere cioè (nonostante tutto) magistero autentico della Chiesa, anche se non
infallibile. Essa inclina a negar valore
anche alle proposizioni ortodosse che sono state mantenute dal Concilio accanto
a quelle ambigue od eterodosse, per il semplice motivo che vengono ad esser
sommerse nell’impasto singolare tipico dei testi del Vaticano II. Queste proposizioni non perdono il loro significato
ortodosso, ma come è possibile purificarle dalla contaminazione neomodernista
che pervade quasi ogni testo conciliare?
Proprio questo, sottolineo, sarebbe il compito, per quanto arduo, cui la
Prima Sedes dovrebbe accingersi, secondo Mons. Gherardini, dopo aver consentito
l’apertura di un dibattito ufficiale sul Concilio.
La tesi degli studiosi della FSSPX può apparire
estrema e tuttavia sarebbe un errore, io credo, limitarsi ad ignorarla perché
troppo scomoda per esser discussa (non dico accettata). Il problema della validità del Concilio esiste.
Scaturisce di per sé proprio dal
carattere pastorale insolito ed anomalo che si è voluto conferire al Vaticano
II. Esiste, e credo lo si possa
sintetizzare nel seguente modo: l’intenzione
del Concilio, coerente ad un fine pastorale (l’aggiornamento) non
conforme alla Tradizione della Chiesa, intenzione mantenuta dalla dottrina
effettivamente elaborata dal Concilio, è tale da inficiare la validità del
Concilio stesso? Il dibattito aperto e
il più possibile obiettivo sul Concilio, auspicato ormai da più parti, non
potrà evitare di affrontare, io credo, anche questo fondamentale aspetto.
5.2 L’idea-guida
del Concilio come Nuova Pentecoste che apre la Chiesa al mondo configura
un’intenzione valida?
La
riflessione sull’ i n t e n z i o n
e del Concilio deve, a mio avviso,
tener conto anche di un altro aspetto.
Mi riferisco al fatto che il Concilio è stato (ed è ancora)
rappresentato come una “Nuova Pentecoste” nella storia della Chiesa. Apparentemente si tratta di una
qualificazione del tutto esteriore, consistente nell’impiego ripetuto di
un’immagine tratta dalla retorica ecclesiastica che fiorisce in circostanze del
genere. Retorica come figura del
linguaggio, di un certo tipo di linguaggio aulico, intendo dire. Ma dal suo promotore, il Concilio è stato
ripetutamente presentato sin dall’inizio, da un lato come semplicemente
“pastorale” e dall’altro addirittura come una Nuova Pentecoste che avrebbe
aperto una nuova epoca nella storia della Chiesa. Al punto che quel Papa ha più volte affermato
di aver deciso di indire il Concilio per un’improvvisa ispirazione divina (superno
Dei nutu, come titolava la Lettera Apostolica del 27.6.1960, istituente le
Commissioni preparatorie del Concilio).
L’idea di un Concilio ecumenico da intendersi con
la massima serietà come una nuova discesa dello Spirito Santo permette allora,
io credo, di capire per qual motivo il Vaticano II venga presentato dai suoi
apologeti come un Concilio addirittura superdogmatico, pur essendo solo pastorale,
pur non avendo esso definito alcun dogma né condannato alcun errore. Con questa chiave di lettura potremmo anche
comprendere perché la Lumen Gentium e la Dei Verbum siano state
gratificate dell’appellativo di “dogmatiche”, in modo non conforme (come si è
visto) al concetto corretto di dogmaticità di un deliberato conciliare. Si tratta, in poche parole, di far emergere,
accanto alla sua anomala pastoralità, la dogmaticità anomala del
Vaticano II. Osserviamo attentamente.
La Lumen Gentium e la Dei Verbum erano considerate i documenti
più importanti del Concilio, rispettivamente da de Lubac la Dei Verbum e
la Lumen Gentium da Karl Rahner.
Le più importanti, evidentemente a causa del loro contenuto
dottrinale. In effetti, come si è visto,
la DV modifica la dottrina tradizionale delle due fonti della Rivelazione,
alterandola in maniera notevole. La LG
cambia il concetto stesso di Chiesa Cattolica, allargando la Chiesa di Dio sino
a comprendervi eretici e scismatici, anche se in comunione cosiddetta
“imperfetta” con la Chiesa Cattolica.
Cambiamenti epocali, come ognun può vedere. E meno male che si trattava di un Concilio solo
pastorale! Questi cambiamenti
dottrinali di fondamentale importanza, sono stati rivestiti dal Concilio di un
carattere dogmatico, con il dichiarare dogmatiche le costituzioni che li
contemplano. Le dottrine insegnate da
queste due costituzioni-chiave devono quindi ritenersi dogma di fede! Ed anzi l’intero insegnamento del
Concilio viene di fatto presentato come
infallibile!
E perché?
Perché è proposto da un Concilio che è stato una Nuova Pentecoste,
una nuova discesa dello Spirito Santo sulla Chiesa, ragion per cui ciò che
tramite il Concilio ha insegnato lo “Spirito” non si può discutere ma deve
valere per tutti e ciascuno come vero e proprio dogma! Il Vaticano II è stato un nuovo inizio della
Chiesa, un inizio assoluto, prima di esso c’è solo la preistoria della
Chiesa. Con esso, si inizia la vera
storia, che coinvolge finalmente l’intera umanità, per realizzare (mediante il
dialogo) l’unione di Città celeste e Città terrena, già attuata in ognuno di
noi dal Cristo, con l’Incarnazione (GS 22.2).
Il Vaticano II è pertanto un Superconcilio, dogmatico al sommo grado,
anzi più che dogmatico. Il “dogma”
insegnato dal Vaticano II, cioè la sua dottrina, esposta in un linguaggio
tortuoso ma accattivamente, dal tono discorsivo e allusivo, va oltre le forme
tradizionali nelle quali la Chiesa ha sempre definito il dogma. Va oltre perché non ne ha bisogno. Le rompe e le distrugge con la forza delle
“novità” (nova) da esso proclamate, verità assolute che esigono
obbedienza incondizionata poiché provengono dallo “Spirito” e valgono come
“profezie” dell’Avvento imminente di una “terra nuova” e di “cieli nuovi” (GS
39).
