Paolo Pasqualucci : Sessant'anni dal Concilio -- VI : La nuova ed ambigua collegialità promossa dalla costituzione Lumen Gentium sulla Chiesa.
Sessant’anni
dal Concilio – VI
VI
- La nuova ed ambigua collegialità
promossa dalla costituzione Lumen Gentium sulla Chiesa, di
Paolo Pasqualucci.
[Nota previa – Cambiamo adesso argomento,
saltando al cap. XV del mio libro, ‘Unam Sanctam. Studio sulle deviazioni
dottrinali nella Chiesa Cattolica del XXI secolo, Solfanelli, 2013. Il capitolo contiene un’analisi critica dell’art. 22 della
Lumen Gentium (=LG). Il capitolo porta
questo titolo: “Critica di ‘Lumen
Gentium’ 22 che sembra aver creato due
distinti titolari e due diversi esercizi della suprema potestas iurisdictionis
sulla Chiesa universale” - pp.
209-243. Prima di arrivare a questo
argomento la mia analisi si occupava di temi ugualmente importanti. Tuttavia non ritengo indispensabile riportarli
anche in questa carrellata retrospettiva. Due capitoli (il IX e il X) erano dedicati
alle discussioni sul “subsistit in”: a partire dalla critica di mons.
Gherardini all’infausto verbo per finire con una rispettosa polemica con il
cardinale prof. Karl J. Becker SI, che sosteneva la liceità dell’uso di questo
verbo.
Seguivano poi quattro
capitoli (XI-XIV) nei quali si criticava la nuova dottrina dell’Incarnazione
apparsa in ‘Gaudium et spes’ 22, l’articolo nel quale si trova la straordinaria
frase: “con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni
uomo”. Partendo da questo singolare
testo, che richiama un antico errore già combattuto dal Damasceno e
dall’Aquinate, mostravo la tendenza della teologia personale di Giovanni Paolo
II all’idea eterodossa della “redenzione universale” (come messo in luce dalle
approfondite analisi dello scomparso teologo tedesco, prof. Joseph Dörmann) e
l’influenza negativa esercitata da de Lubac, principale ispiratore della
concezione “antropocentrica” della salvezza diffusa da questi testi conciliari.
L’antropocentrismo, questo inusitato ospite del Concilio, si rinveniva, sulla
base di uno spunto di Romano Amerio, anche negli artt. 12 e 24 della ‘Gaudium
et spes’. Nel secondo c’è un’altra
singolare frase, secondo la quale “in terra l’uomo è la sola creatura che Dio
abbia voluto per se stessa” - quando
l’Antico Testamento ci dice chiaramente che Dio ha creato tutte le cose “per se
stesso”, per la sua gloria. Come
ricordava Amerio, “Universa propter semetipsum operatus est Dominus”, Prov, 16,
4.
Sul tema
dell’eterodossa “unione” del Cristo con ogni uomo – intesa da Giovani Paolo II
non in senso puramente simbolico bensì in senso ontologico e come tale
propalata sino ad oggi nella teologia prevalente – ho scritto parecchio, anche
in tempi recenti, ragion per cui non ho ritenuto opportuno riportare qui
l’analisi contenuta in ‘Unam Sanctam’.
Per la cronaca, a suo tempo ho pubblicato un saggio di 144 pagine
intitolato: Paolo Pasqualucci, L’ambigua
cristologia della redenzione universale.
Analisi di ‘Gaudium eet Spes’ 22, Editrice Ichthys, Albano Laziale,
2009. A questo testo, rimasto
praticamente chiuso nel circuito dei Priorati della Fsspx, ho fatto seguire una
versione ridotta, grazie alla stima della quale mi onorava mons.
Gherardini: Paolo Pasqualucci, La
Cristologia antropocentrica del Concilio Ecumenico Vaticano II, «Divinitas»,
LIV, Nova Series, N. 2, 2011, pp. 163-187.
L’art. 22 della
costituzione Lumen Gentium sulla Chiesa è molto importante, dal momento che
stabilisce un nuovo modo di intendere la collegialità – modo che da un lato
sembra in qualche modo intaccare il Primato petrino, dall’altro dà vita ad una
concezione sostanzialmente confusa, con due soggetti titolari della suprema
potestas di governo sulla Chiesa, il Papa da solo e il Collegio dei vescovi con
il Papa, uno dei quali (il Romano Pontefice) può esercitarlo liberamente mentre
l’altro (il Collegio con il Papa a capo) non può, dovendo sempre ricorrere
all’autorizzazione del Papa per tale esercizio.
Costruzione macchinosa, oltre che confusa.
La novità dottrinale
introdotto da LG 22.2 è stata così riassunta da Amerio, con la sua
caratteristica capacità di sintesi, nel par. 44 di ‘Iota Unum’. Questo passo l’ho citato nel mio libro ma
ritengo opportuno ripeterlo in via preliminare, permettendo esso di far
cogliere subito al lettore il punto essenziale della questione:
“La Nota praevia
respinge della collegialità l’interpretazione classica, secondo la quale il
soggetto della suprema potestà nella Chiesa è solo il Papa che la condivide,
quando voglia, con l’universalità dei vescovi da lui chiamati a Concilio. La postestà somma è collegiale solo per
comunicazione ad nutum del Papa. La Nota praevia respinge parimenti la dottrina
neoterica [neomodernista], secondo la quale il soggetto della suprema potestà
nella Chiesa è il collegio unito col Papa e non senza il Papa che ne è il capo,
ma in guisa tale che quando il Papa esercita, anche solo, la suprema potestà,
la esercita in quanto capo appunto del collegio e quindi come rappresentante
del collegio che egli ha l’obbligazione di consultare per esprimerne il
senso. È la teorica improntata a quella
dell’origine moltitudinaria [democratica] dell’autorità, difficilmente
compatibile con la costituzione divina della Chiesa. Rifiutando l’una e l’altra
di queste due teorie la Nota praevia tiene fermo che la potestà suprema è sì
nel collegio dei vescovi unito al loro Capo, ma che il Capo può esercitarla
indipendentemente dal Collegio, mentre il Collegio non può indipendentemente
dal Capo”.
Il primato petrino,
annoto, sarebbe in tal modo mantenuto ma soprattutto quanto all’esercizio della
suprema potestas non quanto alla sua titolarità. Quest’ultima è ora attribuita anche al
Collegio con il suo capo e non più al solo Pontefice. Quanto al suo esercizio, il Collegio ha
sempre bisogno dell’autorizzazione del Capo, il quale può invece esercitarla da
solo, senza dover richiedere alcuna autorizzazione al Collegio.
Sembra difficile
negare che qui ci sia stato un mutamento dottrinale e di rilevante portata,
nonostante sia stata respinta la tesi più radicale dei Neomodernisti mirante a
fare del Papa un semplice rappresentante del Collegio e in sostanza un suo
portaparola.
Il lettore si
chiederà: perché si cita una Nota praevia, per l’esatttezza ‘Nota explicativa
praevia’? Riprendo Amerio, sempre al
par. 44 della sua opera: “Qui peraltro
non è da preterire la singolarità, anche formale, della Nota praevia. In primo
luogo, nella storia dei Concili non v’è esempio di un glossema di tal fatta
apposto a una Costituzione dogmatica quale è la Lumen Gentium e ad essa
organicamente collegato. In secondo
luogo, sembra inesplicabile che nell’atto medesimo in cui promulga un documento
dottrinale, il Concilio, dopo tante consultazioni, emendamenti, cribrazioni,
accoglimenti e reiezioni di ‘modi’ [riserve], emani un documento così
imperfetto da dovervi accompagnare una chiosa esplicativa. Infine una curiosa
singolarità di questa Nota praevia: si
dovrebbe leggere prima della Costituzione a cui è allegata e viceversa si legge
stampata dopo di essa”.
La vicenda della Nota
praevia, imposta soprattutto dalla robusta minoranza rimasta fedele al dogma
per costringere il Papa a chiarire le ambiguità della Lumen Gentium, la dice lunga
sul clima di confusione e permanente conflitto dottrinale nel quale si è svolto
il Vaticano II, a causa dell’azione eversiva degli Ammodernanti, riusciti ad
impadronirsi del Concilio stesso, con la complicità dei Papi al tempo regnanti].
* * *
XV.
CRITICA DI “LUMEN GENTIUM” 22, CHE SEMBRA AVER CREATO DUE DISTINTI
TITOLARI E DUE DIVERSI ESERCIZI DELLA SUPREMA POTESTAS IURISDICTIONIS SULLA
CHIESA UNIVERSALE
1. La critica di Mons. Gherardini a LG 22.2
enunciata ma non discussa
Anche per Mons. Gherardini,
come per molti altri, la nuova idea di collegialità episcopale proposta
dal Vaticano II sembra costituire un notevole “punto di rottura” con la
dottrina della Chiesa. Nel Discorso da fare, egli dedica otto dense
pagine di riflessioni a questa famosa nuova collegialità[1]. Ma nella sua replica sul punto, il prof.
Cantoni non ne discute gli argomenti. Si limita a riportare un’affermazione di
carattere generale dell’illustre teologo, a conclusione di due pagine dedicate
allo stesso tema in Quod et tradidi vobis. Ecco il passo:
“[…] anche
senz’entrare nell’esame critico della discussa collegialità dei vescovi, è per
me estremamente facile rilevare il contrapporsi della collegialità, quale fu
dal Vaticano II teorizzata, alla struttura originariamente comunionale della
Chiesa ed alla testimonianza della Tradizione apostolica. Contrapposizione: dunque rottura e discontinuità”[2].
La nuova collegialità
non si armonizzerebbe con il concetto originario della “struttura comunionale”
della Chiesa. “Collegialità” contro
“Comunione”, dunque. Per quali motivi,
noi lettori non se siamo informati.
Interessa invece al prof. Cantoni esporre la sua propria difesa della
legittimità della nuova concezione. Di
contro alle affermazioni di Mons. Gherardini, l’Autore afferma infatti: “Io direi invece che se c’è un argomento che
può costituire insieme verifica ed esemplificazione della legge dello sviluppo
della Chiesa è proprio quello della “collegialità”, avendo cura di collegare
l’argomento della collegialità con quello della sacramentalità dell’episcopato
perché essi si trovano strettamente connessi come l’effetto alla sua radice”[3].
Gli argomenti
utilizzati dal prof. Cantoni coincidono più o meno con quelli dell’attuale
vulgata, ripetuta da tutti coloro che sostengono esser la nuova idea di
collegialità perfettamente in linea con la dottrina della Chiesa e niente
affatto pericolosa per il Primato del Sommo Pontefice. Tuttavia, come già nel caso del cardinale
Becker, l’Autore non mi sembra in grado di concludere le sue dimostrazioni in
modo soddisfacente, sul piano del discorso lineare. Come si è visto, il cardinale Becker, per
venire a capo delle ambiguità conciliari è costretto ad ipotizzare
l’oscura nozione di “azione in senso
traslato” dello Spirito Santo sulle Comunità acattoliche. Il ragionamento del prof. Cantoni, come si
vedrà, si appiglia alla fine all’idea del “mistero” (valvola di sfogo di tutti
i Modernismi) per giustificare in qualche modo l’idea contraddittoria di due titolari
del potere sovrano di giurisdizione sulla Chiesa, ricavabile dall’art. 22.2 di
LG. Ma procediamo con ordine.
2. Il
dettato di LG 22.2 non avrebbe inficiato il Primato
La continuità tra il
Vaticano I, che chiarisce e ribadisce il concetto del Primato di Pietro,
primato sempre esistito nella Chiesa, e il Vaticano II che introduce un nuovo
concetto di collegialità episcopale, costituisce un punto fermo per il Nostro.
“Il Vaticano II si
propose in modo esplicito di continuare il concilio Vaticano I, in particolare
integrando con una trattazione dell’episcopato quanto insegnato sul primato del
Papa. Che fosse una integrazione
e non una correzione fu espresso in modo evidente nel riprendere e
riaffermare quanto precedentemente deciso [dal Vaticano I] sul primato del
Papa. Le prerogative del Sommo Pontefice
rimangono quindi esattamente nei termini solennemente definiti dal concilio
precedente”[4].
Integrazione, dunque. E difatti
gli artt. 18 e 25 della LG riaffermano espressamente la dottrina del Primato,
richiamandosi al dogmatico Vaticano I[5]. Ma ciò non toglie che nel Vaticano II ci
siano state novità tali da richiedere per l’appunto un esame approfondito della
loro consonanza al Magistero anteriore.
E difatti, ora il pastorale Vaticano II ci viene a dire (LG 21) che la
consacrazione del vescovo conferisce di per sé, oltre al potere d’ordine, anche
quello di insegnare e governare, ossia il potere di giurisdizione, senza più
bisogno dell’ulteriore intervento del Papa con quell’atto che si chiama
“missio” o “institutio canonica”. La
“missio” è declassata ad atto indispensabile per l’esercizio dei
“munera” del vescovo, come spiegano LG 24.2 e la Nota explicativa praevia,
§ 2, fatta apporre in appendice alla LG da Paolo VI per rispondere alle
gravi obiezioni sollevate dai difensori della Tradizione. La “missio canonica”
designa adesso “la facoltà concessa dal Pontefice [ai vescovi] di trattare
collegialmente una determinata materia” vale a dire di esercitare la suprema
potestas di giurisdizione su tutta la Chiesa in quella determinata
materia[6]. Un cambiamento davvero notevole, che investe
la dottrina e quindi si fa sentire anche nella prassi visto che dottrina e
prassi sono sempre intimamente connesse.
Inoltre, invece di dire (come nel Codice di diritto canonico del 1917 c.
219) che il primato del Pontefice (la plena et suprema iurisdictionis
potestas) è “di diritto divino” (iure divino), ci si limita ad
apporvi l’aggettivo “sacro” (LG 18.2), che nel contesto appare meramente
descrittivo e comunque generico.
Recita infatti LG 21,
dedicato alla “sacramentalità dell’episcopato”: “[…] La consacrazione
episcopale conferisce pure [oltre alla “pienezza del sacramento dell’ordine”],
con l’ufficio di santificare, gli uffici di insegnare e governare [Episcopalis
autem consecratio, cum munere sanctificandi, munera quoque confert docendi et
regendi]; questi però, per la loro
natura, non possono essere esercitati [exerceri possunt] se non nella
comunione gerarchica col capo e con le membra del collegio” (LG 21.2). L’art. 22.2 completa il quadro: “[…] D’altra parte, l’ordine dei vescovi [ordo
autem episcoporum] […] è anch’esso insieme col suo capo il romano
Pontefice, e mai senza questo capo, il soggetto di una suprema e piena potestà
su tutta la Chiesa, sebbene tale potestà non possa esser esercitata se non col
consenso del romano Pontefice [una cum Capite suo Romano Pontifice, et
numquam sine hoc Capite, subiectum quoque supremae ac plenae potestatis in
universam Ecclesiam existit, quae quidem potestas nonnisi consentiente Romano
Pontifice exerceri potest]”.
Nel prosieguo, LG 22.2
riconosce ovviamente che “solo Simone è stato posto come pietra e clavigero
della Chiesa e pastore di tutto il suo gregge”.
Tuttavia, specifica che “l’ufficio di legare e sciogliere (ligandi ac
solvendi munus), che è stato dato a Pietro (Mt 16.19), è noto esser stato
pure concesso al collegio degli apostoli, congiunto con il suo capo [collegio
quoque apostolorum, suo Capiti coniuncto]”.
Cristo ha dunque conferito il potere di “legare e sciogliere” ossia il
potere d’ordine non tanto ai singoli Apostoli quanto al “collegio”, sempre con
Pietro a capo, ed anzi avrebbe Egli stesso istituito il “collegio” degli
Apostoli con siffatto conferimento. Nel
collegio, prosegue LG 22.2, i vescovi, “rispettando fedelmente il primato e la
preminenza del loro capo, esercitarono la propria potestà per il bene dei loro
fedeli, anzi di tutta la Chiesa”. Nel
Concilio ecumenico, “la suprema potestà che questo collegio possiede su tutta
la Chiesa, è esercitata in modo solenne”[7].
