Paolo Pasqualucci : Sessant'anni dal Concilio -- VI : La nuova ed ambigua collegialità promossa dalla costituzione Lumen Gentium sulla Chiesa.

 

Sessant’anni dal Concilio – VI

 

VI -  La nuova ed ambigua collegialità promossa dalla costituzione Lumen Gentium sulla Chiesa,  di  Paolo  Pasqualucci.

 

[Nota previa – Cambiamo adesso argomento, saltando al cap. XV del mio libro, ‘Unam Sanctam. Studio sulle deviazioni dottrinali nella Chiesa Cattolica del XXI secolo, Solfanelli, 2013.  Il capitolo  contiene un’analisi critica dell’art. 22 della Lumen Gentium (=LG).  Il capitolo porta questo titolo:  “Critica di ‘Lumen Gentium’ 22  che sembra aver creato due distinti titolari e due diversi esercizi della suprema potestas iurisdictionis sulla Chiesa universale” -  pp. 209-243.  Prima di arrivare a questo argomento la mia analisi si occupava di temi ugualmente importanti.  Tuttavia non ritengo indispensabile riportarli anche in questa carrellata retrospettiva. Due capitoli (il IX e il X) erano dedicati alle discussioni sul “subsistit in”: a partire dalla critica di mons. Gherardini all’infausto verbo per finire con una rispettosa polemica con il cardinale prof. Karl J. Becker SI, che sosteneva la liceità dell’uso di questo verbo. 

Seguivano poi quattro capitoli (XI-XIV) nei quali si criticava la nuova dottrina dell’Incarnazione apparsa in ‘Gaudium et spes’ 22, l’articolo nel quale si trova la straordinaria frase: “con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo”.  Partendo da questo singolare testo, che richiama un antico errore già combattuto dal Damasceno e dall’Aquinate, mostravo la tendenza della teologia personale di Giovanni Paolo II all’idea eterodossa della “redenzione universale” (come messo in luce dalle approfondite analisi dello scomparso teologo tedesco, prof. Joseph Dörmann) e l’influenza negativa esercitata da de Lubac, principale ispiratore della concezione “antropocentrica” della salvezza diffusa da questi testi conciliari. L’antropocentrismo, questo inusitato ospite del Concilio, si rinveniva, sulla base di uno spunto di Romano Amerio, anche negli artt. 12 e 24 della ‘Gaudium et spes’.  Nel secondo c’è un’altra singolare frase, secondo la quale “in terra l’uomo è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa” -  quando l’Antico Testamento ci dice chiaramente che Dio ha creato tutte le cose “per se stesso”, per la sua gloria.  Come ricordava Amerio, “Universa propter semetipsum operatus est Dominus”, Prov, 16, 4.

Sul tema dell’eterodossa “unione” del Cristo con ogni uomo – intesa da Giovani Paolo II non in senso puramente simbolico bensì in senso ontologico e come tale propalata sino ad oggi nella teologia prevalente – ho scritto parecchio, anche in tempi recenti, ragion per cui non ho ritenuto opportuno riportare qui l’analisi contenuta in ‘Unam Sanctam’.  Per la cronaca, a suo tempo ho pubblicato un saggio di 144 pagine intitolato:  Paolo Pasqualucci, L’ambigua cristologia della redenzione universale.  Analisi di ‘Gaudium eet Spes’ 22, Editrice Ichthys, Albano Laziale, 2009.  A questo testo, rimasto praticamente chiuso nel circuito dei Priorati della Fsspx, ho fatto seguire una versione ridotta, grazie alla stima della quale mi onorava mons. Gherardini:  Paolo Pasqualucci, La Cristologia antropocentrica del Concilio Ecumenico Vaticano II, «Divinitas», LIV, Nova Series, N. 2, 2011, pp. 163-187.

L’art. 22 della costituzione Lumen Gentium sulla Chiesa è molto importante, dal momento che stabilisce un nuovo modo di intendere la collegialità – modo che da un lato sembra in qualche modo intaccare il Primato petrino, dall’altro dà vita ad una concezione sostanzialmente confusa, con due soggetti titolari della suprema potestas di governo sulla Chiesa, il Papa da solo e il Collegio dei vescovi con il Papa, uno dei quali (il Romano Pontefice) può esercitarlo liberamente mentre l’altro (il Collegio con il Papa a capo) non può, dovendo sempre ricorrere all’autorizzazione del Papa per tale esercizio.  Costruzione macchinosa, oltre che confusa.

La novità dottrinale introdotto da LG 22.2 è stata così riassunta da Amerio, con la sua caratteristica capacità di sintesi, nel par. 44 di ‘Iota Unum’.  Questo passo l’ho citato nel mio libro ma ritengo opportuno ripeterlo in via preliminare, permettendo esso di far cogliere subito al lettore il punto essenziale della questione:

“La Nota praevia respinge della collegialità l’interpretazione classica, secondo la quale il soggetto della suprema potestà nella Chiesa è solo il Papa che la condivide, quando voglia, con l’universalità dei vescovi da lui chiamati a Concilio.  La postestà somma è collegiale solo per comunicazione ad nutum del Papa. La Nota praevia respinge parimenti la dottrina neoterica [neomodernista], secondo la quale il soggetto della suprema potestà nella Chiesa è il collegio unito col Papa e non senza il Papa che ne è il capo, ma in guisa tale che quando il Papa esercita, anche solo, la suprema potestà, la esercita in quanto capo appunto del collegio e quindi come rappresentante del collegio che egli ha l’obbligazione di consultare per esprimerne il senso.  È la teorica improntata a quella dell’origine moltitudinaria [democratica] dell’autorità, difficilmente compatibile con la costituzione divina della Chiesa. Rifiutando l’una e l’altra di queste due teorie la Nota praevia tiene fermo che la potestà suprema è sì nel collegio dei vescovi unito al loro Capo, ma che il Capo può esercitarla indipendentemente dal Collegio, mentre il Collegio non può indipendentemente dal Capo”.

Il primato petrino, annoto, sarebbe in tal modo mantenuto ma soprattutto quanto all’esercizio della suprema potestas non quanto alla sua titolarità.  Quest’ultima è ora attribuita anche al Collegio con il suo capo e non più al solo Pontefice.  Quanto al suo esercizio, il Collegio ha sempre bisogno dell’autorizzazione del Capo, il quale può invece esercitarla da solo, senza dover richiedere alcuna autorizzazione al Collegio. 

Sembra difficile negare che qui ci sia stato un mutamento dottrinale e di rilevante portata, nonostante sia stata respinta la tesi più radicale dei Neomodernisti mirante a fare del Papa un semplice rappresentante del Collegio e in sostanza un suo portaparola.

Il lettore si chiederà: perché si cita una Nota praevia, per l’esatttezza ‘Nota explicativa praevia’?  Riprendo Amerio, sempre al par. 44 della sua opera:   “Qui peraltro non è da preterire la singolarità, anche formale, della Nota praevia. In primo luogo, nella storia dei Concili non v’è esempio di un glossema di tal fatta apposto a una Costituzione dogmatica quale è la Lumen Gentium e ad essa organicamente collegato.  In secondo luogo, sembra inesplicabile che nell’atto medesimo in cui promulga un documento dottrinale, il Concilio, dopo tante consultazioni, emendamenti, cribrazioni, accoglimenti e reiezioni di ‘modi’ [riserve], emani un documento così imperfetto da dovervi accompagnare una chiosa esplicativa. Infine una curiosa singolarità di questa Nota praevia:  si dovrebbe leggere prima della Costituzione a cui è allegata e viceversa si legge stampata dopo di essa”.

La vicenda della Nota praevia, imposta soprattutto dalla robusta minoranza rimasta fedele al dogma per costringere il Papa a chiarire le ambiguità della Lumen Gentium, la dice lunga sul clima di confusione e permanente conflitto dottrinale nel quale si è svolto il Vaticano II, a causa dell’azione eversiva degli Ammodernanti, riusciti ad impadronirsi del Concilio stesso, con la complicità dei Papi al tempo regnanti].

 

 

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XV.  CRITICA DI “LUMEN GENTIUM” 22, CHE SEMBRA AVER CREATO DUE DISTINTI TITOLARI E DUE DIVERSI ESERCIZI DELLA SUPREMA POTESTAS IURISDICTIONIS SULLA CHIESA UNIVERSALE

 

 

1. La critica di Mons. Gherardini a LG 22.2 enunciata ma non discussa

Anche per Mons. Gherardini, come per molti altri, la nuova idea di collegialità episcopale proposta dal Vaticano II sembra costituire un notevole “punto di rottura” con la dottrina della Chiesa. Nel Discorso da fare, egli dedica otto dense pagine di riflessioni a questa famosa nuova collegialità[1].  Ma nella sua replica sul punto, il prof. Cantoni non ne discute gli argomenti. Si limita a riportare un’affermazione di carattere generale dell’illustre teologo, a conclusione di due pagine dedicate allo stesso tema in Quod et tradidi vobis.  Ecco il passo:

“[…] anche senz’entrare nell’esame critico della discussa collegialità dei vescovi, è per me estremamente facile rilevare il contrapporsi della collegialità, quale fu dal Vaticano II teorizzata, alla struttura originariamente comunionale della Chiesa ed alla testimonianza della Tradizione apostolica.  Contrapposizione:  dunque rottura e discontinuità”[2].

La nuova collegialità non si armonizzerebbe con il concetto originario della “struttura comunionale” della Chiesa.  “Collegialità” contro “Comunione”, dunque.  Per quali motivi, noi lettori non se siamo informati.  Interessa invece al prof. Cantoni esporre la sua propria difesa della legittimità della nuova concezione.  Di contro alle affermazioni di Mons. Gherardini, l’Autore afferma infatti:  “Io direi invece che se c’è un argomento che può costituire insieme verifica ed esemplificazione della legge dello sviluppo della Chiesa è proprio quello della “collegialità”, avendo cura di collegare l’argomento della collegialità con quello della sacramentalità dell’episcopato perché essi si trovano strettamente connessi come l’effetto alla sua radice”[3].

Gli argomenti utilizzati dal prof. Cantoni coincidono più o meno con quelli dell’attuale vulgata, ripetuta da tutti coloro che sostengono esser la nuova idea di collegialità perfettamente in linea con la dottrina della Chiesa e niente affatto pericolosa per il Primato del Sommo Pontefice.  Tuttavia, come già nel caso del cardinale Becker, l’Autore non mi sembra in grado di concludere le sue dimostrazioni in modo soddisfacente, sul piano del discorso lineare.  Come si è visto, il cardinale Becker, per venire a capo delle ambiguità conciliari è costretto ad ipotizzare l’oscura  nozione di “azione in senso traslato” dello Spirito Santo sulle Comunità acattoliche.  Il ragionamento del prof. Cantoni, come si vedrà, si appiglia alla fine all’idea del “mistero” (valvola di sfogo di tutti i Modernismi) per giustificare in qualche modo l’idea contraddittoria di due titolari del potere sovrano di giurisdizione sulla Chiesa, ricavabile dall’art. 22.2 di LG.  Ma procediamo con ordine.

 

2.  Il dettato di LG 22.2 non avrebbe inficiato il Primato

La continuità tra il Vaticano I, che chiarisce e ribadisce il concetto del Primato di Pietro, primato sempre esistito nella Chiesa, e il Vaticano II che introduce un nuovo concetto di collegialità episcopale, costituisce un punto fermo per il Nostro.

“Il Vaticano II si propose in modo esplicito di continuare il concilio Vaticano I, in particolare integrando con una trattazione dell’episcopato quanto insegnato sul primato del Papa.  Che fosse una integrazione e non una correzione fu espresso in modo evidente nel riprendere e riaffermare quanto precedentemente deciso [dal Vaticano I] sul primato del Papa.  Le prerogative del Sommo Pontefice rimangono quindi esattamente nei termini solennemente definiti dal concilio precedente”[4].

Integrazione, dunque. E difatti gli artt. 18 e 25 della LG riaffermano espressamente la dottrina del Primato, richiamandosi al dogmatico Vaticano I[5].  Ma ciò non toglie che nel Vaticano II ci siano state novità tali da richiedere per l’appunto un esame approfondito della loro consonanza al Magistero anteriore.  E difatti, ora il pastorale Vaticano II ci viene a dire (LG 21) che la consacrazione del vescovo conferisce di per sé, oltre al potere d’ordine, anche quello di insegnare e governare, ossia il potere di giurisdizione, senza più bisogno dell’ulteriore intervento del Papa con quell’atto che si chiama “missio” o “institutio canonica”.  La “missio” è declassata ad atto indispensabile per l’esercizio dei “munera” del vescovo, come spiegano LG 24.2 e la Nota explicativa praevia, § 2, fatta apporre in appendice alla LG da Paolo VI per rispondere alle gravi obiezioni sollevate dai difensori della Tradizione. La “missio canonica” designa adesso “la facoltà concessa dal Pontefice [ai vescovi] di trattare collegialmente una determinata materia” vale a dire di esercitare la suprema potestas di giurisdizione su tutta la Chiesa in quella determinata materia[6].  Un cambiamento davvero notevole, che investe la dottrina e quindi si fa sentire anche nella prassi visto che dottrina e prassi sono sempre intimamente connesse.  Inoltre, invece di dire (come nel Codice di diritto canonico del 1917 c. 219) che il primato del Pontefice (la plena et suprema iurisdictionis potestas) è “di diritto divino” (iure divino), ci si limita ad apporvi l’aggettivo “sacro” (LG 18.2), che nel contesto appare meramente descrittivo e comunque generico.

Recita infatti LG 21, dedicato alla “sacramentalità dell’episcopato”: “[…] La consacrazione episcopale conferisce pure [oltre alla “pienezza del sacramento dell’ordine”], con l’ufficio di santificare, gli uffici di insegnare e governare [Episcopalis autem consecratio, cum munere sanctificandi, munera quoque confert docendi et regendi];  questi però, per la loro natura, non possono essere esercitati [exerceri possunt] se non nella comunione gerarchica col capo e con le membra del collegio” (LG 21.2).  L’art. 22.2 completa il quadro:  “[…] D’altra parte, l’ordine dei vescovi [ordo autem episcoporum] […] è anch’esso insieme col suo capo il romano Pontefice, e mai senza questo capo, il soggetto di una suprema e piena potestà su tutta la Chiesa, sebbene tale potestà non possa esser esercitata se non col consenso del romano Pontefice [una cum Capite suo Romano Pontifice, et numquam sine hoc Capite, subiectum quoque supremae ac plenae potestatis in universam Ecclesiam existit, quae quidem potestas nonnisi consentiente Romano Pontifice exerceri potest]”.

Nel prosieguo, LG 22.2 riconosce ovviamente che “solo Simone è stato posto come pietra e clavigero della Chiesa e pastore di tutto il suo gregge”.  Tuttavia, specifica che “l’ufficio di legare e sciogliere (ligandi ac solvendi munus), che è stato dato a Pietro (Mt 16.19), è noto esser stato pure concesso al collegio degli apostoli, congiunto con il suo capo [collegio quoque apostolorum, suo Capiti coniuncto]”.  Cristo ha dunque conferito il potere di “legare e sciogliere” ossia il potere d’ordine non tanto ai singoli Apostoli quanto al “collegio”, sempre con Pietro a capo, ed anzi avrebbe Egli stesso istituito il “collegio” degli Apostoli con siffatto conferimento.  Nel collegio, prosegue LG 22.2, i vescovi, “rispettando fedelmente il primato e la preminenza del loro capo, esercitarono la propria potestà per il bene dei loro fedeli, anzi di tutta la Chiesa”.  Nel Concilio ecumenico, “la suprema potestà che questo collegio possiede su tutta la Chiesa, è esercitata in modo solenne”[7].

