Sessant'anni dal Concilio - V : Raffronto tra lo schema sulla Chiesa illegalmente scartato e la costituzione LG sulla Chiesa, di Paolo Pasqualucci
Sessant’anni dal Concilio - V
di
Paolo Pasqualucci.
V - Raffronto tra lo schema sulla Chiesa
illegalmente scartato e la costituzione ‘Lumen Gentium’ sulla Chiesa, che lo ha
rielaborato, in realtà alterandolo alquanto.
[Nota previa.
Dopo la settimana di Ferragosto, riprendo la pubblicazione di alcune
parti del mio libro Unam Sanctam. Studio sulle deviazioni dottrinali nella
Chiesa del XXI secolo, Solfanelli, 2013, pp. 437. Questa volta il testo è più lungo, avendovi
io dovuto accorpare diversi capitoli, nessuno dei quali troppo lungo. Si tratta di sessantaquattro pagine formato
Bodoni MT 14. I capitoli riuniti sono
sei, occorre pertanto un inquadramento generale. Si tratta di capitoli tra loro connessi
perché concentrati su un unico tema: un accurato raffronto tra il primo
capitolo dello schema sulla Chiesa scartato e il primo capitolo della
costituzione dogmatica (senza dogmi) Lumen Gentium sulla Chiesa (=LG): entrambi questi capitoli eleborano il
concetto della Chiesa. Dovrebbe
trattarsi del medesimo concetto, ma sarebbe arduo e persino azzardato
l’affermarlo.
I capitoli riuniti
sono dunque s e i , dal cap. III al cap.
VIII. Ricordo ancora che lo schema lasciato cadere si intitolava Aeternus
Unigeniti Pater, abbreviato in Aeternus Unigeniti (AeU).
Il cap. III delinea un
parallelo generale tra AeU parr. 1-7 e LG parr. 1-8. Il cap. IV espone la struttura generale di
AeU parr. 3 -7 contrapposta a LG parr. 4-8.
Il cap. V si
chiede: la Chiesa di LG parr. 4-8 è una
Chiesa dello Spirito e dell’Amore, ossia una Chiesa non gerarchica e non
militante, sempre imperfetta, sempre in cerca della pienezza della verità? In sostanza, come si è poi visto, una Chiesa
che non insegna più verità morali e religiose rivelate da Dio e quindi
obbligatorie per la salvezza di ciascuno ma all’opposto “si pone in ascolto del
mondo” animata da uno spirito di grande misericordia e comprensione delle
esigenze del mondo, desiderosa di collaborare con esso per realizzare l’unità
del genere umano e la pace universale?
Il cap. VI si interroga
sulle “immagini della Chiesa” secondo LG par. 6, chiedendosi se esse mostrino
continuità con AeU. Un argomento in
apparenza secondario ma che ha la sua importanza.
Il cap. VII pone
un’ulteriore domanda, scaturente dall’ambiguità del testo conciliare: Un corpo mistico (la Chiesa) incentrato sul
Cristo, che ha già redento l’uomo con la sua incarnazione, morte e resurrezione?
Il cap. VIII, infine,
si intitola: Bilancio del raffronto
tra AeU 1-7 e LG 1-8. Questo
capitoletto finale l’ho già proposto ai lettori. Poiché repetita iuvant, lo ripropongo,
sicuro che potrà esser meglio compreso dopo l’analisi articolata dei due testi
in questione.
Per favorire la
lettura ricordo anche i due autori sui quali mi sono principalmente basato (in
senso opposto) in questo lavoro: mons.
Brunero Gherardini e il suo critico, il sacerdote prof. Pietro Cantoni, a mio
avviso rappresentativo della mentalità dei difensori del Concilio Vaticano II,
trincerata a priori dietro il principio d’autorità, come se, per l’appunto, il Vaticano
II fosse stato un Concilio dogmatico – il che non è – e pertanto infallibile ed
intoccabile. Lo studio del prof.
Cantoni, da me confutato più volte nel testo, si intitola: Riforma nella continuità. Riflessioni sul Vaticano II e
sull’anti-conciliarismo, SugarCo, Milano, 2011. Il testo è citato spesso
con la sola lettera C maiuscola. L’anticonciliarismo sarebbe l’atteggiamento di
chi critica (osa criticare) il Vaticano II. Della produzione assai vasta di mons.
Gherardini mi sono avvalso soprattutto del suo magistrale testo sulla
Tradizione e del suo primo, ampio saggio critico sul Concilio: Brunero Gherardini, Quod et tradidi
vobis. La tradizione vita e giovinezza
della Chiesa, in “Divinitas”, nn. 1-2-3, Città del Vaticano, Roma,
2010. L’opera fu poi ristampata sempre
nel 2010 da Casa Mariana Editrice, Frigento, 2010: ID., Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana
Editrice, Frigento, 2009.
La lettura di due
testi in parallelo non è mai troppo agevole.
Tuttavia, se vogliamo afferrare ciò che è veramente accaduto al Vaticano
II, in tutta la sua straordinaria gravità, dobbiamo sobbarcarci pazientemente a
letture di questo tipo, le sole capaci di svelare l’alchimia perversa che ha
distillato i testi alla fine ufficiali del Concilio. L’analisi comparata dei due nostri testi dimostra
che, in quello venuto alla fine a far parte della costituzione conciliare Lumen
Gentium sulla Chiesa, prescindendo da gravi omissioni ed ambiguità, rispetto
allo schema scartato sono stati eliminati i seguenti fondamentali concetti teologici: che solo la Chiesa cattolica è l’Israele dello
spirito; che solo la Chiesa cattolica è
l’unica e vera Chiesa di Cristo; che il Papa esercita un primato di
giurisdizione su tutta la Chiesa di Cristo].
III. PARALLELO TRA “AETERNUS UNIGENITI” 1-7, SCHEMA SCARTATO, E “LUMEN GENTIUM” 1-8 CHE LO HA RIELABORATO
1. Uno schema contestato
Ho ricordato prima
come la Commissione Teologica Mista avesse rifuso nel nuovo lo schema iniziale sulla Chiesa, finito tra quelli “scartati”
e sottoposto a rifacimento pur trattandosi di uno schema di costituzione
dogmatica elaborato secondo la dottrina tradizionale della Chiesa, che si
rifaceva ad un San Bellarmino, riletto dalla Mystici Corporis, e che
ovviamente riprovava una concezione della Chiesa “pneumatica” o dello Spirito,
dell’Amore, propagandata dalla Nouvelle théologie e in particolare dal
domenicano Yves Congar[1]. Nella fase preparatoria lo schema era stato
attaccato a fondo dai cardinali dell’indirizzo ammodernante (Liénart e Bea in
particolare) che lo accusavano di scarso spirito ecumenico e di proporre un
concetto ristretto di Chiesa, limitato alla sola Chiesa Cattolica Romana! L’art. 7 dello schema, che ribadiva con
estrema chiarezza come solo la Chiesa Cattolica Romana avesse il diritto di
considerarsi il vero e unico Corpo Mistico di Cristo, fu duramente contestato
dal cardinale Bea, che lo accusava di non essere “ecumenico”. Egli
rimproverò con acrimonia Ottaviani per
non aver tenuto conto dei suggerimenti del suo Segretariato al fine di
modificarlo nel senso, appunto, dell’apertura “ecumenica” voluta da Giovanni
XXIII[2]. Queste accuse furono ripetute a più voci
durante la breve discussione in Aula (nel dicembre 1962) in seguito alla quale
fu deciso di rifondere lo schema con quello proposto dal Segretariato. Particolarmente teatrali furono gli accenti
del vescovo belga Émile De Smedt, un mastino dell’antiromanesimo, già
distintosi negli attacchi allo schema sulle due Fonti della Rivelazione. Egli
bollò lo schema di “trionfalismo, clericalismo, legalismo”[3].
Nonostante questi precedenti, il rifacimento viene presentato sempre come uno
sviluppo nella continuità. Osserviamo
attentamente.
2. Chiesa “militante” o semplicemente
“terrena”?
Il
cap. I dello schema rigettato (AeU) constava di sette articoli che
illustravano la “natura della Chiesa militante”, titolo assolutamente
tradizionale, ben diverso da quello del cap. I di LG, vertente sul “mistero
della Chiesa”[4]. Dal Vaticano II in poi la nozione di “Chiesa
militante” è caduta in disuso e un motivo ci dovrà pur essere. Che cos’è la Chiesa militante? È la Chiesa visibile in questo mondo, fondata
da Nostro Signore a partire da Pietro e dai Dodici, organizzata
gerarchicamente, costituita dalla Gerarchia vera e propria in tutte le sue
componenti e dai fedeli, dal “popolo di Dio”, che è sempre stato considerato
solamente una parte della Chiesa visibile. “Militante” questa Chiesa
perché essa è una milizia impegnata nella lotta quotidiana contro Satana che è
“il principe di questo mondo” (Gv 12, 31).
Essendo “omicida sin dall’inizio
e padre della menzogna” (Gv 8,44), lo Spirito
Maligno opera innanzitutto nella nostra mente con tentazioni di ogni
tipo per farci peccare e trascinarci nell’eterna dannazione. Il cattolico è quindi un “miles Christi”,
egli combatte come soldato di Cristo innanzitutto contro sé stesso per
resistere alle tentazioni e all’odio del mondo (Gv 15, 18-25) con l’aiuto
indispensabile della Grazia, dei Sacramenti e dei Sacerdoti. E senza dimenticare,
ovviamente, quello non meno importante, anche se indiretto, delle Suore e
Religiose: pensiamo al grande e
fondamentale esempio di vita santa, autenticamente cristiana che esse ci hanno
sempre offerto.
Lo scopo di questa
lotta è realizzare la propria santificazione in questo mondo, senza la quale
non è possibile accedere alla vita eterna, e contribuire alla conversione delle
anime con l’esempio di una vita veramente cristiana, improntata all’ideale
della carità, che esige la nostra massima generosità nel rispondere alla
volontà di Dio, che ci chiede di amare il Prossimo per amor di Dio, cioè
tenendo presente innanzitutto la salvezza della sua anima. Accanto alla Chiesa militante esiste la
Chiesa “purgante”, delle anime sante nel Purgatorio, e quella “trionfante”,
delle anime degli Eletti, che sono già in Paradiso. Di contro vi è la Gehenna,
l’Inferno, nel quale soffriranno in eterno coloro che Nostro Signore avrà
dannato, nel giudizio individuale dell’anima subito dopo la morte, confermato
in quello Universale, pubblico, alla fine dei tempi (Mt 25, 31-45). I tre aspetti della Chiesa di Cristo
costituiscono un’unità nel “Corpo mistico di Cristo”, del quale il capo è
Cristo in cielo mentre il Papa, successore di Pietro nella continuità
apostolica, ne è il suo Vicario in terra.