La prima domanda che il fedele si pone è
questa: come può l’ordine o collegio dei
vescovi esser titolare (subiectus) di una suprema e piena potestà (di
giurisdizione) su tutta la Chiesa, se il Signore ha posto il solo Pietro quale
“pietra”, “clavigero” e “pastore di tutto il gregge”? Può perché, ci dice il testo, “è noto che
questo potere è stato concesso anche al collegio degli Apostoli, sempre
congiunto con il suo capo”. Chi non
conosce i Testi e la dottrina della Chiesa può credere quindi che Cristo abbia
dato al Collegio degli Apostoli sub Petro lo stesso potere che aveva
conferito a Pietro. Qual è questo
potere? Di giurisdizione o
d’ordine? Il testo non specifica. Dice infatti:
“suprema e piena potestà su tutta la Chiesa”. Omette: “di
giurisdizione”, omissione che tuttavia non impedisce di far capire che si
tratta proprio della potestà di giurisdizione (e di quale altra,
altrimenti?). Subito dopo, tuttavia, è
costretto a mollare l’osso, se così posso esprimermi, perché deve precisare che
il potere conferito a Pietro e agli Apostoli è in realtà quello di “sciogliere
e legare”; è in realtà il solo potere di ordine, strettamente
sacerdotale, concernendo esso la facoltà da Nostro Signore data individualmente
agli Apostoli di rimettere o non i peccati (Mt 18,18; Gv 20,18). Rimettere o non i peccati in persona Christi
non ha nulla a che vedere col governo della Chiesa. LG 22.2 rimescola dunque le carte in tavola.
Inoltre, dobbiam
credere che, quando Nostro Signore ha detto agli Apostoli e a Pietro, come
aveva già preannunciato a Pietro: “ In
verità vi dico che tutto ciò che voi legherete sulla terra, sarà legato in
cielo e tutto ciò che voi scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo” (Mt
18,18), li abbia costituiti in “collegio”, con a capo Pietro? Collegio è nozione giuridica precisa,
configura un soggetto dotato di capacità giuridica, titolare di diritti e
doveri. A meno che non lo si intenda in
senso solo morale, spirituale.
Ora, il conferimento del solo potere d’ordine a tutti gli Apostoli, che
è un potere di rimettere individualmente i peccati, non si vede come possa far
venire in essere un soggetto giuridico unitario e quindi un “collegio”. Del resto la Chiesa, a quella fase della
missione di Cristo, era ancora in fieri: Egli la stava costruendo per gradi,
cominciando dai Dodici. E lo era ancora
dopo la sua Resurrezione. Il fantomatico
“collegio” lo si può immaginare solo facendo finta che il conferito potere
d’ordine fosse in realtà un potere di giurisdizione. Bisogna dire, dunque, che la prova
scritturale addotta da LG 22.2 per giustificare la sua nuova dottrina, non
regge all’analisi imparziale dei Testi (che, del resto, mai erano stati letti
in quel modo in passato).
Lumen Gentium 22.2 sembra anche
mutare la nozione di Concilio ecumenico.
Dice infatti: nel Concilio
ecumenico viene esercitata in modo solenne “la suprema potestà che questo
collegio possiede su tutta la Chiesa”.
Vale a dire: nel Concilio
ecumenico si ha esercizio solenne della potestà che il soggetto giuridico
collegio (presieduto dal Papa) possiede su tutta la Chiesa. Il Concilio ecumenico diventa allora
esercizio della suprema potestà della quale è titolare il Collegio dei
vescovi. Ma non è così (se non erro) che
si è inteso nei secoli il significato del Concilio Ecumenico. Esso era concepito come manifestazione della
suprema potestà di giurisdizione del Papa, del Papa da solo, in
quanto unico capo della Chiesa universale, non in quanto capo del “collegio”
dei vescovi; del Papa, che decideva di associarsi straordinariamente i vescovi
dispersi per il mondo “in consiglio” al fine di prendere assieme a loro le
opportune decisioni su importanti materie, concernenti in genere la fede e i
costumi. La “collegialità” non era
quindi anteriore al Concilio ecumenico:
essa nasceva nel Concilio stesso e finiva con esso. Invece adesso la si vuol far preesistere e il
Concilio ecumenico ne sarebbe appunto una manifestazione.
Questi dunque, e spero
di averli indicati tutti, i gravi problemi posti da una costituzione innovativa
come la Lumen gentium, che indubbiamente sembrava portare un duro colpo
al Primato, nonostante le ripetute dichiarazioni di volerlo fedelmente
mantenere, aprendo così una grave crisi istituzionale nella Chiesa.
Simili novità e
mutazioni, anche per chi le vuole intendere come semplice “integrazione” della
dottrina precedente, non possono non far sorgere seri problemi
all’interprete. Uno dei più gravi è
quello relativo all’indipendenza dal Papa che la nuova dottrina garantirebbe ai
vescovi.
“Il vescovo è
presentato – spiega il prof. Cantoni – come il grado del sacramento dell’ordine
in cui si realizza la pienezza del sacerdozio.
In virtù del sacramento, al vescovo compete il triplice “ufficio” (munus)
di santificare, insegnare e governare […] La cosa non fa problema dal punto di
vista dell’ufficio di santificazione, cioè del potere di ordine. Presenta dei problemi dal punto di vista del
potere di governo: potrebbe infatti
essere erroneamente interpretata come il conferimento di un potere di governo
dato sacramentalmente – cioè ex opere operato – che autorizza ad un
esercizio in piena autonomia rispetto al Papa, compromettendo in radice il suo
primato”[8].
Un potere di
giurisdizione conferito “sacramentalmente” opererebbe con la stessa efficacia
del Sacramento che lo conferisce, efficacia che si attiva di per sé,
oggettivamente, grazie al fatto (all’opus) del Sacramento,
indipendentemente dalle intenzioni di colui che lo riceva. In tal modo al vescovo verrebbe conferito un
potere di giurisdizione intrinsecamente indipendente da quello del
Pontefice. Nel mutamento operato dal
Concilio era dunque insito il pericolo di scindere la comunione tra i vescovi e
il Papa, con l’attribuire appunto ai vescovi un potere di giurisdizione del
tutto autonomo rispetto a Pietro, quanto alla sua origine, posta nel Sacramento
della Consacrazione episcopale. La
nuova dottrina, che in realtà opera un’autentica rivoluzione nei rapporti tra i
vescovi e il Papa, crea dunque un problema non facile a risolversi.
3. I
difficili problemi creati dalla nuova dottrina
Infatti, attribuendosi
ora il potere di giurisdizione (insegnamento e governo) già alla consacrazione
sacramentale di colui che diventerà vescovo, ed eliminata la pontificia missio
canonica che sino ad ora lo attribuiva, sembra che il vescovo sia reso
indipendente dal Papa, dato che la titolarità di questo potere di giurisdizione
non dipende più da quell’atto del Papa
(la missio o istituzione canonica, appunto) nel quale si manifestava in
modo tipico il suo Primato di giurisdizione sull’intera Chiesa. Il dilemma che simile nuova concezione
provoca, è il seguente: come conciliare
il Primato di giurisdizione del Santo Padre (che il Concilio ribadisce per due
volte di voler mantenere) con la titolarità di un potere di giurisdizione
conferito ai vescovi senza più bisogno dell’intervento dell’atto di
giurisdizione pontificio rappresentato dalla missio canonica? La soluzione la si è ricercata nella
distinzione tra titolarità di un diritto e suo esercizio da parte
del titolare, esercizio che può essere limitato da un’istanza superiore, la cui
autorizzazione sia ritenuta indispensabile al medesimo. Che questa sia la soluzione prospettata, ciò
risulta sia dal tenore dei citati artt. 21.2 e 22.2 della LG che dalla Nota Explicativa Praevia, §§
2-4[9].
L’intera costruzione è apparsa a molti e a
ragione artificiosa e contraddittoria. Titolarità di un diritto e suo esercizio sono
certamente due momenti diversi tra loro, per quanto collegati, e possono
separarsi nella prassi. Così il
creditore può decidere di non avvalersi dell’esercizio del suo diritto nei
confronti del debitore, titolare passivo del rapporto di obbligazione. Ma non è istituzionalmente vincolato
all’autorizzazione di un terzo per esercitare il suo diritto. Se il paragone con un diritto soggettivo
quale il diritto di credito appare non adatto alla materia in esame,
consideriamo allora un diritto pubblico come quello rappresentato dalla
sovranità stessa. La summa potestas
iurisdictionis su tutta la Chiesa è infatti il diritto del soggetto che
detiene il potere sovrano nella Chiesa e consta di una serie di poteri e
prerogative. Questo diritto sovrano lo
si vuole adesso attribuire anche ad un soggetto collettivo (l’ordine dei
vescovi con il Papa a capo) che però non può mai esercitarlo senza l’autorizzazione
del suo stesso capo, il Romano Pontefice.
Che summa potestas sarebbe allora questa, che non può mai
esercitarsi liberamente? E perché non lo
può? Perché il Concilio ha pur dovuto
riconoscere il Primato di Pietro (artt. 18 e 25 LG, citati). Il mantenimento del Primato (impossibile del
resto ad eliminarsi senza cadere nell’eresia formale) comporta l’impossibilità
per l’ordine dei vescovi di esercitare la summa potestas sovrana loro
riconosciuta, senza l’autorizzazione del Pontefice loro capo. Ma allora – si è detto – questa summa
potestas episcopale non è veramente tale
perché un diritto sovrano che non possa liberamente esercitarsi ma sia
di per sé sottoposto a limiti, non può considerarsi effettivamente tale. Si tratterebbe di un diritto puramente
astratto, vuoto di contenuto.
Nello stesso tempo,
però, dei limiti vengono posti anche al Primato di giurisdizione del Papa. Infatti, si riconosce il Primato nella sua
interezza e contemporaneamente si toglie al Papa il potere di attribuire ai
vescovi la potestà di giurisdizione nella loro diocesi con la missio o
istituzione canonica. Come si è visto,
il Papa può ora solamente autorizzare i vescovi all’esercizio di un
potere di giurisdizione la cui titolarità dipende dalla consacrazione stessa. Molti ritengono che in questo modo il Primato
sia rimasto intatto. Ma a me non
sembra. Per il semplice motivo che nel
punto decisivo del rapporto tra Pietro e l’episcopato, si è fatto del vescovo
un soggetto indipendente quanto alla titolarità del suo potere di
giurisdizione. Mutazione assai
rilevante. E anche se l’esercizio di questo potere da parte dei vescovi è
sempre vincolato all’autorizzazione pontificia, l’indipendenza della sua
titolarità resta e non manca di far sentire i suoi effetti, per esempio nel
sentimento e negli atteggiamenti di indipendenza dal Papa che appare evidente
in molte conferenze episcopali, che costituiscono l’organo nel quale si attua
concretamente la nuova collegialità.
Proprio a causa di questa indipendenza nella titolarità del diritto di
giurisdizione dei vescovi, il Cattolicesimo appare a molti sempre più avviato a
disintegrarsi in un coacervo di Chiese nazionali, che si vengono costruendo
attorno alle rispettive Conferenze episcopali, alle quali il Concilio ha anche riconosciuto
l’inaudito diritto (anche questo formalmente vincolato all’autorizzazione della
Santa Sede) di elaborare forme liturgiche nuove, che tengano conto delle
tradizioni locali, tradizioni da insegnarsi anche nei seminari locali. E ciò favorisce il formarsi di Chiese nazionali o continentali, sempre più
autonome nei fatti da Roma, nutrita quest’autonomia per l’appunto da una
formazione seminariale ed una liturgia adattate al genius loci: afro-cattolica, indo-cattolica,
catto-amerindia e chi più ne ha più ne metta.
Il fatto è, come
sottolineò con la consueta lucidità Romano Amerio, che la Nota praevia,
cui Paolo VI fu costretto dalla reazione dei difensori della Tradizione della
Chiesa, riuscì a parare il colpo portato dai Novatori solo in parte, perché
l’attribuzione del potere di giurisdizione su tutta la Chiesa al Collegio dei
vescovi, sia pure sempre sotto il Papa, rimaneva.
“La Nota praevia
respinge della collegialità l’interpretazione classica [ma forse bisognerebbe
dire ortodossa], secondo la quale il soggetto della suprema potestà
nella Chiesa è solo il Papa che la condivide, quando voglia, con l’universalità
dei vescovi da lui chiamati a Concilio.
La potestà somma è collegiale solo per comunicazione ad nutum del
Papa. La Nota praevia respinge
parimenti la dottrina neoterica [neomodernista], secondo la quale il soggetto
della suprema potestà nella Chiesa è il collegio unito col Papa e non senza il
Papa che ne è il capo, ma in guisa tale che quando il Papa esercita, anche
solo, la suprema potestà, la esercita in quanto capo appunto del collegio e
quindi come rappresentante del collegio che egli ha l’obbligazione di
consultare per esprimerne il senso. È la
teorica improntata a quella dell’origine moltitudinaria [democratica]
dell’autorità, difficilmente compatibile con la costituzione divina della
Chiesa. Rifiutando l’una e l’altra di
queste due teorie la Nota praevia tiene fermo che la potestà suprema è
sì nel collegio dei vescovi unito al loro Capo, ma che il Capo può esercitarla
indipendentemente dal Collegio, mentre il Collegio non può indipendentemente
dal Capo”[10].
Tutto a posto, quindi,
e niente in ordine, come si suol dire.
In effetti, il quadro generale sembra confuso. 1) Si
mantiene ovviamente il Primato nei termini definiti dal Vaticano I; 2) Lo
si diminuisce limitando la portata dell’istituzione canonica al solo esercizio
della potestà di giurisdizione del vescovo;
3) Si attribuisce il potere di giurisdizione su tutta la Chiesa anche
all’ordo o collegio dei vescovi, sia pure sempre sotto il governo del
Papa; 4) Si impedisce al collegio dei
vescovi di esercitare la summa potestas indipendentemente dall’autorizzazione
del Papa; 5) Non si capisce quale sia il limite posto
all’esercizio effettivo della potestà di giurisdizione del singolo
vescovo. Si è detto prima: quante “Chiese” ci sono per il Vaticano II (supra,
cap. II, 6)? Qui viene spontaneo
chiedersi: quanti titolari della suprema
potestà di giurisdizione ci sono ora nella Chiesa Cattolica e in quale rapporto
stanno tra di loro? Al posto del
bimillenario regime di monarchia elettiva di diritto divino si è instaurato un
confuso regime misto, mezzo monarchico e mezzo oligarchico per ciò che riguarda
la titolarità della suprema potestà di giurisdizione sulla Chiesa. E i titolari della suprema potestà di
giurisdizione sono ora due (il Papa da solo e il Collegio con il
Papa). E ci sono anche due esercizi
della medesima, come ha sottolineato Mons. Gherardini, quello non vincolato del
Romano Pontefice e quello vincolato del Collegio.
4. Il nuovo Codice di Diritto Canonico è
sulla stessa linea del Concilio.
Il nuovo Codex
Iuris Canonici (CIC), del 1983, per ciò che riguarda la figura del
Pontefice recepisce integralmente il nuovo concetto della collegialità. Infatti, se noi lo confrontiamo con il Codice
del 1917, ordinato da S. Pio X e promulgato da Benedetto XV appunto nel 1917,
colpisce innanzitutto un’omissione che significativa. Nel canone 219 del CIC
del 1917 si stabilisce che: “Il Romano
Pontefice, legittimamente eletto, ottiene per diritto divino la piena e suprema
potestà di giurisdizione, immediatamente all’accettazione dell’elezione [Romanus
Pontifex, legitime electus, statim ab acceptata electione, obtinet, iure
divino, plenam supremae iurisdictionis potestatem]”. Nel Codice del 1983, invece, il c. 332 § 1,
nel ripresentare il medesimo concetto, ha lasciato cadere l’inciso “per diritto
divino”. Esso recita: “il Sommo Pontefice ottiene la potestà piena
e suprema sulla Chiesa con l’elezione legittima, da lui accettata, insieme con
la consacrazione episcopale [Plenam et supremam in Ecclesia potestatem
Romanus Pontifex obtinet legitima electione ab ipso acceptata una cum
episcopali consecratione]. Di
conseguenza l’eletto al sommo pontificato che sia già insignito del carattere episcopale ottiene tale potestà
dal momento dell’accettazione. Che se
l’eletto fosse privo del carattere episcopale, sia immediatamente [statim]
ordinato vescovo”.