   La prima domanda che il fedele si pone è questa:  come può l’ordine o collegio dei vescovi esser titolare (subiectus) di una suprema e piena potestà (di giurisdizione) su tutta la Chiesa, se il Signore ha posto il solo Pietro quale “pietra”, “clavigero” e “pastore di tutto il gregge”?  Può perché, ci dice il testo, “è noto che questo potere è stato concesso anche al collegio degli Apostoli, sempre congiunto con il suo capo”.  Chi non conosce i Testi e la dottrina della Chiesa può credere quindi che Cristo abbia dato al Collegio degli Apostoli sub Petro lo stesso potere che aveva conferito a Pietro.  Qual è questo potere?   Di giurisdizione o d’ordine?  Il testo non specifica.  Dice infatti:  “suprema e piena potestà su tutta la Chiesa”. Omette: “di giurisdizione”, omissione che tuttavia non impedisce di far capire che si tratta proprio della potestà di giurisdizione (e di quale altra, altrimenti?).  Subito dopo, tuttavia, è costretto a mollare l’osso, se così posso esprimermi, perché deve precisare che il potere conferito a Pietro e agli Apostoli è in realtà quello di “sciogliere e legare”; è in realtà il solo potere di ordine, strettamente sacerdotale, concernendo esso la facoltà da Nostro Signore data individualmente agli Apostoli di rimettere o non i peccati (Mt 18,18; Gv 20,18).  Rimettere o non i peccati in persona Christi non ha nulla a che vedere col governo della Chiesa.  LG 22.2 rimescola dunque le carte in tavola.

Inoltre, dobbiam credere che, quando Nostro Signore ha detto agli Apostoli e a Pietro, come aveva già preannunciato a Pietro:  “ In verità vi dico che tutto ciò che voi legherete sulla terra, sarà legato in cielo e tutto ciò che voi scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo” (Mt 18,18), li abbia costituiti in “collegio”, con a capo Pietro?  Collegio è nozione giuridica precisa, configura un soggetto dotato di capacità giuridica, titolare di diritti e doveri.  A meno che non lo si intenda in senso solo morale, spirituale.  Ora, il conferimento del solo potere d’ordine a tutti gli Apostoli, che è un potere di rimettere individualmente i peccati, non si vede come possa far venire in essere un soggetto giuridico unitario e quindi un “collegio”.  Del resto la Chiesa, a quella fase della missione di Cristo, era ancora in fieri: Egli la stava costruendo per gradi, cominciando dai Dodici.  E lo era ancora dopo la sua Resurrezione.  Il fantomatico “collegio” lo si può immaginare solo facendo finta che il conferito potere d’ordine fosse in realtà un potere di giurisdizione.  Bisogna dire, dunque, che la prova scritturale addotta da LG 22.2 per giustificare la sua nuova dottrina, non regge all’analisi imparziale dei Testi (che, del resto, mai erano stati letti in quel modo in passato).

Lumen Gentium 22.2 sembra anche mutare la nozione di Concilio ecumenico.  Dice infatti:  nel Concilio ecumenico viene esercitata in modo solenne “la suprema potestà che questo collegio possiede su tutta la Chiesa”.  Vale a dire:  nel Concilio ecumenico si ha esercizio solenne della potestà che il soggetto giuridico collegio (presieduto dal Papa) possiede su tutta la Chiesa.  Il Concilio ecumenico diventa allora esercizio della suprema potestà della quale è titolare il Collegio dei vescovi.  Ma non è così (se non erro) che si è inteso nei secoli il significato del Concilio Ecumenico.  Esso era concepito come manifestazione della suprema potestà di giurisdizione del Papa, del Papa da solo, in quanto unico capo della Chiesa universale, non in quanto capo del “collegio” dei vescovi; del Papa, che decideva di associarsi straordinariamente i vescovi dispersi per il mondo “in consiglio” al fine di prendere assieme a loro le opportune decisioni su importanti materie, concernenti in genere la fede e i costumi.  La “collegialità” non era quindi anteriore al Concilio ecumenico:  essa nasceva nel Concilio stesso e finiva con esso.  Invece adesso la si vuol far preesistere e il Concilio ecumenico ne sarebbe appunto una manifestazione.

Questi dunque, e spero di averli indicati tutti, i gravi problemi posti da una costituzione innovativa come la Lumen gentium, che indubbiamente sembrava portare un duro colpo al Primato, nonostante le ripetute dichiarazioni di volerlo fedelmente mantenere, aprendo così una grave crisi istituzionale nella Chiesa.

Simili novità e mutazioni, anche per chi le vuole intendere come semplice “integrazione” della dottrina precedente, non possono non far sorgere seri problemi all’interprete.  Uno dei più gravi è quello relativo all’indipendenza dal Papa che la nuova dottrina garantirebbe ai vescovi.

“Il vescovo è presentato – spiega il prof. Cantoni – come il grado del sacramento dell’ordine in cui si realizza la pienezza del sacerdozio.  In virtù del sacramento, al vescovo compete il triplice “ufficio” (munus) di santificare, insegnare e governare […] La cosa non fa problema dal punto di vista dell’ufficio di santificazione, cioè del potere di ordine.  Presenta dei problemi dal punto di vista del potere di governo:  potrebbe infatti essere erroneamente interpretata come il conferimento di un potere di governo dato sacramentalmente – cioè ex opere operato – che autorizza ad un esercizio in piena autonomia rispetto al Papa, compromettendo in radice il suo primato”[8]. 

Un potere di giurisdizione conferito “sacramentalmente” opererebbe con la stessa efficacia del Sacramento che lo conferisce, efficacia che si attiva di per sé, oggettivamente, grazie al fatto (all’opus) del Sacramento, indipendentemente dalle intenzioni di colui che lo riceva.  In tal modo al vescovo verrebbe conferito un potere di giurisdizione intrinsecamente indipendente da quello del Pontefice.  Nel mutamento operato dal Concilio era dunque insito il pericolo di scindere la comunione tra i vescovi e il Papa, con l’attribuire appunto ai vescovi un potere di giurisdizione del tutto autonomo rispetto a Pietro, quanto alla sua origine, posta nel Sacramento della Consacrazione episcopale.   La nuova dottrina, che in realtà opera un’autentica rivoluzione nei rapporti tra i vescovi e il Papa, crea dunque un problema non facile a risolversi. 

 

3.  I difficili problemi creati dalla nuova dottrina

Infatti, attribuendosi ora il potere di giurisdizione (insegnamento e governo) già alla consacrazione sacramentale di colui che diventerà vescovo, ed eliminata la pontificia missio canonica che sino ad ora lo attribuiva, sembra che il vescovo sia reso indipendente dal Papa, dato che la titolarità di questo potere di giurisdizione non dipende più da quell’atto  del Papa (la missio o istituzione canonica, appunto) nel quale si manifestava in modo tipico il suo Primato di giurisdizione sull’intera Chiesa.  Il dilemma che simile nuova concezione provoca, è il seguente:  come conciliare il Primato di giurisdizione del Santo Padre (che il Concilio ribadisce per due volte di voler mantenere) con la titolarità di un potere di giurisdizione conferito ai vescovi senza più bisogno dell’intervento dell’atto di giurisdizione pontificio rappresentato dalla missio canonica?  La soluzione la si è ricercata nella distinzione tra titolarità di un diritto e suo esercizio da parte del titolare, esercizio che può essere limitato da un’istanza superiore, la cui autorizzazione sia ritenuta indispensabile al medesimo.  Che questa sia la soluzione prospettata, ciò risulta sia dal tenore dei citati artt. 21.2 e 22.2 della LG  che dalla Nota Explicativa Praevia, §§ 2-4[9].

 L’intera costruzione è apparsa a molti e a ragione artificiosa  e contraddittoria.  Titolarità di un diritto e suo esercizio sono certamente due momenti diversi tra loro, per quanto collegati, e possono separarsi nella prassi.  Così il creditore può decidere di non avvalersi dell’esercizio del suo diritto nei confronti del debitore, titolare passivo del rapporto di obbligazione.  Ma non è istituzionalmente vincolato all’autorizzazione di un terzo per esercitare il suo diritto.  Se il paragone con un diritto soggettivo quale il diritto di credito appare non adatto alla materia in esame, consideriamo allora un diritto pubblico come quello rappresentato dalla sovranità stessa.  La summa potestas iurisdictionis su tutta la Chiesa è infatti il diritto del soggetto che detiene il potere sovrano nella Chiesa e consta di una serie di poteri e prerogative.  Questo diritto sovrano lo si vuole adesso attribuire anche ad un soggetto collettivo (l’ordine dei vescovi con il Papa a capo) che però non può mai esercitarlo senza l’autorizzazione del suo stesso capo, il Romano Pontefice.  Che summa potestas sarebbe allora questa, che non può mai esercitarsi liberamente?  E perché non lo può?  Perché il Concilio ha pur dovuto riconoscere il Primato di Pietro (artt. 18 e 25 LG, citati).  Il mantenimento del Primato (impossibile del resto ad eliminarsi senza cadere nell’eresia formale) comporta l’impossibilità per l’ordine dei vescovi di esercitare la summa potestas sovrana loro riconosciuta, senza l’autorizzazione del Pontefice loro capo.  Ma allora – si è detto – questa summa potestas episcopale non è veramente tale  perché un diritto sovrano che non possa liberamente esercitarsi ma sia di per sé sottoposto a limiti, non può considerarsi effettivamente tale.  Si tratterebbe di un diritto puramente astratto, vuoto di contenuto. 

Nello stesso tempo, però, dei limiti vengono posti anche al Primato di giurisdizione del Papa.  Infatti, si riconosce il Primato nella sua interezza e contemporaneamente si toglie al Papa il potere di attribuire ai vescovi la potestà di giurisdizione nella loro diocesi con la missio o istituzione canonica.  Come si è visto, il Papa può ora solamente autorizzare i vescovi all’esercizio di un potere di giurisdizione la cui titolarità dipende dalla consacrazione stessa.  Molti ritengono che in questo modo il Primato sia rimasto intatto.  Ma a me non sembra.  Per il semplice motivo che nel punto decisivo del rapporto tra Pietro e l’episcopato, si è fatto del vescovo un soggetto indipendente quanto alla titolarità del suo potere di giurisdizione.  Mutazione assai rilevante. E anche se l’esercizio di questo potere da parte dei vescovi è sempre vincolato all’autorizzazione pontificia, l’indipendenza della sua titolarità resta e non manca di far sentire i suoi effetti, per esempio nel sentimento e negli atteggiamenti di indipendenza dal Papa che appare evidente in molte conferenze episcopali, che costituiscono l’organo nel quale si attua concretamente la nuova collegialità.  Proprio a causa di questa indipendenza nella titolarità del diritto di giurisdizione dei vescovi, il Cattolicesimo appare a molti sempre più avviato a disintegrarsi in un coacervo di Chiese nazionali, che si vengono costruendo attorno alle rispettive Conferenze episcopali, alle quali il Concilio ha anche riconosciuto l’inaudito diritto (anche questo formalmente vincolato all’autorizzazione della Santa Sede) di elaborare forme liturgiche nuove, che tengano conto delle tradizioni locali, tradizioni da insegnarsi anche nei seminari locali.  E ciò favorisce il formarsi di  Chiese nazionali o continentali, sempre più autonome nei fatti da Roma, nutrita quest’autonomia per l’appunto da una formazione seminariale ed una liturgia adattate al genius loci:  afro-cattolica, indo-cattolica, catto-amerindia e chi più ne ha più ne metta.

Il fatto è, come sottolineò con la consueta lucidità Romano Amerio, che la Nota praevia, cui Paolo VI fu costretto dalla reazione dei difensori della Tradizione della Chiesa, riuscì a parare il colpo portato dai Novatori solo in parte, perché l’attribuzione del potere di giurisdizione su tutta la Chiesa al Collegio dei vescovi, sia pure sempre sotto il Papa, rimaneva.

“La Nota praevia respinge della collegialità l’interpretazione classica [ma forse bisognerebbe dire ortodossa], secondo la quale il soggetto della suprema potestà nella Chiesa è solo il Papa che la condivide, quando voglia, con l’universalità dei vescovi da lui chiamati a Concilio.  La potestà somma è collegiale solo per comunicazione ad nutum del Papa.  La Nota praevia respinge parimenti la dottrina neoterica [neomodernista], secondo la quale il soggetto della suprema potestà nella Chiesa è il collegio unito col Papa e non senza il Papa che ne è il capo, ma in guisa tale che quando il Papa esercita, anche solo, la suprema potestà, la esercita in quanto capo appunto del collegio e quindi come rappresentante del collegio che egli ha l’obbligazione di consultare per esprimerne il senso.  È la teorica improntata a quella dell’origine moltitudinaria [democratica] dell’autorità, difficilmente compatibile con la costituzione divina della Chiesa.  Rifiutando l’una e l’altra di queste due teorie la Nota praevia tiene fermo che la potestà suprema è sì nel collegio dei vescovi unito al loro Capo, ma che il Capo può esercitarla indipendentemente dal Collegio, mentre il Collegio non può indipendentemente dal Capo”[10].

Tutto a posto, quindi, e niente in ordine, come si suol dire.  In effetti, il quadro generale sembra confuso.  1)  Si mantiene ovviamente il Primato nei termini definiti dal Vaticano I;  2)  Lo si diminuisce limitando la portata dell’istituzione canonica al solo esercizio della potestà di giurisdizione del vescovo;  3) Si attribuisce il potere di giurisdizione su tutta la Chiesa anche all’ordo o collegio dei vescovi, sia pure sempre sotto il governo del Papa;  4) Si impedisce al collegio dei vescovi di esercitare la summa potestas indipendentemente dall’autorizzazione del Papa;  5)  Non si capisce quale sia il limite posto all’esercizio effettivo della potestà di giurisdizione del singolo vescovo.  Si è detto prima:  quante “Chiese” ci sono per il Vaticano II (supra, cap. II, 6)?  Qui viene spontaneo chiedersi:  quanti titolari della suprema potestà di giurisdizione ci sono ora nella Chiesa Cattolica e in quale rapporto stanno tra di loro?  Al posto del bimillenario regime di monarchia elettiva di diritto divino si è instaurato un confuso regime misto, mezzo monarchico e mezzo oligarchico per ciò che riguarda la titolarità della suprema potestà di giurisdizione sulla Chiesa.  E i titolari della suprema potestà di giurisdizione sono ora due (il Papa da solo e il Collegio con il Papa).  E ci sono anche due esercizi della medesima, come ha sottolineato Mons. Gherardini, quello non vincolato del Romano Pontefice e quello vincolato del Collegio.

 

4.  Il nuovo Codice di Diritto Canonico è sulla stessa linea del Concilio. 

Il nuovo Codex Iuris Canonici (CIC), del 1983, per ciò che riguarda la figura del Pontefice recepisce integralmente il nuovo concetto della collegialità.  Infatti, se noi lo confrontiamo con il Codice del 1917, ordinato da S. Pio X e promulgato da Benedetto XV appunto nel 1917, colpisce innanzitutto un’omissione che significativa. Nel canone 219 del CIC del 1917 si stabilisce che:  “Il Romano Pontefice, legittimamente eletto, ottiene per diritto divino la piena e suprema potestà di giurisdizione, immediatamente all’accettazione dell’elezione [Romanus Pontifex, legitime electus, statim ab acceptata electione, obtinet, iure divino, plenam supremae iurisdictionis potestatem]”.  Nel Codice del 1983, invece, il c. 332 § 1, nel ripresentare il medesimo concetto, ha lasciato cadere l’inciso “per diritto divino”.  Esso recita:  “il Sommo Pontefice ottiene la potestà piena e suprema sulla Chiesa con l’elezione legittima, da lui accettata, insieme con la consacrazione episcopale [Plenam et supremam in Ecclesia potestatem Romanus Pontifex obtinet legitima electione ab ipso acceptata una cum episcopali consecratione].  Di conseguenza l’eletto al sommo pontificato che sia già insignito  del carattere episcopale ottiene tale potestà dal momento dell’accettazione.  Che se l’eletto fosse privo del carattere episcopale, sia immediatamente [statim] ordinato vescovo”.  