L’idea visionaria di un Concilio-Nuova
Pentecoste mi sembra dunque l’unica in grado di spiegare la singolare nota
dogmatica attribuita alle due Costituzioni di cui sopra ed anzi all’intero
insegnamento del Concilio. In
quest’ottica, credo si possa comprendere il famoso riferimento di Paolo VI al
Vaticano II come Concilio addirittura più importante di quello di Nicea, in una
risentita lettera scritta il 29.6.1975 in risposta ad una supplica rivoltagli
da Mons. Marcel Lefebvre, che gli chiedeva di intervenire contro l’ordine di
chiusura del seminario di Écône da lui stesso fondato, impartito
illegittimamente dall’Ordinario del luogo e nell’ambito di una procedura
inficiata da gravi irregolarità, ordine da Mons. Lefebvre giustamente
disatteso. In essa, il Pontefice
scriveva, rimproverando al presule la sua opposizione alle “riforme” del
Vaticano II: “Come potrebbe qualcuno
paragonarsi oggi a S. Atanasio [vescovo che nel IV secolo combatté l’arianesimo
negatore della divinità di Cristo e sopravvisse a due scomuniche] e osar
combattere un Concilio come il Vaticano II, che non possiede un’autorità
inferiore, che per certi aspetti è persino più importante di quello di Nicea?”[50]. Ricordo che il dogmatico Concilio ecumenico
di Nicea, in Anatolia, nell’AD 325 condannò l’eresia ariana, definì la
consustanzialità del Figlio con il Padre ossia la natura divina di Cristo e la
nostra professione di fede (il Credo o Simbolo), ribadita poi in quello
successivo di Costantinopoli del 381, che definì il dogma della divinità dello
Spirito Santo (Simbolo niceno-costantinopolitano).
Ora, come poteva un Concilio non dogmatico quale
il Vaticano II essere “per certi aspetti persino più importante” di un Concilio
fondamentale come il dogmatico niceno I?
Quali erano questi aspetti? Il
Papa non chiariva. A mio avviso, qui
viene di fatto affermata la natura superdogmatica del Vaticano II, la
sua autorità del tutto speciale e particolare, che gli deriva, appunto,
dall’esser stato concepito come una “Nuova Pentecoste”, che avrebbe iniziato
per la Chiesa una nuova era, un’autentica palingenesi. Non riesco a trovare altra spiegazione alla
frase straordinaria di Paolo VI, se non inserendola nel contesto visionario
del Concilio Nuova Pentecoste.
È stato Giovanni XXIII, come si è detto, a
lanciare l’idea del Vaticano II come “Nuova” o “Seconda Pentecoste”, tanto da
attribuire più volte (come si è ricordato) la decisione di indire il Concilio
ad un improvviso impulso dall’Alto. Ciò
significava che il Concilio era voluto direttamente dallo Spirito
Santo. Mantenendosi in questo solco,
quel Papa ha poi voluto conferire al Concilio un significato addirittura epocale,
chiliastico: il Concilio era una
Nuova Pentecoste che avrebbe aperto una nuova era per la Chiesa, Pentecoste che
la caricava della missione di guidare l’umanità all’unità, per edificare alla
fine il Regno di Dio in terra! Nella
parte finale dell’Allocuzione inaugurale del Concilio, egli affermava, come si
è visto, che il Concilio Ecumenico Vaticano II “quasi prepara e consolida la via
verso quell’unità del genere umano, che si richiede quale necessario
fondamento, perché la Città terrestre si componga a somiglianza di quella
celeste”(vedi supra, Introduzione 1.1; e il cap. III, 5-9). Dall’Allocuzione di Papa Roncalli si vede che l’idea del Concilio
come “Nuova Pentecoste” era collegata a quella dell’unità del genere umano
quale presupposto necessario per render la Città terrena simile a quella
celeste e quindi, ne deduco, per realizzare il Regno di Dio già in terra. Ciò significava presupporre come già
acquisita la salvezza per tutto il genere umano, senza bisogno di conversione
al Cattolicesimo. La dottrina della
“redenzione universale” appare implicitamente presente nel discorso del Papa.
Questi nessi appaiono con ancora maggior chiarezza
nella teologia di Giovanni Paolo II, che ha dato la massima estensione,
possiamo dire, alla visione chiliastica del Concilio come Nuova Pentecoste. Per questo Papa, il Concilio sarebbe stato
una Nuova o Seconda Pentecoste che avrebbe apportato alla Chiesa addirittura un
“arricchimento della fede” mediante una nuova rivelazione! Questo straordinario aspetto del suo
pensiero, vero filo conduttore del suo pontificato, è stato messo in rilievo
dall’accurata analisi cui il prof. Dörmann ha sottoposto certi suoi scritti da
cardinale e le sue Encicliche teologiche fondamentali, nello studio dianzi
citato, dimostrando che ciò che egli diceva prima di diventare Papa, lo ha
mantenuto una volta asceso al Sacro Soglio.
“Per la comprensione della teologia di Karol
Wojtyla – scrive egli – è fondamentale la sua visione del Concilio Vaticano II
come un tutto. Il cardinale definisce il
Concilio “un mistero”. Il vescovo, in
quanto “autentico testimone del Concilio”, che conosce il “mistero”, avrebbe
perciò la missione di introdurre il Popolo di Dio a tale “mistero del
Concilio”. Egli definisce questa
introduzione come una “iniziazione” che ha per effetto la “partecipazione al
mistero”. Un modo di esprimersi
inusuale, che si spiega con la particolare concezione che il cardinale ha del
Concilio Vaticano II, secondo la quale lo Spirito Santo ha parlato direttamente
ai Padri conciliari. Costoro hanno
accolto la parola dello Spirito Santo traducendola in linguaggio umano e
comunicandola quindi al mondo. In quanto
“parola dello Spirito Santo”, il messaggio del Concilio presenta carattere di
rivelazione diretta”[51].