Secondo il
piano-benedettino, che ovviamente ignora ogni forma di “collegialità”,
accettando l’elezione il neoeletto ottiene la suprema potestas iurisdictionis
su tutta la Chiesa nella sua sola persona (uti singulus) per diritto
divino. Secondo il CIC del 1983,
l’ottiene con la semplice accettazione dell’elezione legittima. In quest’ultima formulazione – mancante
dell’inciso “iure divino” – sembra che la summa potestas il neoeletto l’ottenga
dalla sola “elezione legittima” ossia dal Conclave di cardinali che l’ha
eletto, essi stessi parte del Collegio dei vescovi, quasi fosse la delega di un
potere spettante al Collegio, concessa dai vescovi-cardinali, riunitisi ad
eleggere il Capo del loro Collegio. Il
testo a mio avviso legittima un’interpretazione del genere, che tuttavia non si
può accettare perché, come dimostrano i Vangeli e come si è sempre insegnato,
S. Pietro fu posto formalmente a capo della Chiesa da Nostro Signore risorto,
non dagli altri Apostoli (Gv 21, 15 ss.).
Di tutta la Chiesa (“pasci i miei agnelli”), ancora in fieri e quindi di
tutti i convertiti a venire, indistintamente, non del solo “collegio” degli
Apostoli (che comunque non costituivano un “collegio” in senso giuridico ma una
comunione spirituale, tra loro e con Pietro, retta dallo Spirito Santo).
Il CIC attualmente
vigente tratta della figura del “Romano Pontefice” in sei canoni
(330-335). Non vi ho trovato alcun
esplicito riferimento al fondamento “di diritto divino” della suprema potestas
del Romano Pontefice, che qualifica da sempre la Chiesa militante come monarchia
elettiva di diritto divino. Del resto,
nemmeno nella Lumen Gentium (come si è visto) si ricorda esplicitamente
l’origine “di diritto divino” della potestà di giurisdizione del Papa, che
sembra visto soprattutto come “Capo del Collegio dei vescovi”, allo stesso modo
del posteriore CIC. E non lo ricorda
nemmeno la Nota praevia, se non erro.
Né nella LG né nel CIC del 1983 esiste una sezione dedicata al Papa da
solo, presente invece nel piano-benedettino (cc. 218-221): da solo, indipendentemente dal Collegio dei
vescovi. Nell’attuale CIC il titolo del
capitolo che tratta del Sommo Pontefice è:
“Il Romano Pontefice e il Collegio dei vescovi”, echeggiante quello
dell’art. 22 della LG: “il Collegio dei
vescovi e il suo Capo”.
Ma consideriamo
un’altra significativa differenza tra il Codice attuale e il precedente. Il c. 218 § 2 del CIC del 1917 stabilisce che
la suprema e piena potestà del Papa “è veramente episcopale, ordinaria ed
immediata [vere episcopalis, ordinaria et immediata] sia su tutte e
singole le chiese, sia su tutti e singoli i pastori e i fedeli, indipendente da
autorità umana qualsivoglia”. Con
l’accettazione, il Romano Pontefice, anche se non era vescovo, acquisiva dunque
iure divino una “potestas vere episcopalis” su tutta la Chiesa. E difatti, il Papa è stato sempre considerato
in quanto tale “Catholicae Ecclesiae Episcopus”, in base a quello stesso
“diritto divino” che gli conferiva il potere supremo nella sua pienezza. Ciò significa che, se il neoeletto non era
vescovo, non aveva bisogno di diventarlo, di esser consacrato prima di
accettare l’elezione. Il diventare iure
divino Vicario di Cristo in terra, Capo della Chiesa visibile o militante,
lo elevava di per sé, intrinsecamente, all’episcopato, visto che gli conferiva
la potestà d’ordine e giurisdizione del vescovo su tutta la Chiesa[11].
Cosa afferma, invece,
il CIC del 1983? Sembra ripetere il
medesimo concetto del piano-benedettino.
Tuttavia, c’è una sensibile variante.
Il CIC vigente non dice che il neoeletto Papa riceve la “potestà
episcopale”, dice che ottiene la “consacrazione episcopale". Si tratta forse della stessa cosa? A me non sembra. Tant’è vero che il testo aggiunge: se l’eletto non era vescovo, sia
immediatamente consacrato (ordinato) vescovo.
Altrimenti, non può ottenere la suprema potestas al momento
dell’accettazione! Il testo non dice
espressamente così, ma questo è quanto si ricava dall’interpretazione più ovvia
della frase: “di conseguenza l’eletto al
sommo pontificato che sia già insignito del carattere episcopale ottiene tale
potestà dal momento dell’accettazione”. Di
conseguenza (qua re): l’ottiene dal
momento dell’accettazione chi era già vescovo; chi non lo era, deve esser
ordinato vescovo, per ottenerla ovvero per produrre un’accettazione
valida. L’eletto che non era vescovo
deve diventarlo subito se vuol diventare Papa.
Mi chiedo: lo status vescovile
non sembra esser posto qui come condizione di validità dell’accettazione,
da parte del neoeletto? Da tutto ciò,
cosa ricava il semplice fedele? Che
nella mente del CIC del 1983 la suprema potestà di giurisdizione non è iure
divino veramente, intrinsecamente episcopale, come nel
piano-benedettino. Occorre, invece,
esser consacrato vescovo per accettare validamente l’elezione al Sacro Soglio,
ragion per cui la suprema potestas sembra conferita più iure episcopali che
iure divino, quanto alla sua fonte.
Nella logica, appunto, del nuovo concetto della collegialità.
5. La
dottrina tradizionale della Chiesa sulla collegialità: Il Vaticano I, Leone XIII, Pio XII
La dottrina
preconciliare, che il Vaticano II afferma di voler mantenere per ciò che riguarda il Primato,
era invece semplice e lineare. Non
creava dualismi né confusione. Poteva
sembrare autoritaria, ma a chi? Agli
spiriti inquieti, dalla fede incerta, avidi di cose nuove, attratti dai falsi
valori del Secolo e quindi portati alla ribellione. Mi sembra opportuno esporre
brevemente questa dottrina, in modo da offrire al lettore, per quanto sta alle
mie possibilità, tutti i termini essenziali della complessa questione.
Il Vaticano I, nella
costituzione dogmatica Pastor aeternus, prima sulla Chiesa
di Cristo, del 18 luglio 1870, ma ultima
del Concilio per le note vicende storiche, di quattro brevi capitoli, definisce
nei primi tre la natura e portata del Primato di Pietro e nell’ultimo il dogma
dell’infallibilità pontificia. Da questa
costituzione risulta che il Sommo Pontefice è l’unico titolare del
potere supremo di giurisdizione su tutta la Chiesa. Egli non condivide questo potere con nessun
altro, né individuo né organo, in quanto gli deriva direttamente da Dio, così
come derivò da Dio a S. Pietro, con il quale il vescovo di Roma ha mantenuto
intatta la legittima successione apostolica.
Dopo aver citato le ben note fonti evangeliche (Gv 1, 42; Mt 16, 16-19;
Mt 20,28; Gv 21, 15-17) ed essersi
richiamato alla definizione del Primato già contenuta nel Concilio ecumenico di
Firenze del 1439, il Vaticano I insegnò e dichiarò che: “la Chiesa Romana, per disposizione del
Signore, ha un primato di potere ordinario su tutte le altre; e che questa
potestà di giurisdizione del Romano pontefice, essendo veramente episcopale, è
immediata [su tutta la Chiesa Cattolica]:
quindi i pastori e i fedeli, di qualsiasi rito e dignità, sia
considerati singolarmente che nel loro insieme, sono tenuti al dovere della
subordinazione gerarchica e della vera obbedienza verso di essa, non solo in
ciò che riguarda la fede e i costumi, ma anche in ciò che riguarda la
disciplina e il governo della Chiesa sparsa su tutta la terra. Di modo che, conservando l’unità della
comunione e della professione della stessa fede col Romano pontefice, la Chiesa
di Cristo sia un solo gregge sotto un solo sommo pastore (Gv 10, 16). Questa è la dottrina della verità cattolica,
dalla quale nessuno può allontanarsi senza mettere in pericolo la fede e la
salvezza [sue personali]”[12].
Da ciò consegue che il
Romano Pontefice “è il giudice supremo dei fedeli (Pio VI, 1796), e che in
qualsiasi causa riguardante la giurisdizione ecclesiastica, si può ricorrere al
suo giudizio (II Conc. di Lione, 1274).
Nessuno, invece, potrà riesaminare un giudizio pronunziato dalla sede
apostolica – di cui non vi è autorità maggiore – come a nessuno è lecito
giudicare di un giudizio dato da essa (Nicola I, IX sec.)”. Ed errano gravemente coloro che ritengono
“esser lecito appellare dalle sentenze dei Romani Pontefici al Concilio
ecumenico, come ad una autorità superiore al Romano Pontefice”. Perciò, conclude il cap. III della
costituzione, sia scomunicato “chi dirà che il Romano Pontefice ha solo un
potere di vigilanza o di direzione, e non, invece, la piena e suprema potestà
di giurisdizione su tutta la Chiesa, non solo in materia di fede e di costumi,
ma anche in ciò che riguarda la disciplina e il governo della Chiesa
universale; o che egli ha solo una parte principale, e non, invece, la completa
pienezza di questa potestà [aut eum habere tantum potiores partes, non vero
totam plenitudinem huius supremae potestatis]; o che essa non è ordinaria
ed immediata, sia su tutte le singole chiese, che su tutti i singoli pastori”[13].
Parole chiarissime,
che non lasciano adito ad ambiguità di sorta.
Ma questa “piena potestà su tutta la Chiesa” non rimpicciolisce troppo i
vescovi; non ne faceva, come malignò il Cancelliere Bismarck, dei semplici “funzionari”
del Papa? In nessun modo. È sempre la Pastor aeternus a
precisare: “Questa potestà del Sommo
Pontefice è lontana dal recare pregiudizio alla postestà ordinaria ed immediata
della giurisdizione episcopale – in virtù della quale i vescovi, che per
disposizione dello Spirito Santo (At 20,28) successero agli Apostoli, in
qualità di veri pastori, pascono e governano ciascuno il gregge a lui affidato
[tamquam veri pastores assignatos sibi greges singuli singulos pascunt et
regunt]”[14].
Come si è ricordato,
nella Tradizione della Chiesa il potere d’ordine (che conferisce la capacità di
celebrare la S. Messa e di amministrare i Sacramenti) era conferito ai vescovi
dalla consacrazione episcopale. Non però
il potere di giurisdizione. Esso veniva
attribuito dal Papa con un atto a parte (la missio canonica) e non
valeva per la Chiesa universale ma solamente per la diocesi della quale era
titolare il vescovo. Il Primato del Papa è primato di giurisdizione su tutta la
Chiesa Cattolica, non d’ordine. Dal
punto di vista dell’Ordine, il Pontefice ha la stessa potestà dei vescovi. Il Papa può scomunicare un vescovo o
convocare un Concilio ecumenico. Il
vescovo non può scomunicare il Papa né convocare un Concilio ecumenico. Ma scomunica e convocazione di un Concilio
sono atti amministrativi, manifestazioni della potestà di governo ed
insegnamento del Papa su tutta la Chiesa e quindi del Primato di giurisdizione
che egli ha su tutta la Chiesa, vescovi compresi. Con il diritto preconciliare, osserva Amerio,
l’autorità del vescovo nella sua diocesi era “precisa ed individuale”. Successore degli Apostoli, il vescovo ne era
l’effettivo pastore, capo. La reggeva
“con potestà ordinaria, nello spirituale e nel temporale, esercitandovi potestà
legislativa, giudiziaria e coattiva”[15].
Il Vaticano I
manteneva ovviamente la verità di fede secondo la quale i vescovi costituiscono
“una gerarchia di diritto divino che affianca il pastore supremo nella guida
della Chiesa” e Pio IX confermò il concetto in una Lettera Apostolica del
4.3.1875 nella quale si approvava l’esposizione della retta dottrina
sull’episcopato fatta dai vescovi tedeschi contro Bismarck[16]. La “guida” della Chiesa il “pastore supremo”
la esercitava da solo e non come capo di un collegio; collegialmente con i
vescovi solo quando li convocava tutti in un Concilio ecumenico, nell’ambito
del quale i presuli operavano come un unico soggetto, sempre con il Papa come
loro capo.
Leone XIII specificò
ulteriormente la dottrina della Chiesa sulla questione, nell’Enciclica Satis
cognitum sull’unità della Chiesa, del 29 giugno 1896. Il Papa, soffermandosi a lungo sul
significato del Primato, menzionava più volte il ruolo dei vescovi. Essi, dispersi nell’orbe cattolico,
costituiscono un “ordo” che non è però inteso dal Papa – annoto – come un
collegio nel senso giuridico proprio, dotato, sempre con il Papa a suo capo, di
potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa, come lo vorrà proporre LG
22.2. I vescovi, dispersi nell’orbe
cattolico, costituiscono un “collegio” in senso solamente morale, spirituale
a meno che non siano riuniti in Concilio ecumenico con il Pontefice, sotto la
sua autorità e per mandato di quest’ultimo, diventando così pro tempore un
soggetto unitario anche dal punto di vista giuridico, come si è detto. Il Papa governa su di essi. La loro potestà di governo ed insegnamento è
individuale ed è limitata alla diocesi di competenza.
Solo il Papa ha uti
singulus (ossia da solo) potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa. “Come è necessario – insegnava Leone XIII –
che l’autorità di Pietro si perpetui nel vescovo di Roma, così i vescovi, come
successori degli Apostoli, ne ereditano l’ordinaria potestà, e quindi l’ordine
episcopale necessariamente tocca l’intima costituzione della Chiesa. Benché essi non abbiano una somma, piena e
universale autorità, tuttavia non devono ritenersi come dei semplici “vicari”
dei vescovi di Roma, poiché hanno una potestà propria, e con verità si dicono
presuli “ordinari” dei popoli che reggono” (DS 3307). Tuttavia, proseguiva il Pontefice, “il potere
del vescovo di Roma è supremo, universale e indipendente, mentre quello dei
vescovi è ristretto entro certi confini [quelli della sua diocesi] e non è del
tutto indipendente”. E Leone XIII
inseriva qui un noto testo di S. Tommaso:
“ Non è conveniente che due siano costituiti sopra lo stesso gregge con
poteri uguali; ma non ripugna che due, dei quali uno è superiore all’altro
[come lo è il Papa rispetto al vescovo e il vescovo rispetto al parroco], siano
costituiti sullo stesso popolo; così sullo stesso popolo vi sono immediatamente
e il parroco e il vescovo e il Papa”[17].
Mi sembra che il
pensiero di S. Tommaso colga limpidamente il punto essenziale, nel rapporto tra
i vescovi e il Papa: “non è conveniente
che due siano costituiti sopra lo stesso gregge con poteri uguali”. Vale a dire:
non ci può essere un dualismo nella suprema potestà di giurisdizione
sulla Chiesa. Il potere di insegnare e
governare nei confronti dell’intero gregge non può essere attribuito
allo stesso titolo a due soggetti distinti: il Papa da un lato, il collegio dei vescovi
con il Papa che ne è il capo, dall’altro.
Il fatto che tale potere lo si voglia oggi attribuire anche ad un
soggetto che è un collegio sempre inteso con il suo capo naturale, che è il
Papa, non cambia la sostanza della cosa, dal momento che il Pontefice gode
della summa potestas sull’intera Chiesa Cattolica non come capo del collegio
dei vescovi ma uti singulus, ossia in quanto Sommo Pontefice. Uti singulus perché, accettando egli
l’elezione è Nostro Signore che l’investe di quel potere, non il collegio dei
cardinali che l’ha votato. Che l’investe
così come a suo tempo ha investito S. Pietro, che non fu scelto come capo degli
Apostoli dagli altri undici ma dal Signore in persona.
6. I
riscontri nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli
Il titolare della
suprema potestà di giurisdizione deve essere uno solo, se non si vuole che
l’intera Chiesa cada nell’anarchia.
Anche per evitare ciò, Nostro Signore ha stabilito una gerarchia precisa
tra Pietro e gli Apostoli. Il primato di
Pietro è preannunciato dal Signore e poi conferito formalmente, dopo la sua
Resurrezione. Preannunciato,
quando Simone di Giona, che già aveva adorato Gesù come Dio dopo la pesca
miracolosa (Lc 5,8), divinamente ispirato, confessò apertamente la divinità di
Gesù, il quale gli disse le famose parole:
“Tu sei beato, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue
te l’han rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. Ed io ti dico che tu sei Pietro e sopra
questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno
contro di essa. Io ti darò le chiavi del
regno de’ cieli etc.” (Mt 16, 16-19). Non dodici pietre ma una sola a
fondamento ossia a capo, al governo della Chiesa da Lui fondata. Ugualmente, alla vigilia della Passione gli
preannuncia che sarebbe spettato a lui Pietro “confermare [nella fede] i
fratelli” (Lc 22, 32 : “confirma fratres tuos”). Non solo un potere
disciplinare e di governo, dunque, ma anche di intervento dottrinale.