La Chiesa “militante” gode perciò di una connessione sovrannaturale
permanente, in quanto parte visibile del Corpo
Mistico di Cristo, con il quale coincide perfettamente in questo mondo
(come insegnato dalla Mystici Corporis).
Ho dovuto ripetere
(per quanto sta alle mie capacità) queste elementari nozioni tradizionali
perché a partire dal Vaticano II sembra non vengano più insegnate. Il lettore pertanto resterebbe perplesso di
fronte al concetto di Chiesa “militante”. Non è forse vero che oggi viene
insegnato un concetto diverso di Chiesa, intesa solo come “popolo di Dio”
inglobante anche la Gerarchia e di taglio sostanzialmente intramondano? E il cattolico è ancora visto come “miles
Christi”, come “soldato di Cristo”? E si
insegna ancora che la vita in questo mondo è una milizia perché è l’ardua
prova mediante la quale veniamo vagliati per esser giudicati degni di
entrare alla fine dei tempi nel Regno di Dio, che dura in eterno, così come è
stato vagliato Nostro Signore durante la sua vita e soprattutto durante la sua
Passione?
3. La
Chiesa “nuovo Israele”, unico vero “Israele di Dio” secondo AeU
La struttura generale del capitolo di AeU in
questione è più o meno la stessa del posteriore capitolo iniziale di LG. Anche in AeU il discorso muove dal disegno
del Padre, che ha voluto redimere il mondo con il suo Figlio Incarnato e ha
voluto che “i redenti” costituissero anche “un nuovo genere (genus), un
regale sacerdozio, una gente santa, ossia il nuovo Israele, sotto un unico Capo
Gesù Cristo” (AeU 1). Qui la Chiesa di
Cristo appare subito come ”il nuovo Israele” concepito ab aeterno dal
Padre. Nell’art. 1 della LG si dice che
“la Santa Chiesa” è stata “annunciata in figura sin dal principio del mondo” e
“mirabilmente preparata nella storia del popolo d’Israele e nell’antica
Alleanza”: non si dice però che la
Chiesa di Cristo è “il nuovo Israele”. Si lascia nell’ombra la cesura
intervenuta tra noi Cristiani e l’Ebraismo, provocata dal fatto che la Chiesa,
possedendo essa sola la vera Rivelazione, si è sempre considerata, sin
dall’inizio, il nuovo Israele.
Dell’Israele della carne la LG parla all’art. 9, primo articolo del cap.
II dedicato a Il popolo di Dio, che illustra il concetto della “nuova
alleanza”, ma in modo che sembra suggerire l’idea di un’analogia e di una
continuità senza rotture: “Come già
l’Israele secondo la carne peregrinante nel deserto viene chiamato Chiesa di
Dio, così il nuovo Israele dell’èra presente (ita novus Israel, qui in
praesenti saeculo incedens), che cammina alla ricerca della città futura e
permanente, si chiama pure Chiesa di Cristo; è il Cristo infatti che l’ha
acquistata col suo sangue, riempita del suo Spirito e fornita di mezzi adatti
per l’unione visibile e sociale”. La
frase contenente il paragone proviene da AeU 3 ma appare mutila (come vedremo)
ed inquadrata in un contesto diverso, di tipo sostanzialmente descrittivo, dal
momento che non si è precisato esser la Chiesa di Cristo il vero Israele di
Dio al di fuori del quale non c’è salvezza (come pur fa AeU 2).
L’art. 2 di AeU,
infatti, tratta dell’”esecuzione del disegno del Padre da parte del Figlio
Unigenito”, termine, quest’ultimo, che ribadisce la natura divina di Cristo
(viene dal Credo) e che il Vaticano II,
se non vado errato, non usa. Di sicuro non compare in questo capitolo di LG che
tratta del “mistero della Chiesa” fondata da Cristo. L’art. 2 AeU mette subito in evidenza che
Nostro Signore ha posto dei capi scelti da Lui (per electos a se praepositos)
per guidare “il popolo di Dio” alla vita eterna. A queste guide o pastori ha conferito
numerosi càrismi (che in greco vuol dire semplicemente doni, anche se
viene in genere inteso nel senso di doni particolari, grazie speciali),
da esercitarsi sotto la guida di Pietro (sub Petro exercendis), come
risulta da Mt 28, 18-20 e Mc 16, 15-16.
Il testo riporta interamente i due passi di Matteo e di Marco. In
quest’ultimo, nell’ultima perìcope, c’è l’ammonimento terribile, già
incontrato: “ Chi crederà e sarà
battezzato sarà salvo, chi in verità non crederà sarà condannato”.
Questo nuovo popolo,
che è “l’Israele di Dio” (Gal 6,16) non procede come una massa sparpagliata ma
in formazione serrata come un esercito (non
tanquam effusa turba, sed ut confertum agmen procedit). Così inquadrata dalla Gerarchia e dalla
dottrina resisterà alle insidie di Satana; nutrita del cibo spirituale, questa
milizia durerà sino alla fine del mondo ”nell’unità di fede, nella comunione
dei sacramenti e sotto il governo apostolico”.
Nel rappresentare “l’esecuzione” del disegno del Padre da parte del
Figlio Unigenito, l’articolo già richiama il Primato di Pietro; il dogma della
dannazione eterna per chi non avrà voluto credere; e di nuovo la teologia della
sostituzione, essendo ora la Chiesa (il popolo di Dio guidato come una milizia
dalla Gerarchia sub Petro) il vero Israël Dei. L’attuazione del disegno del Padre si ha
perciò nella Chiesa di Cristo, che ha sostituito completamente “l’Israele della
carne”, e fuori di essa non c’è salvezza, come si evince chiaramente da Mc
16,16 già ricordato.
4. La teologia della sostituzione appare in
ombra nella LG
Tutto ciò manca
completamente in LG 3, l’articolo che si occupa della “missione del Figlio”.
Qui la Chiesa, si è visto, è “il regno di Dio già presente in mistero”, nei
“predestinati”, che “cresce visibilmente nel mondo per la potenza di Dio”. La Chiesa non è più una “milizia”; è
soprattutto un “mistero”, il mistero della nostra redenzione. E se si accentua troppo la nota del “mistero”
(la cui esistenza nessuno ha mai negato) non si finisce con il privilegiare la
natura invisibile (detta anche spirituale o pneumatica) della
Chiesa a scapito di quella visibile, uscendo in tal modo dal seminato? In molti se lo sono chiesto, tra quelli che
non si sono lasciati abbagliare da tutta questa profusione di “mistero”. Inizio e crescita del mistero vengono
significati simbolicamente dal sangue e dall’acqua che uscirono dal costato del
Signore e dalle sue parole, in Gv 12, 32:
“quando sarò levato in alto da terra [in Croce], tutti attirerò a
me”(ivi). Nel sacrificio dell’altare “si
rinnova l’opera della nostra redenzione e si rappresenta l’unità dei fedeli,
che sono un solo corpo in Cristo” e “tutti gli uomini sono chiamati a questa
unione con Cristo” (LG 3). Il significato
del “mistero” che è la Chiesa viene dunque colto mediante questi simboli di
unità, che coinvolgono l’intero genere umano; non si chiarifica nell’esistenza,
natura, missione concreta della Chiesa Cattolica Romana, sotto il
governo del Vicario di Cristo.
5. La missione della Chiesa è forse quella
di realizzare l’unità del genere umano?
Qual è dunque la “missione” del Figlio,
secondo LG 3? La redenzione di tutti gli
uomini mediante l’unione con Cristo, già rappresentata dall’unità dei fedeli
nell’Eucaristia. Sembra pertanto che
l’unità di tutti in Cristo non dipenda tanto dalla conversione (e quindi
dall’ingresso nella Chiesa Cattolica) quanto dalla partecipazione
all’Eucarestia (che poi il Concilio rappresenterà con un nuovo termine, ignoto ai Padri della
Chiesa, a tutta la Tradizione, ricorrendo sempre alla nozione del mistero: “il mistero pasquale”). Linguaggio e simboli scelti da LG 3 non
coincidono con quelli di AeU. Manca del
tutto il riferimento ai testi citati dal secondo, sopra riportati, che mostrano
la netta separazione tra la Chiesa di Cristo e il mondo “regno del principe di
questo mondo”, “regno” che alla fine dei tempi sarà condannato senza
appello. Le immagini usate da LG sono
sempre tradizionali, ricavate da ben noti passi evangelici e dai Padri della
Chiesa. E tuttavia ciò non elimina
l’impressione di un’impostazione diversa, anche a causa delle omissioni;
l’impressione di trovarsi di fronte ad un concetto di Chiesa di Cristo – voglio
dire – che sembra miri a sviluppare soprattutto la componente misterica
della Chiesa, esaltata pertanto soprattutto come realtà salvifica invisibile,
spirituale. Ciò significa, come recita
l’art. 1 della LG, attribuire alla Chiesa soprattutto la missione di realizzare
in questo mondo l’unità di tutto il genere umano, dato che quest’ultimo
sarebbe di per sé già “in intima unione con Dio”, unione invisibile, pneumatica.
L’idea di questa “intima unione” non è del tutto chiara, per il comune
credente. Che significa,
esattamente? E come si giustifica alla
luce del dogma del peccato originale?
Dobbiamo ritenere che dopo la Caduta il genere umano sia rimasto “in
intima unione con Dio”? E come ha fatto,
se, come ha ribadito il dogmatico Concilio di Trento, esso, a causa del
peccato, ha perduto l’originaria somiglianza con Dio?[5]
Ora, una “missione”
così concepita non appare staccata dal corpo concreto di Cristo,
costituito dal “popolo di Dio” inteso come Chiesa militante sub Petro e gli
Apostoli? Cristo, afferma LG, chiama
tutti gli uomini all’unione con Lui, esemplificata dall’unione dei fedeli
nell’Eucaristia. Si è sempre attribuito
all’Eucarestia il significato simbolico (e quindi secondario) di rappresentare
l’unione dei fedeli tra di loro e loro con Cristo. Il significato primario (non
simbolico ma reale) è quello di essere il rinnovamento incruento del Sacrificio
sulla Croce, che soddisfa l’ira divina e ci procura misericordia per i nostri
peccati. L’Eucaristia come simbolo di
unione dei cattolici è ribadito anche
dalla Mystici Corporis: “Giacché
Gesù Cristo volle che questa mirabile unione, mai abbastanza lodata, per la
quale veniamo congiunti tra di noi e col divino nostro Capo, si manifestasse ai
credenti in modo speciale per mezzo del sacrificio eucaristico…”[6]. Ma come è utilizzato il simbolo da LG? Con il presentare l’unione con Cristo non
solo dei fedeli ma di tutti gli uomini, senza che per “tutti gli uomini” si affermi la
necessità di entrare preliminarmente nella Chiesa cattolica, di
pentirsi, convertirsi e mutar vita.