I deliberati del pastorale Vaticano II sarebbero
dunque da intendersi come verità rivelata! E ciò, si capisce, in modo del tutto
indipendente dalla loro forma, se dogmatica o semplicemente pastorale. Siamo dunque in presenza di una Seconda
Pentecoste. Ma, si chiederà
qualcuno, quando un Concilio veramente dogmatico del passato proclamava una
verità di fede come dogma, questa definizione non valeva come verità
rivelata? Valeva come verità rivelata
per tutti i credenti ma non si trattava di una nuova rivelazione. La definizione di un dogma avveniva con
l’assistenza dello Spirito Santo che agiva nelle coscienze e nelle menti dei
Padri ispirando loro le giuste parole e i giusti concetti del linguaggio umano
per illustrar meglio quella determinata verità di fede (già rivelata) e
fornirla del sigillo dogmatico. Si
trattava dunque di ispirazione proveniente dalla Terza Persona della
Santissima Trinità, concessa a chi la richiedeva, esercitata nell’operare della
Grazia di stato attribuita dal Signore ai vescovi e al Papa, grazia che nella
fattispecie si attuava con la cooperazione di chi ne godeva nel magistero
straordinario di un Concilio ecumenico. Ispirazione
dunque e non rivelazione. Non si
trattava di una nuova rivelazione, di una riedizione della Pentecoste.
E continua il prof. Dörmann, esponendo il pensiero
di Giovanni Paolo II. “Come lo Spirito
Santo nella prima Pentecoste è disceso su Maria e sugli Apostoli nel Cenacolo,
così pure nella seconda Pentecoste Egli sarebbe sceso sui Padri conciliari per
introdurre il consesso dei vescovi alla verità “piena”, “tutta intera” promessa
da Cristo. Nella terminologia del
cardinale, la “verità tutta intera” ha il significato di un “arricchimento
della fede” rispetto all’antica fede della Chiesa, arricchimento operato dallo
Spirito Santo nell’ambito del Vaticano II e che ha trovato espressione
nell’”insegnamento del Concilio”. La
“seconda Pentecoste” significa dunque la rinascita della Chiesa sulla base
dell’”insegnamento del Concilio”. E
poiché “l’insegnamento del Concilio” racchiude “tutto ciò che lo Spirito dice
alle Chiese in ordine alla presente fase della storia della salvezza” (cfr.
encicl. Dominum et vivificantem 26.1), il Vaticano II è un fondamento
nuovo, autosufficiente, per la fede e la predicazione della Chiesa”[52].
Si comprende, allora, perché il Vaticano II sia
sempre considerato autoreferenziale dalla presente Gerarchia, come se
fosse superdogmatico. “In tal
modo il cardinal Wojtyla sottolinea il ruolo dogmatico, a suo modo di vedere
incomparabile, del Concilio Vaticano II nella storia dei concili (Dominus et
vivificantem 26 e 27). Ma dal
momento che l’identità della Chiesa Cattolica consiste essenzialmente
nell’identità di fede, si pone la decisiva questione: “l’insegnamento del Concilio”, come è
ricavato dal cardinal Wojtyla a partire dai documenti conciliari, coincide
nella sostanza con l’insegnamento della Chiesa trasmesso dalla Tradizione? In altre parole: la “Chiesa conciliare” si identifica con la
Chiesa Cattolica precedente il Concilio?
La risposta dipende però dal significato sul piano dogmatico del termine
“arricchimento della fede””[53].
Cosa deve intendersi con “arricchimento della
fede”? È una delle espressioni della
terminologia ermetica penetrata nella Chiesa dopo il Concilio, che sembra
pienamente accessibile solo agli iniziati.
Per il cardinal Wojtyla questo arricchimento, che deve ritenersi
“il postulato fondamentale dell’attuazione del Vaticano II”, deve intendersi in
due modi: come “approfondimento del
contenuto della fede racchiuso nell’insegnamento conciliare” e come
“arricchimento che scaturisce da questo contenuto, di tutta l’esistenza
dell’uomo credente che fa parte della Chiesa”.
Questo significa, spiega il prof. Dörmann, che “l’arricchimento”
approfondisce la fede sia “in senso oggettivo”, costituendo una nuova tappa del
cammino della Chiesa verso “la pienezza della verità divina”, sia “in senso
soggettivo” ovvero “umano, esistenziale”, costituito dal vissuto concreto del
singolo credente[54]. Il concetto di arricchimento della fede,
continua il prof. Dörmann, “comprende dunque il contenuto oggettivo della fede
e l’atto di fede soggettivo. Oltre alla
fede in senso oggettivo [la verità di fede insegnata dal Magistero della
Chiesa] anche quella soggettiva [l’atto di fede del singolo credente] subisce
un arricchimento che trova espressione nell’insegnamento del Concilio”[55].
Ma quali sono i contenuti concreti, gli “elementi”
di questo “arricchimento”? Essi sono,
per il futuro Pontefice, “la conoscenza derivante dalla ‘Dichiarazione sulla
libertà religiosa’ come pure la disponibilità al dialogo ecumenico ed
interreligioso”[56]. Osserva il prof. Dörmann che il concetto
dell’”arricchimento della fede”, come inteso dal cardinale Wojtyla, sembra
contraddire quella che è stata sempre ritenuta verità di fede, cioè che la
Rivelazione pubblica si è completata e conclusa “con Cristo e gli
Apostoli”(vedi supra, cap. XVIII, § 4).
Pertanto, “non ci può essere alcun “arricchimento della fede” nel senso
di un sostanziale incremento del contenuto oggettivo della fede per effetto del
Vaticano II”. Tale arricchimento
risulterebbe da dottrine assolutamente nuove per la Chiesa, quali il principio
della libertà religiosa e l’ecumenismo, ed inoltre esso arricchimento è
contenuto “nel magistero del Concilio”, non “nel magistero della Chiesa”. E ciò non è come dire che “il tradizionale
magistero della Chiesa non coincide con quello del Concilio”?[57] E da parte mia aggiungo: i “nuovi elementi” apportati alla Chiesa dal
supposto “arricchimento della fede” corrispondono a quelli già condannati (come si è visto) dai Papi preconciliari in
quanto incompatibili con la fede cattolica:
il principio della libertà religiosa, perché frutto dell’agnosticismo,
dell’indifferentismo, dell’ateismo della mentalità moderna e contemporanea e
quello non meno inaccettabile e riprovato da Pio XI nel 1928 del dialogo
ecumenico, espressione in realtà di un sincretistico “pancristismo” del tutto
contrario al dogma! Come sottolineava
lo stesso prof. Dörmann, “è incontestabile che l’atteggiamento della Chiesa
all’indomani del Concilio nei riguardi delle religioni non cristiane
rappresenti una rottura radicale con la Tradizione”[58].