Secondo il piano-benedettino, che ovviamente ignora ogni forma di “collegialità”, accettando l’elezione il neoeletto ottiene la suprema potestas iurisdictionis su tutta la Chiesa nella sua sola persona (uti singulus) per diritto divino.  Secondo il CIC del 1983, l’ottiene con la semplice accettazione dell’elezione legittima.  In quest’ultima formulazione – mancante dell’inciso “iure divino” – sembra che la summa potestas il neoeletto l’ottenga dalla sola “elezione legittima” ossia dal Conclave di cardinali che l’ha eletto, essi stessi parte del Collegio dei vescovi, quasi fosse la delega di un potere spettante al Collegio, concessa dai vescovi-cardinali, riunitisi ad eleggere il Capo del loro Collegio.  Il testo a mio avviso legittima un’interpretazione del genere, che tuttavia non si può accettare perché, come dimostrano i Vangeli e come si è sempre insegnato, S. Pietro fu posto formalmente a capo della Chiesa da Nostro Signore risorto, non dagli altri Apostoli (Gv 21, 15 ss.).  Di tutta la Chiesa (“pasci i miei agnelli”), ancora in fieri e quindi di tutti i convertiti a venire, indistintamente, non del solo “collegio” degli Apostoli (che comunque non costituivano un “collegio” in senso giuridico ma una comunione spirituale, tra loro e con Pietro, retta dallo Spirito Santo).

Il CIC attualmente vigente tratta della figura del “Romano Pontefice” in sei canoni (330-335).  Non vi ho trovato alcun esplicito riferimento al fondamento “di diritto divino” della suprema potestas del Romano Pontefice, che qualifica da sempre la Chiesa militante come monarchia elettiva di diritto divino.  Del resto, nemmeno nella Lumen Gentium (come si è visto) si ricorda esplicitamente l’origine “di diritto divino” della potestà di giurisdizione del Papa, che sembra visto soprattutto come “Capo del Collegio dei vescovi”, allo stesso modo del posteriore CIC.  E non lo ricorda nemmeno la Nota praevia, se non erro.  Né nella LG né nel CIC del 1983 esiste una sezione dedicata al Papa da solo, presente invece nel piano-benedettino (cc. 218-221):  da solo, indipendentemente dal Collegio dei vescovi.  Nell’attuale CIC il titolo del capitolo che tratta del Sommo Pontefice è:  “Il Romano Pontefice e il Collegio dei vescovi”, echeggiante quello dell’art. 22 della LG:  “il Collegio dei vescovi e il suo Capo”.

Ma consideriamo un’altra significativa differenza tra il Codice attuale e il precedente.  Il c. 218 § 2 del CIC del 1917 stabilisce che la suprema e piena potestà del Papa “è veramente episcopale, ordinaria ed immediata [vere episcopalis, ordinaria et immediata] sia su tutte e singole le chiese, sia su tutti e singoli i pastori e i fedeli, indipendente da autorità umana qualsivoglia”.  Con l’accettazione, il Romano Pontefice, anche se non era vescovo, acquisiva dunque iure divino una “potestas vere episcopalis” su tutta la Chiesa.  E difatti, il Papa è stato sempre considerato in quanto tale “Catholicae Ecclesiae Episcopus”, in base a quello stesso “diritto divino” che gli conferiva il potere supremo nella sua pienezza.  Ciò significa che, se il neoeletto non era vescovo, non aveva bisogno di diventarlo, di esser consacrato prima di accettare l’elezione.  Il diventare iure divino Vicario di Cristo in terra, Capo della Chiesa visibile o militante, lo elevava di per sé, intrinsecamente, all’episcopato, visto che gli conferiva la potestà d’ordine e giurisdizione del vescovo su tutta la Chiesa[11].

Cosa afferma, invece, il CIC del 1983?  Sembra ripetere il medesimo concetto del piano-benedettino.  Tuttavia, c’è una sensibile variante.  Il CIC vigente non dice che il neoeletto Papa riceve la “potestà episcopale”, dice che ottiene la “consacrazione episcopale".  Si tratta forse della stessa cosa?  A me non sembra.  Tant’è vero che il testo aggiunge:  se l’eletto non era vescovo, sia immediatamente consacrato (ordinato) vescovo.  Altrimenti, non può ottenere la suprema potestas al momento dell’accettazione!  Il testo non dice espressamente così, ma questo è quanto si ricava dall’interpretazione più ovvia della frase:  “di conseguenza l’eletto al sommo pontificato che sia già insignito del carattere episcopale ottiene tale potestà dal momento dell’accettazione”.  Di conseguenza (qua re):  l’ottiene dal momento dell’accettazione chi era già vescovo; chi non lo era, deve esser ordinato vescovo, per ottenerla ovvero per produrre un’accettazione valida.  L’eletto che non era vescovo deve diventarlo subito se vuol diventare Papa.  Mi chiedo:  lo status vescovile non sembra esser posto qui come condizione di validità dell’accettazione, da parte del neoeletto?  Da tutto ciò, cosa ricava il semplice fedele?  Che nella mente del CIC del 1983 la suprema potestà di giurisdizione non è iure divino veramente, intrinsecamente episcopale, come nel piano-benedettino.  Occorre, invece, esser consacrato vescovo per accettare validamente l’elezione al Sacro Soglio, ragion per cui la suprema potestas sembra conferita più iure episcopali che iure divino, quanto alla sua fonte.  Nella logica, appunto, del nuovo concetto della collegialità.

 

5.  La dottrina tradizionale della Chiesa sulla collegialità:  Il Vaticano I, Leone XIII, Pio XII

La dottrina preconciliare, che il Vaticano II afferma di voler  mantenere per ciò che riguarda il Primato, era invece semplice e lineare.  Non creava dualismi né confusione.  Poteva sembrare autoritaria, ma a chi?  Agli spiriti inquieti, dalla fede incerta, avidi di cose nuove, attratti dai falsi valori del Secolo e quindi portati alla ribellione. Mi sembra opportuno esporre brevemente questa dottrina, in modo da offrire al lettore, per quanto sta alle mie possibilità, tutti i termini essenziali della complessa questione.

Il Vaticano I, nella costituzione dogmatica Pastor aeternus, prima sulla Chiesa di Cristo, del 18 luglio 1870,  ma ultima del Concilio per le note vicende storiche, di quattro brevi capitoli, definisce nei primi tre la natura e portata del Primato di Pietro e nell’ultimo il dogma dell’infallibilità pontificia.  Da questa costituzione risulta che il Sommo Pontefice è l’unico titolare del potere supremo di giurisdizione su tutta la Chiesa.  Egli non condivide questo potere con nessun altro, né individuo né organo, in quanto gli deriva direttamente da Dio, così come derivò da Dio a S. Pietro, con il quale il vescovo di Roma ha mantenuto intatta la legittima successione apostolica.  Dopo aver citato le ben note fonti evangeliche (Gv 1, 42; Mt 16, 16-19; Mt 20,28; Gv 21, 15-17)  ed essersi richiamato alla definizione del Primato già contenuta nel Concilio ecumenico di Firenze del 1439, il Vaticano I insegnò e dichiarò che:  “la Chiesa Romana, per disposizione del Signore, ha un primato di potere ordinario su tutte le altre; e che questa potestà di giurisdizione del Romano pontefice, essendo veramente episcopale, è immediata [su tutta la Chiesa Cattolica]:  quindi i pastori e i fedeli, di qualsiasi rito e dignità, sia considerati singolarmente che nel loro insieme, sono tenuti al dovere della subordinazione gerarchica e della vera obbedienza verso di essa, non solo in ciò che riguarda la fede e i costumi, ma anche in ciò che riguarda la disciplina e il governo della Chiesa sparsa su tutta la terra.  Di modo che, conservando l’unità della comunione e della professione della stessa fede col Romano pontefice, la Chiesa di Cristo sia un solo gregge sotto un solo sommo pastore (Gv 10, 16).  Questa è la dottrina della verità cattolica, dalla quale nessuno può allontanarsi senza mettere in pericolo la fede e la salvezza [sue personali]”[12].

Da ciò consegue che il Romano Pontefice “è il giudice supremo dei fedeli (Pio VI, 1796), e che in qualsiasi causa riguardante la giurisdizione ecclesiastica, si può ricorrere al suo giudizio (II Conc. di Lione, 1274).  Nessuno, invece, potrà riesaminare un giudizio pronunziato dalla sede apostolica – di cui non vi è autorità maggiore – come a nessuno è lecito giudicare di un giudizio dato da essa (Nicola I, IX sec.)”.  Ed errano gravemente coloro che ritengono “esser lecito appellare dalle sentenze dei Romani Pontefici al Concilio ecumenico, come ad una autorità superiore al Romano Pontefice”.  Perciò, conclude il cap. III della costituzione, sia scomunicato “chi dirà che il Romano Pontefice ha solo un potere di vigilanza o di direzione, e non, invece, la piena e suprema potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa, non solo in materia di fede e di costumi, ma anche in ciò che riguarda la disciplina e il governo della Chiesa universale; o che egli ha solo una parte principale, e non, invece, la completa pienezza di questa potestà [aut eum habere tantum potiores partes, non vero totam plenitudinem huius supremae potestatis]; o che essa non è ordinaria ed immediata, sia su tutte le singole chiese, che su tutti i singoli pastori”[13].

Parole chiarissime, che non lasciano adito ad ambiguità di sorta.  Ma questa “piena potestà su tutta la Chiesa” non rimpicciolisce troppo i vescovi; non ne faceva, come malignò il Cancelliere Bismarck, dei semplici “funzionari” del Papa?  In nessun modo.  È sempre la Pastor aeternus a precisare:  “Questa potestà del Sommo Pontefice è lontana dal recare pregiudizio alla postestà ordinaria ed immediata della giurisdizione episcopale – in virtù della quale i vescovi, che per disposizione dello Spirito Santo (At 20,28) successero agli Apostoli, in qualità di veri pastori, pascono e governano ciascuno il gregge a lui affidato [tamquam veri pastores assignatos sibi greges singuli singulos pascunt et regunt]”[14].

Come si è ricordato, nella Tradizione della Chiesa il potere d’ordine (che conferisce la capacità di celebrare la S. Messa e di amministrare i Sacramenti) era conferito ai vescovi dalla consacrazione episcopale.  Non però il potere di giurisdizione.  Esso veniva attribuito dal Papa con un atto a parte (la missio canonica) e non valeva per la Chiesa universale ma solamente per la diocesi della quale era titolare il vescovo. Il Primato del Papa è primato di giurisdizione su tutta la Chiesa Cattolica, non d’ordine.  Dal punto di vista dell’Ordine, il Pontefice ha la stessa potestà dei vescovi.  Il Papa può scomunicare un vescovo o convocare un Concilio ecumenico.  Il vescovo non può scomunicare il Papa né convocare un Concilio ecumenico.  Ma scomunica e convocazione di un Concilio sono atti amministrativi, manifestazioni della potestà di governo ed insegnamento del Papa su tutta la Chiesa e quindi del Primato di giurisdizione che egli ha su tutta la Chiesa, vescovi compresi.  Con il diritto preconciliare, osserva Amerio, l’autorità del vescovo nella sua diocesi era “precisa ed individuale”.  Successore degli Apostoli, il vescovo ne era l’effettivo pastore, capo.  La reggeva “con potestà ordinaria, nello spirituale e nel temporale, esercitandovi potestà legislativa, giudiziaria e coattiva”[15].

Il Vaticano I manteneva ovviamente la verità di fede secondo la quale i vescovi costituiscono “una gerarchia di diritto divino che affianca il pastore supremo nella guida della Chiesa” e Pio IX confermò il concetto in una Lettera Apostolica del 4.3.1875 nella quale si approvava l’esposizione della retta dottrina sull’episcopato fatta dai vescovi tedeschi contro Bismarck[16].  La “guida” della Chiesa il “pastore supremo” la esercitava da solo e non come capo di un collegio; collegialmente con i vescovi solo quando li convocava tutti in un Concilio ecumenico, nell’ambito del quale i presuli operavano come un unico soggetto, sempre con il Papa come loro capo.

Leone XIII specificò ulteriormente la dottrina della Chiesa sulla questione, nell’Enciclica Satis cognitum sull’unità della Chiesa, del 29 giugno 1896.  Il Papa, soffermandosi a lungo sul significato del Primato, menzionava pi­­ù volte il ruolo dei vescovi.  Essi, dispersi nell’orbe cattolico, costituiscono un “ordo” che non è però inteso dal Papa – annoto – come un collegio nel senso giuridico proprio, dotato, sempre con il Papa a suo capo, di potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa, come lo vorrà proporre LG 22.2.  I vescovi, dispersi nell’orbe cattolico, costituiscono un “collegio” in senso solamente morale, spirituale a meno che non siano riuniti in Concilio ecumenico con il Pontefice, sotto la sua autorità e per mandato di quest’ultimo, diventando così pro tempore un soggetto unitario anche dal punto di vista giuridico, come si è detto.  Il Papa governa su di essi.  La loro potestà di governo ed insegnamento è individuale ed è limitata alla diocesi di competenza. 

Solo il Papa ha uti singulus (ossia da solo) potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa.  “Come è necessario – insegnava Leone XIII – che l’autorità di Pietro si perpetui nel vescovo di Roma, così i vescovi, come successori degli Apostoli, ne ereditano l’ordinaria potestà, e quindi l’ordine episcopale necessariamente tocca l’intima costituzione della Chiesa.  Benché essi non abbiano una somma, piena e universale autorità, tuttavia non devono ritenersi come dei semplici “vicari” dei vescovi di Roma, poiché hanno una potestà propria, e con verità si dicono presuli “ordinari” dei popoli che reggono” (DS 3307).  Tuttavia, proseguiva il Pontefice, “il potere del vescovo di Roma è supremo, universale e indipendente, mentre quello dei vescovi è ristretto entro certi confini [quelli della sua diocesi] e non è del tutto indipendente”.  E Leone XIII inseriva qui un noto testo di S. Tommaso:  “ Non è conveniente che due siano costituiti sopra lo stesso gregge con poteri uguali; ma non ripugna che due, dei quali uno è superiore all’altro [come lo è il Papa rispetto al vescovo e il vescovo rispetto al parroco], siano costituiti sullo stesso popolo; così sullo stesso popolo vi sono immediatamente e il parroco e il vescovo e il Papa”[17].    

Mi sembra che il pensiero di S. Tommaso colga limpidamente il punto essenziale, nel rapporto tra i vescovi e il Papa:  “non è conveniente che due siano costituiti sopra lo stesso gregge con poteri uguali”.  Vale a dire:  non ci può essere un dualismo nella suprema potestà di giurisdizione sulla Chiesa.  Il potere di insegnare e governare nei confronti dell’intero gregge non può essere attribuito allo stesso titolo a due soggetti distinti:  il Papa da un lato, il collegio dei vescovi con il Papa che ne è il capo, dall’altro.  Il fatto che tale potere lo si voglia oggi attribuire anche ad un soggetto che è un collegio sempre inteso con il suo capo naturale, che è il Papa, non cambia la sostanza della cosa, dal momento che il Pontefice gode della summa potestas sull’intera Chiesa Cattolica non come capo del collegio dei vescovi ma uti singulus, ossia in quanto Sommo Pontefice.  Uti singulus perché, accettando egli l’elezione è Nostro Signore che l’investe di quel potere, non il collegio dei cardinali che l’ha votato.  Che l’investe così come a suo tempo ha investito S. Pietro, che non fu scelto come capo degli Apostoli dagli altri undici ma dal Signore in persona.

 

 

6.  I riscontri nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli

Il titolare della suprema potestà di giurisdizione deve essere uno solo, se non si vuole che l’intera Chiesa cada nell’anarchia.  Anche per evitare ciò, Nostro Signore ha stabilito una gerarchia precisa tra Pietro e gli Apostoli.  Il primato di Pietro è preannunciato dal Signore e poi conferito formalmente, dopo la sua Resurrezione.  Preannunciato, quando Simone di Giona, che già aveva adorato Gesù come Dio dopo la pesca miracolosa (Lc 5,8), divinamente ispirato, confessò apertamente la divinità di Gesù, il quale gli disse le famose parole:  “Tu sei beato, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’han rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli.  Ed io ti dico che tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa.  Io ti darò le chiavi del regno de’ cieli etc.” (Mt 16, 16-19). Non dodici pietre ma una sola a fondamento ossia a capo, al governo della Chiesa da Lui fondata.  Ugualmente, alla vigilia della Passione gli preannuncia che sarebbe spettato a lui Pietro “confermare [nella fede] i fratelli” (Lc 22, 32 : “confirma fratres tuos”). Non solo un potere disciplinare e di governo, dunque, ma anche di intervento dottrinale. 