6. Unione
senza conversione a Cristo
In questa “unione” lo
strumento essenziale sembra esser l’Eucaristia non la Chiesa visibile,
militante appunto. E non deve
quest’ultima (la cui Gerarchia amministra i Sacramenti) considerarsi lo
strumento essenziale della “missione” di Cristo? La “missione” consisterebbe allora
soprattutto nel realizzare l’unità del genere umano e senza dire apertamente
che quest’unità (da un punto di vista cattolico) si può conseguire solo con la previa conversione a Cristo. Un’idea di unità separata da quella di
conversione non resta ambigua, per non dire falsa? Ma, direbbe qualcuno, “esser chiamati a
questa unione con Cristo” non significa forse, in modo indiretto o implicito,
“esser chiamati a convertirsi a Cristo”?
La frase si può certo leggere in questo modo, se si vuole. Vi ostano, comunque, a mio avviso due
osservazioni: 1) perché usare un linguaggio così indiretto? Che motivo c’era di
sostituire “unione” a “conversione”? 2)
“l’unione con Cristo” non è invocata sul presupposto che essa sia l’unica
possibilità di salvezza concessa all’uomo.
L’Eucarestia, adesso, in quanto simbolo, oltre che dell’unità dei
cattolici, ci deve anche dare l’immagine dell’unità del genere umano, in quanto
tale? Non ne risulta uno stravolgimento
del vero significato del simbolo?
7. Unità
dei credenti nella Chiesa, non del genere umano
Se questo significato di “unione” senza
“conversione” si può ricavare da LG 3, bisogna dire allora che esso non si
accorda con la Tradizione della Chiesa, dato che essa ha sempre visto come
scopo della “missione” del Signore (per ciò che riguarda l’idea dell’unità)
l’unità di coloro che credono in Cristo, l’unità di fede, che sola rende
testimonianza al Padre (Gv 17, 7-9; 20-21), non di tutto il genere umano in
quanto tale, mai proposta in passato ed anzi considerata alla stregua di una
pericolosa chimera. I credenti in Cristo
vengono da tutto il genere umano perché gli uomini sono tutti uguali, in quanto
creati da Dio, che non ha “preferenze di persone”: in questo senso solamente, la conversione può
realizzare l’unità complessiva del genere umano. Se si obietta che, nel comandare ai Discepoli
la loro missione, Cristo risorto ha detto : “rendete miei [discepoli] tutti i
popoli” (Mt 28,19), bisogna rispondere che Egli non voleva additar loro l’unità
del genere umano come scopo. Voleva dire
che essi dovevano predicare a tutti i popoli (superando l’esclusivismo
dell’Israele della carne, nel quale era storicamente prevalsa la componente
particolaristica, nazionalistica e millenaristica dell’Ebraismo) per farli
entrare nella Chiesa universale, che non realizza l’unità di tutto il genere
umano (cosa irrealistica, chimerica) ma di tutti i credenti, quale che sia la
loro razza o nazione. E tutti i credenti
non coincidono mai con tutti gli uomini.
Del resto, che tale unità non costituisse lo scopo della sua “missione”,
Nostro Signore non lo dimostra forse quando ci rivela che il Giorno del
Giudizio una parte dell’umanità (non sappiamo ovviamente quanto grande ma
sicuramente non piccola – Mt 7, 13-14) sarà dannata per sempre, per sua propria
colpa? E se una parte consistente dell’umanità se ne andrà in perdizione, ciò
significa che solo una parte si salverà e che nella vita eterna non si avrà
affatto l’unità di tutto il genere umano bensì la sua divisione perenne in
Eletti e Reprobi.
8. La
critica di Mons. Gherardini a LG 1, le sconcertanti repliche del prof. Cantoni
Suscitando le ire del
prof. Cantoni, Mons. Gherardini critica la dottrina proposta da LG 1 sulla
Chiesa come sacramento ossia “segno e strumento dell’intima unione con
Dio e dell’unità del genere umano”. Ecco
il passo, come riportato dal prof. Cantoni:
“Che la Chiesa, in
quanto sacramento di Cristo e sua presenza misterica nella storia dell’uomo,
sia per questo segno e strumento della grazia che salva, è una grande e
consolante verità. Che tra gli effetti
della sua azione sacramentale s’annoveri anche l’unità del genere umano starà
scritto tra le nuvole, ma è lontano dalla più accreditata e consolidata
dottrina ecclesiologica, la quale prevede, sì, un’azione di causalità esemplare
della “Chiesa una” sull’”unità” di tutt’i popoli, ma non una causalità
sacramentale. L’aver sostenuto il
contrario non è, tuttavia, senza significato:
apre alla Chiesa una prospettiva sociologica e perfino socio-politica
[…] Con enorme sorpresa, LG 1 introduce
qui due inesplicabili novità: l’una
relativa alla causa finale e l’altra alla fonte dell’asserto. Allarga la causa finale dalla salvezza eterna
all’”unità dell’intero genere umano” e collega il tutto, anche lo stupefacente
allargamento, ai “precedenti Concili” dei quali intende continuare lo
svolgimento tematico”[7].
Una prima critica del
prof. Cantoni si concentra su quanto Mons. Gherardini scriveva circa trent’anni
fa, quando era meno severo nei confronti del Concilio, e non mette conto
occuparsene, come ho spiegato sopra. In
senso specifico, egli ribatte nel seguente modo:
“In realtà l’”intima
unione con Dio” e “l’unità di tutto il genere umano” di cui parla LG 1 si
devono intendere alla luce di una lettura teologica e quindi unitaria della
Sacra Scrittura, in cui i due episodi di Babele (Gn 11) e della Pentecoste
(Atti 2) si richiamano e si illuminano a vicenda. La divisione che minaccia e impedisce
l’unione con Dio e l’unità dell’uomo con se stesso e con gli altri è dunque il
peccato, a cui si contrappone, come unica forza unicamente proporzionata (anzi
sovrabbondante), l’efficacia salvifica che promana dai sacramenti da cui la
Chiesa è fatta e che essa stessa fa”.
Giovanni Paolo II, precisa l’Autore, ha illustrato questo aspetto nel
1984, nell’esortazione apostolica Reconciliatio et Paenitentia. Ma questo è solo il primo punto. Continua infatti il Nostro:
“Non riesco poi
proprio a capire che cosa ci sia di scandaloso nell’affermare che il Verbo
incarnato causi, mediante la Chiesa che è in qualche modo (quodammodo…)
la continuazione dell’incarnazione stessa, l’unità del genere umano. Mi parrebbe scandaloso affermare il
contrario! Che questa unità non sia
primariamente di carattere sociologico è evidente (che cosa c’entrerebbe allora
“l’intima unione con Dio”?), ma è altrettanto evidente che là dove si produce
per davvero non può non avere anche, a lungo andare, degli effetti sociologici
e politici: la fede cristiana ha fatto l’Europa”. Come sappiamo, quest’unità non comprenderà
tutti, né in questo mondo né nell’altro.
“Non tutti gli uomini, singolarmente presi, partecipano e parteciperanno
di questa “unità di tutto il genere umano”, come non tutti gli uomini
partecipano e parteciperanno (anche se non sappiamo quali e quanti) della
salvezza di Cristo. Questa
consapevolezza però non ha mai impedito ai cristiani di scrivere, ricamare e
scolpire in tanti modi e luoghi “JHS” (Jesus Hominum Salvator)”[8].
L’accenno alla “fede
cristiana che ha fatto l’Europa” mi sembra fuori luogo, per il semplice motivo
che (lo capiscono tutti) “la prospettiva socio-politica” cui allude Mons.
Gherardini, dischiusa da questa nuova missione di unificare tutto il genere
umano, è in realtà quella della “teologia della liberazione” dei popoli nelle
sue varie forme. Essa ha provocato lo stravolgimento dell’attività missionaria
in un’attività rivoluzionaria o a sfondo rivoluzionario che, al posto della
conversione delle anime e della costruzione equilibrata di una società
cristiana, mette le lotte per “la dignità dell’uomo”, per “i diritti umani”,
ivi compresi quelli “delle donne” concepiti in modo simile a certi assunti del
femminismo, lotte da condursi ovviamente assieme a tutte le forze laiche
“progressiste”, anticristiane per definizione. È la prospettiva politicizzata
con la quale le Conferenze episcopali guardano al mondo, passando parte
notevole del loro tempo ad occuparsi di economia, politica, finanza in
ponderosi e velleitari documenti, auspicanti, alla fin fine, la soluzione di
tutti i problemi della terra ad opera di un’istituenda “Autorità mondiale” che
elimini la povertà ed unifichi il mondo!
Si noti come manchi,
nella replica del prof. Cantoni, qualsiasi accenno alla conversione al
Cattolicesimo, per realizzare (l’auspicata) unità del genere umano. La “divisione”, che è anche quella dell’uomo
“con sé stesso”, sarebbe superata dalla “efficacia salvifica” dei Sacramenti.
Ma ci si deve battezzare o no? Si deve o
no entrare nella Chiesa Cattolica (Apostolica, Romana) per conseguire questa
“efficacia salvifica”? Dal testo non lo
si capisce. Mancando un chiaro
riferimento in questo senso, tutto il discorso resta astratto e nello stesso
tempo ambiguo poiché fa apparire un’unità del genere umano che la Chiesa
dovrebbe realizzare senza però convertire nessuno. Ma bastano i Sacramenti da soli a vincere “il
peccato” che divide, senza l’appartenenza alla Chiesa di chi deve fruirne? Forse oggi si è convinti che bastino e anche
siffatta convinzione spiegherebbe il perdurare del grande scandalo delle
cosiddette “liturgie ecumeniche”, con invenzione di riti e partecipazione di
Acattolici di ogni tipo.
In passato le idee
erano nettamente più chiare. Si osservi
quanto scriveva a commento dell’episodio della Torre di Babele l’edizione della
Bibbia della CEI, anteriore al Vaticano II: “Allora Dio, per separare, confuse le lingue;
nella Pentecoste, invece, per unire tutti i popoli in una sola Chiesa, dette
agli Apostoli il dono di parlare le lingue.