Nella visione di Giovanni Paolo II, che non è
stata di sicuro gettata alle ortiche dall’attuale Gerarchia della Chiesa,
conclude il prof. Dörmann, “il Vaticano II è un concilio eminentemente
dogmatico in cui l’insegnamento tradizionale della Chiesa subisce un
sostanziale “arricchimento della fede” apportato dalla Parola dello Spirito Santo. Tale arricchimento consiste essenzialmente
nella rivelazione di una nuova coscienza della Chiesa nel senso della
redenzione universale [vedi supra, cap. XII]. A partire da questo nuovo fondamento della
fede, la fede tradizionale viene […] reinterpretata nel senso della tesi della
redenzione universale. Il risultato è il
“magistero del Concilio” [che infatti passa sotto silenzio tante verità
essenziali del Deposito della Fede]. Al
posto del tradizionale “magistero della Chiesa” subentra il “magistero del
Concilio”. Il Concilio diventa allora
una “seconda Pentecoste”, la nascita nella nuova chiesa del Vaticano II”[59].
In cosa consiste, allora, la “pastoralità” del
Vaticano II? Essa consiste
“nell’affermare in ogni aspetto il nuovo “magistero del Concilio” nella Chiesa
del Nuovo Avvento. Appare con ciò chiaro
che il riferimento al Concilio pastorale maschera la vera realtà”[60]. La maschera, perché non si è trattato di un
semplice “aggiornamento” della dottrina tradizionale, come continua a sostenere
una leggenda dura a morire, mal inteso e peggio attuato da pochi chierici
fedifraghi. La pastoralità del Concilio
era concepita in funzione dell’”arricchimento della fede” propagato dal
Concilio stesso e quindi dell’aggiornamento della fede agli pseudovalori
del Secolo, ben rappresentati dalla laicissima libertà di coscienza nella
religione e dall’ecumenismo, elementi essenziali del suddetto
“arricchimento”. Il Vaticano II è sì
“pastorale” ma solo nel senso che la sua pastorale applica le verità rivelate
dalla Nuova Pentecoste che è stato il Concilio stesso: è quindi “pastorale” solo in quanto
“dogmatico”, solo in quanto parola dello “Spirito”, che spira dove vuole e non
si cura certo delle forme tramandate nelle quali sono racchiuse le categorie
della “pastoralità” e della “dogmaticità”.
La conclusione del semplice credente non può
essere che una sola: l’idea o meglio il m i t o
del Concilio Nuova Pentecoste che conferisce a tutti i suoi
insegnamenti pastorali carattere dogmatico, è concezione visionaria ed irrazionale,
che si serve in modo del tutto anomalo dei concetti di “dogma” e “pastorale”,
senza scorgere la contraddizione insita nel volerli unificare nell’evento
Concilio Vaticano II. Ci troveremmo di
fronte ad una pastorale che, in quanto comunicata direttamente dallo Spirito
Santo, sarebbe per ciò stesso “dogmatica”!
Ma come potrebbe poi lo Spirito Santo aver ispirato il Concilio ad
“arricchire” la nostra fede con dottrine già condannate dal Magistero anteriore
(sempre assistito dallo Spirito Santo, si suppone) perché erronee e perniciose
per la salute delle anime? Il rispetto
del principio di non-contraddizione, poco amato dal pensiero moderno e
contemporaneo, non è mai stato il forte di Modernisti e Neomodernisti. Ed inoltre, se il Concilio è stato una Nuova
Pentecoste, rappresentando un nuovo inizio, nuovo in senso assoluto tanto da
obbligare la Gerarchia postconciliare a basare la sua opera solo su di esso,
come è possibile stabilire una c o n t i n u i t à checchesia tra l’insegnamento del Concilio e
quello della Chiesa preconciliare? Se
questa continuità esistesse davvero, l’applicazione delle direttive del
Concilio non sarebbe sempre autoreferenziale.
Un evento considerato addirittura una “Nuova Pentecoste” implica di per
sé una rottura radicale con il passato, esattamente come la Prima
Pentecoste, quella v e r a . Il discorso sull’ermeneutica della “riforma
nella continuità” non si potrebbe nemmeno porre.
6. La
falsa accusa di eresia a chi critica l’anomala dottrina del Concilio.
La
riflessione sulla peculiare dogmaticità e pastoralità del Vaticano II, obbliga
a prendere in considerazione un altro importate argomento: criticare l’anomala “pastorale” del Vaticano
II significa forse comportarsi da protestanti, da eretici? No, di certo.
Eppure lo si è affermato e si è
tornato a ripeterlo, anche in sedi autorevolissime. Ha scritto di recente sull’Osservatore
Romano S. E. l’arcivescovo Gerhard Ludwig Müller, Prefetto della
Congregazione per la Fede, a proposito della “ermeneutica della riforma nella
continuità” proposta – come sappiamo – dal Romano Pontefice quale unica
legittima chiave di lettura del Concilio:
“Quest’interpretazione è l’unica possibile secondo i princìpi della
teologia cattolica, vale a dire considerando l’insieme indissolubile tra Sacra
Scrittura, la completa e integrale Tradizione e il Magistero, la cui più alta
espressione è il Concilio presieduto dal Successore di San Pietro come Capo
della Chiesa visibile. Al di fuori di
questa unica interpretazione ortodossa esiste purtroppo una interpretazione
eretica, vale a dire l’ermeneutica della rottura, sia sul versante
progressista, sia su quello tradizionalista.
Entrambi sono accomunati dal rifiuto del Concilio; i progressisti nel
volerlo lasciare dietro di sé, come fosse solo una stagione da abbandonare per
approdare a un’altra Chiesa; i tradizionalisti nel non volervi arrivare, quasi
fosse l’inverno della Catholica”[61].
Non so se sia corretto mettere sullo stesso piano
le due opposte interpretazioni del Concilio.