Conferito formalmente, dopo la Resurrezione, poiché lo amava più di tutti gli altri discepoli, con le parole:  “Pasci i miei agnelli” (detto due volte) e “pasci le mie pecore” (Gv 21, 15 ss.).  Con queste parole, il Signore attribuiva a Pietro il potere di governare il gregge poiché questo fa il pastore quando si prende cura del gregge affidatogli e provvede ad esso.  È da notare che il Signore risorto non dice “pascete i miei agnelli” ma “pasci”, rivolto al solo Pietro.  I poteri dell’ ordine, invece, Nostro Signore li conferì allo stesso modo a tutti gli Apostoli, compreso Pietro:  “sciogliere e legare” (Mt 16,19; 18,18; Gv 20, 23); consacrare l’Eucaristia (Mt 26, 26 ss.; Mc 14, 22; Lc 22,19); battezzare (Mt 28, 18-20); guarire dalle malattie, fare miracoli, scacciare i demoni (Lc 9, 1 ss.;  10, 1 ss.)[18].  Nei doni particolari o càrismi  straordinari ricevuti dallo Spirito Santo, Pietro non si distingue dagli altri Apostoli.

Che S. Pietro agisse sin dall’inizio della Chiesa come capo della Chiesa stessa, lo si deduce ampiamente dagli Atti degli Apostoli, per quanto l’esegesi faziosa della Nouvelle Théologie si sia affannata a dimostrare il contrario.  Quando si trattò di sostituire lo sventurato Giuda nel numero dei Dodici, fu Pietro che si alzò a parlare di fronte a circa centoventi persone, dicendo quello che bisognava fare:  scegliere qualcuno che fosse stato con loro per tutto il tempo della missione terrena di Gesù (dal Battesimo di S. Giovanni all’Ascensione).  La proposta non fu messa ai voti, fu accettata senza discutere.  Evidentemente, Pietro parlava con l’autorità del capo di tutti, che aveva già deciso cosa si dovesse fare e lo comunicava all’assemblea.  L’assemblea propose i due nomi da trarre a sorte ed il sorteggio premiò Mattia (Atti 1, 15 ss.).  Ugualmente, nel “Concilio Apostolico” tenuto a Gerusalemme nell’AD 51 con la partecipazione degli Apostoli e degli anziani, dopo la discussione su cosa si dovesse fare in relazione al problema dell’osservanza o meno dei riti giudaici da parte dei neoconvertiti, fu Pietro che si alzò a parlare, dando le direttive per la soluzione del problema, che conteneva forti implicazioni dottrinali.  Dopo il suo intervento, “tutta la moltitudine tacque” e Paolo e Barnaba fecero la loro relazione sui risultati dell’evangelizzazione dei Gentili.  Subito dopo, parlò Giacomo, parente del Signore, che appoggiò la risoluzione di Pietro (Atti 15)[19]. 

Nella Mystici Corporis, Pio XII aveva ribadito questa dottrina.  Dopo aver spiegato che i vescovi sono “i membri più eminenti della Chiesa universale”, che sono uniti al Papa con un “vincolo veramente singolare”, che “in quanto riguarda la propria Diocesi sono veri Pastori che guidano e reggono in nome di Cristo il gregge assegnato a ciascuno”; sulla linea del Vaticano I, precisava:  “Ma mentre fanno ciò, non sono del tutto indipendenti, perché sono sottoposti alla debita autorità del Romano Pontefice, pur fruendo dell’ordinaria potestà di giurisdizione comunicata loro direttamente dallo stesso Sommo Pontefice”[20].  Ora invece sono “del tutto indipendenti” per ciò che riguarda la titolarità dell’”ordinaria potestà di giurisdizione”, anche se hanno ancora bisogno della “missio canonica” o autorizzazione del Papa per esercitarla.

 

7.  Il falso presupposto della nuova dottrina sulla collegialità

Una dottrina così chiara e ben fondata sui Testi, oltre che sulla Tradizione, perché la si è voluta cambiare?  Mysterium iniquitatis, è costretto a dire il semplice credente.  I risultati di questo cambiamento sono oggi sotto gli occhi di tutti:  l’autorità del Papa è ridotta al lumicino e quella dei singoli vescovi pure mentre spadroneggia il “collegio” rappresentato dalle varie conferenze episcopali, che hanno portato nella Gerarchia il miscuglio di disordine e conformismo tipico del parlamentarismo decadente del nostro tempo. L’odio per l’autorità del Papa, per “Roma”, il desiderio di imporre “la democrazia” nella Chiesa attraverso una riforma in senso “collegiale” del Papato:  tutto ciò era radicato nella mentalità dei “nuovi teologi”, i quali, come si è detto, volevano appunto una Chiesa “carismatica”, aperta ai soffi dello “Spirito” ed anzi del “Mistero”, e non “giuridica”, come dicevano.  Essi avevano creato un mito, quello di una Chiesa “romana” attaccata (per colpa soprattutto di S. Tommaso) ad una concezione “giuridica” del Cristianesimo, che avrebbe prevaricato sul Cristianesimo autentico, rappresentato dalla Chiesa primitiva e dai Padri della Chiesa, che ora si trattava di restaurare grazie alla Nuova Pentecoste costituita appunto dal Vaticano II!

Come ebbe a dire Mons. Parente, stimato assessore del Sant’Uffizio, passato improvvisamente nel campo dei Novatori, in un clamoroso intervento in Concilio a favore della collegialità, ribadito poi da un suo articolo apparso su L’Avvenire d’Italia, il 21.1.1965, “fu un eccessivo influsso del Diritto sulla Teologia che man mano portò a concepire la potestà di giurisdizione come avulsa dalla potestà di Ordine, sostenendo che la prima deriva al vescovo da una estranea concessione del Papa, mentre l’altra scaturirebbe dalla stessa consacrazione. Il Concilio ritorna alla concezione primitiva..”[21].  Il Concilio tornava alla “concezione primitiva”?  Quale “concezione primitiva”?  Dai Sacri Testi e dalla prassi della “Chiesa primitiva” non risultava che Cristo aveva conferito il primato di giurisdizione su tutta la Chiesa al solo Pietro?   E se era del solo Pietro e per tutta la Chiesa, non era giusto che fosse lo stesso Pietro a conferirla ai singoli vescovi per il governo delle loro diocesi con un atto di per sé indipendente dalla consacrazione episcopale?

L’idea del “ritorno alla concezione primitiva” o, il che è lo stesso, alla “teologia patristica”, fu un Leitmotif del Concilio, lo sappiamo.  Lo ritroviamo anche nel saggio che l’allora giovane prof. Ratzinger dedicò alla collegialità, nel commentare la Lumen gentium.  Citando espressamente e favorevolmente Mons. Parente, scrisse:  “Tanto il concetto di sacramento quanto quello di giurisdizione entrano [con la LG] in una nuova luce, o piuttosto:  ambedue riappaiono nella luce originaria della teologia patristica, che era stata temporaneamente oscurata dagli sviluppi moderni”[22]. I negativi “sviluppi moderni” erano rappresentati soprattutto da S. Tommaso, citato espressamente in nota, giudicato responsabile di una concezione troppo “giuridica” della figura del vescovo:  troppo “giuridica” perché avrebbe fatto dipendere l’esistenza della giurisdizione vescovile non dal “sacramento” dell’Ordinazione ma da una concessione pontificia separata e comunque da esso sempre indipendente, concepibile perciò in termini di solo rapporto giuridico (di diritto canonico) tra il Papa che la concedeva ed il vescovo che la riceveva. 

Invece, come sosteneva Mons. Parente nel suo intervento al Concilio, la collegialità si inseriva perfettamente “nell’unità organica della Chiesa, in virtù della quale il Cristo non può mai essere considerato come separato dal suo Corpo Mistico, né Pietro dal Cristo, che è il suo capo, né Pietro dal collegio episcopale, né i vescovi da Pietro […]  È tutta la struttura ontologica della Chiesa che riposa sull’ordine sacro e sul sacerdozio universale di Cristo”[23].  Queste considerazioni presuppongono che la collegialità, come intesa dalla Tradizione della Chiesa, e cioè come collegio in senso morale, che realizzava l’unità di fede, intenti, azione pastorale tra il Papa e i vescovi, non inserisse la medesima “nell’unità organica della Chiesa”: cosa falsissima, come ognun può vedere. Al di là del rimbombare di termini quali “struttura ontologica”, “ordine sacro” e “sacerdozio”, la retorica ammodernante del presule “lasciava in piedi – come nota giustamente il prof. De Mattei – l’equivoco giuridico che vedeva sovrapporsi due diversi soggetti di diritto”[24].  Due “diversi soggetti di diritto”, aggiungo, quali titolari della suprema potestà di giurisdizione! 

La “teologia patristica” espressione della “concezione primitiva” era in realtà la “teologia patristica” reinterpretata dagli Ammodernanti, i quali, approfittando della ben nota sinteticità di certe sue formulazioni, si erano specializzati nel rielaborarla in senso contrario all’interpretazione che ne avevano dato nei secoli la teologia ortodossa e il Magistero che l’aveva legittimata.  De Lubac  si era distinto in questo tipo di lavoro, al quale aveva accoppiato una disinvoltura suprema nel manipolare i Sacri Testi a suo uso e consumo (vedi supra, cap. XIII, § 1).  Ma l’idea di una “concezione primitiva” della costituzione divina della Chiesa, da ristabilire dopo un oscuramento durato molti secoli (per colpa del sovrapporsi di una supposta mentalità troppo “giuridica”), è chiaramente inaccettabile.  Essa presuppone, infatti, che il Magistero abbia errato per tanti secoli e non su questioni meramente temporali, caduche, legate alle contingenze storiche, ma su questioni riguardanti il dogma stesso della fede, come quelle inerenti al Primato.  Non è ammissibile insinuare che l’insegnamento della Chiesa, a partire almeno dall’epoca di S. Tommaso, cioè per quasi sette secoli, abbia potuto “oscurare la luce originaria della teologia patristica” e su aspetti fondamentali della fede.  Lasciar credere ai fedeli che per tanti secoli Papi, vescovi e teologi perfettamente ortodossi non avessero capito l’insegnamento dei Padri, come se nessuno nel Magistero fosse stato assistito dallo Spirito Santo, il quale avrebbe pertanto tollerato l’insorgere di una rottura tra l’insegnamento dei Padri e quello della Gerarchia, rottura che sarebbe stata alla fine sanata dal pastorale Vaticano II, per l’appunto presentato da Giovanni XXIII e da tutti i Novatori come una Nuova Pentecoste, come l’inizio dell’epoca della Chiesa dello Spirito!

C’è un altro aspetto da considerare.  La tesi di un ritorno, grazie al Vaticano II, alla “concezione primitiva” dopo secoli di “oscuramento”, implica di per sé l’impossibilità stessa di ipotizzare una “ermeneutica della continuità” per il Vaticano II.  Mi spiego. Se esso ha ripristinato la “concezione primitiva” della Chiesa, “oscurata” da tanti secoli, allora la sua dottrina sarà in continuità con quella della riscoperta “concezione primitiva” e non con quella (durata così a lungo) che l’avrebbe “oscurata”.  La dottrina intermedia, quella dell’”oscuramento”, verrebbe saltata a pie’ pari dal Vaticano II, anelante a ricongiungersi alla cosiddetta “teologia dei Padri” dei primi secoli.  Ma allora il Concilio non può considerarsi in continuità con tutta la Tradizione della Chiesa e la tesi  dell’”ermeneutica della riforma nella continuità”, come viene chiamata, si rivela del tutto improponibile.  

 

8. La contraddittoria giustificazione cantoniana delle nuove dottrine conciliari

 Torniamo ora al prof. Cantoni e consideriamo in che modo egli esponga la soluzione del problema posto da GS 22.2.  “Se infatti il “potere” (potestas) di governo e magistero è conferito al vescovo con e nel sacramento, per cui si configura un vero e proprio carattere sacramentale, l’”ufficio” (munus), cioè l’esercizio di questo potere, può avvenire solo all’interno della comunione gerarchica con gli altri membri del collegio e in piena subordinazione al capo del collegio che è il Papa”[25].  Questa constatazione ripete in sostanza quanto detto dal Concilio stesso e non fornisce alcun particolare approfondimento.

Di maggior spessore appare il seguente rilievo.  “L’insegnamento pi­ù preciso sulla natura dell’episcopato del concilio Vaticano II costringe a ripensare (non a cambiare) la dottrina tradizionale delle due forme di potere per riscoprire che l’unità della loro sorgente che è sempre Cristo, e l’unità del fine, che è la santificazione degli uomini, le configura come due modalità di una unica sacra potestas.  In definitiva questa dottrina preserva il diritto della Chiesa dal rischio di scadere nella profanità per ricollocarlo nella sfera sacrale e quindi sacramentale che è sua propria”[26].

L’ultima frase del periodo, sulla restaurata “sacralità” di contro alla supposta “profanità” nella quale sarebbe caduto in passato “il diritto della Chiesa” è, a ben vedere, pura retorica alla de Lubac o alla Congar, secondo i gusti. Il punto essenziale è vedere se il modo nel quale il Vaticano II ha “ripensato la dottrina tradizionale” è coerente con la “dottrina tradizionale”.  Ma prima di procedere in questo senso, voglio terminare l’esposizione dell’argomento del prof. Cantoni.

Dopo aver detto che il “ripensamento” avrebbe riscoperto l’unità delle “due forme di potere” dell’episcopato in quanto “due modalità di un’unica sacra potestas”, l’ulteriore passaggio del ragionamento dell’Autore è rappresentato, vorrei dire inevitabilmente, dal concetto che la dottrina deuterovaticana della collegialità “non ha fatto che riflettere in modo più esplicito e solenne su una convinzione che era sua [della Chiesa] da sempre.  Essa sapeva infatti dai Vangeli che Cristo “ne costituì Dodici che stessero con lui” (Mc 3.14).  Dodici non è un termine solo numerico e non esprime dunque un mero insieme quantitativo arbitrario e casuale.  Gli apostoli sono frequentemente definiti “i Dodici”.  Anche dopo il tradimento di Giuda il gruppo non cessa di essere “i Dodici” (cfr. 1 Cor 15,5) e – appena può – si ricostituisce anche numericamente attraverso la scelta di Mattia (cfr. Atti 1, 15-26).  A questo gruppo il divino fondatore della Chiesa affida la pienezza della sua autorità:  “In verità vi dico:  tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo” (Mt 18,18).  Lo stesso potere che aveva conferito a Pietro:  “A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Mt 16,19).  Evidentemente Gesù dando ai Dodici lo stesso potere che aveva dato al solo Pietro non si contraddice, così come non si contraddice la Chiesa riconoscendo nel Vaticano II al collegio dei vescovi, successori degli apostoli, lo stesso potere che il Vaticano I aveva riconosciuto al solo Papa, successore di Pietro”[27].

Siamo dunque sempre alla tesi, continuamente ripetuta, del Vaticano II come riscoperta delle autentiche origini della Chiesa, come “ritorno alla concezione primitiva” (vedi supra, paragrafo precedente).  Ora, se consideriamo le cinque citazioni scritturali riportate dall’Autore, che cosa notiamo?  Che esse sono utilizzate per riproporre la medesima errata interpretazione già vista in LG 22.2 (vedi supra, § 2 di questo capitolo), ossia che Nostro Signore avrebbe dato ai Dodici lo stesso potere che aveva conferito a Pietro e tutta la “pienezza della sua autorità” al gruppo, senza distinguere tra Pietro e gli altri apostoli.  Quale potere?  Un potere non meglio specificato, come se non esistesse differenza tra potere d’ordine e potere di giurisdizione, amministrazione dei Sacramenti e potere di governo.  Le citazioni scritturali riportate non interessano il nostro tema per ciò che riguarda le speculazioni sul significato del numero dei “Dodici”.  E per ciò che riguarda il nostro tema, le due di S. Matteo (18,18 e 16,19) sono utilizzate impropriamente poiché esse riguardano, come si è visto, il conferimento del potere d’ordine, uguale per Pietro e gli Apostoli, e non quello di giurisdizione su tutta la Chiesa, attribuito al solo Pietro.  Gesù certo “non si contraddice” nel dare singolarmente ai Dodici lo stesso potere d’ordine (assolvere dai peccati o non assolvere) conferito a S. Pietro.  Così come sicuramente non si contraddice nel conferire il potere di giurisdizione al solo Pietro.  Si sarebbe contraddetto se l’avesse dato ad entrambi, come ha fatto il Vaticano II; se avesse creato due titolari di un unico potere sovrano di giurisdizione, mettendo così in pericolo l’unità della Chiesa da Lui stesso fondata.