Conferito formalmente,
dopo la Resurrezione, poiché lo amava più di tutti gli altri discepoli, con le
parole: “Pasci i miei agnelli” (detto
due volte) e “pasci le mie pecore” (Gv 21, 15 ss.). Con queste parole, il Signore attribuiva a
Pietro il potere di governare il gregge poiché questo fa il pastore
quando si prende cura del gregge affidatogli e provvede ad esso. È da notare che il Signore risorto non dice
“pascete i miei agnelli” ma “pasci”, rivolto al solo Pietro. I poteri dell’ ordine, invece, Nostro Signore
li conferì allo stesso modo a tutti gli Apostoli, compreso Pietro: “sciogliere e legare” (Mt 16,19; 18,18; Gv
20, 23); consacrare l’Eucaristia (Mt 26, 26 ss.; Mc 14, 22; Lc 22,19);
battezzare (Mt 28, 18-20); guarire dalle malattie, fare miracoli, scacciare i
demoni (Lc 9, 1 ss.; 10, 1 ss.)[18]. Nei doni particolari o càrismi straordinari ricevuti dallo Spirito Santo,
Pietro non si distingue dagli altri Apostoli.
Che S. Pietro agisse
sin dall’inizio della Chiesa come capo della Chiesa stessa, lo si deduce ampiamente
dagli Atti degli Apostoli, per quanto l’esegesi faziosa della Nouvelle
Théologie si sia affannata a dimostrare il contrario. Quando si trattò di sostituire lo sventurato
Giuda nel numero dei Dodici, fu Pietro che si alzò a parlare di fronte a circa
centoventi persone, dicendo quello che bisognava fare: scegliere qualcuno che fosse stato con loro
per tutto il tempo della missione terrena di Gesù (dal Battesimo di S. Giovanni
all’Ascensione). La proposta non fu
messa ai voti, fu accettata senza discutere.
Evidentemente, Pietro parlava con l’autorità del capo di tutti, che
aveva già deciso cosa si dovesse fare e lo comunicava all’assemblea. L’assemblea propose i due nomi da trarre a
sorte ed il sorteggio premiò Mattia (Atti 1, 15 ss.). Ugualmente, nel “Concilio Apostolico” tenuto
a Gerusalemme nell’AD 51 con la partecipazione degli Apostoli e degli anziani,
dopo la discussione su cosa si dovesse fare in relazione al problema
dell’osservanza o meno dei riti giudaici da parte dei neoconvertiti, fu Pietro
che si alzò a parlare, dando le direttive per la soluzione del problema, che
conteneva forti implicazioni dottrinali.
Dopo il suo intervento, “tutta la moltitudine tacque” e Paolo e Barnaba
fecero la loro relazione sui risultati dell’evangelizzazione dei Gentili. Subito dopo, parlò Giacomo, parente del
Signore, che appoggiò la risoluzione di Pietro (Atti 15)[19].
Nella Mystici
Corporis, Pio XII aveva ribadito questa dottrina. Dopo aver spiegato che i vescovi sono “i
membri più eminenti della Chiesa universale”, che sono uniti al Papa con un
“vincolo veramente singolare”, che “in quanto riguarda la propria Diocesi sono
veri Pastori che guidano e reggono in nome di Cristo il gregge assegnato a
ciascuno”; sulla linea del Vaticano I, precisava: “Ma mentre fanno ciò, non sono del tutto
indipendenti, perché sono sottoposti alla debita autorità del Romano Pontefice,
pur fruendo dell’ordinaria potestà di giurisdizione comunicata loro
direttamente dallo stesso Sommo Pontefice”[20]. Ora invece sono “del tutto indipendenti” per
ciò che riguarda la titolarità dell’”ordinaria potestà di
giurisdizione”, anche se hanno ancora bisogno della “missio canonica” o
autorizzazione del Papa per esercitarla.
7. Il
falso presupposto della nuova dottrina sulla collegialità
Una dottrina così
chiara e ben fondata sui Testi, oltre che sulla Tradizione, perché la si è
voluta cambiare? Mysterium
iniquitatis, è costretto a dire il semplice credente. I risultati di questo cambiamento sono oggi
sotto gli occhi di tutti: l’autorità del
Papa è ridotta al lumicino e quella dei singoli vescovi pure mentre
spadroneggia il “collegio” rappresentato dalle varie conferenze episcopali, che
hanno portato nella Gerarchia il miscuglio di disordine e conformismo tipico
del parlamentarismo decadente del nostro tempo. L’odio per l’autorità del Papa,
per “Roma”, il desiderio di imporre “la democrazia” nella Chiesa attraverso una
riforma in senso “collegiale” del Papato:
tutto ciò era radicato nella mentalità dei “nuovi teologi”, i quali,
come si è detto, volevano appunto una Chiesa “carismatica”, aperta ai soffi
dello “Spirito” ed anzi del “Mistero”, e non “giuridica”, come dicevano. Essi avevano creato un mito, quello di una
Chiesa “romana” attaccata (per colpa soprattutto di S. Tommaso) ad una concezione
“giuridica” del Cristianesimo, che avrebbe prevaricato sul Cristianesimo
autentico, rappresentato dalla Chiesa primitiva e dai Padri della Chiesa, che
ora si trattava di restaurare grazie alla Nuova Pentecoste costituita appunto
dal Vaticano II!
Come ebbe a dire Mons.
Parente, stimato assessore del Sant’Uffizio, passato improvvisamente nel campo
dei Novatori, in un clamoroso intervento in Concilio a favore della
collegialità, ribadito poi da un suo articolo apparso su L’Avvenire d’Italia,
il 21.1.1965, “fu un eccessivo influsso del Diritto sulla Teologia che man mano
portò a concepire la potestà di giurisdizione come avulsa dalla potestà di
Ordine, sostenendo che la prima deriva al vescovo da una estranea concessione
del Papa, mentre l’altra scaturirebbe dalla stessa consacrazione. Il Concilio
ritorna alla concezione primitiva..”[21]. Il Concilio tornava alla “concezione
primitiva”? Quale “concezione
primitiva”? Dai Sacri Testi e dalla
prassi della “Chiesa primitiva” non risultava che Cristo aveva conferito il
primato di giurisdizione su tutta la Chiesa al solo Pietro? E se era del solo Pietro e per
tutta la Chiesa, non era giusto che fosse lo stesso Pietro a conferirla ai
singoli vescovi per il governo delle loro diocesi con un atto di per sé indipendente
dalla consacrazione episcopale?
L’idea del “ritorno
alla concezione primitiva” o, il che è lo stesso, alla “teologia patristica”,
fu un Leitmotif del Concilio, lo sappiamo.
Lo ritroviamo anche nel saggio che l’allora giovane prof. Ratzinger
dedicò alla collegialità, nel commentare la Lumen gentium. Citando espressamente e favorevolmente Mons.
Parente, scrisse: “Tanto il concetto di
sacramento quanto quello di giurisdizione entrano [con la LG] in una nuova
luce, o piuttosto: ambedue riappaiono nella
luce originaria della teologia patristica, che era stata temporaneamente
oscurata dagli sviluppi moderni”[22].
I negativi “sviluppi moderni” erano rappresentati soprattutto da S. Tommaso,
citato espressamente in nota, giudicato responsabile di una concezione troppo
“giuridica” della figura del vescovo:
troppo “giuridica” perché avrebbe fatto dipendere l’esistenza della
giurisdizione vescovile non dal “sacramento” dell’Ordinazione ma da una
concessione pontificia separata e comunque da esso sempre indipendente,
concepibile perciò in termini di solo rapporto giuridico (di diritto canonico)
tra il Papa che la concedeva ed il vescovo che la riceveva.
Invece, come sosteneva
Mons. Parente nel suo intervento al Concilio, la collegialità si inseriva
perfettamente “nell’unità organica della Chiesa, in virtù della quale il Cristo
non può mai essere considerato come separato dal suo Corpo Mistico, né Pietro
dal Cristo, che è il suo capo, né Pietro dal collegio episcopale, né i vescovi
da Pietro […] È tutta la struttura
ontologica della Chiesa che riposa sull’ordine sacro e sul sacerdozio
universale di Cristo”[23]. Queste considerazioni presuppongono che la
collegialità, come intesa dalla Tradizione della Chiesa, e cioè come collegio
in senso morale, che realizzava l’unità di fede, intenti, azione pastorale
tra il Papa e i vescovi, non inserisse la medesima “nell’unità organica della
Chiesa”: cosa falsissima, come ognun può vedere. Al di là del rimbombare di
termini quali “struttura ontologica”, “ordine sacro” e “sacerdozio”, la
retorica ammodernante del presule “lasciava in piedi – come nota giustamente il
prof. De Mattei – l’equivoco giuridico che vedeva sovrapporsi due diversi
soggetti di diritto”[24]. Due “diversi soggetti di diritto”, aggiungo,
quali titolari della suprema potestà di giurisdizione!
La “teologia
patristica” espressione della “concezione primitiva” era in realtà la “teologia
patristica” reinterpretata dagli Ammodernanti, i quali, approfittando della ben
nota sinteticità di certe sue formulazioni, si erano specializzati nel
rielaborarla in senso contrario all’interpretazione che ne avevano dato nei
secoli la teologia ortodossa e il Magistero che l’aveva legittimata. De Lubac
si era distinto in questo tipo di lavoro, al quale aveva accoppiato una
disinvoltura suprema nel manipolare i Sacri Testi a suo uso e consumo (vedi supra,
cap. XIII, § 1). Ma l’idea di una
“concezione primitiva” della costituzione divina della Chiesa, da ristabilire
dopo un oscuramento durato molti secoli (per colpa del sovrapporsi di una
supposta mentalità troppo “giuridica”), è chiaramente inaccettabile. Essa presuppone, infatti, che il Magistero
abbia errato per tanti secoli e non su questioni meramente temporali, caduche,
legate alle contingenze storiche, ma su questioni riguardanti il dogma stesso
della fede, come quelle inerenti al Primato.
Non è ammissibile insinuare che l’insegnamento della Chiesa, a partire
almeno dall’epoca di S. Tommaso, cioè per quasi sette secoli, abbia potuto “oscurare
la luce originaria della teologia patristica” e su aspetti fondamentali della
fede. Lasciar credere ai fedeli che per
tanti secoli Papi, vescovi e teologi perfettamente ortodossi non avessero
capito l’insegnamento dei Padri, come se nessuno nel Magistero fosse stato
assistito dallo Spirito Santo, il quale avrebbe pertanto tollerato l’insorgere
di una rottura tra l’insegnamento dei Padri e quello della Gerarchia, rottura
che sarebbe stata alla fine sanata dal pastorale Vaticano II, per l’appunto
presentato da Giovanni XXIII e da tutti i Novatori come una Nuova Pentecoste,
come l’inizio dell’epoca della Chiesa dello Spirito!
C’è un altro aspetto
da considerare. La tesi di un ritorno,
grazie al Vaticano II, alla “concezione primitiva” dopo secoli di
“oscuramento”, implica di per sé l’impossibilità stessa di ipotizzare una
“ermeneutica della continuità” per il Vaticano II. Mi spiego. Se esso ha ripristinato la
“concezione primitiva” della Chiesa, “oscurata” da tanti secoli, allora la sua
dottrina sarà in continuità con quella della riscoperta “concezione primitiva”
e non con quella (durata così a lungo) che l’avrebbe “oscurata”. La dottrina intermedia, quella
dell’”oscuramento”, verrebbe saltata a pie’ pari dal Vaticano II, anelante a
ricongiungersi alla cosiddetta “teologia dei Padri” dei primi secoli. Ma allora il Concilio non può considerarsi in
continuità con tutta la Tradizione della Chiesa e la tesi dell’”ermeneutica della riforma nella
continuità”, come viene chiamata, si rivela del tutto improponibile.
8. La contraddittoria giustificazione
cantoniana delle nuove dottrine conciliari
Torniamo ora al prof. Cantoni e consideriamo
in che modo egli esponga la soluzione del problema posto da GS 22.2. “Se infatti il “potere” (potestas) di
governo e magistero è conferito al vescovo con e nel sacramento,
per cui si configura un vero e proprio carattere sacramentale, l’”ufficio” (munus),
cioè l’esercizio di questo potere, può avvenire solo all’interno della
comunione gerarchica con gli altri membri del collegio e in piena
subordinazione al capo del collegio che è il Papa”[25]. Questa constatazione ripete in sostanza
quanto detto dal Concilio stesso e non fornisce alcun particolare
approfondimento.
Di maggior spessore
appare il seguente rilievo.
“L’insegnamento più preciso sulla natura dell’episcopato del concilio
Vaticano II costringe a ripensare (non a cambiare) la dottrina tradizionale
delle due forme di potere per riscoprire che l’unità della loro sorgente che è
sempre Cristo, e l’unità del fine, che è la santificazione degli uomini, le configura
come due modalità di una unica sacra potestas. In definitiva questa dottrina preserva il
diritto della Chiesa dal rischio di scadere nella profanità per ricollocarlo
nella sfera sacrale e quindi sacramentale che è sua propria”[26].
L’ultima frase del
periodo, sulla restaurata “sacralità” di contro alla supposta “profanità” nella
quale sarebbe caduto in passato “il diritto della Chiesa” è, a ben vedere, pura
retorica alla de Lubac o alla Congar, secondo i gusti. Il punto essenziale è
vedere se il modo nel quale il Vaticano II ha “ripensato la dottrina
tradizionale” è coerente con la “dottrina tradizionale”. Ma prima di procedere in questo senso, voglio
terminare l’esposizione dell’argomento del prof. Cantoni.
Dopo aver detto che il
“ripensamento” avrebbe riscoperto l’unità delle “due forme di potere”
dell’episcopato in quanto “due modalità di un’unica sacra potestas”,
l’ulteriore passaggio del ragionamento dell’Autore è rappresentato, vorrei dire
inevitabilmente, dal concetto che la dottrina deuterovaticana della
collegialità “non ha fatto che riflettere in modo più esplicito e solenne su
una convinzione che era sua [della Chiesa] da sempre. Essa sapeva infatti dai Vangeli che Cristo
“ne costituì Dodici che stessero con lui” (Mc 3.14). Dodici non è un termine solo numerico e non
esprime dunque un mero insieme quantitativo arbitrario e casuale. Gli apostoli sono frequentemente definiti “i
Dodici”. Anche dopo il tradimento di
Giuda il gruppo non cessa di essere “i Dodici” (cfr. 1 Cor 15,5) e – appena può
– si ricostituisce anche numericamente attraverso la scelta di Mattia (cfr.
Atti 1, 15-26). A questo gruppo il
divino fondatore della Chiesa affida la pienezza della sua autorità: “In verità vi dico: tutto quello che legherete sopra la terra
sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà
sciolto anche in cielo” (Mt 18,18). Lo
stesso potere che aveva conferito a Pietro:
“A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla
terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà
sciolto nei cieli” (Mt 16,19).
Evidentemente Gesù dando ai Dodici lo stesso potere che aveva dato al
solo Pietro non si contraddice, così come non si contraddice la Chiesa
riconoscendo nel Vaticano II al collegio dei vescovi, successori degli
apostoli, lo stesso potere che il Vaticano I aveva riconosciuto al solo Papa,
successore di Pietro”[27].
Siamo dunque sempre
alla tesi, continuamente ripetuta, del Vaticano II come riscoperta delle
autentiche origini della Chiesa, come “ritorno alla concezione primitiva” (vedi
supra, paragrafo precedente).
Ora, se consideriamo le cinque citazioni scritturali riportate
dall’Autore, che cosa notiamo? Che esse
sono utilizzate per riproporre la medesima errata interpretazione già vista in
LG 22.2 (vedi supra, § 2 di questo capitolo), ossia che Nostro Signore
avrebbe dato ai Dodici lo stesso potere che aveva conferito a Pietro e tutta la
“pienezza della sua autorità” al gruppo, senza distinguere tra Pietro e
gli altri apostoli. Quale potere? Un potere non meglio specificato, come se non
esistesse differenza tra potere d’ordine e potere di giurisdizione,
amministrazione dei Sacramenti e potere di governo. Le citazioni scritturali riportate non
interessano il nostro tema per ciò che riguarda le speculazioni sul significato
del numero dei “Dodici”. E per ciò che
riguarda il nostro tema, le due di S. Matteo (18,18 e 16,19) sono utilizzate
impropriamente poiché esse riguardano, come si è visto, il conferimento del
potere d’ordine, uguale per Pietro e gli Apostoli, e non quello di
giurisdizione su tutta la Chiesa, attribuito al solo Pietro. Gesù certo “non si contraddice” nel dare
singolarmente ai Dodici lo stesso potere d’ordine (assolvere dai peccati o non
assolvere) conferito a S. Pietro. Così
come sicuramente non si contraddice nel conferire il potere di giurisdizione al
solo Pietro. Si sarebbe contraddetto se
l’avesse dato ad entrambi, come ha fatto il Vaticano II; se avesse creato due
titolari di un unico potere sovrano di giurisdizione, mettendo così in pericolo
l’unità della Chiesa da Lui stesso fondata.