I “tradizionalisti” ne vogliono sanare le ambiguità ed espellerne gli
errori, ponendo indirettamente anche il problema della validità del Concilio. Sarebbero
comunque lieti di vedere un Concilio riveduto e corretto dal Papa sulla
base della dottrina di sempre della Chiesa.
I “progressisti” non si pongono certo il problema della validità del
Concilio, né quello di ambiguità ed errori da eliminare perché in
contraddizione con la dottrina di sempre, che per loro non esiste, visto che
concepiscono tutto il Cristianesimo in chiave storico-evolutiva. Per loro, il Concilio non è certo da
riformare né tantomeno da invalidare.
Criticano invece i compromessi cui la mens progressista impostasi nel
Concilio ha dovuto sottostare, auspicando che in sede di attuazione pratica
tali compromessi vengano finalmente a cadere del tutto, per far emergere nella
sua compiutezza la “Chiesa dello Spirito” o “dell’Amore”, insufflata nelle
parti ammodernanti dei documenti conciliari; la Chiesa visionaria dei fautori
della Nuova Pentecoste, Chiesa del Nuovo Avvento, senza gerarchie e totalmente
ecumenico-comunitaria, aperta a tutte le istanze della Modernità, anche sul
piano etico e dei costumi. Chiesa di
Satana, giova ricordarlo, per tutti i Cattolici rimasti fedeli alla
Tradizione della Chiesa, all’insegnamento del Magistero di sempre.
Sul piano sostanziale, ai rilievi di Mons. Müller
mi permetto di osservare, in primo luogo, che gli eretici in genere
contrappongono una loro versione personale del Cristianesimo
all’insegnamento costante della Chiesa.
Coloro che sono oggi costretti dall’amarissima realtà della crisi della
Chiesa a criticare il Vaticano II in nome della Tradizione non hanno né
intendono avere una loro versione personale del Cristianesimo, da
proporre in alternativa all’insegnamento attuale della Chiesa, al quale
invece oppongono, ove non vi si accordi, l’insegnamento tradizionale
della Chiesa, consolidato da quasi venti secoli di magistero. In secondo luogo, faccio osservare che il
Concilio insegna apertamente cose nuove e in documenti non dogmatici ma
pastorali, circostanza che rende del tutto legittimo l’esame della conformità
di queste novità con la dottrina tradizionale da parte del credente che se ne
senta la capacità. Vediamo questo
secondo punto.
6.1 Per la prima volta nella storia della
Chiesa, un Concilio ecumenico ammette di insegnare “novità”.
Nell’art. 1 della Dignitatis humanae sulla
libertà religiosa, si trova la famosa dichiarazione secondo la quale, “questo
Concilio Vaticano rimedita la tradizione sacra e la dottrina della Chiesa,
dalle quali trae nuovi elementi in costante armonia con quelli già posseduti [haec
Vaticana Synodus sacram Ecclesiae traditionem doctrinamque scrutatur, ex quibus
nova semper cum veteribus congruentia profert]”(DH 1). Il Concilio ammette, dunque, che esso insegna
“nuovi elementi” o “cose nuove” (nova) tratte dalla “lettura
approfondita”, dallo “scrutare” o “rimeditare” la Tradizione e la
Scrittura. Non dice che ripropone l’identica
tradizione e dottrina in modo nuovo (nove), come si usava dire una
volta, quando si parlava di progresso estrinseco del dogma ovvero di un
approfondimento e di una miglior conoscenza di qualche verità di fede, che
restava tuttavia assolutamente immutata quanto al suo concetto. La sostituzione di nove con nova
poteva naturalmente far nascere molte apprensioni, ragion per cui il testo
precisò esplicitamente che era intenzione del Concilio “trarre le cose nuove”
sempre in armonia con quelle vecchie, con il Deposito della Fede. Ma già l’idea di “trarre cose nuove” dalla
“tradizione sacra e dalla dottrina della Chiesa”, non era di per sé del tutto
rivoluzionaria?
È significativo che quest’ammissione
dell’esistenza di novità nell’insegnamento del Concilio sia fatta nel
“proemio” di un testo ampiamente innovatore come quello sulla “libertà
religiosa”, il cui concetto, secondo i suoi critici, sembra mutuato quasi
integralmente dal principio laico della
stessa, in passato sempre vigorosamente respinto dal Magistero (vedi supra,
cap. XVI). Come hanno ampiamente
dimostrato Mons. Gherardini ed altri studiosi, nessuna delle “novità” proposte
dal Concilio è fornita del sigillo della definizione dogmatica. E le novità non le troviamo di sicuro in quei
passi conciliari nei quali si riaffermano dogmi precedenti o si rinvia
all’infallibilità del Magistero ordinario della Chiesa. Come hanno notato a più riprese gli studiosi
competenti, la “congruentia” delle “cose nuove” proposte con le “vecchie” non è
ancora dimostrata dai riferimenti del Concilio ai dogmi del passato o ad
insegnamenti infallibili del Magistero ordinario o dalle dichiarazioni di
principio di fedeltà al dogma. Tale
“congruentia” deve esser dimostrata puntualmente, caso per caso,
paragonando il nuovo al vecchio che esso specificamente viene a
sostituire. E quindi, all’atto
pratico: confrontando tra loro la nuova
definizione della Chiesa di Cristo, quella del famoso “subsistit in”, con la
vecchia, quale appariva, ad esempio, nello schema di costituzione dogmatica De
Ecclesia mandato al macero dai Progressisti; il nuovissimo principio della creatività
liturgica con quello che il Magistero preconciliare ne aveva sempre pensato; la
nuova definizione dell’Inerranza biblica con la vecchia; la nuova definizione
della collegialità con la vecchia ossia con tutto l’insegnamento precedente
della Chiesa in proposito, e così via. E
proprio questo diligente quanto ingrato lavoro ho cercato di fare nel presente
saggio: la lettura comparata dei
testi, da semplice credente che vuol capire come stanno effettivamente le
cose.
6.2. Ogni fedele è legittimato ad indagare la
“congruentia” delle “novità” professate da un Concilio pastorale.