Oggi la Chiesa continua il fatto iniziato nella Pentecoste e parla tutte
le lingue, perché si è estesa ad ogni nazione della terra. Sicché tutti i Cattolici, anche se di rito
diverso, credono le stesse verità, recitano il medesimo Credo, obbediscono al
medesimo Papa e appartengono al medesimo regno di Dio. Il loro punto d’incontro è duplice: nelle chiese, ai piedi dell’altare dov’è
Cristo nell’Eucarestia; e nei suoi ministri, in Vaticano ove dimora il suo
Vicario, faro di luce per tutte le genti”[9]. Qui è esposto chiaramente il tradizionale
modo di intendere la missione della Chiesa:
unire tutti i popoli, per quanto possibile, in una sola Chiesa, nella
Chiesa Cattolica Romana, che realizza l’unità di tutti i suoi credenti, non
del genere umano.
9. Un
fine “scandaloso”, preso a prestito dal pensiero profano
Che
quest’unità del genere umano possa apparire “scandalosa” se riferita al
Cristianesimo, come fa capire Mons. Gherardini, ciò risulta a mio avviso già da
questa semplice riflessione: l’ideale
che essa rappresenta attribuisce al “genere umano” un valore autonomo e
indipendente, ragion per cui la supposta sua unità verrebbe a costituire un
fine del tutto terreno e fatalmente “sociologico” ossia “politico”, che metterebbe la Chiesa in contraddizione con la
propria vocazione sovrannaturale, che rimane sempre quella di condurre il
maggior numero possibile di anime (una per una) alla vita eterna, senza
preoccuparsi dell’unità o meno del genere umano.
È noto, del resto, che
tale ideale non proviene dalla Tradizione della Chiesa ma rappresenta
un’aspirazione ed un mito del pensiero laico.
Se vogliamo, una delle sue peggiori utopie. Per il Cattolicesimo, si tratta di un prodotto d’importazione. L’unità del genere umano, quale prodotto
della ragione resasi autonoma rispetto alla Rivelazione, è stato ed ancora è
uno degli obiettivi vorrei dire classici del pensiero moderno e contemporaneo.
Compare nella filosofia della storia di taglio illuministico: dei Condorcet,
dei Kant.
Kant concepisce la
storia come un progresso costante del genere umano “verso il meglio”,
rappresentato dall’affermarsi graduale di un’etica fondata solamente sulla
ragione dell’uomo e di un “diritto cosmopolitico” capace di realizzare, alla
fine, l’unità del genere umano nella “pace perpetua”. Infatti, le tesi 8 e 9
della sua Idea della storia universale da un punto di vista cosmopolitico
(1784), sostengono che la storia non è altro che l’esecuzione “di un piano
occulto della natura per realizzare una costituzione politica perfetta”, in
modo da realizzare altresì “la perfetta unione civile del genere umano”.
Nel pensiero di Mazzini, apostolo dell’idea di
Patria ma rivoluzionario visionario e
panteista in religione, troviamo ripetuta applicazione di un’idea tipica
del socialismo utopistico, quella del Cristianesimo come religione dell’Umanità
che, in nome della Fratellanza Universale, deve realizzare l’unità del genere
umano; rappresentazione del Cristianesimo che ne falsa completamente il
significato, mutandolo in quello di una religione secolare, politica[10].
E
circa la verità a noi rivelata, secondo la quale una parte dell’umanità non si
salverà, quale posizione assume il prof. Cantoni? Replica con un’immagine, quella di Jesus
Hominum Salvator, che a ben vedere va contro la sua tesi. Infatti, essa ci dice che il sensus fidei del
popolo ha sempre ritenuto Gesù “salvatore degli uomini” non di tutti gli
uomini, in quanto tali, come se potesse salvarsi anche chi si rifiuta
coscientemente alla fede in Cristo e alla Grazia.
10. Quante
“salvezze” esistono, per il prof. Cantoni?
Il
lettore avrà notato un’altra stranezza nell’esposizione del Nostro. Egli scrive
infatti: “[…] non tutti gli uomini partecipano e parteciperanno […] della
salvezza di Cristo”. Mi chiedo: c’è forse bisogno di precisare che la
salvezza è la “salvezza di Cristo”?
Esiste forse un’altra “salvezza”, per un cattolico? Una salvezza che non viene da Nostro Signore? Chi scrive “salvezza di Cristo” potrebbe
credere che esistono altre forme di salvezza, non di Cristo. Ma questo sospetto, che il nostro Autore –
sacerdote cattolico – ammetta altri tipi di salvezza, su che cosa si
fonda? Su un altro passo del suo lavoro,
nel quale egli sembra presentare il Corano come portatore di una verità
rivelata, allo stesso modo dei Vangeli!
Polemizzando con le
critiche di Mons. Gherardini alla costituzione conciliare Dei Verbum sulla divina Rivelazione perché essa non
parla mai di “Fonti della Rivelazione”, il Nostro afferma che la critica non ha
motivo di essere perché, scrive, il concilio ha voluto identificare “la parola
di Dio annunciata dalla Chiesa […] con Cristo stesso, essendo lui il culmine e
la pienezza della rivelazione. Così
facendo si voleva evitare una comprensione troppo “concettualista” del sacro
deposito, facendo capire che esso non è un insieme di proposizioni, ma coincide
ultimamente con Cristo stesso”[11]. Confesso che, come semplice credente, non
riesco a comprendere il significato di queste affermazioni. Il “sacro deposito” non consta di articoli di
fede che possano esser spiegati razionalmente, secondo concetti comprensibili, anche se vertono su verità
rivelate che restano inaccessibili all’intelletto umano? Sembra di no.
Esso “non è un insieme di proposizioni”, esso “coincide con
Cristo”. Che significa? Ma arrivo al punto che mi preme. Il fatto che “il sacro deposito” coincida con
Cristo stesso, “dà provvidenzialmente un sapore realistico alla rivelazione
cristiana e contribuisce a distinguerla in modo più netto da altri modelli di
rivelazione, come per esempio quella coranica.
Il cristianesimo non è una “religione del libro””[12].
Dunque, il Corano
costituirebbe “un altro modello di rivelazione”? E che significa affermare “il sapore
realistico della rivelazione cristiana”?
È vera o non è vera? Il prof.
Cantoni crede alla storicità dei Vangeli?
Se ci crede, perché usa un termine così ambiguo come “sapore
realistico”? Ma torniamo al Corano. Esso costituisce dunque, per il Nostro, un
“altro modello di rivelazione”. Una
rivelazione concorrente, per così dire!
Il prof. Cantoni ritiene dunque vi siano più “modelli di rivelazione” e
quindi più “salvezze”. Si comprende
allora perché egli senta il bisogno di scrivere: “salvezza di Cristo”. C’è anche la “salvezza di Maometto”, a quanto
pare. E sicuramente anche quella offerta da tutte le altre religioni, comprese
quelle che adorano i feticci e le forze della natura. Di fronte a tanta
confusione, che sembra proprio il risultato
dall’ecumenismo attuale, figlio del Vaticano II, bisogna ribadire il
vero ossia che per noi Cattolici il Corano non può ritenersi verità
rivelata. Primo, perché è verità di fede
che la Rivelazione (quella autentica) è finita con la morte dell’ultimo
Apostolo, più di cinque secoli prima dell’avvento di Maometto. Secondo, perché il Corano è un libro che nega
tutti gli elementi essenziali del Cristianesimo, sia quelli religiosi in senso
stretto (l’autenticità dei Vangeli, la S.ma Trinità, la nascita miracolosa e la
divinità di Cristo, la sua morte in croce, la Resurrezione) sia quelli che costituiscono
il fondamento della morale cristiana. Il
secondo punto conferma nel merito il primo.
11. Vietato mettere in dubbio la
“continuità” del Vaticano II
E come osa Mons.
Gherardini – continua il prof. Cantoni – mettere in dubbio la “continuità”
dell’insegnamento del Vaticano II a proposito della nuova dottrina che
“allarga” la causa finale dell’azione della Chiesa “dalla salvezza eterna
all’unità del genere umano”?
“Non riesco neppure a
capire in che cosa consista la novità dell’affermazione di un concilio non
materialmente contenuta in quelli precedenti:
quello che dichiara, decreta e definisce il concilio di Trento non è
certamente contenuto nei documenti del concilio di Nicea, ma non siamo perciò
autorizzati a concludere che non ne sia la “continuazione”. Tutto il magistero della Chiesa è un unico
discorso e tutte le volte che riprende a parlare è come se dicesse: dicebamus heri”[13].
Non siamo autorizzati
a concludere che il Tridentino non sia la continuazione del Niceno I perché,
dal punto di vista del Deposito della Fede, ciò che il Tridentino insegna è già
contenuto nel Niceno e non vi contraddice in alcun modo. Ma il Vaticano II ha voluto trarre “nuovi
elementi [nova congruentia] dalla dottrina sacra e dalla tradizione
della Chiesa”, dichiarando naturalmente che essi sono “in costante armonia con
quelli già posseduti”(Dichiarazione Dignitatis humanae, sulla libertà
religiosa, 1). Poiché l’ossequio che
Nostro Signore richiede al credente è sempre un “ossequio razionale” (Rm 12,1), noi fedeli, affidandoci ai princìpi
della recta ratio, abbiamo tutto il diritto di confrontare questi “nuovi
elementi”, non presentati come dogmi di fede ma come princìpi di una nuova
pastorale, con quelli della Tradizione della Chiesa per verificare se sono effettivamente
“in costante armonia” con essi. Il
disastro che si è abbattuto sulla Chiesa dopo il Vaticano II, disastro tuttora
perdurante, rende doppiamente legittimo questo confronto. Certamente, “tutto il magistero della Chiesa
è un unico discorso”. Ma sempre sul
presupposto che in ogni sua parte questo discorso sia fedele al Deposito della
Fede (1 Tm 6,2). Ora, la “novità” non consiste qui solo nel
non esser “materialmente contenuta” la nuova dottrina nei Concili
precedenti: dal punto di vista della sua
qualità, di ciò che essa dice, la novità consiste nell’apparire essa
ambigua e contorta e persino non conforme al Deposito per alcuni aspetti. La questione non è di forma ma di sostanza,
riguarda il merito di ciò che viene proposto. All’analisi imparziale, queste nuove
dottrine, già a causa della forma ambigua, obliqua nella quale vengono esposte,
non sembrano affatto costituire un approfondimento e un chiarimento del
Dogma. Al contrario, esse fanno
addirittura scorgere la presenza di errori già condannati dalla Chiesa, come
per esempio il “pancristismo” precorritore del “neoecumenismo” attuale.
Torniamo ora al nostro
esame parallelo di AeU 1-7 e LG 1-8.
IV.