Il parallelismo stabilito dal prof. Cantoni tra l’azione di Gesù e quella del Vaticano II è a mio avviso del tutto insostenibile.  Esso si fonda sulla falsa premessa appena rilevata: che Nostro Signore avesse dato ai Dodici “lo stesso potere [in generale] che aveva dato al solo Pietro”.  Glielo ha voluto dare, invece, il Vaticano II al collegio dei vescovi  quel potere (di giurisdizione su tutta la Chiesa) che il Signore aveva riservato al solo Pietro, mutando con ciò la dottrina del Vaticano I (ribadita da Leone XIII e Pio XII) e contraddicendone i fondamenti scritturistici!

Se Cristo ha fatto la stessa cosa del Vaticano II, ciò significa allora che è stato Lui a far venire in essere i due soggetti titolari del potere di giurisdizione su tutta la Chiesa.  È Nostro Signore, allora, il responsabile della contraddizione che tale situazione istituzionale comporta!   Possiamo eliminare questa contraddizione?  Sembra di no, se essa è addirittura di origine divina.  Un modo ci sarebbe, ci informa l’Autore, se “l’esegesi cristiana” potesse applicare il metodo dell’esegesi coranica detto  “regola dell’abrogante e dell’abrogato”, in base al quale “il versetto del Corano rivelato in un tempo successivo abroga il versetto precedente se lo contraddice”(ivi).  Ma perché “l’esegesi cristiana” non può “far suo” questo metodo, che agli occhi del Nostro sembra presentare grandi vantaggi? Perché essa è consapevole del fatto “che Dio è sapienza e quindi ragione (cioè non-contraddittorietà) assoluta (Logos) e quindi tutto ciò che da lui procede obbedisce alla regola della sapienza e del Logos.  Se due poteri supremi in unico organismo possono infatti apparire di primo acchito come contraddittori, l’assurdo si dissolve se si riflette che i due detentori, il Papa da solo e il collegio dei vescovi sono tra di loro inadeguatamente distinti, posto che il collegio dei vescovi comprende in sé il Papa e senza di lui non è più quello che è, perde la sua stessa vita, come un corpo decapitato”[28].

Pur trovandosi di fronte ad una evidente contraddizione, che secondo l’Autore risale addirittura a Nostro Signore, “l’esegesi cristiana” sa che in Dio non può esserci contraddizione.  E quindi non può applicare il metodo mussulmano dell’”abrogante e dell’abrogato”.  Ma se si potesse applicare (come forse piacerebbe al prof. Cantoni) a cosa porterebbe?  Se il paragone ha un senso, l’applicazione di questa regola comporterebbe che l’insegnamento venuto dopo (quello del Vaticano II), per il solo fatto di esser venuto dopo, abrogherebbe quello venuto prima (del Vaticano I), con il quale è in palese contraddizione, visto che l’insegnamento posteriore istituisce “due poteri supremi in un unico organismo” mentre quello anteriore manteneva il potere supremo in un unico organismo.  E ciò non sarebbe come dire che il pastorale Vaticano II potrebbe tacitamente abrogare un insegnamento del dogmatico Vaticano I?  Al prof. Cantoni sono evidentemente sfuggite le implicazioni illogiche, teologicamente mostruose, del metodo forestiero da lui portato ad esempio, se l’esempio lo si volesse prendere seriamente.       

Ma proseguiamo con il nostro testo.  Mi sembra che l’espressione “due poteri supremi in un unico organismo” non sia del tutto precisa e non renda bene il significato della contraddizione con la quale abbiamo a che fare.  Il “potere supremo” (di giurisdizione su tutta la Chiesa) è uno solo, non ce ne possono essere d u e .  Due sono invece gli “organismi” titolari di quel potere, dopo il Vaticano II:  il Papa da solo, in quanto Vicario di Cristo e Capo della Chiesa visibile, e l’ordine dei vescovi con il Papa, il quale ordine lo esercita solamente con l’autorizzazione del Papa.  La contraddizione non deriva quindi dal proporre l’esistenza di due poteri in un solo soggetto o organismo bensì l’esistenza di due soggetti quali titolari di un medesimo (sommo) potere (anche se uno – il Romano Pontefice – è libero di esercitarlo e l’altro no).  E di due distinti esercizi del medesimo potere (libero l’uno, vincolato l’altro).

Come si risolve la contraddizione?  È essa risolvibile?  Si risolve, secondo l’Autore, che qui ripropone sempre la tesi ufficiale della Gerarchia attuale, applicando una nozione che resta piuttosto oscura ai semplici fedeli, quella della “inadeguata distinzione” tra il Papa da solo e il collegio dei vescovi, che, senza il Papa, sarebbe ovviamente “come un corpo decapitato”. Ma nello stesso tempo non si risolve, perché nella sua conclusione ultima l’Autore rinvia al mistero:  la contraddizione del dualismo dei poteri nella Chiesa sarebbe uno dei “misteri di Dio”, che è vano tentare di penetrare.

 

8.1  Il sofisma della “distinzione reale inadeguata” 

Vediamo per prima la soluzione proposta.  Si tratta di capire che cosa significhi “inadeguata distinzione”.  Non è che il prof. Cantoni cerchi di illuminare il lettore sul punto.  Anzi, egli sembra dar questa nozione per scontata.  Ma chi, al di fuori degli ambienti ecclesiastici, ne ha mai sentito parlare?  Una spiegazione articolata di questa “distinzione” la troviamo ne Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare di Mons. Gherardini, appunto là ove critica la nuova collegialità di GS 22.2.

“A spiegazione dei due soggetti [ora titolari della summa potestas iurisdictonis] e dei due diversi esercizi [libero quello del Papa, vincolato quello dell’ordo dei vescovi] venne ufficialmente addotta una ragione attinta al linguaggio scolastico: i due soggetti cadrebbero sotto la c.d. distinzione reale inadeguata, quella cioè che, per il suo fondamento nella realtà, esclude l’identità degli enti correlati, non però in modo adeguato, cioè fra tutta l’entità dell’uno e tutta l’entità dell’altro soggetto, bensì in modo inadeguato, come avviene distinguendo il tutto dalla parte all’interno d’un medesimo soggetto”[29].

Si tratterebbe dunque di una distinzione non assoluta ma relativa?  La distinzione è effettiva dal momento che è esclusa l’identità dei due soggetti o enti correlati tra loro.  Però quest’esclusione non è totale.  Questa non-totalità, nel modo di esprimersi della Scolastica, veniva indicata con la coppia:  adeguato – inadeguato.  Allora:  la distinzione reale adeguata sarebbe quella nella quale non c’è assolutamente alcuna identità tra l’uno e l’altro soggetto.  Si tratterebbe di una distinzione assoluta.  Una distinzione di questo tipo tra il Papa ed i vescovi non c’è.  Il Papa, infatti, è egli stesso vescovo.  La distinzione, pur reale, è pertanto relativa ovvero inadeguata poiché mantiene una certa indistinzione, un sovrapporsi-all’interno-di, se mi si consente l’espressione.  Infatti, essa ha luogo “distinguendo il tutto dalla parte all’interno di un medesimo soggetto”.  Distinguendo il tutto dalla parte non in senso assoluto ma “all’interno di un medesimo soggetto” che evidentemente contiene sia “il tutto” che “la parte”.  Il soggetto è qui evidentemente la Chiesa, che ora (in conseguenza del Vaticano II) viene rappresentata come un tutto non da un solo soggetto (come in passato) ma da due, in rapporto tra loro di “distinzione reale inadeguata”.

Dell’efficacia di questa distinzione, in quanto applicata al ”soggetto” che è la Chiesa Cattolica, Mons. Gherardini dubita fortemente.  Prosegue, infatti, nel seguente modo:

“Di grazia, qual è qui il tutto?  E quale la parte?

Se per tutto si fosse inteso il Papa più il Collegio, la parte sarebbe stata logicamente individuabile sia nei vescovi senza il Papa, sia nel Papa senza i vescovi “seorsim” – ma in latino meglio sarebbe dire “seorsum/seorsus” – separatamente, personalmente, in quanto tale, in quanto è quel vescovo il quale, anche se Papa, concorre con gli altri vescovi alla formazione del Collegio; in tal caso, il suo primato giurisdizionale su tutta la Chiesa sarebbe caduto nel nulla.

Se il tutto si fosse invece riconosciuto nel Papa senza il Collegio per la ragione teologico-giuridica che sintetizza nel Papa la totalità della Chiesa [Ubi Petrus, ibi Ecclesia], e quindi anche i vescovi suoi colleghi, la parte inevitabilmente sarebbe individuabile nel Collegio, il quale non avrebbe più potuto dirsi soggetto di potestà piena suprema universale.

Come si vede, proprio la spiegazione ufficiale arruffava ancora più la matassa”[30]. 

 

8.2   Uso improprio della nozione di “mistero” 

Mi sembra ci sia poco da aggiungere a queste precise osservazioni di Mons. Gherardini, che il prof. Cantoni non ha nemmeno tentato di confutare, limitandosi a passarle sotto silenzio.  L’assurdo e la contraddizione propinatici da LG 22.2 restano e non c’è barba di terminologia riesumata dalla Scolastica ad uso e consumo degli Ammodernanti che possa risolverli.  Del resto, lo stesso prof. Cantoni, dopo aver detto che la nozione di “distinzione inadeguata” risolveva il problema, ci fa capire che in realtà esso non si risolve.

“L’essenziale qui come altrove – conclude – è quello di resistere alla tentazione di far rientrare i misteri di Dio in categorie soltanto umane e immanenti. I concetti umani, frutto dell’esperienza e della riflessione filosofica e scientifica, sono preziosi, ma devono piegarsi alla legge dell’analogia e lasciarsi in questo modo elevare a dire di più di quello che da loro stessi sono capaci di significare, per cui una identità di fondo coesiste con una radicale diversità […]  Categorie socio-politiche come quella di monarchia, aristocrazia e democrazia sono certamente utili e preziose per decifrare il mistero della Chiesa, purché però si rimanga consapevoli che la Chiesa ha una sua divina costituzione che trascende qualunque istituzione soltanto umana”[31].

Che le “categorie soltanto umane e immanenti”, i “concetti umani” possano di per sé penetrare i misteri di Dio nessuno l’ha mai sostenuto.  Ma qui non abbiamo a che fare – tanto per fare un esempio – con il mistero della Predestinazione, di fronte al quale la ragione non può andare oltre un certo punto, nel comprenderne la logica (come svelata dalla Lettera ai Romani e mantenuta nell’insegnamento della Chiesa).  Qui abbiamo a che fare con la natura e l’organizzazione della Chiesa di Cristo visibile, che una volta si chiamava “Chiesa militante”, e sulla base di sicuri riferimenti alla S. Scrittura, oltre che alla Tradizione e al Magistero della Chiesa, sino al Vaticano II escluso.  Non ho bisogno di ripetere gli argomenti già profusi in questo capitolo per affermare che Nostro Signore non ha mai dato alla sua Chiesa “un’identità di fondo” che “coesiste con una radicale diversità”; che Egli non l’ha per nulla costruita sulla base della contraddizione.  Qui non c’è nessun “mistero” da accettare, rinunciando all’uso della ragione, fideisticamente.

Di sicuro la “divina costituzione” della Chiesa di Cristo “trascende qualunque istituzione soltanto umana” ma non nel senso inteso qui dall’Autore, che è quello  di una rinuncia all’uso legittimo e consentito della ragione, al fine di far passare per legittima una concezione del tutto contraddittoria e quindi anomala della Chiesa visibile.  Contraddittoria, non perché costituita da Nostro Signore secondo “il mistero” di una supposta “coesistenza” tra “identità” e “diversità radicale” nella costituzione stessa della Chiesa.  Contraddittoria, perché risultante da una soluzione di compromesso imposta dalle circostanze nelle quali si è svolto il Vaticano II.  E quali erano queste circostanze?  Quelle ben note, a chi non si accontenta delle edulcorate ricostruzioni ufficiali ed ufficiose, e sopra richiamate (Introduzione, § 3).  La fazione neomodernista introdottasi nelle Commissioni conciliari puntava al cuore del Papato, voleva distruggerne il bimillenario Primato, abbassando il Papa a semplice presidente del collegio episcopale.  L’autentico “Vicario di Cristo” avrebbe dovuto essere il Collegio dei Vescovi, con il Papa a capo, ma vincolato in ogni suo atto a rappresentare la volontà del Collegio.  Era una rivincita del Conciliarismo d’antan, con il collegio dei vescovi al posto del Concilio ecumenico quale organo permanente di governo della Chiesa universale. 

Il punto di vista che minacciava di prevalere in Concilio, lo ha ben riassunto, a mio avviso, Romano Amerio nel passo che ho già citato, nel quale egli sintetizza la dottrina dei Novatori, “secondo la quale il soggetto della suprema potestà nella Chiesa è il collegio unito col Papa e non senza il Papa che ne è solo il capo, ma in guisa tale che quando il Papa esercita, anche solo, la suprema potestà, la esercita in quanto capo appunto del collegio e quindi come rappresentante del collegio che egli ha l’obbligazione di consultare per esprimerne il senso”.  Simile concezione fa di Pietro un semplice porta parola del collegio dei vescovi, un passacarte e un notaio del collegio.  Essa umilia, nel Papa, tutta la Chiesa.  Oltre che alla Tradizione, essa è manifestamente contraria alla S. Scrittura, la quale testimonia in modo netto che la suprema potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa fu conferita da Nostro Signore al solo Pietro.

Dato il significato del tutto opposto al senso delle S. Scritture e alla Tradizione della Chiesa che si poteva ricavare dal dettato di LG 22.2, ben chiaro nel determinare “la suprema potestà che questo collegio possiede su tutta la Chiesa” nonostante la necessità del consenso del Papa al suo esercizio effettivo, occorreva ribadire e precisare le attribuzioni del Primato, che sembravano ridotte alla semplice autorizzazione pontificia all’esercizio di questa potestà, come tale indipendente da quella del Papa.  Nell’impostazione della LG 22.2 il Primato sembrava effettivamente ridotto al minimo.  L’incombenza fu appunto assolta dalla Nota explicativa praevia.  La Nota praevia ha indubbiamente ristabilito le distanze tra il Primato e il Collegio, ricordando che, secondo la dottrina della Chiesa, il Papa gode di poteri e prerogative che spettano solo a lui in quanto “Vicario di Cristo e pastore della Chiesa universale”.  Tuttavia, la Nota praevia si risolve alla fine in un compromesso con le dottrine innovatrici, come rilevava giustamente Amerio. Essa ha dovuto accettare il principio che la potestà d’ordine viene ora conferita al vescovo con la consacrazione e quello, ad esso conseguente, che i titolari della potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa sono adesso due.   L’interpretazione autentica fornita dalla Nota praevia sanziona quindi la concezione dualistica del potere di giurisdizione  scaturita dal Concilio, dualistica nella titolarità e nell’esercizio.  Sanziona in sostanza un errore dottrinale.  E non tacita tutti quei vescovi i quali si ostinano a ritenere erroneamente che il Papa è in primis “capo del collegio” e come tale deve render conto a loro di ciò che fa.

In tutto ciò, dov’è “il mistero di Dio”?  Qui non c’è nessun “mistero” da svelare, talmente sono chiari i termini prettamente terreni e bassamente umani della questione. 