Stabilito questo punto fondamentale e cioè che il
Concilio insegna apertamente “cose nuove”, mi chiedo: il semplice fedele è autorizzato o no
a confrontare tutte queste “novità” con l’insegnamento tradizionale della
Chiesa, acclarato e confermato da teologi ortodossi, per vedere se esse siano
tutte “in costante armonia con esso”? Con
l’insegnamento tradizionale consolidato
– ripeto – non con le sue opinioni personali, alla maniera dei protestanti
eretici. È autorizzato oppure no? Se si risponde di no, allora si impone di
fatto al fedele di credere sulla parola all’esistenza di questa “armonia”: di credere sulla parola senza discutere, come
se ci trovassimo in presenza di un Concilio dogmatico, infallibile sulle verità
di fede e sui costumi allo stesso modo del Tridentino e del Vaticano I. Negare ai fedeli il diritto di confrontare la
nuova pastorale e la nuova dottrina del non dogmatico Vaticano II
con l’insegnamento perenne (ossia dogmatico) della Chiesa, ciò costituisce un
atteggiamento intrinsecamente contraddittorio, poiché implica attribuire al
Vaticano II un carattere dogmatico negato espressamente dal Concilio stesso
(nelle dichiarazioni contenute nelle Notificationes in calce alle due
costituzioni “dogmatiche” del Concilio e nella Nota explicativa praevia,
apposta in appendice alla sola Lumen Gentium – vedi supra,
cap.XV).
Come semplice credente, non ho il diritto di
verificare la dottrina dell’Incarnazione di Gaudium et spes 22.2, proposta in un documento pastorale, con
quella sempre insegnata dalla Chiesa?
Quando mi trovo di fronte ad una frase come questa: “Infatti con l’Incarnazione il Figlio di Dio
si è unito in certo modo ad ogni uomo”, la mia prima impressione è quella di
una frase che dice una cosa strana, mai sentita prima e nello stesso tempo
ambigua. Ambigua, perché non si
capisce per qual motivo l’Incarnazione sia dovuta avvenire “in ogni uomo” e che
cosa voglia effettivamente dire “in certo modo” (il famoso quodammodo). Trovo poi che in un articolo del Catechismo
della Chiesa Cattolica e nella prima Enciclica di Giovanni Paolo II
l’inciso “in certo modo” è stato tolto.
Cosa devo concluderne, allora?
Il Papa e il CCC ci
forniscono di sicuro l’interpretazione
autentica. Ciò significa che il senso
della frase è proprio quello di dire che l’Incarnazione non si è limitata al
Cristo incarnatosi nell’ebreo Gesù di Nazareth, individuo storicamente
esistito, ma si è effettivamente avuta “in ogni uomo”. L’inciso “in certo modo” è allora
pleonastico.
Ne risulta, comunque, che, con o senza il quodammodo,
il pastorale Vaticano II, un Concilio che avrebbe dovuto in teoria limitarsi ad
esporre le verità di fede in modo più consono alla mentalità moderna, m o d i f
i c a il concetto dell’Incarnazione di
Nostro Signore, includendovi “ogni uomo”!
Questa dunque una delle grandi e straordinarie novità. Che sia negativa per il dogma, non c’è
bisogno di esser teologi per capirlo.
Infatti, anche il cattolico digiuno di teologia, non può non
chiedersi: come avrebbe potuto il Verbo
divino, consustanziale al Padre secondo la divinità, unirsi alla natura
peccaminosa di ciascuno di noi? E il
dogma dell’Immacolata Concezione avrebbe ancora senso? E quello del peccato originale? E in quale “uomo” si sarebbe incarnato il
Figlio di Dio? Solo negli uomini e nelle donne della sua generazione? E gli altri?
Tutto l’impianto di GS 22 non implica forse l’idea che questa
“incarnazione in ogni uomo” ha significato ontologico, di impronta divina perenne nella natura umana
di ciascuno di noi? L’implica senza
dirlo apertamente, contribuendo all’ambiguità di un discorso che getta nella
confusione la dottrina ortodossa dell’Incarnazione, rendendola incerta e
divinizzando l’uomo.
Se poi, procedendo sempre con il dovuto metodo, il
semplice credente confronta GS 22.2 con l’insegnamento anteriore della Chiesa,
cosa trova? Forse qualche spunto che in
qualche modo l’anticipi? Come hanno
messo in rilievo i teologi ortodossi, trova solo qualche espressione dei Padri
della Chiesa, dal significato prevalentemente simbolico, che potrebbe prestarsi
all’equivoco, se interpretata in modo errato[62]. Ma in realtà, che nel pensiero dei Padri non
ci sia posto per un concetto del genere, risulta da come intendono in generale
l’Incarnazione nel suo rapporto all’uomo.
L’uomo resta sempre un peccatore da salvare e la possibilità della
salvezza gli è offerta solamente dall’Incarnazione dell’Unigenito in Gesù
di Nazareth, in quest’unico individuo, venuto in terra “a chiamare i
peccatori non i giusti” (Mc 2, 17), affinché si salvino l’anima grazie alla
Chiesa da Lui stesso fondata. Invece,
situando la celebre frase nell’intero contesto di LG 22, l’analisi diligente
dimostra che essa giunge a coronamento di tutto un ragionamento (illustrato nei
precedenti capitoli di questo mio saggio) annunciante l’ “altissima missione
dell’uomo”, al quale il Cristo avrebbe “restituito la somiglianza con Dio resa
deforme dal peccato originale”, in tal modo “svelando l’uomo a sé stesso” e
innalzando la natura umana in generale ad una “dignità sublime”, in ogni
uomo. A parte il fatto, come ha
ricordato il prof. Dörmann, che il peccato originale ci ha fatto perdere la
“somiglianza con Dio” (Tridentino), tutta questa concezione (che riflette
notoriamente la peculiare teologia personale di de Lubac) fa vedere un
antropocentrismo completamente sconosciuto ai Padri della Chiesa. Nella “Lettera teologica” di S. Leone Magno
adottata all’unanimità dal Concilio di Calcedonia, che, nell’AD 451, come
sappiamo definì perfettamente le due nature di Cristo, non vi è traccia
dell’idea di un’incarnazione “in ogni uomo”.
E che un’idea del genere rappresentasse una deviazione dottrinale, lo
dimostra il fatto che essa fu combattuta da S. Giovanni Damasceno (morto nel
749), la cui critica fu ripresa e teologicamente approfondita secoli dopo da S.
Tommaso.