STRUTTURA GENERALE DI “AETERNUS UNIGENITI” 3-7
1. Sintesi di “Aeternus Unigeniti” 3-7 nel confronto con “Lumen Gentium” 4-8
Dopo aver illustrato
nei suoi primi due articoli l’intenzione (consilium) del Padre e la sua
esecuzione da parte del Figlio Unigenito, lo schema AeU espone l’indole (indoles)
o natura dello “Israele di Dio”, della Chiesa, in sé (art. 3.1) e come risulta
dalle varie “figure” nelle quali è rappresentata (expressa) (art.
3.2). Tra queste figure (regno, casa,
tempio di Dio, gregge, ovile, sposa di Cristo, colonna e fondamento della
verità), la più importante è quella della Chiesa come “Corpo di Cristo”, perché
– si scrive - rende al meglio l’unità della Chiesa con il suo
fondatore e l’unità dell’elemento “sociale” con quello “mistico”, continuamente
presente (art. 4). Si “enuclea” pertanto
la figura del corpo nelle sue componenti (art. 5), per dimostrare alla fine
come la “societas” che è la Chiesa visibile sia “il mistico Corpo di Cristo” ad
opera dello Spirito Santo, condannando, sulla scia della Mystici Corporis,
l’errore (neomodernista) di chi sosteneva una concezione della Chiesa
cosiddetta “carismatica o fondata sull’amore”, del tutto separata dalla Chiesa
visibile e gerarchica (art. 6). Perciò
lo schema, dopo aver delineato la Chiesa come il vero Israele di Dio, Corpo
Mistico di Cristo, termina con l’art. 7 che afferma in modo perentorio e
definitivo esser l’unica e vera Chiesa di Cristo la Chiesa Cattolica
Romana. Per ciò che riguarda l’Ebraismo,
lo schema riafferma in modo netto il principio a fondamento della teologia
della sostituzione, secondo il quale, come dice il nome stesso, dopo il ripudio
del Messia (Nostro Signore Gesù Cristo) da parte dell’ Israele della carne, la
Chiesa, da Cristo stesso fondata, si è inevitabilmente sostituita ad esso nel
disegno salvifico del Padre: essa è ora
l’Israele di Dio, l’unica porta della salvezza.
Lo schema ribadisce in
modo nettissimo l’identità assoluta dell’unica e vera Chiesa di Cristo con la
Chiesa Cattolica Romana, che è pertanto il Corpo Mistico di Cristo.
La struttura di AeU è
ripresa da LG 3-8 ma con consistenti modifiche, provocate sia da
aggiunte di parti nuove che da rilevanti
omissioni. Di LG 3, dedicato alla
“Missione del Figlio”, ho già detto ampiamente.
Colpisce poi l’ampio articolo dedicato allo Spirito Santo (LG 4). Si tratta di un approfondimento specifico del
Vaticano II. In AeU, come vedremo,
l’opera dello Spirito Santo era menzionata in modo più sobrio, rigorosamente
inquadrata nell’ambito del Corpo Mistico, del quale lo Spirito Santo è
considerato per l’appunto “l’anima”.
L’approfondimento apportato dal Vaticano II è stato salutato con
entusiasmo da molti. In effetti,
quest’articolo sullo “Spirito santificatore della Chiesa” è una vera e propria
palinodia dell’azione dello Spirito Santo, costruita utilizzando tutta una serie
di ineccepibili passi neotestamentari e dei Padri della Chiesa. Tuttavia sembrano esserci due sfumature che,
a mio avviso, intorbidano l’atmosfera.
Su di esse mi soffermerò in seguito.
Proseguo ora nella sintesi generale.
Dopo il grande rilievo dato all’azione dello Spirito Santo, LG 5
illustra il mistero della Chiesa esponendo il concetto del “Regno di Dio”. Anche questa parte è nuova rispetto allo
schema AeU. Com’è rappresentato qui il
Regno di Dio? Nella persona, nelle
parole, nelle opere di Nostro Signore (che ha per l’appunto annunciato
l’avvento del Regno di Dio) attraverso la consueta, nutrita serie di
riferimenti a passi evangelici. La “Chiesa”, in relazione al Regno, appare alla fine dell’articolo per ricordarci
che essa deve annunciare ed instaurare in tutte le genti il Regno mentre
costituisce di questo Regno “il germe e l’inizio su questa terra”. Essa poi “anela al regno perfetto”, che
ancora non possiede. Ma questo “regno
perfetto” si trova in questo mondo o nell’altro? Il testo mantiene la dovuta distinzione tra
la natura e il sovrannaturale? Né si
afferma chiaramente la tesi tradizionale: che la Chiesa cattolica sub Petro,
fondata da Gesù, è già l’attuazione del Regno di Dio in terra[14].
L’art. 6 LG riprende
il tema delle immagini della Chiesa.
AeU, come si è visto, si era soffermato soprattutto sulla figura del
“Corpo di Cristo”, che risale a S. Paolo, considerata la più efficace per
capire effettivamente la natura della Chiesa.
LG 6 amplia enormemente l’analisi di queste immagini della Chiesa,
preoccupandosi tra l’altro di stabilire un rapporto tra di esse e l’Antico
Testamento, in quanto immagini già annunziate dai Profeti. Da tutta questa analisi, come già per l’art.
5, emerge soprattutto una visione spirituale ed escatologica della Chiesa, ma
di un’escatologia un po’ particolare poiché il Sovrannaturale non vi si
distingue nettamente.
Né mi sembra che si
cambi impostazione nell’art. 7, che tratta della Chiesa “Corpo Mistico di
Cristo”. Non abbiamo qui una ripetizione
di quanto detto nello schema AeU.
L’articolo, come vedremo, sembra voler accentuare l’aspetto per così
dire “mistico” del Corpo Mistico di Cristo e tutto il discorso sembra vertere
più su Cristo che sul “Corpo di Cristo”, rappresentato dalla Chiesa Cattolica
Romana nella sua realtà storica concreta.
Dopo questa sintetica
presentazione, vediamo ora in che modo AeU delinei la “figura” del Corpo
Mistico di Cristo, scelta tra tutte quelle che rappresentano tradizionalmente
l’immagine della Chiesa.
2. L’“Israele
di Dio” denominato “Chiesa di Dio”, “Corpo di Cristo” e “Corpo Mistico di
Cristo” coincide unicamente con la Chiesa Cattolica Romana, unica vera Chiesa
di Cristo, secondo AeU
L’art. 3.1 di AeU
tratta della natura (indoles) dell’Israele di Dio, manifestata in varie
figure, a cominciare da quella espressa dal termine ecclèsia, Chiesa,
che in greco (ecclesìa) vuol dire originariamente “assemblea”,
“assemblea popolare”, “adunanza” (da ek-kaléo: chiamo fuori) ma che si
traduce anche con “comunità” o “popolo”.
All’inizio dell’articolo si trova il passo cui ho già accennato,
contenente il paragone con l’Antico Testamento, ripreso poi da LG 9 (vedi supra,
cap. III, § 3).
“Pertanto come Mosè
chiamò Chiesa di Dio [Dei Ecclesiam] l’Israele secondo la carne che
peregrinava nel deserto, così Cristo si riferì all’Israele di Dio che avanzando
nell’era presente aspira ad una città futura ed eterna, come alla sua Chiesa,
non solo perché l’acquistò con il suo sangue ma anche perché, dopo averla
preparata al suo fine con i mezzi opportuni, l’edificò su Pietro (Mt
16,18) e sui suoi successori [i Pontefici], nei quali rimanesse in perpetuo il
medesimo Pietro con la sua autorità”(AeU 3.1). E perché gli uomini capissero meglio la
natura della Chiesa, prosegue l’articolo, lui stesso o per mezzo degli Apostoli
la rappresentò con diverse figure e nomi:
“regno, casa di Dio, tempio di Dio, gregge, ovile, sposa di Cristo,
colonna e fondamento della verità”.
Ho messo la parte finale della citazione
iniziale in corsivo sottolineato per metter in evidenza la parte della frase
che è stata lasciata cadere da LG 9, che riporta invece il resto, come ho
ricordato sopra. La parte lasciata
cadere è proprio quella che identifica sin dall’inizio l’Israele di Dio con la
“roccia” costituita per volere di Cristo da S. Pietro; che identifica perciò la
Chiesa di Cristo con la Chiesa Cattolica Romana, i cui Pontefici sono i
successori legittimi di S. Pietro, avendo essi soli mantenuto la continuità
apostolica e dottrinale, come ho già ricordato.
3. Il senso del parallelo con l’Antico
Testamento
Il testo di AeU rinvia
in nota a due passi dell’Antico Testamento per documentare l’appellativo Dei
Ecclesia conferito al popolo ebraico:
Num 20,4 e Deut 23,2. Nel primo
si narra di un principio di ribellione del “popolo del Signore” (Ecclesia
Dei) ovvero del popolo ebraico contro Mosè ed Aronne durante la traversata
del deserto, allorché si era trovato momentaneamente senz’acqua. Nel secondo, si enunciano le categorie degli
esclusi dalla “assemblea di Israele”, ordinando: “Il bastardo nato da meretricio, non entrerà
nella comunità del Signore [Ecclesia Dei] sino alla decima generazione”.
Il riferimento ai
Libri di Mosè permette di stabilire la giusta analogia tra Antico e Nuovo
Testamento, che non è tra cose uguali.
La Ecclesia mosaica è quella limitata e ristretta all’Israele
della carne e riguarda le sue vicende e leggi particolari, anche se
inquadrate nell’economia della
salvezza. Invece la Ecclesia di
Cristo è stata concepita dal Signore e dichiarata “sua”, non solo perché
acquisita con il sacrificio della Croce, perché provvista da Lui dei mezzi
necessari al suo fine sovrannaturale, ma anche perché edificata “su Pietro e i
suoi successori”, cioè sui Romani Pontefici, la cui autorità si fonda
direttamente su Cristo non su quella del collegio apostolico né sulla “carne”
di un’istituzione e di una tradizione meramente nazionali. La Chiesa, pertanto, non si incorpora in un
determinato popolo: il suo “corpo” è
quello di Cristo, che ne è il capo.
Stabilita in modo
netto da AeU 3.1 la differenza tra l’Ecclesia Dei mosaica e l’Ecclesia
Dei fondata da Nostro Signore, AeU 4 inizia l’analisi della Chiesa come
“figura del corpo di Cristo”: nozione fondamentale, che ribadisce l’origine e
la natura sovrannaturale della Chiesa militante, senza attenuarne il carattere
appunto “militante”, terreno e visibile, gerarchico, sociale.
4. La Chiesa come “Corpo di Cristo” in AeU
4
Di tutte le figure
della Chiesa, prosegue il testo, quella del “corpo” occupa il posto principale
“perché esprime in modo più chiaro l’unione dell’elemento sociale [della Chiesa
come societas terrena] con quello mistico”. Il concetto compare in S. Paolo, “ispirato da
Cristo”, in due noti passi: Col 1,18 ed
Ef 1,23: “Ed egli [Cristo] è il capo del
corpo che è la Chiesa”; “…[Egli] è il
capo supremo della Chiesa, che è il corpo di Lui e complemento di Colui che
tutto completa in tutti”.