Il parallelismo
stabilito dal prof. Cantoni tra l’azione di Gesù e quella del Vaticano II è a
mio avviso del tutto insostenibile. Esso
si fonda sulla falsa premessa appena rilevata: che Nostro Signore avesse dato
ai Dodici “lo stesso potere [in generale] che aveva dato al solo Pietro”. Glielo ha voluto dare, invece, il Vaticano II
al collegio dei vescovi quel potere (di
giurisdizione su tutta la Chiesa) che il Signore aveva riservato al solo
Pietro, mutando con ciò la dottrina del Vaticano I (ribadita da Leone XIII e
Pio XII) e contraddicendone i fondamenti scritturistici!
Se Cristo ha fatto la
stessa cosa del Vaticano II, ciò significa allora che è stato Lui a far venire
in essere i due soggetti titolari del potere di giurisdizione su tutta la
Chiesa. È Nostro Signore, allora, il
responsabile della contraddizione che tale situazione istituzionale comporta! Possiamo eliminare questa
contraddizione? Sembra di no, se essa è
addirittura di origine divina. Un modo
ci sarebbe, ci informa l’Autore, se “l’esegesi cristiana” potesse applicare il
metodo dell’esegesi coranica detto
“regola dell’abrogante e dell’abrogato”, in base al quale “il versetto
del Corano rivelato in un tempo successivo abroga il versetto precedente se lo
contraddice”(ivi). Ma perché “l’esegesi
cristiana” non può “far suo” questo metodo, che agli occhi del Nostro sembra
presentare grandi vantaggi? Perché essa è consapevole del fatto “che Dio è
sapienza e quindi ragione (cioè non-contraddittorietà) assoluta (Logos)
e quindi tutto ciò che da lui procede obbedisce alla regola della sapienza e
del Logos. Se due poteri supremi
in unico organismo possono infatti apparire di primo acchito come
contraddittori, l’assurdo si dissolve se si riflette che i due detentori, il
Papa da solo e il collegio dei vescovi sono tra di loro inadeguatamente
distinti, posto che il collegio dei vescovi comprende in sé il Papa e senza di
lui non è più quello che è, perde la sua stessa vita, come un corpo decapitato”[28].
Pur trovandosi di
fronte ad una evidente contraddizione, che secondo l’Autore risale addirittura
a Nostro Signore, “l’esegesi cristiana” sa che in Dio non può esserci
contraddizione. E quindi non può
applicare il metodo mussulmano dell’”abrogante e dell’abrogato”. Ma se si potesse applicare (come forse
piacerebbe al prof. Cantoni) a cosa porterebbe?
Se il paragone ha un senso, l’applicazione di questa regola
comporterebbe che l’insegnamento venuto dopo (quello del Vaticano II), per il
solo fatto di esser venuto dopo, abrogherebbe quello venuto prima (del Vaticano
I), con il quale è in palese contraddizione, visto che l’insegnamento
posteriore istituisce “due poteri supremi in un unico organismo” mentre quello
anteriore manteneva il potere supremo in un unico organismo. E ciò non sarebbe come dire che il pastorale
Vaticano II potrebbe tacitamente abrogare un insegnamento del dogmatico
Vaticano I? Al prof. Cantoni sono
evidentemente sfuggite le implicazioni illogiche, teologicamente mostruose, del
metodo forestiero da lui portato ad esempio, se l’esempio lo si volesse
prendere seriamente.
Ma proseguiamo con il
nostro testo. Mi sembra che
l’espressione “due poteri supremi in un unico organismo” non sia del tutto precisa
e non renda bene il significato della contraddizione con la quale abbiamo a che
fare. Il “potere supremo” (di
giurisdizione su tutta la Chiesa) è uno solo, non ce ne possono essere d
u e . Due sono invece gli “organismi”
titolari di quel potere, dopo il Vaticano II:
il Papa da solo, in quanto Vicario di Cristo e Capo della Chiesa
visibile, e l’ordine dei vescovi con il Papa, il quale ordine lo esercita
solamente con l’autorizzazione del Papa.
La contraddizione non deriva quindi dal proporre l’esistenza di due
poteri in un solo soggetto o organismo bensì l’esistenza di due soggetti quali titolari
di un medesimo (sommo) potere (anche se uno – il Romano Pontefice – è libero di
esercitarlo e l’altro no). E di due
distinti esercizi del medesimo potere (libero l’uno, vincolato l’altro).
Come si risolve la
contraddizione? È essa risolvibile? Si risolve, secondo l’Autore, che qui
ripropone sempre la tesi ufficiale della Gerarchia attuale, applicando una
nozione che resta piuttosto oscura ai semplici fedeli, quella della “inadeguata
distinzione” tra il Papa da solo e il collegio dei vescovi, che, senza il Papa,
sarebbe ovviamente “come un corpo decapitato”. Ma nello stesso tempo non si
risolve, perché nella sua conclusione ultima l’Autore rinvia al mistero: la contraddizione del dualismo dei poteri
nella Chiesa sarebbe uno dei “misteri di Dio”, che è vano tentare di penetrare.
8.1 Il
sofisma della “distinzione reale inadeguata”
Vediamo per prima la
soluzione proposta. Si tratta di capire
che cosa significhi “inadeguata distinzione”.
Non è che il prof. Cantoni cerchi di illuminare il lettore sul
punto. Anzi, egli sembra dar questa
nozione per scontata. Ma chi, al di
fuori degli ambienti ecclesiastici, ne ha mai sentito parlare? Una spiegazione articolata di questa
“distinzione” la troviamo ne Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso
da fare di Mons. Gherardini, appunto là ove critica la nuova collegialità
di GS 22.2.
“A spiegazione dei due
soggetti [ora titolari della summa potestas iurisdictonis] e dei due diversi
esercizi [libero quello del Papa, vincolato quello dell’ordo dei vescovi] venne
ufficialmente addotta una ragione attinta al linguaggio scolastico: i due
soggetti cadrebbero sotto la c.d. distinzione reale inadeguata, quella
cioè che, per il suo fondamento nella realtà, esclude l’identità degli enti
correlati, non però in modo adeguato, cioè fra tutta l’entità dell’uno e
tutta l’entità dell’altro soggetto, bensì in modo inadeguato, come
avviene distinguendo il tutto dalla parte all’interno d’un medesimo soggetto”[29].
Si tratterebbe dunque
di una distinzione non assoluta ma relativa?
La distinzione è effettiva dal momento che è esclusa l’identità dei due
soggetti o enti correlati tra loro. Però
quest’esclusione non è totale. Questa
non-totalità, nel modo di esprimersi della Scolastica, veniva indicata con la
coppia: adeguato – inadeguato. Allora:
la distinzione reale adeguata sarebbe quella nella quale non c’è
assolutamente alcuna identità tra l’uno e l’altro soggetto. Si tratterebbe di una distinzione assoluta. Una distinzione di questo tipo tra il Papa ed
i vescovi non c’è. Il Papa, infatti, è
egli stesso vescovo. La distinzione, pur
reale, è pertanto relativa ovvero inadeguata poiché mantiene una certa
indistinzione, un sovrapporsi-all’interno-di, se mi si consente
l’espressione. Infatti, essa ha luogo
“distinguendo il tutto dalla parte all’interno di un medesimo soggetto”. Distinguendo il tutto dalla parte non in
senso assoluto ma “all’interno di un medesimo soggetto” che evidentemente
contiene sia “il tutto” che “la parte”.
Il soggetto è qui evidentemente la Chiesa, che ora (in
conseguenza del Vaticano II) viene rappresentata come un tutto non da un solo
soggetto (come in passato) ma da due, in rapporto tra loro di “distinzione
reale inadeguata”.
Dell’efficacia di
questa distinzione, in quanto applicata al ”soggetto” che è la Chiesa
Cattolica, Mons. Gherardini dubita fortemente.
Prosegue, infatti, nel seguente modo:
“Di grazia, qual è qui
il tutto? E quale la parte?
Se per tutto si fosse
inteso il Papa più il Collegio, la parte sarebbe stata logicamente
individuabile sia nei vescovi senza il Papa, sia nel Papa senza i vescovi
“seorsim” – ma in latino meglio sarebbe dire “seorsum/seorsus” – separatamente,
personalmente, in quanto tale, in quanto è quel vescovo il quale, anche se
Papa, concorre con gli altri vescovi alla formazione del Collegio; in tal caso,
il suo primato giurisdizionale su tutta la Chiesa sarebbe caduto nel nulla.
Se il tutto si fosse
invece riconosciuto nel Papa senza il Collegio per la ragione
teologico-giuridica che sintetizza nel Papa la totalità della Chiesa [Ubi
Petrus, ibi Ecclesia], e quindi anche i vescovi suoi colleghi, la parte
inevitabilmente sarebbe individuabile nel Collegio, il quale non avrebbe più
potuto dirsi soggetto di potestà piena suprema universale.
Come si vede, proprio
la spiegazione ufficiale arruffava ancora più la matassa”[30].
8.2 Uso
improprio della nozione di “mistero”
Mi sembra ci sia poco
da aggiungere a queste precise osservazioni di Mons. Gherardini, che il prof.
Cantoni non ha nemmeno tentato di confutare, limitandosi a passarle sotto
silenzio. L’assurdo e la contraddizione
propinatici da LG 22.2 restano e non c’è barba di terminologia riesumata dalla
Scolastica ad uso e consumo degli Ammodernanti che possa risolverli. Del resto, lo stesso prof. Cantoni, dopo aver
detto che la nozione di “distinzione inadeguata” risolveva il problema, ci fa
capire che in realtà esso non si risolve.
“L’essenziale qui come
altrove – conclude – è quello di resistere alla tentazione di far rientrare i
misteri di Dio in categorie soltanto umane e immanenti. I concetti umani,
frutto dell’esperienza e della riflessione filosofica e scientifica, sono
preziosi, ma devono piegarsi alla legge dell’analogia e lasciarsi in questo
modo elevare a dire di più di quello che da loro stessi sono capaci di
significare, per cui una identità di fondo coesiste con una radicale diversità
[…] Categorie socio-politiche come
quella di monarchia, aristocrazia e democrazia sono certamente utili e preziose
per decifrare il mistero della Chiesa, purché però si rimanga consapevoli che
la Chiesa ha una sua divina costituzione che trascende qualunque istituzione
soltanto umana”[31].
Che le “categorie
soltanto umane e immanenti”, i “concetti umani” possano di per sé penetrare i
misteri di Dio nessuno l’ha mai sostenuto.
Ma qui non abbiamo a che fare – tanto per fare un esempio – con il
mistero della Predestinazione, di fronte al quale la ragione non può andare
oltre un certo punto, nel comprenderne la logica (come svelata dalla Lettera
ai Romani e mantenuta nell’insegnamento della Chiesa). Qui abbiamo a che fare con la natura e
l’organizzazione della Chiesa di Cristo visibile, che una volta si chiamava
“Chiesa militante”, e sulla base di sicuri riferimenti alla S. Scrittura, oltre
che alla Tradizione e al Magistero della Chiesa, sino al Vaticano II
escluso. Non ho bisogno di ripetere gli
argomenti già profusi in questo capitolo per affermare che Nostro Signore non
ha mai dato alla sua Chiesa “un’identità di fondo” che “coesiste con una
radicale diversità”; che Egli non l’ha per nulla costruita sulla base della contraddizione. Qui non c’è nessun “mistero” da accettare,
rinunciando all’uso della ragione, fideisticamente.
Di sicuro la “divina
costituzione” della Chiesa di Cristo “trascende qualunque istituzione soltanto
umana” ma non nel senso inteso qui dall’Autore, che è quello di una rinuncia all’uso legittimo e
consentito della ragione, al fine di far passare per legittima una concezione
del tutto contraddittoria e quindi anomala della Chiesa visibile. Contraddittoria, non perché costituita
da Nostro Signore secondo “il mistero” di una supposta “coesistenza” tra
“identità” e “diversità radicale” nella costituzione stessa della Chiesa. Contraddittoria, perché risultante da
una soluzione di compromesso imposta dalle circostanze nelle quali si è svolto
il Vaticano II. E quali erano queste
circostanze? Quelle ben note, a chi non
si accontenta delle edulcorate ricostruzioni ufficiali ed ufficiose, e sopra
richiamate (Introduzione, § 3).
La fazione neomodernista introdottasi nelle Commissioni conciliari
puntava al cuore del Papato, voleva distruggerne il bimillenario Primato,
abbassando il Papa a semplice presidente del collegio episcopale. L’autentico “Vicario di Cristo” avrebbe
dovuto essere il Collegio dei Vescovi, con il Papa a capo, ma vincolato in ogni
suo atto a rappresentare la volontà del Collegio. Era una rivincita del Conciliarismo d’antan,
con il collegio dei vescovi al posto del Concilio ecumenico quale organo
permanente di governo della Chiesa universale.
Il punto di vista che
minacciava di prevalere in Concilio, lo ha ben riassunto, a mio avviso, Romano
Amerio nel passo che ho già citato, nel quale egli sintetizza la dottrina dei
Novatori, “secondo la quale il soggetto della suprema potestà nella Chiesa è il
collegio unito col Papa e non senza il Papa che ne è solo il capo, ma in guisa
tale che quando il Papa esercita, anche solo, la suprema potestà, la esercita
in quanto capo appunto del collegio e quindi come rappresentante del collegio
che egli ha l’obbligazione di consultare per esprimerne il senso”. Simile concezione fa di Pietro un semplice
porta parola del collegio dei vescovi, un passacarte e un notaio del
collegio. Essa umilia, nel Papa, tutta
la Chiesa. Oltre che alla Tradizione,
essa è manifestamente contraria alla S. Scrittura, la quale testimonia in modo
netto che la suprema potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa fu conferita
da Nostro Signore al solo Pietro.
Dato il significato
del tutto opposto al senso delle S. Scritture e alla Tradizione della Chiesa
che si poteva ricavare dal dettato di LG 22.2, ben chiaro nel determinare “la
suprema potestà che questo collegio possiede su tutta la Chiesa” nonostante la
necessità del consenso del Papa al suo esercizio effettivo, occorreva ribadire
e precisare le attribuzioni del Primato, che sembravano ridotte alla semplice
autorizzazione pontificia all’esercizio di questa potestà, come tale
indipendente da quella del Papa.
Nell’impostazione della LG 22.2 il Primato sembrava effettivamente
ridotto al minimo. L’incombenza fu
appunto assolta dalla Nota explicativa praevia. La Nota praevia ha indubbiamente
ristabilito le distanze tra il Primato e il Collegio, ricordando che, secondo
la dottrina della Chiesa, il Papa gode di poteri e prerogative che spettano
solo a lui in quanto “Vicario di Cristo e pastore della Chiesa
universale”. Tuttavia, la Nota
praevia si risolve alla fine in un compromesso con le dottrine
innovatrici, come rilevava giustamente Amerio. Essa ha dovuto accettare il
principio che la potestà d’ordine viene ora conferita al vescovo con la
consacrazione e quello, ad esso conseguente, che i titolari della potestà di
giurisdizione su tutta la Chiesa sono adesso due. L’interpretazione autentica fornita dalla Nota
praevia sanziona quindi la concezione dualistica del potere di
giurisdizione scaturita dal
Concilio, dualistica nella titolarità e nell’esercizio. Sanziona in sostanza un errore dottrinale. E non tacita tutti quei vescovi i quali si
ostinano a ritenere erroneamente che il Papa è in primis “capo del collegio” e
come tale deve render conto a loro di ciò che fa.
In tutto ciò, dov’è
“il mistero di Dio”? Qui non c’è nessun
“mistero” da svelare, talmente sono chiari i termini prettamente terreni e
bassamente umani della questione.