 

9. Le incongruenze nel “ripensamento delle due forme di potere” da parte della LG

Vediamo ora alcune questioni relative al “ripensamento”della dottrina tradizionale “delle due forme di potere” da parte di LG.  Si “riscopre” – ci vien detto – che queste due forme di potere (d’ordine e giurisdizione) costituiscono un’unità a causa della loro fonte (il Cristo) e del loro fine (la santificazione, ossia la salvezza degli uomini).  Sono dunque da intendersi come “due modalità di un’unica sacra potestas”.  Sarebbe dunque questa la novità propugnata dal Vaticano II, sempre in armonia con la dottrina della Chiesa?  Ma in passato, c’è qualcuno che abbia mai dubitato, mi chiedo, del fatto che l’ordine e la giurisdizione costituiscono come le facce di una stessa medaglia?  Che scaturiscono da Nostro signore e che mirano entrambe ad un unico fine, la salvezza delle anime?  Il problema non è rappresentato dalla fonte di queste due “forme” e dal fine cui mirano:  è rappresentato dai soggetti che ne sono titolari nella Chiesa visibile in relazione al governo di tutta la Chiesa.  Vale a dire, dal mantenimento dell’unità della Chiesa, che verrebbe messa a repentaglio se di queste due forme fossero titolari due soggetti diversi, entrambi con competenza per tutta la Chiesa.

Modalità è nozione astratta.  Concreta è invece quella di titolare di un potere quale contenuto di un diritto, di un potere appartenente ad un soggetto specifico.  Qui abbiamo a che fare con la titolarità del potere di insegnamento e governo in tutta la sua concretezza giuridica, che è concretezza di prassi oltre che di concetti.  Ora, dal punto di vista della titolarità della potestà di giurisdizione, se noi l’attribuiamo al vescovo per il solo fatto della sua consacrazione, non lo facciamo titolare della stessa potestà di giurisdizione del Papa?  E allora, al posto dell’unità sacrale e sacramentale si fa largo il dualismo rappresentato dall’esistenza di due soggetti titolari del potere di giurisdizione.

Mi si potrebbe replicare che il Concilio parla di suprema e piena potestà su tutta la Chiesa da parte dell’Ordine dei vescovi con il Papa e mai senza di esso, non di una potestà su tutta la Chiesa del singolo vescovo.  Ma guardiamo i testi più da vicino. 

Se il potere di giurisdizione è attribuito al vescovo sempre individualmente, con la sua personale consacrazione, e vale solo per la diocesi della quale è titolare, come può questo potere ritrovarsi anche nell’ordine dei vescovi, nei vescovi in collegio con il Papa, come potere che vale per tutta la Chiesa?  Un potere conferito ad un soggetto singolo come si trasmette al corpo del quale egli faccia parte, mutando anche di qualità poiché il potere del singolo vescovo sulla sua diocesi si muta in potere dell’intero collegio dei vescovi con il Papa su tutta la Chiesa?  Come può avvenire questo salto di qualità non nella natura del potere di giurisdizione ma nell’estensione della sua competenza, che ora si estende a tutta la Chiesa visibile?  Per somma dei poteri di giurisdizione dei singoli vescovi, le cui diocesi, sommandosi, coprono tutto il territorio della Cattolicità?  Non può essere.  Del resto, del collegio episcopale fanno legittimamente parte anche vescovi “titolari” ossia senza diocesi, trovandosi esse in partibus infidelium. Né risulta che i vescovi vengano consacrati collettivamente, come ordo o coetus o collegium che dir si voglia.

Nelle istituzione laiche non occorre un atto specifico che conferisca al membro di pieno diritto di un consiglio o collegio (consiglio di facoltà universitaria, di amministrazione, etc.) la facoltà di far valere il suo potere decisionale per l’intera organizzazione o istituzione per la quale il suddetto consiglio deliberi.  Tale facoltà è intrinseca alla cosa stessa ovvero allo status giuridico del soggetto in questione (professore, dirigente, etc.).  Idem per i vescovi.  Per il solo fatto di esser vescovi essi vengono  ora a costituire un “soggetto” collettivo (ordo, coetus, collegium) che, sempre con il suo Capo, è titolare di un potere di giurisdizione su tutta la Chiesa.  Non c’è alcun salto di qualità, come avveniva invece per il potere di giurisdizione del vescovo convocato in un Concilio ecumenico:  il solo fatto di prender parte al Concilio estendeva la sua giurisdizione, attribuendogli il potere di decidere per l’intera Chiesa, sempre con l’approvazione del Romano Pontefice. 

 

9.1  Scompare la territorialità della diocesi 

Qual è la conclusione cui voglio arrivare?  Che, mancando nei testi del Vaticano II una chiara indicazione dei limiti territoriali della potestà di giurisdizione del singolo vescovo, quest’ultima viene a valere per l’intera Chiesa.  A mio avviso, i testi legittimano quest’interpretazione.  Forse che in LG 21.2 troviamo come limite espresso della potestà di giurisdizione, che la consacrazione attribuirebbe ora al singolo vescovo, l’indicazione della competenza territoriale, limitata alla sola diocesi?  Rileggiamo il passo in questione:  la consacrazione episcopale conferisce anche “gli uffici [munera] di insegnare e governare; questi, però, per loro natura, non possono essere esercitati se non nella comunione gerarchica col capo e con le membra del collegio”.  Il munus è non tanto l’esercizio quanto “l’ufficio” nel senso di “carica”, “compito”, che il soggetto ha il dovere di esercitare, oltre che il diritto.   Secondo la dottrina della Chiesa, il vescovo, una volta ricevutolo (in passato, con la missio canonica pontificia per quanto riguardava la giurisdizione), lo poteva esercitare solo nella diocesi nella quale era Ordinario.  Ciò non gli impediva di prendere posizione contro la presenza o il diffondersi di eresie al di fuori della sua diocesi, con dichiarazioni che moralmente valevano per tutta la Chiesa (appunto, operava qui la collegialità in senso morale ossia la comunità spirituale con l'intera Chiesa), ma sempre sul presupposto di mettere preventivamente in guardia innanzitutto le pecorelle del suo gregge particolare, di svolgere quindi un’azione pastorale che investiva in primo luogo il suo gregge.

Ora, qual è il limite che GS 21.2 pone alla potestas vescovile?  Solo quello della “comunione gerarchica”, con il Papa e gli altri vescovi.  La “comunione gerarchica” con gli altri vescovi implica forse il riconoscimento del limite rappresentato dalla competenza territoriale, dalla diocesi?  Potrebbe, ma non è sicuro, dato che i rapporti tra i vescovi, per quanto riguarda le reciproche competenze territoriali, non mi sembra che possano definirsi come rapporti “gerarchici”.  Il limite di cui parla GS 21.2 per il singolo vescovo sembra in sostanza il medesimo di cui a LG 22.2 per l’intero collegio dei vescovi, nel senso che esso concerne sempre la “comunione gerarchica”, nel rispetto della quale il “collegio” dei vescovi deve agire sempre con “il consenso” del Papa.

E c’è forse un chiaro riferimento alla limitata competenza territoriale del singolo vescovo nel Decreto conciliare Christus Dominus (CD) che tratta dell’ufficio pastorale dei vescovi?  L’art. 3, dopo aver richiamato i relativi passi di LG, recita:  “I singoli vescovi esercitano tale ministero [di magistero e governo pastorale] nei riguardi della porzione del gregge del Signore che è stata loro assegnata, avendo ciascuno cura della Chiesa particolare affidatagli [Illud exercent singuli quoad assignatas sibi dominici gregis partes, unusquisque Ecclesiae particularis sibi commissae curam gerens]” (CD, 3).   I vescovi governano su una parte del “gregge del Signore”, su di una “Chiesa particolare”.  Di diocesi, di territorio non si parla.  La nozione dovrebbe essere implicita?  Resta il fatto che, anche nell’art. 11 del Decreto, dedicato a:  “La diocesi e il vescovo”, di territorio non si parla.  Che cos’è, infatti, la diocesi per il Vaticano II?  “La diocesi è una porzione del popolo di Dio affidata alle cure pastorali del vescovo, coadiuvato dal suo presbiterio [dai sacerdoti] [Dioecesis est Populi Dei portio, quae Episcopo cum cooperatione presbyterii pascenda concreditur], in modo che, aderendo al suo pastore, e da questi radunata nello Spirito Santo per mezzo del Vangelo e della eucaristia, costituisca una Chiesa particolare nella quale è presente e opera la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica” (CD, 11).

Certo fa specie vedere una definizione della “diocesi” dalla quale è stato espunto qualsiasi riferimento territoriale.  La “porzione del Popolo di Dio” affidata al singolo vescovo non si trova su di un determinato territorio?   Sappiamo che diocesi è parola greca (dioíkesis, che contiene il termine oikía, casa) che indicava soprattutto l’amministrazione.  Nel linguaggio giuridico dei Romani essa indicava piuttosto una circoscrizione amministrativa e giudiziaria, un distretto o parte di provincia. È attestata in Cicerone.  Nel periodo imperiale indicava la riunione di più provincie sotto un unico governatore.  Fu con la radicale riforma amministrativa dell’imperatore Diocleziano, alla fine del III secolo della nostra era, che la “diocesi”, con a capo un vicarius, divenne la circoscrizione amministrativa fondamentale dell’impero.  La Chiesa-istituzione adottò terminologie e strutture amministrative dell’impero nel quale si trovava a vivere, almeno quelle riferibili alla sua organizzazione esteriore.  Pertanto al concetto di “diocesi”, rimasto nei secoli come termine di uso solo ecclesiastico, si è sempre associata l’idea della territorialità, della competenza territoriale, che delimita l’ambito amministrativo, giuridico della giurisdizione vescovile. 

Il Vaticano II, allora, anche su questo punto ha cambiato il significato del linguaggio tradizionale della Chiesa poiché, fatto rivoluzionario, ci propone un concetto di diocesi del tutto svincolato da ogni riferimento al territorio.  Esso comprende solo i soggetti che costituiscono la diocesi, i fedeli, la “porzione del popolo di Dio” che è sotto il governo di un determinato vescovo.  Questa “porzione” costituisce una “Chiesa particolare” nella quale “opera” la Chiesa Cattolica o meglio “la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica, apostolica”.  Bisogna chiedersi: è giusto concepire la diocesi come “Chiesa particolare”? Che significa?  E soprattutto:  perché questa reticenza a connettere la diocesi ad un territorio, ad indicare la competenza territoriale quale limite naturale della potestà di giurisdizione di ogni vescovo, al punto da affidarsi ad una definizione del concetto di diocesi che appare indubbiamente monca e nell’insieme poco chiara, perché la “porzione del Popolo di Dio” che la costituisce sembra come appesa per aria?

Due sono, a mio avviso, le ragioni che si possono attribuire a questa reticenza.  1)  Se la potestà di giurisdizione è intrinseca alla consacrazione del vescovo, risultando un semplice modus della sua sacra potestas, allora vale per tutta la terra, così come vale per tutta la terra l’altro modus di questa sacra potestas, il potere dell’ordine, dato che un vescovo può celebrare la S. Messa, confessare e comunicare in ogni posto del globo e non solo nella sua diocesi.  E difatti CD 3 dice che il magistero dei vescovi “si esercita” nei confronti di una “porzione del Popolo di Dio”, non dice che anche la sua titolarità sia limitata a questa “porzione”, almeno per il potere di giurisdizione.   2)  Se alla potestà di giurisdizione del vescovo venisse imposto il limite tradizionale rappresentato dalla territorialità della sua diocesi, allora il concetto di una “suprema e piena potestà su tutta la Chiesa” dell’ordine dei vescovi assieme al Papa, di cui a LG 22.2, non verrebbe a cadere? Infatti, come potrebbe l’ordine esser titolare di siffatta potestà di giurisdizione “su tutta la Chiesa”, se ogni suo membro possedesse secondo il diritto quella potestà solo per ciò che riguarda il territorio della sua diocesi?  Si assisterebbe al paradosso di una potestà di giurisdizione ordinaria (e non straordinaria come quella del Concilio ecumenico) per tutta la Chiesa attribuita ai vescovi in collegio con il Papa, quando questa stessa potestà il singolo vescovo se la vedrebbe attribuire solo nell’ambito della sua diocesi.  La soluzione del paradosso può esser duplice:  o la  potestà di giurisdizione dell’ordo vescovile con il Papa su tutta la Chiesa non esiste e si tratta di un semplice flatus vocis oppure non esistono più le diocesi, trasformate in “Chiese particolari” di un aereo “popolo di Dio” e la Santa Chiesa visibile non è più ancorata ad un territorio ma vaga nello spazio sospinta dai soffi dello “Spirito”.  Essa è diventata completamente “mistica”, anzi “misterica” e forse addirittura “cosmica”.  Si estende ora a tutto l’universo oltre che a tutto il genere umano, esattamente come l’attività dell’uomo secondo GS 33-39, articoli che discettano della “attività umana nell’universo”.

 

9.2  L’aporia dei due soggetti titolari della suprema potestà di giurisdizione  

A queste conclusioni conduce il “ripensamento” della “dottrina tradizionale” messo in opera dal Vaticano II.  Esse sembrano paradossali?  O contraddittorie?  Ma cosa c’è di più paradossale e contraddittorio, mi chiedo, della “sacramentalità episcopale” e della “collegialità episcopale” che gli Ammodernanti sono riusciti ad infilare nei testi del Vaticano II?  Dove c’era una struttura gerarchica ben definita e lineare regna adesso la confusione.  Abbiamo adesso due soggetti titolari della suprema potestas di giurisdizione sull’intera Chiesa. Il che, oltre ad essere un errore, produce instabilità e caos.  Molti ritengono che la Nota praevia sia riuscita a metter una pezza alla collegialità di LG 22.2 mantenendola nel solco della tradizione della Chiesa.  Una pezza ce l’ha messa  ma solo in parte, visto che ha dovuto mantenere l’esistenza dei due soggetti del potere di giurisdizione.

“Il collegio, che non si dà senza il capo, è detto essere [in LG 22.2]: “anche esso soggetto di suprema e piena potestà sulla Chiesa universale”.  Ciò va necessariamente ammesso [che esso non si dia senza il capo], per non porre in pericolo la pienezza della potestà del romano Pontefice.  Infatti, il collegio necessariamente e sempre si intende con il suo capo, “il quale nel collegio conserva integro l’ufficio di vicario di Cristo e pastore della Chiesa universale”.  In altre parole:  la distinzione non è tra il romano Pontefice e i vescovi presi insieme, ma tra il romano Pontefice separatamente e il romano Pontefice insieme con i vescovi.  E siccome il romano Pontefice è il “capo” del collegio, può da solo fare alcuni atti che non competono in nessun modo ai vescovi, come convocare e dirigere il collegio, approvare le norme dell’azione etc. […]  Il sommo Pontefice, cui è affidata la cura di tutto il gregge di Cristo, giudica e determina, secondo le necessità della Chiesa che variano nel corso dei secoli, il modo col quale questa cura deve essere attuata, sia in modo personale, sia in modo collegiale.  Il romano Pontefice nell’ordinare, promuovere, approvare l’esercizio collegiale, procede secondo la propria discrezione, avendo di mira il bene della Chiesa” (NP 3).

In altre parole:  il Concilio non contrappone il Papa da un lato ai vescovi dall’altro ma il Papa da solo al Papa insieme con i vescovi.  Questo è indubbiamente esatto e tuttavia non deve trarre in inganno, nel senso di ritenere che il Concilio non si sia allontanato dalla dottrina tramandata. Secondo quest’ultima, come sappiamo, il Romano Pontefice esercitava la suprema potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa insieme con i vescovi solo quando li convocava in un Concilio ecumenico.  L’esercitava solamente, con i vescovi in concilio, che non ne erano titolari per la Chiesa universale, possedendola essi solo per la loro diocesi. Per il Vaticano II, invece, tale potestà il collegio dei vescovi con il Papa la possiede in pianta stabile, anche se i vescovi non agiscono sempre collegialmente con il Papa, che è perfettamente legittimato ad agire da solo per tutta la Chiesa (come specifica la stessa Nota praevia 4).  Nel modo di esporre la distinzione da parte della Nota praevia sembra che i vescovi siano un’appendice del Romano Pontefice, come se si trattasse di distinguere tra il Papa da solo e il Papa con i vescovi.  Non mi sembra che sia questa la ratio del testo conciliare.  La distinzione è tra il Papa da solo e il Collegio come soggetto giuridico con a capo il Papa quale suo presidente.  Anche se il Papa ne è il capo, è il Collegio che si vuole rappresentare come soggetto giuridico titolare della suprema potestas:  il Collegio con il Papa NON  il Papa con il Collegio.   