L’immagine del corpo
implica quella dell’unità del corpo con il Capo, Nostro Signore, e dei membri del
corpo tra di loro. “Perciò – continua
Aeu 4 – tutti coloro che sono entrati nella Chiesa col battesimo e si sono
rivestiti di Cristo nella comunione dei santi [Gal 3, 27], allorché partecipano
dell’unico pane eucaristico, raggiungono il compimento nell’unità dell’unico
Corpo [di Cristo], “perché unico pane ed unico corpo formiamo noi pur essendo
molti, poiché tutti partecipiamo dell’unico pane”” [1 Cr 10,17]. Quest’immagine tradizionale che connette
l’unità del Corpo di Cristo all’unità che simbolicamente si realizza
nell’Eucaristia, è ripresa, come si è visto, da LG 3 (vedi supra, cap.
III, § 5). Ma in AeU 4 l’unità,
conformemente alla dottrina tradizionale, è rigorosamente circoscritta ai soli
battezzati che professino la vera fede in parole e opere (nel modo di
esprimersi di S. Paolo: che si siano
rivestiti di Cristo nella comunione dei Santi) senza accenni ad allargamenti ed
estensioni che giungano a ricomprendere tutti gli uomini, anche i non
convertiti (unità di tutto il genere umano)!
Gli accenni all’estensione dell’unità del Corpo di Cristo a tutti gli
uomini, nel senso appena indicato, sono una caratteristica del Vaticano II.
Stabilito in che senso
l’immagine del “Corpo di Cristo” faccia intendere l’unità dell’elemento
“sociale” con quello “mistico” nella Chiesa, l’art. 5 di AeU procede ad
“enucleare la figura del corpo” nei suoi elementi costitutivi.
Il corpo che è la
Chiesa è innanzitutto “visibile” (oculis cernitur: si scorge con gli occhi, come soleva dire
Leone XIII) ed è composto da molti membri di diversa natura (“chierici e laici,
governanti e sudditi, maestri e discepoli”) che danno luogo a diversi ordini (status)
nella Chiesa stessa, ai quali presiede Cristo, che fornisce le grazie
necessarie per mantenerli nel giusto equilibrio. I vari ordini della Chiesa
sono analizzati nei capitoli successivi dello schema. Ma nella “compagine dei membri del corpo” c’è
un’altra connexio che opera a mantenere l’unità del tutto; connexio
soprannaturale, che risale anch’essa al Signore, da lui illustrata quando ha
detto: “Io sono la vite, voi i
tralci. Colui che rimane in Me e Io in
lui, porta abbondanti frutti; perché senza di Me non potete far nulla” (Gv
15,5). La connessione profonda che
mantiene l’unità della Chiesa visibile, l’unità di un vero e proprio Corpo, è
quindi sempre sovrannaturale ed è prodotta dallo Spirito Santo. La seconda e la terza Persona della
Santissima Trinità concorrono quindi a costituire e a mantenere la Chiesa
visibile come unità, unità dei soli credenti non di tutto il genere umano.
“Così come infatti
Cristo è il Capo del Corpo, allo stesso modo lo Spirito Santo, che inabita nel
Capo e nelle membra, è la sua Anima;
essendo uno, costituisce e tiene tutto il corpo in unità e a tutti i
membri, secondo la misura del dono di Cristo, amministra la grazia e i doni, e
conferisce i carismi. Per tal motivo la
Chiesa è detta essere una persona veramente mistica in Cristo Gesù: “Infatti voi tutti siete uno in Cristo Gesù”
(Gal 3, 28).
Qual è il rapporto tra
lo Spirito Santo e la Chiesa corpo di Cristo?
Lo Spirito Santo è “l’anima” della Chiesa ma senza esser mai
indipendente dal Capo, cioè da Cristo.
Non può esistere un dualismo tra il Capo del corpo e l’Anima dello
stesso. Quest’immagine agostiniana è
ripresa da Leone XIII e successivamente dalla Mystici Corporis. Fuor di metafora: lo Spirito Santo “amministra” (administrat)
e “conferisce” (confert) la grazia, i doni, i “carismi” (nel senso di
doni particolari, eccezionali) ma sempre “secondo la misura del dono di
Cristo”. Questo principio fu ribadito
con estrema chiarezza nella Mystici Corporis[15]. Esso è verità rivelata da S. Paolo. Proviene
da Ef 4,7, da un capitolo nel quale S. Paolo sta spiegando le virtù
fondamentali della vita cristiana: “A
ciascuno poi di noi fu data la grazia secondo la misura del dono di Cristo” [data
est gratia secundum mensuram donationis Christi]. Il “dono”
è molteplice: “Ed egli diede gli
uni apostoli, gli altri profeti, gli altri evangelisti, gli altri pastori e
maestri, per il perfezionamento dei santi [dei credenti fra i Gentili], in
vista dell’opera del ministero, che è l’edificazione del corpo di Cristo…”(Ef
4,11-12). Naturalmente, come mostra il
prosieguo dell’epistola paolina, “i doni di Cristo” non sono riservati al solo
corpo docente della Chiesa nascente, essi sono attribuiti a tutti i membri
della Chiesa, come appunto ribadito da AeU 5. Senza un’illustrazione precisa
dell’opera dello Spirito Santo non si potrebbe definire la Chiesa come “corpo
mistico di Cristo”. E
quest’illustrazione riflette la dottrina ortodossa, il dogma secondo il quale
“la terza Persona della Santissima Trinità procede per spirazione dalla prima e
dalla seconda, come da un solo principio”[16].
5. Il peccato dei suoi membri non lede la
santità della Chiesa
L’ultimo paragrafo di AeU 5 tratta della
santità della Chiesa nonostante i peccati commessi dai “membri malati” che ne
fanno parte.
“Tuttavia i peccati di
costoro offendono in verità la Chiesa ma non ne ledono la santità essenziale;
infatti, la Chiesa è santa soprattutto perché, come sposa di Cristo è
costituita nella santità, genera i suoi membri nella santità e non manca mai di
membri che eccellono nella santità.
Inoltre, non si limita a reprimere i peccati dei suoi membri ma si
adopera affinché questi stessi membri malati siano ricondotti nella pristina
condizione di santità, a volte persino più elevata”.
Avendo definito la
Chiesa come “Corpo Mistico di Cristo”, bisogna spiegare il rapporto che con
esso hanno quei membri che cadano nel peccato.
E chi è, anche tra i cristiani, che non sia peccatore? Il fatto di appartenere alla Chiesa non li
salva dall’eterna dannazione, se induriscono nel peccato. In nota, AeU 5 cita S. Agostino, il quale
insegnava che “anche nel Corpo di Cristo l’amore per la meretrice manda
all’Inferno” (Serm. 349, 2: PL
39, 1530), ove con “meretricis amorem” si devono evidentemente intendere
i peccati della carne in tutti i loro vari aspetti, per maschi e femmine.
Ma perché la Chiesa
può sanare il membro malato del suo corpo, grazie all’uso dei Sacramenti,
istituiti da Cristo come strumenti, se così posso dire, della santità
della Chiesa? Proprio perché è sempre
santa in quanto Sposa di Cristo, il quale, tramite lo Spirito Santo, non
abbandona la sua Chiesa: il peccato del
cristiano “offende” il Corpo Mistico ma senza “lederlo”. Infatti, una cosa è “l’offesa”, un’altra la
“lesione”: i nostri peccati offendono
Dio ma non possono certo lederlo, ferirlo nella sua divinità, ulcerandola o
diminuendola! Idem per la Santa Chiesa, fondata da Nostro Signore. Da sé stessa, proprio perché assistita
sovrannaturalmente dal Signore e dallo Spirito Santo, essa può sempre trovare
le forze per sanare il male al suo interno sia punendo sia esercitando il ministero della misericordia,
che mira al pentimento e alla conversione del peccatore. Inoltre, osservo, se la Chiesa dovesse
ritenersi in quanto tale peccatrice, e quindi esserlo nella sua
totalità, lo status di peccato non dovrebbe coinvolgere, oltre a tutte le
membra, anche il Capo, ossia Nostro Signore?
Se la Chiesa è il “corpo mistico di Cristo” e tale corpo è immerso nel
peccato, come fa a non considerarsi “peccatore” anche il Capo del Corpo? A tali conseguenze aberranti conduce, dunque,
la logica intrinseca all’idea assurda di una Chiesa “peccatrice”.
6. LG 8 sembra attribuire il peccato anche
alla Chiesa come tale
Questo stesso concetto
è ripreso nel penultimo paragrafo di Lumen gentium 8, ma in modo che a
molti è parso ambiguo. Recita infatti il
testo: “Ma mentre Cristo, “santo,
innocente, immacolato” non conobbe il peccato e venne solo allo scopo di
espiare i peccati del popolo, la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori
ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza
continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento [Ecclesia in
proprio sinu peccatores complectentes, sancta simul et semper purificanda,
poenitentiam et renovationem continuo prosequitur]” (LG 8.3). Si vede subito che qui non è stata ripresa la
distinzione di AeU tra “offesa” e “lesione”.
Dobbiamo allora ritenere che il peccato dei Cattolici incida sulla
santità della Chiesa? In effetti, il
testo potrebbe legittimare un’interpretazione di questo genere perché afferma
che, in conseguenza del peccato dei suoi membri, è la Chiesa in quanto tale
ad aver bisogno di “purificazione” e ad avanzare continuamente “per il cammino della penitenza”. Ora, chi, se non il peccatore, ha bisogno di
“purificazione” e di avanzare senza posa “per il cammino della penitenza”? L’idea di una peccaminosità della
Chiesa (notoriamente sostenuta da Karl Rahner) verrebbe dunque insinuata
nell’argomentare obliquo tipico per l’appunto di certi testi del Vaticano
II. Ulteriori riferimenti conciliari
mantengono l’ambiguità e forse l’aggravano (LG 11: coloro che si confessano si riconciliano con
la Chiesa alla quale “hanno inflitto una ferita col peccato”; LG 39: “La Chiesa
[…] è agli occhi della fede indefettibilmente santa [indefectibiliter sancta
creditur]”: in sé stessa o agli occhi della fede solamente? LG 48:
la Chiesa già sulla terra “è adornata di santità anche se
imperfetta”: ma esiste una “santità
imperfetta”? Che significa?).