9. Le incongruenze nel “ripensamento delle
due forme di potere” da parte della LG
Vediamo ora alcune
questioni relative al “ripensamento”della dottrina tradizionale “delle due
forme di potere” da parte di LG. Si
“riscopre” – ci vien detto – che queste due forme di potere (d’ordine e
giurisdizione) costituiscono un’unità a causa della loro fonte (il Cristo) e
del loro fine (la santificazione, ossia la salvezza degli uomini). Sono dunque da intendersi come “due modalità
di un’unica sacra potestas”. Sarebbe
dunque questa la novità propugnata dal Vaticano II, sempre in armonia con la
dottrina della Chiesa? Ma in passato,
c’è qualcuno che abbia mai dubitato, mi chiedo, del fatto che l’ordine e la
giurisdizione costituiscono come le facce di una stessa medaglia? Che scaturiscono da Nostro signore e che
mirano entrambe ad un unico fine, la salvezza delle anime? Il problema non è rappresentato dalla fonte
di queste due “forme” e dal fine cui mirano:
è rappresentato dai soggetti che ne sono titolari nella Chiesa visibile
in relazione al governo di tutta la Chiesa. Vale a dire, dal mantenimento dell’unità
della Chiesa, che verrebbe messa a repentaglio se di queste due forme fossero
titolari due soggetti diversi, entrambi con competenza per tutta la Chiesa.
Modalità è nozione
astratta. Concreta è invece quella di titolare
di un potere quale contenuto di un diritto, di un potere appartenente ad un
soggetto specifico. Qui abbiamo a che
fare con la titolarità del potere di insegnamento e governo in tutta la sua
concretezza giuridica, che è concretezza di prassi oltre che di
concetti. Ora, dal punto di vista della
titolarità della potestà di giurisdizione, se noi l’attribuiamo al vescovo per
il solo fatto della sua consacrazione, non lo facciamo titolare della
stessa potestà di giurisdizione del Papa?
E allora, al posto dell’unità sacrale e sacramentale si fa largo il
dualismo rappresentato dall’esistenza di due soggetti titolari del potere di
giurisdizione.
Mi si potrebbe
replicare che il Concilio parla di suprema e piena potestà su tutta la Chiesa
da parte dell’Ordine dei vescovi con il Papa e mai senza di esso, non di una
potestà su tutta la Chiesa del singolo vescovo.
Ma guardiamo i testi più da vicino.
Se il potere di
giurisdizione è attribuito al vescovo sempre individualmente, con la sua
personale consacrazione, e vale solo per la diocesi della quale è titolare,
come può questo potere ritrovarsi anche nell’ordine dei vescovi, nei
vescovi in collegio con il Papa, come potere che vale per tutta la Chiesa? Un potere conferito ad un soggetto singolo
come si trasmette al corpo del quale egli faccia parte, mutando anche di
qualità poiché il potere del singolo vescovo sulla sua diocesi si muta in
potere dell’intero collegio dei vescovi con il Papa su tutta la Chiesa? Come può avvenire questo salto di qualità non
nella natura del potere di giurisdizione ma nell’estensione della sua
competenza, che ora si estende a tutta la Chiesa visibile? Per somma dei poteri di giurisdizione dei
singoli vescovi, le cui diocesi, sommandosi, coprono tutto il territorio della
Cattolicità? Non può essere. Del resto, del collegio episcopale fanno
legittimamente parte anche vescovi “titolari” ossia senza diocesi, trovandosi
esse in partibus infidelium. Né risulta che i vescovi vengano consacrati
collettivamente, come ordo o coetus o collegium che dir si
voglia.
Nelle istituzione
laiche non occorre un atto specifico che conferisca al membro di pieno diritto
di un consiglio o collegio (consiglio di facoltà universitaria, di
amministrazione, etc.) la facoltà di far valere il suo potere decisionale per
l’intera organizzazione o istituzione per la quale il suddetto consiglio
deliberi. Tale facoltà è intrinseca alla
cosa stessa ovvero allo status giuridico del soggetto in questione (professore,
dirigente, etc.). Idem per i
vescovi. Per il solo fatto di esser
vescovi essi vengono ora a costituire un
“soggetto” collettivo (ordo, coetus, collegium) che, sempre con il suo
Capo, è titolare di un potere di giurisdizione su tutta la Chiesa. Non c’è alcun salto di qualità, come avveniva
invece per il potere di giurisdizione del vescovo convocato in un Concilio ecumenico: il solo fatto di prender parte al Concilio
estendeva la sua giurisdizione, attribuendogli il potere di decidere per
l’intera Chiesa, sempre con l’approvazione del Romano Pontefice.
9.1 Scompare
la territorialità della diocesi
Qual è la conclusione
cui voglio arrivare? Che, mancando nei
testi del Vaticano II una chiara indicazione dei limiti territoriali della
potestà di giurisdizione del singolo vescovo, quest’ultima viene a valere per
l’intera Chiesa. A mio avviso, i testi
legittimano quest’interpretazione. Forse
che in LG 21.2 troviamo come limite espresso della potestà di giurisdizione,
che la consacrazione attribuirebbe ora al singolo vescovo, l’indicazione della
competenza territoriale, limitata alla sola diocesi? Rileggiamo il passo in questione: la consacrazione episcopale conferisce anche
“gli uffici [munera] di insegnare e governare; questi, però, per loro
natura, non possono essere esercitati se non nella comunione gerarchica col
capo e con le membra del collegio”. Il munus
è non tanto l’esercizio quanto “l’ufficio” nel senso di “carica”, “compito”,
che il soggetto ha il dovere di esercitare, oltre che il diritto. Secondo la dottrina della Chiesa, il
vescovo, una volta ricevutolo (in passato, con la missio canonica
pontificia per quanto riguardava la giurisdizione), lo poteva esercitare solo
nella diocesi nella quale era Ordinario.
Ciò non gli impediva di prendere posizione contro la presenza o il
diffondersi di eresie al di fuori della sua diocesi, con dichiarazioni che moralmente
valevano per tutta la Chiesa (appunto, operava qui la collegialità in senso morale
ossia la comunità spirituale con l'intera Chiesa), ma sempre sul
presupposto di mettere preventivamente in guardia innanzitutto le pecorelle del
suo gregge particolare, di svolgere quindi un’azione pastorale che investiva in
primo luogo il suo gregge.
Ora, qual è il limite
che GS 21.2 pone alla potestas vescovile?
Solo quello della “comunione gerarchica”, con il Papa e gli altri
vescovi. La “comunione gerarchica” con
gli altri vescovi implica forse il riconoscimento del limite rappresentato
dalla competenza territoriale, dalla diocesi?
Potrebbe, ma non è sicuro, dato che i rapporti tra i vescovi, per quanto
riguarda le reciproche competenze territoriali, non mi sembra che possano
definirsi come rapporti “gerarchici”. Il
limite di cui parla GS 21.2 per il singolo vescovo sembra in sostanza il
medesimo di cui a LG 22.2 per l’intero collegio dei vescovi, nel senso che esso
concerne sempre la “comunione gerarchica”, nel rispetto della quale il
“collegio” dei vescovi deve agire sempre con “il consenso” del Papa.
E c’è forse un chiaro
riferimento alla limitata competenza territoriale del singolo vescovo nel
Decreto conciliare Christus Dominus (CD) che tratta dell’ufficio
pastorale dei vescovi? L’art. 3, dopo aver
richiamato i relativi passi di LG, recita:
“I singoli vescovi esercitano tale ministero [di magistero e governo
pastorale] nei riguardi della porzione del gregge del Signore che è stata loro
assegnata, avendo ciascuno cura della Chiesa particolare affidatagli [Illud
exercent singuli quoad assignatas sibi dominici gregis partes, unusquisque
Ecclesiae particularis sibi commissae curam gerens]” (CD, 3). I vescovi governano su una parte del “gregge
del Signore”, su di una “Chiesa particolare”.
Di diocesi, di territorio non si parla.
La nozione dovrebbe essere implicita?
Resta il fatto che, anche nell’art. 11 del Decreto, dedicato a: “La diocesi e il vescovo”, di territorio non
si parla. Che cos’è, infatti, la diocesi
per il Vaticano II? “La diocesi è una
porzione del popolo di Dio affidata alle cure pastorali del vescovo, coadiuvato
dal suo presbiterio [dai sacerdoti] [Dioecesis est Populi Dei portio, quae
Episcopo cum cooperatione presbyterii pascenda concreditur], in modo che,
aderendo al suo pastore, e da questi radunata nello Spirito Santo per mezzo del
Vangelo e della eucaristia, costituisca una Chiesa particolare nella quale è
presente e opera la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica” (CD,
11).
Certo fa specie vedere
una definizione della “diocesi” dalla quale è stato espunto qualsiasi
riferimento territoriale. La “porzione
del Popolo di Dio” affidata al singolo vescovo non si trova su di un
determinato territorio? Sappiamo che diocesi
è parola greca (dioíkesis, che contiene il termine oikía, casa)
che indicava soprattutto l’amministrazione.
Nel linguaggio giuridico dei Romani essa indicava piuttosto una
circoscrizione amministrativa e giudiziaria, un distretto o parte di provincia.
È attestata in Cicerone. Nel periodo
imperiale indicava la riunione di più provincie sotto un unico
governatore. Fu con la radicale riforma
amministrativa dell’imperatore Diocleziano, alla fine del III secolo della
nostra era, che la “diocesi”, con a capo un vicarius, divenne la
circoscrizione amministrativa fondamentale dell’impero. La Chiesa-istituzione adottò terminologie e
strutture amministrative dell’impero nel quale si trovava a vivere, almeno
quelle riferibili alla sua organizzazione esteriore. Pertanto al concetto di “diocesi”, rimasto
nei secoli come termine di uso solo ecclesiastico, si è sempre associata l’idea
della territorialità, della competenza territoriale, che delimita
l’ambito amministrativo, giuridico della giurisdizione vescovile.
Il Vaticano II,
allora, anche su questo punto ha cambiato il significato del linguaggio
tradizionale della Chiesa poiché, fatto rivoluzionario, ci propone un concetto
di diocesi del tutto svincolato da ogni riferimento al territorio. Esso comprende solo i soggetti che
costituiscono la diocesi, i fedeli, la “porzione del popolo di Dio” che è sotto
il governo di un determinato vescovo.
Questa “porzione” costituisce una “Chiesa particolare” nella quale
“opera” la Chiesa Cattolica o meglio “la Chiesa di Cristo, una, santa,
cattolica, apostolica”. Bisogna
chiedersi: è giusto concepire la diocesi come “Chiesa particolare”? Che
significa? E soprattutto: perché questa reticenza a connettere
la diocesi ad un territorio, ad indicare la competenza territoriale quale
limite naturale della potestà di giurisdizione di ogni vescovo, al punto da
affidarsi ad una definizione del concetto di diocesi che appare indubbiamente
monca e nell’insieme poco chiara, perché la “porzione del Popolo di Dio” che la
costituisce sembra come appesa per aria?
Due sono, a mio
avviso, le ragioni che si possono attribuire a questa reticenza. 1) Se
la potestà di giurisdizione è intrinseca alla consacrazione del vescovo,
risultando un semplice modus della sua sacra potestas, allora vale per
tutta la terra, così come vale per tutta la terra l’altro modus di questa sacra
potestas, il potere dell’ordine, dato che un vescovo può celebrare la S. Messa,
confessare e comunicare in ogni posto del globo e non solo nella sua
diocesi. E difatti CD 3 dice che il
magistero dei vescovi “si esercita” nei confronti di una “porzione del Popolo
di Dio”, non dice che anche la sua titolarità sia limitata a questa “porzione”,
almeno per il potere di giurisdizione.
2) Se alla potestà di
giurisdizione del vescovo venisse imposto il limite tradizionale rappresentato
dalla territorialità della sua diocesi, allora il concetto di una “suprema e
piena potestà su tutta la Chiesa” dell’ordine dei vescovi assieme al Papa, di
cui a LG 22.2, non verrebbe a cadere? Infatti, come potrebbe l’ordine esser
titolare di siffatta potestà di giurisdizione “su tutta la Chiesa”, se ogni suo
membro possedesse secondo il diritto quella potestà solo per ciò che riguarda
il territorio della sua diocesi? Si
assisterebbe al paradosso di una potestà di giurisdizione ordinaria (e
non straordinaria come quella del Concilio ecumenico) per tutta la
Chiesa attribuita ai vescovi in collegio con il Papa, quando questa stessa
potestà il singolo vescovo se la vedrebbe attribuire solo nell’ambito della sua
diocesi. La soluzione del paradosso può
esser duplice: o la potestà di giurisdizione dell’ordo
vescovile con il Papa su tutta la Chiesa non esiste e si tratta di un semplice
flatus vocis oppure non esistono più le diocesi, trasformate in “Chiese
particolari” di un aereo “popolo di Dio” e la Santa Chiesa visibile non è più
ancorata ad un territorio ma vaga nello spazio sospinta dai soffi dello
“Spirito”. Essa è diventata
completamente “mistica”, anzi “misterica” e forse addirittura “cosmica”. Si estende ora a tutto l’universo oltre che a
tutto il genere umano, esattamente come l’attività dell’uomo secondo GS 33-39,
articoli che discettano della “attività umana nell’universo”.
9.2 L’aporia
dei due soggetti titolari della suprema potestà di giurisdizione
A queste conclusioni
conduce il “ripensamento” della “dottrina tradizionale” messo in opera dal
Vaticano II. Esse sembrano
paradossali? O contraddittorie? Ma cosa c’è di più paradossale e
contraddittorio, mi chiedo, della “sacramentalità episcopale” e della
“collegialità episcopale” che gli Ammodernanti sono riusciti ad infilare nei
testi del Vaticano II? Dove c’era una
struttura gerarchica ben definita e lineare regna adesso la confusione. Abbiamo adesso due soggetti titolari della
suprema potestas di giurisdizione sull’intera Chiesa. Il che, oltre ad
essere un errore, produce instabilità e caos.
Molti ritengono che la Nota praevia sia riuscita a metter una
pezza alla collegialità di LG 22.2 mantenendola nel solco della tradizione
della Chiesa. Una pezza ce l’ha
messa ma solo in parte, visto che ha
dovuto mantenere l’esistenza dei due soggetti del potere di giurisdizione.
“Il collegio, che non si dà senza il capo, è detto
essere [in LG 22.2]: “anche esso soggetto di suprema e piena potestà sulla
Chiesa universale”. Ciò va necessariamente
ammesso [che esso non si dia senza il capo], per non porre in pericolo la
pienezza della potestà del romano Pontefice.
Infatti, il collegio necessariamente e sempre si intende con il suo
capo, “il quale nel collegio conserva integro l’ufficio di vicario di Cristo e
pastore della Chiesa universale”. In
altre parole: la distinzione non è tra
il romano Pontefice e i vescovi presi insieme, ma tra il romano Pontefice
separatamente e il romano Pontefice insieme con i vescovi. E siccome il romano Pontefice è il “capo” del
collegio, può da solo fare alcuni atti che non competono in nessun modo ai
vescovi, come convocare e dirigere il collegio, approvare le norme dell’azione
etc. […] Il sommo Pontefice, cui è
affidata la cura di tutto il gregge di Cristo, giudica e determina, secondo le
necessità della Chiesa che variano nel corso dei secoli, il modo col quale
questa cura deve essere attuata, sia in modo personale, sia in modo
collegiale. Il romano Pontefice
nell’ordinare, promuovere, approvare l’esercizio collegiale, procede secondo la
propria discrezione, avendo di mira il bene della Chiesa” (NP 3).
In altre parole:
il Concilio non contrappone il Papa da un lato ai vescovi dall’altro ma
il Papa da solo al Papa insieme con i vescovi.
Questo è indubbiamente esatto e tuttavia non deve trarre in inganno, nel
senso di ritenere che il Concilio non si sia allontanato dalla dottrina
tramandata. Secondo quest’ultima, come sappiamo, il Romano Pontefice esercitava
la suprema potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa insieme con i vescovi
solo quando li convocava in un Concilio ecumenico. L’esercitava solamente, con i vescovi in
concilio, che non ne erano titolari per la Chiesa universale, possedendola essi
solo per la loro diocesi. Per il Vaticano II, invece, tale potestà il collegio
dei vescovi con il Papa la possiede in pianta stabile, anche se i
vescovi non agiscono sempre collegialmente con il Papa, che è perfettamente
legittimato ad agire da solo per tutta la Chiesa (come specifica la stessa Nota
praevia 4). Nel modo di esporre la
distinzione da parte della Nota praevia sembra che i vescovi siano
un’appendice del Romano Pontefice, come se si trattasse di distinguere tra il
Papa da solo e il Papa con i vescovi.