6.3 Negare la “congruentia” dottrinale di un
testo ambiguo del Concilio, non comporta alcun peccato di eresia.
Ho ripetuto qui sinteticamente quanto da me
ampiamente esposto nei capitoli precedenti (da XI a XIII). Ora, in tutta questa mia analisi, mi sono
forse comportato da protestante, da eretico?
Ho forse fatto trasparire “l’ostinata negazione di una qualche verità
che si deve credere per fede divina e cattolica [ossia come dogma] o il dubbio
ostinato su di essa”, come recita la definizione canonica dell’eresia?[63] Niente di tutto ciò, come ognun può
vedere. Confrontando con la dovuta
diligenza la “novità” contenuta in GS 22.2 sono giunto alla conclusione, testi
alla mano, che essa non appare per nulla in armonia con l’insegnamento perenne
della Chiesa. I testi parlano
chiaro. Se poi si dimostrasse che la mia
interpretazione è sbagliata, non avrei
nulla da obiettare. Resto pertanto
disciplinatamente in attesa di una confutazione, puntuale e documentata,
secondo le regole del discorso razionale, rifiutando ogni condanna
aprioristica, basata sul presupposto di un inesistente carattere dogmatico del
Vaticano II o di una sua apodittica armonia con il Magistero di sempre. E se questa confutazione non dovesse venire,
allora dovrei concluderne che gli apologeti del Vaticano II non hanno veri
argomenti da opporre e nascondono questo fatto dietro le cortine fumogene di
accuse di eresia del tutto inconsistenti.
E poiché si vuole portare il discorso sul piano
dell’eresia, mi chiedo: chi è veramente
l’eretico o meglio il sospetto d’eresia?
Chi ha osato scrivere e chi accetta lo:
“Ipse enim, Filius Dei, incarnatione sua cum omni homine [quodammodo] se
univit” o chi osa sostenere, testi alla mano, che questo nuovo concetto
di Incarnazione non appare per nulla conforme al dogma dell’Incarnazione, come
sempre insegnato dalla Chiesa Cattolica?
E non è eretico chi nega o mette in dubbio la verginità dopo il
parto miracoloso della Beatissima Vergine[64]? È vero o no che in passato Mons. Müller ha manifestato dei dubbi su
questo dogma, senza mai ritrattarli pubblicamente? E se criticare il non dogmatico Vaticano II è
da eretici, anche Benedetto XVI diventerebbe allora imputabile di eresia per
aver osato recentemente criticare (da una prospettiva sicuramente non “progressista”)
la Gaudium et spes e la Dichiarazione conciliare Nostra Aetate;
la prima perché ci avrebbe dato una nozione tutt’altro che soddisfacente di
modernità, la seconda per aver del tutto ignorato le forme “malate e disturbate
di religione” presenti nelle religioni non cristiane.
[1]
BRUNERO GHERARDINI, Quale valore magisteriale per il Concilio Vaticano II
? - http: //disputationes-theologicae.blogspot.com/2009/05/presentation_05.html
(consultato [dal prof. Cantoni] il 10 giugno 2011).
[2]
C, 79. Nei Concili ecumenici tradizionali, i “canoni” sono proposizioni nei
quali si regolano certe materie o si condannano specifici errori, dopo aver
esposto a parte la dottrina in dichiarazioni più o meno lunghe, chiamate
“capitoli”. Così, ad esempio, al
Tridentino, la dottrina ortodossa sul Sacramento dell’Ordine fu esposta in una
dichiarazione di quattro brevi “capitoli”, nella sessione XXIII del 15.7.1563,
seguiti da otto “canoni” che infliggevano otto anatemi a chi professava
determinati errori su detto Sacramento.
Questa tradizionale architettura conciliare manca del tutto nel Vaticano
II, che, anche per questo aspetto, si conferma atipico.
[3] C,
79.
[4] Decisioni
dei Concili Ecumenici, cit., p. 779 (DS 1839-1840/3073-3075).
[5] DS
1641/2803-2804.
[6] C,
80.
[7]
Sul punto, vedi la documentazione prodotta in ALBERIGO (a cura di), Decisioni
dei Concili Ecumenici, cit., p. 34, che rimanda a V. PERI, I Concili e
le Chiese. Ricerca storica sulla tradizione d’universalità dei sinodi ecumenici,
Roma, 1965, pp. 21-34. Gli altri criteri
di validità erano: la presenza del Papa
o di suoi legati e dei quattro patriarchi apostolici o di loro legati,
l’accoglimento delle decisioni del Concilio da parte delle Chiese. I quattro Patriarchi, lo erano di: Alessandria, Gerusalemme, Antiochia,
Costantinopoli.
[8]
La traduzione proviene dallo studio di Peri, appena citato, che rende in
italiano tutto il discorso, riportato in nota nell’originale greco (op. cit.,
pp. 24-5).
[9] D,
87.
[10]
C, 22.
[11]
C, 22-3.
[12]
C, 23.
[13]
Il capitolo Che cosa è successo?, si trova alle pp. 99-114. Per il giudizio gherardiniano sulla FSSPX,
vedi: Quod et tradidi vobis, pp.
207-216. Nel citato capitolo, il prof.
Cantoni, riportando l’opinione di Cantoni Giovanni, a proposito della rottura
disciplinare intervenuta come tutti sanno tra Mons. Lefebvre e Roma, straparla
(a p. 105) di “atto scismatico” che avrebbe fatto nascere una “Ortodossia
latina”! Come se Mons. Lefebvre dovesse allora considerarsi un novello
Fozio! Qui siamo al di là del ridicolo.
È doveroso ricordare che in un’intervista pubblicata sul n. 9/2005 di 30
giorni, il cardinale Dario Castrillón Hoyos, allora Prefetto della S.