Secondo AeU 5, invece,
era solo il peccatore ad aver bisogno di “purificazione” e poteva ottenerla
proprio perché la santità della Chiesa non era venuta meno, grazie
all’assistenza divina. È giusto dire che
la santità della Chiesa può essere offesa dal peccato ma non può esserne
“ferita”, perché il peccato non può colpire la Chiesa ontologicamente,
nella sua essenza, che è divina e non umana, e gode sempre dell’assistenza
divina. È la santità permanente della
Chiesa a garantirle quei mezzi (i Sacramenti) mediante i quali essa ci purifica
dai nostri peccati, inducendoci a cambiar vita e a correre verso Cristo come il
Figliol Prodigo verso il Padre.
L’ambiguità di LG 8.3 rafforza la
sensazione di trovarsi in presenza di un diverso e contraddittorio concetto di
Chiesa, visto che ora la si potrebbe intendere contemporaneamente come santa
e peccatrice. Bisogna, inoltre
aggiungere che, se la Chiesa, la Sposa di Cristo, fosse essa stessa
“peccatrice” e quindi sempre “imperfetta” nella sua santità, non potrebbe
trovare in sé stessa i mezzi necessari per purificare i suoi membri peccatori[17].
7. L’errore di chi concepisce una Chiesa
solo “carismatica o dell’amore”
Stabiliti
gli elementi essenziali della Chiesa come “Corpo Mistico di Cristo”, il
penultimo articolo dello schema rigettato, AeU 6, prende posizione contro
l’errore al tempo diffuso ad opera della Nouvelle Théologie, e già
ricordato da me, secondo il quale la natura della Chiesa era soprattutto quella
di essere un ente carismatico o spirituale, del tutto separato dalla Chiesa
gerarchica e militante, sentita anzi come un impaccio, un peso morto. È quasi superfluo rilevare che di questa
precisazione e condanna non v’è traccia nella Lumen Gentium. E come
avrebbe potuto, visto che i profeti della “Chiesa carismatica” come P. Congar
OP, grazie al “buon cuore” di Roncalli, facevano ora parte della Commissione
Teologica?
In ogni
caso, nella Allocuzione di apertura del Vaticano II, l’11 ottobre 1962,
Giovanni XXIII non aveva forse detto che non bisognava più condannare gli
errori ma usare la medicina della misericordia (come se condannare gli errori
non fosse già opera di misericordia nei confronti dell’errante e dei fedeli
messi così sull’avviso - Amerio), dato che gli uomini del Secolo presente erano
talmente progrediti da condannare ormai da sé stessi certi errori? E che dire, allora, del fatto che nel 1961
era entrata in commercio negli Stati Uniti la pillola anticoncezionale, che
avrebbe potentemente contribuito alla cosiddetta “emancipazione” delle donne,
consegnandole in pratica alla corruzione del Secolo? La diffusione degli anticoncezionali, che si
è dimostrata letale per l’Occidente, dimostrava forse che l’umanità ormai
condannava da sé stessa certi errori?
Tanto poco li condannava, che questi errori penetrarono ampiamente nella
Cattolicità, come dimostrò la vasta ribellione, guidata da interi settori
dell’episcopato, che scoppiò quando Paolo VI, pur liberale di temperamento,
dovette finalmente dichiarare illecito l’uso degli anticoncezionali,
nell’enciclica Humanae vitae, del 25.7.1968. Come si sa, questa proibizione è rimasta a
tutt’oggi lettera morta per molti cattolici.
Ma torniamo ad AeU
6. L’argomento dell’articolo è: “La Chiesa in quanto società è il Corpo
mistico di Cristo”. Ossia: il Corpo Mistico non è solo “spirituale” o
“pneumatico” (dal greco pneuma, soffio, spirito), comprende anche la Chiesa
società, visibile, gerarchica, militante.
“Dato dunque che lo
Spirito Santo elargisce molti carismi alla Chiesa, che corrispondono alla sua
indole sociale e alla sua missione divina, in vari offici e ministeri, affinché
coloro che li ricevono, operino unitariamente quali cooperatori di Dio [Dei
adiutores] all’edificazione del
corpo di Cristo, è falso sostenere che la Chiesa gerarchica o giuridica
differisca nei fatti [re] dalla
Chiesa carismatica o dell’amore, come dicono.
Per il semplice fatto che la Chiesa in quanto società [Ecclesia
societas] e il Corpo Mistico di Cristo non sono affatto due cose diverse [haud
binae res sunt], ma la medesima cosa, che si palesa nel suo aspetto umano e
divino; sì da venir assimilata al Mistero del Verbo Incarnato, con analogia di
non piccola importanza”.
In cosa consiste,
dunque, l’errore degli Ammodernanti? Nel
voler ritenere che l’azione dello Spirito Santo si svolga fornendo di doni o càrismi solo la componente
invisibile della Chiesa, agendo quindi
principalmente sul cuore e sul sentimento, che verrebbero così elevati a
componenti di una Chiesa “dell’amore” (per l’umanità) del tutto indipendente
dalla Chiesa gerarchica, ossia dalla Chiesa-società, istituzione. Quest’ultima si troverebbe allora
istituzionalmente (re) fuori dell’azione dello Spirito Santo, non
godrebbe dei suoi doni. Ma ciò è
impossibile, obietta giustamente AeU 6, per il semplice motivo che la Ecclesia
societas, con tutti i suoi ordini, non è stata fondata dagli uomini ma da
Cristo stesso, che l’ha costruita a partire dai Dodici, ossia cominciando
dall’alto, dai quadri, dalla gerarchia, non dal basso, dal popolo dei fedeli,
che doveva ancora esser formato. In
quanto fondata da Cristo, la Chiesa gerarchica e militante gode pertanto dei
doni dello Spirito Santo che, come si è visto, sono sempre, ci rivela S. Paolo,
“secondo la misura dei doni di Cristo”.
Non ha perciò senso
ipotizzare l’esistenza di una Chiesa dello Spirito, del tutto
invisibile, che operi con i suoi doni nei cuori degli uomini ed addirittura si
contrapponga a quella gerarchica. Ed
ancor meno ne ha, pretendere di “riformare” la Chiesa gerarchica in modo da
renderla “carismatica o dell’amore”, come volevano Congar e i suoi amici; cosa
che renderebbe – osservo – il Cattolicesimo una sorta di pappa del cuore. Una concezione del genere riflette le eresie
dei Protestanti, per i quali la vera Chiesa è appunto solo quella invisibile,
costruita dal cuore, dal sentimento, dalla coscienza di ciascuno, e di essa
ogni credente sarebbe il sacerdote, con lo Spirito Santo che lo assisterebbe
nella lettura individuale della Bibbia, qualsiasi cosa creda egli poi di
trovarvi! Inoltre, quell’erronea
concezione non tiene conto del dato storico offerto dai Vangeli, che mostrano
appunto come Nostro Signore abbia fondato nei particolari la Chiesa come realtà
gerarchica e sociale visibile, alla quale ha promesso l’aiuto dello Spirito
Santo, poi inviato in forma sensibile con il miracolo del giorno della
Pentecoste. E come abbia insegnato a
santificarci nella rinuncia a noi stessi e nella lotta contro noi stessi,
ricercando il Regno di Dio e la sua giustizia, non la nostra; a non
abbandonarci alle ingannevoli lusinghe del cuore o del sentimento, sempre
pronti a lasciarsi sedurre dal peccato.
I sostenitori dell’idea
di una Chiesa “pneumatica” proponevano un’ecclesiologia nella quale si
riaffacciavano le eresie dei Modernisti.
Ciò apparve in modo evidente quando si aprì la discussione sullo schema De
Ecclesia rielaborato dalla Commissione Mista, nella 37ᵃ Congregazione
generale del Concilio. “I due primi
interventi, quelli del cardinale Frings e Siri confermarono la profonda
divergenza di vedute esistente all’interno dell’assemblea. Da una parte vi era la concezione della Nouvelle
Théologie, in particolare di Congar, che contrapponeva alla “Chiesa del
Diritto” quella pneumatica dell’Amore; dall’altra la visione tradizionale, che
si rifaceva alla dottrina di san Roberto Bellarmino, letta alla luce della Mystici
Corporis”. Il giorno successivo un
altro esponente dei Novatori, il cardinale cileno Raul Silva Henríquez sostenne
che “la Chiesa deve esser considerata come una comunione di chiese locali,
nello stesso senso in cui san Paolo si rivolgeva alla ‘Chiesa di Corinto’ e
alla ‘Chiesa di Efeso’[una “comunione” retta dallo “Spirito”, più che dal
Vicario di Cristo]. Ruffini, in polemica
anche con Frings, criticò il concetto di Chiesa-sacramento [utilizzato in LG 1]
già usato dall’eretico Tyrrell [gesuita irlandese, uno dei capi del Modernismo,
scomunicato da S. Pio X] e contestò la base scritturistica della collegialità,
ricordando che Cristo disse solo a Pietro:
“Tu sei Pietro e su questa pietra costruirò la mia Chiesa”[18].
La visione di una
Chiesa “pneumatica” o “dello Spirito” separava l’azione dello Spirito Santo da
quella di Nostro Signore, rendendola incontrollata e pencolando verso una
“Chiesa” costituita da “movimenti” di spiritati e invasati dallo “Spirito”, sul
tipo dei c.d. “carismatici” protestanti. Oggi “movimenti” di questo tipo, che
bisognerebbe definire pseudocattolici, hanno invaso la Chiesa Cattolica,
tollerati dall’autorità ecclesiastica.
Ma era proprio questo il modello, c.d. “profetico”, verso il quale
tendeva l’ecclesiologia del “popolo di Dio” propugnata con particolare
intensità dal cardinale belga Suenens[19].
Mi sembra utile
ricordare, a questo punto, che nell’importante enciclica Mediator Dei
sulla sacra Liturgia, del 20.11.1947, Pio XII condannava l’errore di “autori
moderni” i quali, a proposito della liturgia:
“ingannati da una pretesa
più alta disciplina mistica, osano affermare che non ci si deve concentrare sul
Cristo storico, ma sul Cristo “pneumatico e glorificato”; e non dubitano di
asserire che nella pietà dei fedeli si sarebbe verificato un mutamento, per cui
il Cristo è stato quasi detronizzato, con l’occultamento del Cristo glorificato
che vive e regna nei secoli dei secoli e siede alla destra del Padre, mentre al
suo posto è subentrato il Cristo della vita terrena. Alcuni perciò arrivano fino al punto di voler
rimuovere dalle chiese le immagini del Divino Redentore che soffre in Croce
[sic].