Non mi sembra che sia questa la ratio del testo conciliare. La distinzione è tra il Papa da solo e il
Collegio come soggetto giuridico con a capo il Papa quale suo presidente. Anche se il Papa ne è il capo, è il Collegio
che si vuole rappresentare come soggetto giuridico titolare della suprema
potestas: il Collegio con il Papa NON il Papa con il Collegio.
10. La critica di Mons. Gherardini alla
collegialità di LG
Dopo
quest’analisi, siamo nella migliore condizione, io credo, per comprendere i
rilievi di Mons. Gherardini alla collegialità del Vaticano II, una parte dei
quali è già stata anticipata al § 7 di questo capitolo. Egli sostiene in primo luogo che la
“collegialità” proposta dal Concilio è concetto spurio perché nasce
dalla commistione dell’idea di “comunità” con quella di “collegio”. All’origine di questa contaminazione troviamo
di nuovo l’influenza nefasta di Congar e dei suoi amici. Essi volevano trovare nel Nuovo Testamento il
concetto di “collegio dei Dodici” (pur nell’evidente mancanza del termine) come
istituzione voluta da Cristo: ragion per cui i successori degli Apostoli, i
vescovi, costituirebbero a loro volta un “collegio”. Perciò, la comunione dei vescovi con il Papa
e la Chiesa si esprimerebbe più degnamente nel concetto di “collegio”, finora
trascurato[32]. Ma Mons. Gherardini nota giustamente che c’è
qui una “incongruenza” perché “la collegialità riguarda il solo corpo dei
vescovi”, mentre la “comunione” è l’intera Chiesa. I due concetti non coincidono[33].
Questa
commistione riappare in LG 22.1 : “Già
l’antichissima disciplina, in virtù della quale i vescovi di tutto il mondo
vivevano in comunione tra loro e col vescovo di Roma nel vincolo dell’unità,
della carità, della pace, e parimenti la convocazione dei Concili [etc.]
significano il carattere e la natura collegiale dell’ordine episcopale”. Qui, sottolinea l’Autore, il Concilio
“non distingue la “comunione” dalla
“collegialità”. Si dice, anzi, che la
comunione significherebbe “la natura collegiale dell’ordine episcopale”,
come se quest’ultimo risultasse intrinsecamente da essa. “Si tentava in tal modo di giustificare la
“collegialità”, ossia la novità – certamente non assoluta, ma sempre novità
almeno quanto alla formulazione conferitale dal Concilio – con argomenti
storici non del tutto pertinenti: essi
riguardavan la “comunione” dei vescovi, il loro comunicare fraterno, non la
loro “collegialità””[34].
Questo
aspetto della questione, messo in rilievo da Mons. Gherardini, mi sembra
essenziale. L’attuale, moderno concetto
di collegialità, che deriva dal diritto romano, lo si voleva presente sin dai
primi tempi della Chiesa, nella realtà della “comunione” dei vescovi tra loro e
con il Papa. Dobbiamo forse ritenere che questa “comunione” fosse concepita sin
dall’inizio nei termini del concetto di “collegio” dei Romani? Una prospettiva del genere sembra del tutto
anacronistica. L’idea di questo esser
in comunione, effettivamente presente sin dall’inizio della Chiesa, non
permette di individuare l’esistenza di un vero e proprio “collegio” dei
vescovi, cioè di un soggetto giuridico definito, titolare di diritti e
sottoposto a doveri, dotato di personalità giuridica, nel quale tutti i membri
godono di una posizione paritaria, compreso il loro capo, il Papa, primus
inter pares che agisce per il collegio.
La “comunione” esistente sin dai primi tempi della Chiesa riguardava “il
comunicare fraterno” dei vescovi, tra loro e con il Papa, ed era comunione
gerarchica per ciò che riguardava i rapporti con quest’ultimo. Mostrava l’esser in comunione di un ordine,
quello dei vescovi, concepito non come un ordinamento giuridico, ma come un
“ordo” o “coetus” in senso puramente morale, secondo una prospettiva
intrinsecamente religiosa e in sostanza sovrannaturale.
Non si
trattava, infatti, di una costruzione giuridica ma, come sottolineò giustamente
Paolo VI, di “un modo di vivere”, soggiungendo però che ora esso trovava
“espressione anche in un’esplicita dottrina redatta in una sicura formula
dottrinale”[35]. La “sicura formula dottrinale” era appunto
quella di LG 22.2. “Con parole così
perentorie il Papa dava l’impressione di porsi ben al di là del limite non
definitorio, che il Vaticano II s’era prefisso”, commenta Mons. Gherardini[36]. Secondo Paolo VI il Vaticano II non era
allora un semplice Concilio “pastorale” (vedi infra, cap. XIX, § 5). Ma la cosiddetta sicura formula dottrinale –
continua Mons. Gherardini – dà vita in realtà ad un “collegio anomalo”. Vediamo perché.
10.1 Una nozione “anomala” di collegio
All’inizio
di LG 22.1 c’è una “dichiarazione di principio” che “allaccia la collegialità
alla volontà stessa di Cristo”.
Infatti: “Come S. Pietro e gli
altri apostoli costituiscono, per volontà del Signore, un unico collegio
apostolico, similmente [pari ratione] il romano Pontefice, successore di
Pietro, e i vescovi, successori degli apostoli, formano tra loro un tutto [inter
se coniunguntur]”. Questa
dichiarazione, commenta Mons. Gherardini, “pone una relazione analogica [con il
pari ratione] fra il collegio composto da Pietro e dagli altri apostoli
e quello composto dal Papa e dai vescovi, loro successori”. In tal modo la cerniera di tutto il complesso
rapporto sembra costituita dalla successione apostolica. “L’accento cade dunque – e giustamente –
sulla successione apostolica”. Perché
deve cadere sulla successione apostolica?
Perché “solamente questa, promovendo per via sacramentale la
consacrazione e la comunione gerarchica, è la radice della collegialità. La conseguenza è che si è costituiti membri
del collegio episcopale in virtù della consacrazione e della comunione gerarchica
e che non c’è collegio se non con- e per la presenza capitale del successore di
Pietro (LG 22 1.2)”[37].
Tutto a
posto, allora. La successione apostolica
si può inquadrare nel concetto di collegio episcopale, visto che esso contempla
sempre la presenza di Pietro come suo capo.
Tuttavia, come vedremo, questa stessa frase è ambivalente, nel senso che
il parallelismo che essa stabilisce fra Pietro e i Dodici e il Papa con i
vescovi, è piuttosto ambiguo. Ma vediamo
innanzitutto i problemi posti dal concetto di “collegio”.
Rileva,
infatti, Mons. Gherardini: “Se non che,
una tale presenza [del Papa] contraddice l’idea stessa di collegio, i cui
membri, secondo Ulpiano (Dig. 50,6,173), godon tutti dello stesso
potere; altre fonti confermano: il
collegio riveste i suoi membri di pari dignità ed onore”[38]. Voglio ricordare, a questo punto, quanto
scrive Mommsen: “In linea di principio la collegialità esige l’eguaglianza di
diritto nei magistrati che stanno l’uno accanto all’altro, quindi egual titolo
ed eguali facoltà (par potestas), e in ordine ai consoli, agli edili, ai
questori, ai tribuni della plebe e in generale alla maggior parte dei
magistrati ordinarii e straordinarii la collegialità è stata applicata in
questa guisa. Collegialità con potestà
disuguale o disuguale competenza è a tutto rigore una contradictio in
adiecto”[39]. Il capo del collegio è considerato un primus
inter pares. Ciò significa che un
collegio in senso proprio non può ricomprendere un capo come il Romano
Pontefice, che di certo non può esser considerato un primus inter pares
e godere unicamente degli stessi poteri degli altri membri.
E ritorno a
Mons. Gherardini. “In quello, dunque,
che vien impropriamente chiamato collegio dei vescovi, è senza dubbio
presente il vescovo titolare della sede romana, il quale però non per questo
cessa d’esser Papa, tale essendo appunto in quanto vescovo di Roma. Quello che ne risulta è allora un collegio
anomalo”. Infatti, le caratteristiche fondamentali del vero collegio non si
possono applicare ad esso, esorbitando la potestà di giurisdizione del Papa da
quella di ogni altro membro del collegio.
In quanto vescovo, il Papa vi sta come vescovo; in quanto Papa, non vi
sta come vescovo ma come Papa, con una potestas che eccede quella del
capo di un collegio (limitata al collegio) estendendosi a tutta la
Cattolicità. Per restare nella
tipologia del “collegio” il Papa dovrebbe esser appunto abbassato a semplice primus
inter pares e non avere individualmente la giurisdizione su tutta la
Chiesa. Cosa impossibile (anche se
proprio a questo miravano, secondo molti, i Neomodernisti infiltrati). Ma un collegio “anomalo” è un vero
collegio? Evidentemente no. E sarebbe stato meglio, conclude Mons.
Gherardini, non usare questo termine ma limitarsi a quelli tradizionali di coetus,
corpus (oppure ordo), che pur compaiono più volte nei testi
conciliari[40].
Ma la Nota
explicativa praevia 1, soggiunge l’Autore, non precisa forse che “la parola
collegio non va intesa in senso strettamente giuridico” e quindi “non
nel senso d’Ulpiano e delle altre fonti”?
Vediamo cosa dice la Nota praevia sul punto.
“”Collegio”
non si intende in senso “strettamente giuridico”, cioè di un gruppo di eguali,
i quali abbiano demandata la loro potestà al loro presidente, ma di un gruppo
stabile, la cui struttura e autorità deve essere dedotta dalla Rivelazione [Collegium
non intelligitur sensu stricte iuridico, scilicet de coetu aequalium, qui
potestatem suam praesidi suo demandarent, sed de coetu stabili, cuius structura
et auctoritas ex Revelatione deduci debent]” (NP 1). Che non debba intendersi così, proseguiva il
testo, lo si deve capire anche dalle risposte della Commissione Teologica Mista
alle riserve (modi) avanzate da diversi Padri conciliari, le quali
risposte mettono in rilievo l’analogia tra collegio e gruppo o ordine (“il
Signore li costituì a modo di collegio o gruppo [coetus] stabile”).
Gruppo o ordine (ordo) o corpo (corpus) (NP 1).
Che il
“collegio” non possa esser qui inteso in senso “strettamente giuridico” è del
tutto evidente per Mons. Gherardini, che ne ha appena esposto il carattere
“anomalo”. L’osservazione della NP gli
sembra “ineccepibile”. E giustamente,
perché in tal modo si fa salva la posizione particolare del Papa ossia il suo
Primato. Se il “collegio” non è tale dal
punto di vista strettamente giuridico, ne consegue, rileva, “che il Papa non è
nel collegio allo stesso titolo e per la stessa ragione di tutti gli altri
vescovi: c’è infatti come Papa, primate
assoluto, con una funzione fondante (formale) il collegio stesso, che senza di
lui o contro di lui non è più collegio, ma solo un insieme o una somma di
vescovi”[41].
Osservazione mia:
il collegio resta comunque anomalo. Anzi: se esso non può esser inteso “in senso
strettamente giuridico” non è un vero collegio.
Cos’è allora? Siamo sempre ai
concetti pasticciati del Vaticano II.
Non è vero “collegio” ma un “corpo”, o “coetus”, “ordo”. La caratteristica del collegio, oltre alla par
condicio dei suoi membri, è quella di possedere determinati poteri come un
unico soggetto, che vengono esercitati mediante il capo del collegio
stesso. Tale caratteristica permane
anche nel collegio che non è vero collegio ma semplice “coetus stabilis” di
vescovi? Per esser “stabile”, questo coetus
aveva bisogno di esser concepito come “collegio” dal Concilio? Evidentemente no, dato che per tanti secoli
nessuno ne ha mai messo in dubbio la “stabilità”, senza per questo farne un
“collegio” in senso specificio. E
proprio perché “la struttura e autorità del coetus” era dedotta dalla
Rivelazione, che non lasciava intravedere l’esistenza di un collegio in senso
“strettamente giuridico”. La “stabilità”
del corpo episcopale non c’entra, dunque.
Il fatto è che la LG non si preoccupava tanto della “stabilità” del corpo dei vescovi (che nessuno metteva in
discussione) quanto di attribuire a questo corpo la potestà di giurisdizione su
tutta la Chiesa, come se fosse un unico soggetto, cosa che comportava la sua
erezione a “collegio” nel senso giuridico del termine. Mi sembra pertanto che la NP invochi a
sproposito la “stabilità” del corpo episcopale quale ratio sottostante
all’adozione del concetto di collegio. È
una spiegazione che, a mio avviso, non spiega nulla. L’affermazione che il collegio non può esser
inteso in senso “strettamente giuridico” trova, tuttavia, la sua
giustificazione per ciò che riguarda il suo rapporto con la figura del
Papa. Ma a maggior ragione questo
“collegio” che non può essere “strettamente giuridico” non è vero “collegio” e
resta una figura ibrida che indebolisce sia l’autorità dei singoli
vescovi che il Primato di Pietro.
Della Nota praevia Mons. Gherardini critica
un altro aspetto, l’interpretazione che essa offre del parallelo tra Pietro e
gli Apostoli da un lato, il Papa e i vescovi dall’altro, proposto all’inizio di
LG 22.1, nel passo già visto, che ora debbo ripetere. “Come S. Pietro e gli altri apostoli
costituiscono, per volontà del Signore, un unico collegio apostolico,
similmente il romano Pontefice, successore di Pietro, e i vescovi, successori
degli apostoli, formano tra loro un tutto [Sicut, statuente Domino, sanctus
Petrus et ceteri Apostoli unum Collegium apostolicum constituunt, pari ratione
Romanus Pontifex, successor Petri, et Episcopi, successores Apostolorum, inter
se coniunguntur]”.
Da questa analogia, cosa si deduce? Che, come Pietro e gli Apostoli hanno
formato, per istituzione divina, un unico collegio apostolico, allo stesso modo
lo formano tra di loro il Papa e i vescovi. Si è visto che questo passo ha il
merito di riproporre il valore fondamentale della successione apostolica. Ma l’analogia in esso contenuta comportava
anche due conseguenze negative: a) dava ad intendere che i poteri di S. Pietro e
degli Apostoli fossero passati integralmente al Papa e ai vescovi, compresi quindi
i poteri straordinari testimoniati nella S. Scrittura, quali il dono
della profezia, la capacità di fare miracoli etc., il che non è; b)
permetteva, a chi lo volesse, di vedere solo o principalmente nel
“collegio”, con la sua intrinseca unità, il tratto che univa tra loro Pietro e
Apostoli e Papa e vescovi: il collegio
assai più che la volontà divina da un lato e assai più che la successione
apostolica dall’altro. Il concetto di
“collegio” diventava allora la cerniera tra la “Chiesa primitiva” e quella
fondata sulla successione apostolica.
Come cercava la NP di chiarire la cosa? In questo modo: “Il parallelismo fra Pietro e gli altri
Apostoli da una parte, e il sommo Pontefice e i vescovi dall’altra, non implica
la trasmissione della potestà straordinaria degli apostoli ai loro successori,
né, com’è chiaro, “uguaglianza” (aequalitatem) tra il capo e le membra
del collegio, ma solo “proporzionalità” (proportionalitatem) fra la
prima relazione (Pietro-Apostoli) e l’altra (Papa-vescovi). Perciò la Commissione [Teologica Mista] ha
stabilito di scrivere nel n. 22.1 [della LG] non “medesimo” (eodem) ma
“pari” (pari) modo” (NP 1).
Perché Mons. Gherardini trova “discutibile” questo
parallelismo, unitamente alla spiegazione che ne dà la Nota praevia? Vediamo.
Abbiamo qui, scrive, “un parallelismo non già d’uguaglianza fra il capo
del collegio e l’insieme dei colleghi, ma di proporzionalità fra la
posizione di Pietro e degli apostoli nel collegio apostolico e quella del Papa
e dei vescovi nel collegio dei loro successori.