10.  La critica di Mons. Gherardini alla collegialità di LG 

Dopo quest’analisi, siamo nella migliore condizione, io credo, per comprendere i rilievi di Mons. Gherardini alla collegialità del Vaticano II, una parte dei quali è già stata anticipata al § 7 di questo capitolo.  Egli sostiene in primo luogo che la “collegialità” proposta dal Concilio è concetto spurio perché nasce dalla commistione dell’idea di “comunità” con quella di “collegio”.  All’origine di questa contaminazione troviamo di nuovo l’influenza nefasta di Congar e dei suoi amici.  Essi volevano trovare nel Nuovo Testamento il concetto di “collegio dei Dodici” (pur nell’evidente mancanza del termine) come istituzione voluta da Cristo: ragion per cui i successori degli Apostoli, i vescovi, costituirebbero a loro volta un “collegio”.  Perciò, la comunione dei vescovi con il Papa e la Chiesa si esprimerebbe più degnamente nel concetto di “collegio”, finora trascurato[32].  Ma Mons. Gherardini nota giustamente che c’è qui una “incongruenza” perché “la collegialità riguarda il solo corpo dei vescovi”, mentre la “comunione” è l’intera Chiesa.  I due concetti non coincidono[33].

Questa commistione riappare in LG 22.1 :  “Già l’antichissima disciplina, in virtù della quale i vescovi di tutto il mondo vivevano in comunione tra loro e col vescovo di Roma nel vincolo dell’unità, della carità, della pace, e parimenti la convocazione dei Concili [etc.] significano il carattere e la natura collegiale dell’ordine episcopale”.  Qui, sottolinea l’Autore, il Concilio “non  distingue la “comunione” dalla “collegialità”.  Si dice, anzi, che la comunione significherebbe “la natura collegiale dell’ordine episcopale”, come se quest’ultimo risultasse intrinsecamente da essa.  “Si tentava in tal modo di giustificare la “collegialità”, ossia la novità – certamente non assoluta, ma sempre novità almeno quanto alla formulazione conferitale dal Concilio – con argomenti storici non del tutto pertinenti:  essi riguardavan la “comunione” dei vescovi, il loro comunicare fraterno, non la loro “collegialità””[34].

Questo aspetto della questione, messo in rilievo da Mons. Gherardini, mi sembra essenziale.  L’attuale, moderno concetto di collegialità, che deriva dal diritto romano, lo si voleva presente sin dai primi tempi della Chiesa, nella realtà della “comunione” dei vescovi tra loro e con il Papa. Dobbiamo forse ritenere che questa “comunione” fosse concepita sin dall’inizio nei termini del concetto di “collegio” dei Romani?  Una prospettiva del genere sembra del tutto anacronistica.  L’idea di questo esser in comunione, effettivamente presente sin dall’inizio della Chiesa, non permette di individuare l’esistenza di un vero e proprio “collegio” dei vescovi, cioè di un soggetto giuridico definito, titolare di diritti e sottoposto a doveri, dotato di personalità giuridica, nel quale tutti i membri godono di una posizione paritaria, compreso il loro capo, il Papa, primus inter pares che agisce per il collegio.  La “comunione” esistente sin dai primi tempi della Chiesa riguardava “il comunicare fraterno” dei vescovi, tra loro e con il Papa, ed era comunione gerarchica per ciò che riguardava i rapporti con quest’ultimo.  Mostrava l’esser in comunione di un ordine, quello dei vescovi, concepito non come un ordinamento giuridico, ma come un “ordo” o “coetus” in senso puramente morale, secondo una prospettiva intrinsecamente religiosa e in sostanza sovrannaturale.

Non si trattava, infatti, di una costruzione giuridica ma, come sottolineò giustamente Paolo VI, di “un modo di vivere”, soggiungendo però che ora esso trovava “espressione anche in un’esplicita dottrina redatta in una sicura formula dottrinale”[35].  La “sicura formula dottrinale” era appunto quella di LG 22.2.  “Con parole così perentorie il Papa dava l’impressione di porsi ben al di là del limite non definitorio, che il Vaticano II s’era prefisso”, commenta Mons. Gherardini[36].  Secondo Paolo VI il Vaticano II non era allora un semplice Concilio “pastorale” (vedi infra, cap. XIX, § 5).  Ma la cosiddetta sicura formula dottrinale – continua Mons. Gherardini – dà vita in realtà ad un “collegio anomalo”.  Vediamo perché.

10.1  Una nozione “anomala” di collegio

All’inizio di LG 22.1 c’è una “dichiarazione di principio” che “allaccia la collegialità alla volontà stessa di Cristo”.  Infatti:  “Come S. Pietro e gli altri apostoli costituiscono, per volontà del Signore, un unico collegio apostolico, similmente [pari ratione] il romano Pontefice, successore di Pietro, e i vescovi, successori degli apostoli, formano tra loro un tutto [inter se coniunguntur]”.  Questa dichiarazione, commenta Mons. Gherardini, “pone una relazione analogica [con il pari ratione] fra il collegio composto da Pietro e dagli altri apostoli e quello composto dal Papa e dai vescovi, loro successori”.  In tal modo la cerniera di tutto il complesso rapporto sembra costituita dalla successione apostolica.  “L’accento cade dunque – e giustamente – sulla successione apostolica”.  Perché deve cadere sulla successione apostolica?  Perché “solamente questa, promovendo per via sacramentale la consacrazione e la comunione gerarchica, è la radice della collegialità.  La conseguenza è che si è costituiti membri del collegio episcopale in virtù della consacrazione e della comunione gerarchica e che non c’è collegio se non con- e per la presenza capitale del successore di Pietro (LG 22 1.2)”[37].

Tutto a posto, allora.  La successione apostolica si può inquadrare nel concetto di collegio episcopale, visto che esso contempla sempre la presenza di Pietro come suo capo.  Tuttavia, come vedremo, questa stessa frase è ambivalente, nel senso che il parallelismo che essa stabilisce fra Pietro e i Dodici e il Papa con i vescovi, è piuttosto ambiguo.  Ma vediamo innanzitutto i problemi posti dal concetto di “collegio”.

Rileva, infatti, Mons. Gherardini:  “Se non che, una tale presenza [del Papa] contraddice l’idea stessa di collegio, i cui membri, secondo Ulpiano (Dig. 50,6,173), godon tutti dello stesso potere; altre fonti confermano:  il collegio riveste i suoi membri di pari dignità ed onore”[38].  Voglio ricordare, a questo punto, quanto scrive Mommsen: “In linea di principio la collegialità esige l’eguaglianza di diritto nei magistrati che stanno l’uno accanto all’altro, quindi egual titolo ed eguali facoltà (par potestas), e in ordine ai consoli, agli edili, ai questori, ai tribuni della plebe e in generale alla maggior parte dei magistrati ordinarii e straordinarii la collegialità è stata applicata in questa guisa.  Collegialità con potestà disuguale o disuguale competenza è a tutto rigore una contradictio in adiecto[39].  Il capo del collegio è considerato un primus inter pares.  Ciò significa che un collegio in senso proprio non può ricomprendere un capo come il Romano Pontefice, che di certo non può esser considerato un primus inter pares e godere unicamente degli stessi poteri degli altri membri.

E ritorno a Mons. Gherardini.  “In quello, dunque, che vien impropriamente chiamato collegio dei vescovi, è senza dubbio presente il vescovo titolare della sede romana, il quale però non per questo cessa d’esser Papa, tale essendo appunto in quanto vescovo di Roma.  Quello che ne risulta è allora un collegio anomalo”. Infatti, le caratteristiche fondamentali del vero collegio non si possono applicare ad esso, esorbitando la potestà di giurisdizione del Papa da quella di ogni altro membro del collegio.  In quanto vescovo, il Papa vi sta come vescovo; in quanto Papa, non vi sta come vescovo ma come Papa, con una potestas che eccede quella del capo di un collegio (limitata al collegio) estendendosi a tutta la Cattolicità.   Per restare nella tipologia del “collegio” il Papa dovrebbe esser appunto abbassato a semplice primus inter pares e non avere individualmente la giurisdizione su tutta la Chiesa.  Cosa impossibile (anche se proprio a questo miravano, secondo molti, i Neomodernisti infiltrati).  Ma un collegio “anomalo” è un vero collegio?  Evidentemente no.  E sarebbe stato meglio, conclude Mons. Gherardini, non usare questo termine ma limitarsi a quelli tradizionali di coetus, corpus (oppure ordo), che pur compaiono più volte nei testi conciliari[40].

Ma la Nota explicativa praevia 1, soggiunge l’Autore, non precisa forse che “la parola collegio non va intesa in senso strettamente giuridico” e quindi “non nel senso d’Ulpiano e delle altre fonti”?  Vediamo cosa dice la Nota praevia sul punto.

“”Collegio” non si intende in senso “strettamente giuridico”, cioè di un gruppo di eguali, i quali abbiano demandata la loro potestà al loro presidente, ma di un gruppo stabile, la cui struttura e autorità deve essere dedotta dalla Rivelazione [Collegium non intelligitur sensu stricte iuridico, scilicet de coetu aequalium, qui potestatem suam praesidi suo demandarent, sed de coetu stabili, cuius structura et auctoritas ex Revelatione deduci debent]” (NP 1).  Che non debba intendersi così, proseguiva il testo, lo si deve capire anche dalle risposte della Commissione Teologica Mista alle riserve (modi) avanzate da diversi Padri conciliari, le quali risposte mettono in rilievo l’analogia tra collegio e gruppo o ordine (“il Signore li costituì a modo di collegio o gruppo [coetus] stabile”). Gruppo o ordine (ordo) o corpo (corpus) (NP 1).    

 Che il “collegio” non possa esser qui inteso in senso “strettamente giuridico” è del tutto evidente per Mons. Gherardini, che ne ha appena esposto il carattere “anomalo”.  L’osservazione della NP gli sembra “ineccepibile”.  E giustamente, perché in tal modo si fa salva la posizione particolare del Papa ossia il suo Primato.  Se il “collegio” non è tale dal punto di vista strettamente giuridico, ne consegue, rileva, “che il Papa non è nel collegio allo stesso titolo e per la stessa ragione di tutti gli altri vescovi:  c’è infatti come Papa, primate assoluto, con una funzione fondante (formale) il collegio stesso, che senza di lui o contro di lui non è più collegio, ma solo un insieme o una somma di vescovi”[41].

Osservazione mia:  il collegio resta comunque anomalo.  Anzi: se esso non può esser inteso “in senso strettamente giuridico” non è un vero collegio.  Cos’è allora?  Siamo sempre ai concetti pasticciati del Vaticano II.  Non è vero “collegio” ma un “corpo”, o “coetus”, “ordo”.  La caratteristica del collegio, oltre alla par condicio dei suoi membri, è quella di possedere determinati poteri come un unico soggetto, che vengono esercitati mediante il capo del collegio stesso.  Tale caratteristica permane anche nel collegio che non è vero collegio ma semplice “coetus stabilis” di vescovi?  Per esser “stabile”, questo coetus aveva bisogno di esser concepito come “collegio” dal Concilio?  Evidentemente no, dato che per tanti secoli nessuno ne ha mai messo in dubbio la “stabilità”, senza per questo farne un “collegio” in senso specificio.  E proprio perché “la struttura e autorità del coetus” era dedotta dalla Rivelazione, che non lasciava intravedere l’esistenza di un collegio in senso “strettamente giuridico”.  La “stabilità” del corpo episcopale non c’entra, dunque.  Il fatto è che la LG non si preoccupava tanto della “stabilità”  del corpo dei vescovi (che nessuno metteva in discussione) quanto di attribuire a questo corpo la potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa, come se fosse un unico soggetto, cosa che comportava la sua erezione a “collegio” nel senso giuridico del termine.  Mi sembra pertanto che la NP invochi a sproposito la “stabilità” del corpo episcopale quale ratio sottostante all’adozione del concetto di collegio.  È una spiegazione che, a mio avviso, non spiega nulla.  L’affermazione che il collegio non può esser inteso in senso “strettamente giuridico” trova, tuttavia, la sua giustificazione per ciò che riguarda il suo rapporto con la figura del Papa.  Ma a maggior ragione questo “collegio” che non può essere “strettamente giuridico” non è vero “collegio” e resta una figura ibrida che indebolisce sia l’autorità dei singoli vescovi che il Primato di Pietro.

Della Nota praevia Mons. Gherardini critica un altro aspetto, l’interpretazione che essa offre del parallelo tra Pietro e gli Apostoli da un lato, il Papa e i vescovi dall’altro, proposto all’inizio di LG 22.1, nel passo già visto, che ora debbo ripetere.  “Come S. Pietro e gli altri apostoli costituiscono, per volontà del Signore, un unico collegio apostolico, similmente il romano Pontefice, successore di Pietro, e i vescovi, successori degli apostoli, formano tra loro un tutto [Sicut, statuente Domino, sanctus Petrus et ceteri Apostoli unum Collegium apostolicum constituunt, pari ratione Romanus Pontifex, successor Petri, et Episcopi, successores Apostolorum, inter se coniunguntur]”. 

Da questa analogia, cosa si deduce?  Che, come Pietro e gli Apostoli hanno formato, per istituzione divina, un unico collegio apostolico, allo stesso modo lo formano tra di loro il Papa e i vescovi. Si è visto che questo passo ha il merito di riproporre il valore fondamentale della successione apostolica.  Ma l’analogia in esso contenuta comportava anche due conseguenze negative:  a)  dava ad intendere che i poteri di S. Pietro e degli Apostoli fossero passati integralmente al Papa e ai vescovi, compresi quindi i poteri straordinari testimoniati nella S. Scrittura, quali il dono della profezia, la capacità di fare miracoli etc., il che non è;  b)  permetteva, a chi lo volesse, di vedere solo o principalmente nel “collegio”, con la sua intrinseca unità, il tratto che univa tra loro Pietro e Apostoli e Papa e vescovi:  il collegio assai più che la volontà divina da un lato e assai più che la successione apostolica dall’altro.  Il concetto di “collegio” diventava allora la cerniera tra la “Chiesa primitiva” e quella fondata sulla successione apostolica.

Come cercava la NP di chiarire la cosa?  In questo modo:  “Il parallelismo fra Pietro e gli altri Apostoli da una parte, e il sommo Pontefice e i vescovi dall’altra, non implica la trasmissione della potestà straordinaria degli apostoli ai loro successori, né, com’è chiaro, “uguaglianza” (aequalitatem) tra il capo e le membra del collegio, ma solo “proporzionalità” (proportionalitatem) fra la prima relazione (Pietro-Apostoli) e l’altra (Papa-vescovi).  Perciò la Commissione [Teologica Mista] ha stabilito di scrivere nel n. 22.1 [della LG] non “medesimo” (eodem) ma “pari” (pari) modo” (NP 1).

Perché Mons. Gherardini trova “discutibile” questo parallelismo, unitamente alla spiegazione che ne dà la Nota praevia?   Vediamo.  Abbiamo qui, scrive, “un parallelismo non già d’uguaglianza fra il capo del collegio e l’insieme dei colleghi, ma di proporzionalità fra la posizione di Pietro e degli apostoli nel collegio apostolico e quella del Papa e dei vescovi nel collegio dei loro successori.  Tale proporzionalità, infatti, troverebbe espressione nel “pari ratione” di LG 22.1”, ossia nel “similmente” o “pari modo”.   Ciò significa che Papa e vescovi, pur essendo “colleghi a pari titolo (pari ratione) di Pietro e degli Apostoli”, non possiedono l’uguaglianza “tra il capo e le membra del collegio”, uguaglianza che sarebbe di tipo giuridico, ma solo la “proporzionalità”.  Ma allora “in che senso può giustificarsi l’asserito possesso dell’identica “suprema e piena potestà su tutta la Chiesa” da parte del Papa e del collegio dei vescovi”, di cui a LG 22.2?[42]  Questo famoso asserto resta appeso per aria, nel senso che la spiegazione della Nota praevia gli taglierebbe l’erba sotto i piedi.  Per qual motivo?  Perché, continua l’Autore, attribuire al Papa con il collegio questa “suprema e piena potestà su tutta la Chiesa” non equivale forse a “trasferire ai successori quella “potestà straordinaria” e quei doni “personali” che Pietro e gli Apostoli avevan da Cristo ricevuto a titolo personale e che la NP s’affretta a negare come eredità apostolica?”[43].  Sulla base della spiegazione fornita da NP 1, il Concilio mai avrebbe dovuto parlare di “suprema e piena potestà su tutta la Chiesa” da parte del collegio perché ciò dimostrerebbe, secondo Mons. Gherardini, l’assenza della cosiddetta “proporzionalità”. 