Congregazione per il Clero, dichiarò che da parte di Mons. Lefbvre “non si è
trattato di uno scisma in senso formale” e che “la FSSPX è un’istituzione
ecclesiastica composta di sacerdoti validamente ordinati anche se in modo
illegittimo”. Illegittimo, preciso, solo
perché ordinati da vescovi sospesi a divinis o scomunicati latae sententiae. Il
cardinale rilevò anche che la FSSPX non era “sedevacantista”, avendo sempre
riconosciuto come legittimi anche tutti gli ultimi Papi, sino a Benedetto XVI,
felicemente regnante. In un’intervista a
Canale 5, mandata in onda domenica 13 novembre 2005 alle 9 del mattino, il
porporato ribadì che: 1. “La Fraternità
non è eretica”; 2. “Nel senso stretto
del termine, non si può dire che la Fraternità sia scismatica”. L’Autorità
Vaticana non ha mai accusato Mons. Lefebvre di eresia. Con la consacrazione dei
quattro vescovi nel 1988 al fine di mantenere la Fraternità nel solco della Tradizione,
fatta contro il divieto del Papa che gli ordinava di aspettare ancora, dopo
mesi di estenuanti trattative con Roma, agendo convinto di trovarsi in stato di
necessità, Mons. Lefebvre non ha affatto voluto dar vita ad una “chiesa
parallela”, tant’è vero che non ha conferito ai quattro vescovi diocesi alcuna
ma solo una giurisdizione personale (“giurisdizione supplita”) da esercitarsi
su base personale e non territoriale: il solo potere d’ordine (impartire ed
amministrare i Sacramenti), che si può applicare a seconda delle necessità
prodotte dalle circostanze, in modo simile a quanto fanno i vescovi in terra di
missione.
[14]
C, 80.
[15]
D, 47-65.
[16]
D, 49.
[17]
D, 49-50.
[18]
D, 50-1.
[19]
D, 51.
[20]
D, 51.
[21]
Ivi.
[22]
D, 52-8.
[23]
D, 58-65.
[24]
D, 51.
[25]
D, 51-2.
[26]
C, 81.
[27]
C, 81-2.
[28]
C, 82.
[29]
EP, 2168.
[30]
C, 83-4.
[31]
C, 82.
[32]
C, 84.
[33]
C, 84-5.
[34]
C, 86.
[35]
Ivi.
[36]
DS 1792/3011.
[37]
DS 1683/2879. Riporto il testo latino
per la parte che maggiormente interessa:
“[…] sed ad ea quoque extendenda, quae ordinario totius Ecclesiae per
orbem dispersae magisterio tamquam divinitus revelata traduntur ideoque
universali et constanti consensu a catholicis theologis ad fidem pertinere
retinentur”.
[38]
C, 87.
[39]
Ivi.
[40]
Ivi.
[41]
C, 87-8.
[42]
C, 89-90.
[43]
C, 91.
[44]
Ivi.
[45]
D, 51-2.
[46]
C, 91.
[47]
C, 91-2.
[48] C,
95.
[49]
Vedi: Magistère de soufre. Études théologiques sur le Concile de Vatican
II, Éditions IRIS, 2009. Il volume
contiene gli atti di un convegno sul Concilio tenutosi a Parigi, all’Istituto
Universitario S. Pio X, dal 4 al 5 ottobre 2002. Tra i contributi segnalo: P. JEAN-MICHEL GLEIZE, Le concile Vatican
II a-t-il exercé l’acte d’un véritable magistère?, pp. 177-204; e P. ALVARO
CALDERÓN, L’autorité doctrinale du concile Vatican II, pp. 205-18. E in aggiunta il recente saggio di S.E. Mons.
BERNARD TISSIER DE MALLERAIS, Qu’est-ce qu’un concile pastoral? Nature, finalité, méthodes et autorité du
concile Vatican II, in ‘Sel de la terre’, 80, printemps 2012, pp.
42-99.
[50]
Ho tradotto dall’originale francese riportato da JEAN MADIRAN (a cura di), La
condamnation sauvage de Mgr Lefebvre, numero speciale della rivista Itinéraires,
dell’aprile 1977, contenente 67 documenti con note e commento del curatore
sulle vicende relative alla soppressione illegittima (sauvage) del
Seminario di Écône: pp. 64-8; p.
65. Alla lettera di Paolo VI seguiva nel
testo una rispettosa ma sdegnata di Madiran, autorevole intellettuale cattolico
francese, che controbatteva di non comprendere in base a quale criterio un
Concilio “pastorale” potesse avere più autorità di uno “dogmatico” (ivi, pp.
69-72). Il criterio è secondo me appunto
quello visionario della “Nuova Pentecoste”.
[51]
DÖRMANN, op. cit., IV, tr. it., pp. 4-5.
L’Autore si basa inizialmente sull’opera Alle sorgenti del
rinnovamento, pubblicata dal futuro Papa in polacco nel 1972, nella quale è
già delineata una teologia che l’Autore dimostra articolatamente presente nelle
sue tre Encicliche fondamentali: Redemptor
hominis; Dives in misericordia; Dominum
et vivificantem (si veda la Prefazione al IV volumetto dell’opera,
dedicato alla Dominus et vivificantem sullo Spirito Santo,
intitolata: La chiave di lettura
della teologia di Giovanni Paolo II, tr. it. cit., pp. 2-28; pp. 563-97 dell’edizione tedesca citata).
[52]
Op. cit., p. 5.
[53]
Ivi.
[54]
Ivi, pp. 6-7.
[55]
Ivi, p. 7.
[56]
Ivi.
[57]
Ivi.
[58]
Op. cit., tr. it. cit., I, p. 7.
[59]
Ivi, IV, p. 27.
[60]
Ivi, p. 28.
[61] L’Osservatore
Romano, 29 novembre 2012, p. 5
[62]
Sulla corretta lettura della terminologia dei Padri della Chiesa in proposito,
vedi: DÖRMANN, La teologia di
Giovanni Paolo II etc., I, pp. 61-3;
GHERARDINI, Quod et tradidi vobis, p. 372.
[63]
CIC 1983, c. 751, che riprende il c. 1325 § 2 del CIC del 1917. Con l’espressione “per fede divina e
cattolica” si intende tradizionalmente la fede in una verità di fede definita
come tale dal Magistero straordinario o insegnata come verità di fede da quello
ordinario. Perciò, chi nega
coscientemente ed ostinatamente in tutto o in parte una verità così definita
commette peccato di eresia: peccato mortale
(come ho già ricordato) perché offende direttamente Dio Uno e Trino, il che
implica la dannazione eterna per chi muoia senza essersene emendato.
[64]
DS 256/503; 993/1880.
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