Tale proporzionalità, infatti, troverebbe espressione nel “pari ratione”
di LG 22.1”, ossia nel “similmente” o “pari modo”. Ciò significa che Papa e vescovi, pur
essendo “colleghi a pari titolo (pari ratione) di Pietro e degli Apostoli”,
non possiedono l’uguaglianza “tra il capo e le membra del collegio”,
uguaglianza che sarebbe di tipo giuridico, ma solo la “proporzionalità”. Ma allora “in che senso può giustificarsi
l’asserito possesso dell’identica “suprema e piena potestà su tutta la Chiesa”
da parte del Papa e del collegio dei vescovi”, di cui a LG 22.2?[42] Questo famoso asserto resta appeso per aria,
nel senso che la spiegazione della Nota praevia gli taglierebbe l’erba
sotto i piedi. Per qual motivo? Perché, continua l’Autore, attribuire al Papa
con il collegio questa “suprema e piena potestà su tutta la Chiesa” non
equivale forse a “trasferire ai successori quella “potestà straordinaria” e
quei doni “personali” che Pietro e gli Apostoli avevan da Cristo ricevuto a
titolo personale e che la NP s’affretta a negare come eredità apostolica?”[43]. Sulla base della spiegazione fornita da NP 1,
il Concilio mai avrebbe dovuto parlare di “suprema e piena potestà su tutta la
Chiesa” da parte del collegio perché ciò dimostrerebbe, secondo Mons.
Gherardini, l’assenza della cosiddetta “proporzionalità”.
In altre parole:
il dettato di LG 22.2 dimostra che nelle intenzioni del Concilio non si
è trattato di “proporzionalità” ma di “uguaglianza” perché l’attribuzione della
“suprema e piena potestà su tutta la Chiesa” al collegio con il Papa altro non
significa che trasmettere ad esso quella “potestà straordinaria” che la NP nega
possa esser stata trasmessa. Lo nega con
la sottile distinzione tra “uguaglianza” e “proporzionalità”, ricavata speculando
sulla differenza tra due espressioni che nel parlare comune indicano in genere
la stessa cosa: “allo stesso modo” o “in pari modo”. Che differenza c’è, mi chiedo? E dobbiamo far dipendere la difesa della
retta dottrina da giochetti ermeneutici di questo tipo? E difatti non si è difeso un bel niente. Ovvero:
i bizantinismi di NP 1 non dimostrano che il dettato conciliare sia in
accordo con la dottrina della Chiesa.
Quella frase di LG 22.2, pesante come un macigno (“La suprema potestà
che questo collegio possiede su tutta la Chiesa”), dimostra che si è voluto
trasferire ai successori proprio quella potestà straordinaria che Pietro e gli
Apostoli possedevano (come collegio, secondo il Concilio). E lo dimostra ancor meglio, conclude
l’Autore, il dettato più ampio e tante volte già citato di LG 22.2, nel quale
si stabilisce, accanto alla suprema potestas del Papa uti singulus, anche
quella dell’ordine dei vescovi, con il limite dell’autorizzazione pontificia al
suo esercizio. Con il che, accanto a
due distinti soggetti titolari della suprema potestà di giurisdizione,
compaiono anche due diversi esercizi della stessa, uno libero (quello
del Papa) ed uno vincolato (quello del collegio)[44].
10.2 Il “salvataggio” di LG 22.2 secondo Mons.
Gherardini
Per rendere il dettato di LG 22.2 coerente con la
dottrina della Chiesa, Mons. Gherardini fa vedere come sia necessario mutare il
significato del parallelismo or ora esaminato.
Bisogna considerarlo non più tra il “collegio” di Pietro e degli
Apostoli di contro al “collegio” del Papa e dei vescovi, “bensì all’interno di
quello tra Papa e vescovi”[45].
LG 22.2 afferma, come ormai ben sappiamo, che
l’ordine dei vescovi “insieme col suo capo e mai senza, è esso pure soggetto (subiectum…quoque)
di suprema e piena potestà su tutta la Chiesa, sebbene tale potestà non possa
essere esercitata se non col consenso del Romano Pontefice”. Mons. Gherardini costruisce la sua
interpretazione dall’analisi dei due usi dell’avverbio “quoque” (pure, anche). “Quoque” ha una funzione predicativa,
“quando predica d’uno stesso soggetto più aspetti o più doti: Pietro è il pescatore di Galilea, ma anche
(“quoque”) l’apostolo, anzi (“quoque”) il primo degli apostoli chiamati da
Cristo etc.”[46]. “Quoque” ha una funzione reduplicativa
quando “raccorda più soggetti su una medesima piattaforma o nel disbrigo d’uno
stesso affare: anche (“quoque”) Pietro
era presente insieme con Giacomo e Giovanni”[47].
Per ciò che riguarda il nostro argomento, la
seconda funzione va esclusa perché è quella che mantiene la duplicità di
titolarità ed esercizio della summa potestas. Il suo asserto è infatti il
seguente: “Il Papa ha la piena suprema
potestà nella Chiesa e l’ha pure/quoque il collegio”. Resta la prima, quella predicativa: “Il Papa, “seorsim et quoque
collegialiter” (cioè tanto da solo, quanto unitariamente al collegio e come suo
capo), è il soggetto della piena ed universale potestà ecclesiastica (dove quoque
ha evidentemente il significato di anche, e collegialiter allude
ad una seconda modalità d’esercizio, quella del Papa unitamente ai membri del
collegio)”[48].
Il brillante argomento escogitato dall’Autore
sembra indubbiamente l’unico in grado di salvare la “collegialità”
proposta da LG 22.2, riconducendola nell’alveo della dottrina della Chiesa, anche
se l’interpretazione che esso dà del “collegialiter” non sembra affatto
collimare con quella voluta dal Concilio.
L’interpretazione gherardiniana ripropone in pratica (e giustamente) la
dottrina di sempre: il Papa è l’unico
titolare della summa potestas che esercita da solo o collegialmente. Stop.
Collegialmente, come e quando?
Quando la vuole esercitare anche con tutti i vescovi, riuniti con
lui in un Concilio ecumenico. Per far
valere il suo argomento, l’Autore deve riferire l’anche al solo esercizio
della summa potestas: quando lo voglia il Papa, esso è anche
collegiale. Se lo riferisse anche alla
titolarità della stessa, ne manterrebbe il dualismo, contro la sua tesi. Invece, per il Concilio, l’anche resta
sempre “reduplicativo”: il Papa ha la
summa potestas da solo e ce l’ha anche il collegio con il Papa a suo
capo, a prescindere dal suo esercizio.
Quello che, a mio avviso, LG 22.2
vuole evitare è che la collegialità emerga solo nell’esercizio di
quella summa potestas che il Papa già possiede seorsim,
individualmente. L’applicazione della
tesi emendatrice di Mons. Gherardini in realtà cambierebbe completamente il
significato del testo.
Il testo appare difficilmente emendabile. E non
solo, come sottolinea alla fine l’Autore, “per il modo un po’ confuso con cui
espone e formula la sua “dottrina”, del quale egli non trova una spiegazione,
così come non la trova del “carattere innovativo di essa rispetto alla dottrina
tradizionale” nonché “dell’accanimento con cui tale innovazione è stata fin ad
oggi dichiarata ed esaltata come dottrina “definitiva”, anche se proposta “non
definitorio modo”, ossia non nella forma di una definizione dogmatica”. E non la trova nemmeno della pretesa di Paolo
VI di attribuirle “una sua validità dogmatica e vincolante che invece non ha e
che non può avere”[49]. La spiegazione forse c’è e rimanda sempre al Mysterium
iniquitatis: la “dottrina” della
nuova collegialità, che permeava tutto il fronte dell’Alleanza Europea e dei
suoi amici, esprimeva lo spirito di ribellione e l’ostilità dei Neomodernisti
per il Papato e per “Roma”, per gli “italiani” che costituivano la gran
maggioranza della Curia, per tutte le forze istituzionalmente garanti del
Deposito della Fede e dell’etica cristiana.
Basta leggere, a titolo di esempio, il diario del bilioso Congar[50].
[1]
GHERARDINI, D, 234-242. [Ricordo che
questo testo di mons. Gherardini è da me indicato con D, mentre la C maiuscola individua il libro del
prof. Cantoni, avverso alle tesi di mons. Gherardini].
[2] C,
43. In Quod et tradidi vobis, il
riferimento alla collegialità è alle pp. 378-9.
[3] C,
43.
[4] C,
44.
[5]
“Affinché poi lo stesso episcopato fosse uno ed indiviso, prepose agli altri
apostoli il beato Pietro e in lui stabilì il principio e fondamento perpetuo e
visibile dell’unità di fede e di comunione.
Questa dottrina della istituzione, della perpetuità, del valore e della
natura del sacro primato del romano Pontefice e del suo infallibile magistero,
il santo Concilio la propone di nuovo a tutti i fedeli come oggetto certo di
fede” (LG, 18.2). L’art. 25 si sofferma
soprattutto sul dogma dell’infallibilità del Papa: “Di questa infallibilità [della dottrina
della Chiesa sulla fede e i costumi] il romano Pontefice, capo del collegio dei
vescovi, fruisce in virtù del suo ufficio, quando, quale supremo pastore e
dottore di tutti i fedeli che conferma nella fede i suoi fratelli (Lc 22, 32),
sancisce con atto definitivo una dottrina riguardante la fede e la
morale”. Si noti, comunque, che il Papa
viene indicato come “capo del collegio dei vescovi”, non come “capo della
Chiesa universale”, dell’unica vera Chiesa di Cristo, la Chiesa Cattolica
Romana.
[6]
VINCENZO DEL GIUDICE, Nozioni di diritto canonico, 12ᵃ
ediz. rifatta e interamente aggiornata in collaborazione con G. Catalano,
Giuffré, Milano, 1970, p. 183; pp. 177-186 su papato e collegialità.
[7] LG
, 22.2
[8] C,
44.
[9]
Per la Nota esplicativa previa, vedi la tr. it. in calce alla Lumen
gentium, ne: I Documenti del Concilio Vaticano II, cit., pp.
147-150. La Nota verrà citata anche come: NP.
[10]
AMERIO, Iota Unum, cit., pp. 79-80 (§ 44).
[11]
Vedi DEL GIUDICE, op. cit., pp. 178-9.
[12] Decisioni
dei Concili Ecumenici, cit., p. 775 (DS 1827/3060).
[13]
Ivi, pp. 776-7, per tutte le citazioni (DS 1830-1/3063-4). Il Concilio ricordava anche che la suprema
potestà di giurisdizione del Papa su tutta la Chiesa è del tutto indipendente
da ogni potere statuale e che nessuno Stato ha il diritto di ostacolarne
l’esercizio, che è valido ed efficace a prescindere da ogni riconoscimento del
diritto dello Stato (ivi).
[14] Decisioni
etc., cit., p. 775 (DS 1828/3061).
[15]
AMERIO, Iota Unum, cit., p. 443 (§ 233).
[16]
C, 44; DS 3112-3117.
[17]
LEONE XIII, Satis cognitum, in Acta Leonis, XVI, p. 205. Il testo di S. Tommaso richiamato dal Papa si
trova in: In IV Sent., dist. XVII, a.
4, ad q. 4, ad 3.
[18]
Sul significato figurato di “pasce (bóske) agnos meos, pasce (poímaine)
oves meas”, vedi LGNT, voce bóskō, pasco. Già nell’Antico Testamento l’immagine del
“pascere” del pastore indicava per metafora “il governo dei sudditi” (voce
cit.).
[19]
Come esempio di quella che chiamo esegesi faziosa dei Neomodernisti, mi
limiterò a ricordare il tentativo dell’esegeta Stanislao Lyonnet S.I. (accusato
a suo tempo di aver negato il dogma del peccato originale) di sminuire il ruolo
di S. Pietro nell’elezione dell’Apostolo Mattia, sulla falsariga del
protestante Oscar Cullmann, perché S. Pietro avrebbe esercitato la sua autorità
“in stretta unione con gli altri apostoli”. Osserva egli: “Per l’elezione di Mattia Pietro prende
l’iniziativa ma è poi l’assemblea che propone i due candidati: “Giuseppe detto Bar-Sabba e Mattia”, invoca
il Signore, e tira la sorte”. Ma questo
“potere di iniziativa”, osservo io, chi l’aveva conferito a Pietro, l’assemblea
o Nostro Signore? E non si trattava solo di un “potere di
iniziativa” e quindi di una proposta da mettere ai voti ma di una decisione già
ben definita su cosa si dovesse fare, accettata senza fiatare: scegliere un
nuovo Apostolo tenendo conto di un certo criterio. Era un modo nel quale si manifestava la
potestà di governo sulla Chiesa, che Pietro aveva ricevuto direttamente dal
Signore risorto. Era ovvio che tale
potestà si esercitasse “in stretta unione con gli altri apostoli”: questo “esercizio” non dimostra nulla contro il
Primato. (Vedi: STANISLAO LYONNET S.I., I
fondamenti scritturistici della collegialità, ne: La Chiesa del Vaticano
II, cit., pp. 793-809; 800-1).
[20]
PIO XII, Mystici Corporis, tr. it. cit., p. 34; DS 3804: “episcopi […] non plane sui iuris sunt, sed sub
debita Romani Pontificis auctoritate positi, quamvis ordinaria iurisdictionis
potestate fruantur, immediate sibi ab eodem Pontifice Summo impertita”.
[21]
Sull’improvvisa “conversione” dell’autorevole Mons. Parente alle tesi degli
Ammodernanti e su quanto essa li abbia favoriti, vedi: DE MATTEI, op.cit., pp. 433-4. Mons. Parente
fu creato poco tempo dopo cardinale da Paolo VI, nel 1967 (ivi).
[22]
JOSEPH RATZINGER, La collegialità episcopale: spiegazione teologica del testo conciliare,
in La Chiesa del Vaticano II, cit., pp. 733-60; p. 739.
[23]
Riportato da DE MATTEI, op. cit., p. 433.
[24]
Ivi, pp. 433-4.
[25]
C, 44-5.
[26]
C, 45-6.
[27]
C, 46.
[28]
C, 46-7.
[29]
GHERARDINI, D, 239.
[30]
Ivi.
[31]
C, 47.
[32]
D, 236.
[33]
Ivi.
[34]
Ivi.
[35]
Allocuzione del 21.11.1964, AAS, 56 (1964) 1110. Citata da Mons. Gherardini.
[36]
D, 236.
[37]
D, 237.
[38]
Ivi.
[39]
THEODOR MOMMSEN, Disegno del diritto pubblico romano, tr. it. di Pietro
Bonfante, rist. anast. ediz. del 1943 a cura di V. Arangio-Ruiz, CELUC, Milano,
1973, p. 154-5.
[40]
D, 236-7.
[41]
D, 237.
[42]
D, 238.
[43]
Ivi.
[44]
D, 238-9.
[45]
D, 240-1.
[46]
D, 241.
[47]
Ivi.
[48]
Ivi.
[49]
D, 241-2.
[50]
YVES CONGAR, Mon Journal du Concile, 2 voll. Cerf, Paris, 2002: l’odio per la Curia composta allora (in gran
parte) di italiani e romani, accusati di esser ignoranti, di non conoscere il
pensiero moderno, dal tratto libertino ed eterodosso che tanto piaceva ai
Progressisti: “Les Romains ne
participent pas au courant de la pensée
vivante; ils ne le connaissent guère.
Rien de ce qui a été écrit d’intéressant sur des questions comme la morale
sexuelle, le mariage, le péché originel, n’a été pris en considération” (I, p.
78); l’avversione violenta contro lo schema (eliminato in Concilio) di
costituzione dogmatica sulla Santissima Vergine, che voleva proclamarla Mediatrice di tutte le Grazie: “ Le soir, à l’Antonianum (salle des
Promotions), discussion du texte même du chapitre De B. Maria V. Je vis là le drame qui accompagne toute
ma vie: la nécessité de lutter, au nom de l’Èvangile et de la foi apostolique,
contre un développement, une prolifération méditerranéenne et irlandaise, d’une
mariologie qui ne procède pas de la Révélation, mais a l’appui des textes
pontificaux” (I, pp. 66-7); le invettive
contro il papato in quanto tale, contro la “Chiesa costantiniana”, che non
avrebbe mai capito nulla: “Et Pie IX
règne encore. Boniface VIII règne
encore: on l’a surimposé à Simon-Pierre,
l’humble pêcheur d’hommes” (I, p. 109).
Tanto sdegno era provocato dall’imponente spettacolo, ivi inclusa la
Messa solenne, della cerimonia inaugurale del Concilio, l’11.10.1962: “La Messe commence […] Il n’y en a ici que
pour l’oeil et l’oreille musicale:
aucune liturgie de la Parole. Aucune
parole spirituelle […] Après l’épitre, je quitte la tribune. D’ailleurs, je n’en puis plus. Et puis, je suis écrasé par cet appareil
seigneurial et Renaissance” (ivi, p. 107).
La “Liturgia della Parola” cui aspiravano Congar e i suoi sodali,
l’avremmo sperimentata noi fedeli, con la Messa del Novus Ordo, quella che ha
svuotato le chiese.
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