In altre parole:  il dettato di LG 22.2 dimostra che nelle intenzioni del Concilio non si è trattato di “proporzionalità” ma di “uguaglianza” perché l’attribuzione della “suprema e piena potestà su tutta la Chiesa” al collegio con il Papa altro non significa che trasmettere ad esso quella “potestà straordinaria” che la NP nega possa esser stata trasmessa.  Lo nega con la sottile distinzione tra “uguaglianza” e “proporzionalità”, ricavata speculando sulla differenza tra due espressioni che nel parlare comune indicano in genere la stessa cosa: “allo stesso modo” o “in pari modo”.  Che differenza c’è, mi chiedo?  E dobbiamo far dipendere la difesa della retta dottrina da giochetti ermeneutici di questo tipo?  E difatti non si è difeso un bel niente.  Ovvero:  i bizantinismi di NP 1 non dimostrano che il dettato conciliare sia in accordo con la dottrina della Chiesa.  Quella frase di LG 22.2, pesante come un macigno (“La suprema potestà che questo collegio possiede su tutta la Chiesa”), dimostra che si è voluto trasferire ai successori proprio quella potestà straordinaria che Pietro e gli Apostoli possedevano (come collegio, secondo il Concilio).  E lo dimostra ancor meglio, conclude l’Autore, il dettato più ampio e tante volte già citato di LG 22.2, nel quale si stabilisce, accanto alla suprema potestas del Papa uti singulus, anche quella dell’ordine dei vescovi, con il limite dell’autorizzazione pontificia al suo esercizio.  Con il che, accanto a due distinti soggetti titolari della suprema potestà di giurisdizione, compaiono anche due diversi esercizi della stessa, uno libero (quello del Papa) ed uno vincolato (quello del collegio)[44]. 

10.2  Il “salvataggio” di LG 22.2 secondo Mons. Gherardini

Per rendere il dettato di LG 22.2 coerente con la dottrina della Chiesa, Mons. Gherardini fa vedere come sia necessario mutare il significato del parallelismo or ora esaminato.  Bisogna considerarlo non più tra il “collegio” di Pietro e degli Apostoli di contro al “collegio” del Papa e dei vescovi, “bensì all’interno di quello tra Papa e vescovi”[45]. 

LG 22.2 afferma, come ormai ben sappiamo, che l’ordine dei vescovi “insieme col suo capo e mai senza, è esso pure soggetto (subiectum…quoque) di suprema e piena potestà su tutta la Chiesa, sebbene tale potestà non possa essere esercitata se non col consenso del Romano Pontefice”.  Mons. Gherardini costruisce la sua interpretazione dall’analisi dei due usi dell’avverbio “quoque” (pure, anche).  “Quoque” ha una funzione predicativa, “quando predica d’uno stesso soggetto più aspetti o più doti:  Pietro è il pescatore di Galilea, ma anche (“quoque”) l’apostolo, anzi (“quoque”) il primo degli apostoli chiamati da Cristo etc.”[46].  “Quoque” ha una funzione reduplicativa quando “raccorda più soggetti su una medesima piattaforma o nel disbrigo d’uno stesso affare:  anche (“quoque”) Pietro era presente insieme con Giacomo e Giovanni”[47].

Per ciò che riguarda il nostro argomento, la seconda funzione va esclusa perché è quella che mantiene la duplicità di titolarità ed esercizio della summa potestas. Il suo asserto è infatti il seguente:  “Il Papa ha la piena suprema potestà nella Chiesa e l’ha pure/quoque il collegio”.  Resta la prima, quella predicativa:  “Il Papa, “seorsim et quoque collegialiter” (cioè tanto da solo, quanto unitariamente al collegio e come suo capo), è il soggetto della piena ed universale potestà ecclesiastica (dove quoque ha evidentemente il significato di anche, e collegialiter allude ad una seconda modalità d’esercizio, quella del Papa unitamente ai membri del collegio)”[48].

Il brillante argomento escogitato dall’Autore sembra indubbiamente l’unico in grado di salvare la “collegialità” proposta da LG 22.2, riconducendola nell’alveo della dottrina della Chiesa, anche se l’interpretazione che esso dà del “collegialiter” non sembra affatto collimare con quella voluta dal Concilio.  L’interpretazione gherardiniana ripropone in pratica (e giustamente) la dottrina di sempre:  il Papa è l’unico titolare della summa potestas che esercita da solo o collegialmente.  Stop.  Collegialmente, come e quando?  Quando la vuole esercitare anche con tutti i vescovi, riuniti con lui in un Concilio ecumenico.  Per far valere il suo argomento, l’Autore deve riferire l’anche al solo esercizio della summa potestas: quando lo voglia il Papa, esso è anche collegiale.  Se lo riferisse anche alla titolarità della stessa, ne manterrebbe il dualismo, contro la sua tesi.  Invece, per il Concilio, l’anche resta sempre “reduplicativo”:  il Papa ha la summa potestas da solo e ce l’ha anche il collegio con il Papa a suo capo, a prescindere dal suo esercizio.  Quello che, a mio avviso, LG 22.2  vuole evitare è che la collegialità emerga solo nell’esercizio di quella summa potestas che il Papa già possiede seorsim, individualmente.  L’applicazione della tesi emendatrice di Mons. Gherardini in realtà cambierebbe completamente il significato del testo.

Il testo appare difficilmente emendabile. E non solo, come sottolinea alla fine l’Autore, “per il modo un po’ confuso con cui espone e formula la sua “dottrina”, del quale egli non trova una spiegazione, così come non la trova del “carattere innovativo di essa rispetto alla dottrina tradizionale” nonché “dell’accanimento con cui tale innovazione è stata fin ad oggi dichiarata ed esaltata come dottrina “definitiva”, anche se proposta “non definitorio modo”, ossia non nella forma di una definizione dogmatica”.  E non la trova nemmeno della pretesa di Paolo VI di attribuirle “una sua validità dogmatica e vincolante che invece non ha e che non può avere”[49].  La spiegazione forse c’è e rimanda sempre al Mysterium iniquitatis:  la “dottrina” della nuova collegialità, che permeava tutto il fronte dell’Alleanza Europea e dei suoi amici, esprimeva lo spirito di ribellione e l’ostilità dei Neomodernisti per il Papato e per “Roma”, per gli “italiani” che costituivano la gran maggioranza della Curia, per tutte le forze istituzionalmente garanti del Deposito della Fede e dell’etica cristiana.  Basta leggere, a titolo di esempio, il diario del bilioso Congar[50].

 

  

 

 

 

       

 



[1] GHERARDINI, D, 234-242.  [Ricordo che questo testo di mons. Gherardini è da me indicato con D,  mentre la C maiuscola individua il libro del prof. Cantoni, avverso alle tesi di mons. Gherardini].

[2] C, 43.  In Quod et tradidi vobis, il riferimento alla collegialità è alle pp. 378-9.

[3] C, 43.

[4] C, 44.

[5] “Affinché poi lo stesso episcopato fosse uno ed indiviso, prepose agli altri apostoli il beato Pietro e in lui stabilì il principio e fondamento perpetuo e visibile dell’unità di fede e di comunione.  Questa dottrina della istituzione, della perpetuità, del valore e della natura del sacro primato del romano Pontefice e del suo infallibile magistero, il santo Concilio la propone di nuovo a tutti i fedeli come oggetto certo di fede” (LG, 18.2).  L’art. 25 si sofferma soprattutto sul dogma dell’infallibilità del Papa:  “Di questa infallibilità [della dottrina della Chiesa sulla fede e i costumi] il romano Pontefice, capo del collegio dei vescovi, fruisce in virtù del suo ufficio, quando, quale supremo pastore e dottore di tutti i fedeli che conferma nella fede i suoi fratelli (Lc 22, 32), sancisce con atto definitivo una dottrina riguardante la fede e la morale”.  Si noti, comunque, che il Papa viene indicato come “capo del collegio dei vescovi”, non come “capo della Chiesa universale”, dell’unica vera Chiesa di Cristo, la Chiesa Cattolica Romana.

[6] VINCENZO DEL GIUDICE, Nozioni di diritto canonico, 12 ediz. rifatta e interamente aggiornata in collaborazione con G. Catalano, Giuffré, Milano, 1970, p. 183; pp. 177-186 su papato e collegialità.

[7] LG , 22.2

[8] C, 44.

[9] Per la Nota esplicativa previa, vedi la tr. it. in calce alla Lumen gentium, ne: I Documenti del Concilio Vaticano II, cit., pp. 147-150. La Nota verrà citata anche come:  NP.

[10] AMERIO, Iota Unum, cit., pp. 79-80 (§ 44).

[11] Vedi DEL GIUDICE, op. cit., pp. 178-9.

[12] Decisioni dei Concili Ecumenici, cit., p. 775 (DS 1827/3060).

[13] Ivi, pp. 776-7, per tutte le citazioni (DS 1830-1/3063-4).  Il Concilio ricordava anche che la suprema potestà di giurisdizione del Papa su tutta la Chiesa è del tutto indipendente da ogni potere statuale e che nessuno Stato ha il diritto di ostacolarne l’esercizio, che è valido ed efficace a prescindere da ogni riconoscimento del diritto dello Stato (ivi).

[14] Decisioni etc., cit., p. 775 (DS 1828/3061).

[15] AMERIO, Iota Unum, cit., p. 443 (§ 233).

[16] C, 44; DS 3112-3117.

[17] LEONE XIII, Satis cognitum, in Acta Leonis, XVI, p. 205.  Il testo di S. Tommaso richiamato dal Papa si trova in:  In IV Sent., dist. XVII, a. 4, ad q. 4, ad 3.

[18] Sul significato figurato di “pasce (bóske) agnos meos, pasce (poímaine) oves meas”, vedi LGNT, voce bóskō, pasco.  Già nell’Antico Testamento l’immagine del “pascere” del pastore indicava per metafora “il governo dei sudditi” (voce cit.).

[19] Come esempio di quella che chiamo esegesi faziosa dei Neomodernisti, mi limiterò a ricordare il tentativo dell’esegeta Stanislao Lyonnet S.I. (accusato a suo tempo di aver negato il dogma del peccato originale) di sminuire il ruolo di S. Pietro nell’elezione dell’Apostolo Mattia, sulla falsariga del protestante Oscar Cullmann, perché S. Pietro avrebbe esercitato la sua autorità “in stretta unione con gli altri apostoli”. Osserva egli:  “Per l’elezione di Mattia Pietro prende l’iniziativa ma è poi l’assemblea che propone i due candidati:  “Giuseppe detto Bar-Sabba e Mattia”, invoca il Signore, e tira la sorte”.  Ma questo “potere di iniziativa”, osservo io, chi l’aveva conferito a Pietro, l’assemblea o Nostro Signore?   E  non si trattava solo di un “potere di iniziativa” e quindi di una proposta da mettere ai voti ma di una decisione già ben definita su cosa si dovesse fare, accettata senza fiatare: scegliere un nuovo Apostolo tenendo conto di un certo criterio.  Era un modo nel quale si manifestava la potestà di governo sulla Chiesa, che Pietro aveva ricevuto direttamente dal Signore risorto.  Era ovvio che tale potestà si esercitasse “in stretta unione con gli altri apostoli”:  questo “esercizio” non dimostra nulla contro il Primato. (Vedi:  STANISLAO LYONNET S.I., I fondamenti scritturistici della collegialità, ne: La Chiesa del Vaticano II, cit., pp. 793-809; 800-1). 

[20] PIO XII, Mystici Corporis, tr. it. cit., p. 34; DS 3804:  “episcopi […] non plane sui iuris sunt, sed sub debita Romani Pontificis auctoritate positi, quamvis ordinaria iurisdictionis potestate fruantur, immediate sibi ab eodem Pontifice Summo impertita”.

[21] Sull’improvvisa “conversione” dell’autorevole Mons. Parente alle tesi degli Ammodernanti e su quanto essa li abbia favoriti, vedi:  DE MATTEI, op.cit., pp. 433-4. Mons. Parente fu creato poco tempo dopo cardinale da Paolo VI, nel 1967 (ivi).

[22] JOSEPH RATZINGER, La collegialità episcopale:  spiegazione teologica del testo conciliare, in La Chiesa del Vaticano II, cit., pp. 733-60; p. 739.

[23] Riportato da DE MATTEI, op. cit., p. 433.

[24] Ivi, pp. 433-4.

[25] C, 44-5.

[26] C, 45-6.

[27] C, 46.

[28] C, 46-7.

[29] GHERARDINI,  D, 239.

[30] Ivi.

[31] C, 47.

[32] D, 236.

[33] Ivi.

[34] Ivi.

[35] Allocuzione del 21.11.1964, AAS, 56 (1964) 1110.  Citata da Mons. Gherardini.

[36] D, 236.

[37] D, 237.

[38] Ivi.

[39] THEODOR MOMMSEN, Disegno del diritto pubblico romano, tr. it. di Pietro Bonfante, rist. anast. ediz. del 1943 a cura di V. Arangio-Ruiz, CELUC, Milano, 1973, p. 154-5.

[40] D, 236-7.

[41] D, 237.

[42] D, 238.

[43] Ivi.

[44] D, 238-9.

[45] D, 240-1.

[46] D, 241.

[47] Ivi.

[48] Ivi.

[49] D, 241-2.

[50] YVES CONGAR, Mon Journal du Concile, 2 voll. Cerf, Paris, 2002:  l’odio per la Curia composta allora (in gran parte) di italiani e romani, accusati di esser ignoranti, di non conoscere il pensiero moderno, dal tratto libertino ed eterodosso che tanto piaceva ai Progressisti:  “Les Romains ne participent pas au courant  de la pensée vivante; ils ne le connaissent guère.   Rien de ce qui a été écrit d’intéressant sur des questions comme la morale sexuelle, le mariage, le péché originel, n’a été pris en considération” (I, p. 78); l’avversione violenta contro lo schema (eliminato in Concilio) di costituzione dogmatica sulla Santissima Vergine,  che voleva proclamarla  Mediatrice di tutte le Grazie:  “ Le soir, à l’Antonianum (salle des Promotions), discussion du texte même du chapitre De B. Maria V.  Je vis là le drame qui accompagne toute ma vie: la nécessité de lutter, au nom de l’Èvangile et de la foi apostolique, contre un développement, une prolifération méditerranéenne et irlandaise, d’une mariologie qui ne procède pas de la Révélation, mais a l’appui des textes pontificaux” (I, pp. 66-7);  le invettive contro il papato in quanto tale, contro la “Chiesa costantiniana”, che non avrebbe mai capito nulla:  “Et Pie IX règne encore.   Boniface VIII règne encore:  on l’a surimposé à Simon-Pierre, l’humble pêcheur d’hommes” (I, p. 109).  Tanto sdegno era provocato dall’imponente spettacolo, ivi inclusa la Messa solenne, della cerimonia inaugurale del Concilio, l’11.10.1962:  “La Messe commence […] Il n’y en a ici que pour l’oeil et l’oreille musicale:  aucune liturgie de la Parole.  Aucune parole spirituelle […] Après l’épitre, je quitte la tribune.  D’ailleurs, je n’en puis plus.  Et puis, je suis écrasé par cet appareil seigneurial et Renaissance” (ivi, p. 107).  La “Liturgia della Parola” cui aspiravano Congar e i suoi sodali, l’avremmo sperimentata noi fedeli, con la Messa del Novus Ordo, quella che ha svuotato le chiese.

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