Ma queste false
opinioni sono del tutto contrarie alla sacra dottrina tradizionale. “Credi nel Cristo nato in carne – così
Sant’Agostino – e arriverai al Cristo nato da Dio, Dio presso Dio”. La sacra Liturgia, poi, ci propone tutto il
Cristo, nei vari aspetti della sua vita [sino alla sua Passione, Morte e
Resurrezione, continua il Papa, dopo la quale egli ci invia lo Spirito Santo]. E inoltre non ce lo presenta soltanto come un
esempio da imitare, ma anche come maestro da ascoltare, un pastore da seguire,
come mediatore della nostra salvezza, principio della nostra santità, e Mistico
Capo di cui siamo membra, viventi della sua stessa vita. E siccome i suoi acerbi dolori costituiscono
il mistero principale da cui proviene la nostra salvezza, è secondo le esigenze
della fede cattolica porre ciò nella sua massima luce, poiché esso è come il
centro del culto divino, essendone il Sacrificio Eucaristico la quotidiana
rappresentazione e rinnovazione, ed essendo tutti i Sacramenti congiunti con
strettissimo vincolo alla Croce”[20].
Ho voluto ricordare la
riprovazione pacelliana delle false dottrine sul Cristo “pneumatico e
glorificato” che avrebbe dovuto occupare il centro della liturgia cattolica
perché esse sono certamente da connettere alla falsa idea di una Chiesa
“carismatica e dell’amore” alternativa alla Chiesa gerarchica e militante,
condannata da AeU 6. Sembrano
costituirne l’applicazione nell’ambito della riforma liturgica auspicata dagli
elementi deviati del Movimento Liturgico, attivo soprattutto fra le due
guerre mondiali. E la riforma liturgica
posta in essere su impulso del Vaticano II, ha portato o no, di fatto, a vedere
nella Resurrezione – in quanto momento di gaudio e gioia – il momento
essenziale della S. Messa? Tanto per
fare un esempio, la Conferenza Episcopale dell’Emilia Romagna, in un opuscolo
dedicato al confronto-dialogo tra Cristianesimo e Islam, in che modo presenta
sinteticamente la S. Messa agli occhi dei Mussulmani? In questo modo: “La Chiesa fa memoria del Signore Risorto
mettendo in una comunione viva e reale i suoi figli con Dio uno e trino”[21]. In questa definizione, che sembra addirittura
inclinare alla S. Messa intesa come semplice “memoriale” e “sacrificio di
lode”, alla maniera dei Protestanti eretici, non vi è più nessuna traccia
dell’idea della S. Messa come Sacrificio propiziatorio, che ci ottiene
misericordia (propitiatio) per i nostri peccati. Qui la S. Croce non sembra pertanto esser più
il centro del culto divino, il che rappresenterebbe una deviazione terrificante
dalla retta dottrina e liturgia, un vero e proprio tradimento.
8. L’analogia con il Verbo Incarnato
Il secondo e ultimo
paragrafo di AeU 6 spiega l’analogia tra la Chiesa e il Verbo Incarnato.
“Infatti, come nel
Verbo Incarnato la natura umana, quale strumento vivo della sua stessa natura
divina, si dedica alla salute nostra e di tutto il mondo e continua nei cieli a
dedicarvisi [è l’umanità trasfigurata del Corpo Glorioso del Signore, che è
nostro Patrono in Cielo – Eb 7,25], così la Chiesa in quanto società [Ecclesia
societas] riceve i doni [charismatibus] della predicazione, del
sacerdozio, della regalità [di Nostro Signore] affinché essa serva lo Spirito
di Cristo nell’edificazione del Corpo di Cristo. Infatti, questi doni, non altrimenti che gli
altri ricevuti dallo Spirito Santo, devono esser messi a frutto come servizio e
ministero di verità e carità, affinché la salvezza originata da Cristo e
contemporaneamente tutti i benefici che ne scaturiscono, si propaghino a tutti
gli uomini e a tutte le età”[22].
Il senso della non
facile ma tuttavia evidente analogia sembra essere il seguente: il rapporto tra la Ecclesia societas e
il Corpo Mistico è simile a quello tra la natura umana e la natura divina del
Verbo Incarnato, le quali non si confondono mai pur costituendo un’unità
inscindibile nella Persona stessa del Verbo.
La Ecclesia societas, gerarchica e militante, ha ricevuto da
Cristo suo fondatore determinati doni per edificare il Corpo di Cristo, in
un’azione sempre obbediente allo “Spirito di Cristo”, che è altro modo
tradizionale di designare lo Spirito Santo[23]. La Ecclesia societas ha ricevuto i
doni dal suo divino fondatore e li mantiene con l’aiuto dello Spirito Santo
proprio perché unita in terra al Corpo Mistico di Cristo ma senza confondersi
in esso, così come la natura umana è unita, senza confondervisi, a quella
divina del Verbo. La Chiesa gerarchica e militante svolge, pertanto, la stessa
funzione di “strumento” della natura divina espletato dalla natura umana del
Verbo. Separarla dallo Spirito Santo
equivarrebbe a separarla dal Verbo, suo fondatore, il che sarebbe assurdo oltre
che eretico perché equivarrebbe a negare la storicità dei Vangeli.
9. L’unica
e vera Chiesa di Cristo è la Chiesa Cattolica Romana
Tutto
ciò considerato, lo schema si conclude con l’art. 7, che dichiara senza mezzi
termini esser la Chiesa cattolica romana l’unica e vera Chiesa di Cristo: questa è la vera natura della Chiesa
militante. Il titolo dell’articolo
recita: “La Chiesa cattolica romana è il
Corpo Mistico di Cristo”.
“Insegna pertanto il
Sacro Sinodo e professa solennemente che non vi è se non un’unica vera
Chiesa di Cristo, e cioè quella che nel Simbolo celebriamo una, santa,
cattolica e apostolica, vale a dire quella che il Salvatore si acquistò
sulla Croce e congiunse a sé come il corpo alla testa e la sposa allo sposo,
e dopo la sua resurrezione diede a S. Pietro e Successori, che
sono i Romani Pontefici, affinché la governassero; e che pertanto è la sola che
di diritto viene chiamata Chiesa Cattolica Romana”.
Ho messo in corsivo e
sottolineato le parti di questa definizione lasciate cadere dalla
rielaborazione che ne avrebbe fatto la Commissione Mista, sopra richiamata,
inserendo i resti in LG 8.2. La presente
definizione, chiara, semplice e lineare, rappresenta la conclusione logica di
tutto il discorso che la precede, che a sua volta viene condotto in perfetta
continuità con la dottrina tradizionale della Chiesa. Anche in AeU vengono usate le varie
denominazioni tradizionali della Chiesa.
Non c’è però nessuna confusione.
I termini tradizionali usati esprimono tutti una medesima realtà. Il nuovo “Israele di Dio” o “Chiesa di Dio” è
la “Chiesa di Cristo” da lui fondata, che è nello stesso tempo il “Corpo
Mistico di Cristo”, il quale coincide perfettamente in questo mondo con la
Chiesa Cattolica Apostolica Romana, governata dal Vicario di Cristo in terra,
il Sommo Pontefice, Vescovo di Roma, Primate d’Italia.
Ma, durante la fase preparatoria,
proprio contro questo articolo 7 si scatenò l’ira degli Ammodernanti, come si è
detto, in particolare del cardinale Liénart (l’uomo del 13 ottobre) e del
cardinale Bea. Due cardinali di S.
Romana Chiesa, e non erano i soli, non accettavano più una definizione della
Chiesa conforme all’insegnamento di sempre, che identificava la Chiesa
Cattolica Romana con l’unica vera Chiesa di Cristo e quindi con il Corpo
Mistico di Cristo! E non l’accettavano in nome delle esigenze ecumeniche
indicate da Giovanni XXIII, grazie alle quali l’idea e il concetto della vera
Chiesa di Cristo si dovevano poter applicare anche ai “fratelli separati”, i
quali erano (e restano) scismatici ed eretici?
Nel corpo della Gerarchia, agli alti livelli, c’era evidentemente qualcosa
che non quadrava, dal punto di vista teologico.
Ma
vediamo la critica all’articolo avanzata dal cardinale Liénart. Dopo aver detto che lo schema non gli piaceva
perché trascurava l’aspirazione all’unità dei “cristiani separati”, sferrò il
suo attacco in questo modo. “Mi sembra,
disse, che non possiamo “confessare solennemente”, come propone il testo
all’art. 7, che la Chiesa romana e il Corpo Mistico siano l’identica realtà,
come se il Corpo Mistico fosse interamente ricompreso nei limiti della Chiesa
romana. Difatti il Corpo Mistico di Cristo è molto più ampio della Chiesa
cattolica militante. Abbraccia la Chiesa
sofferente al Purgatorio e la Chiesa trionfante in cielo. Dal che si conclude che la nostra Chiesa, per
quanto sia l’aspetto visibile del Corpo Mistico di Cristo, non possa
assolutamente identificarsi con esso”[24]. Il cardinale Liénart ne faceva una questione
di quantità! Poiché l’intero
Corpo Mistico è senz’altro più esteso della Chiesa militante, allora i due non
si identificano. Non diceva
nemmeno: bisogna dire che si
identificano in parte, solo in questo mondo:
non si identificano e basta. Come
se si trattasse di due realtà diverse. E
in nome di questa maggior estensione del Corpo Mistico rispetto alla Chiesa
militante il cardinale rifiutava il concetto tradizionale di Chiesa per
ricercarne uno che si estendesse anche ai “fratelli separati”? La Chiesa Cattolica “militante” non si
identificava con il Corpo Mistico mentre vi si sarebbe identificata una Chiesa
aperta ai “fratelli separati”? Forse che questa nuova “Chiesa” avrebbe
potuto estendersi al Purgatorio e al Paradiso? Ma quando S. Paolo insegnava che la Chiesa
era il Corpo il cui Capo era il Cristo, non includeva quella che poi si è
chiamata Chiesa militante nel Corpo di Cristo ossia nel Corpo Mistico di
Cristo? E la includeva come un qualcosa
di estraneo o come qualcosa che si identificava perfettamente con il Corpo
Mistico di Cristo? Dal punto di vista qualitativo, della sua specifica
natura, la Chiesa visibile fondata in terra da Nostro Signore non si distingue
in alcun modo dalla “pienezza” del Corpo Mistico di cui il Cristo è il Capo in
cielo. È dunque corretto esprimere questa identità assoluta usando il verbo essere,
e dire che la Chiesa militante è il Corpo Mistico di Cristo. E che lo sia in terra è ovvio, risulta già
dall’aggettivo “militante”, che designa da sempre la Chiesa visibile, in questo
mondo. Nell’attaccare lo schema, Liénart
non attaccava solo Ottaviani e la Curia.
Attaccava in realtà l’insegnamento della Mystici Corporis, che a
sua volta (come si è detto) si basava su quello di Leone XIII e risaliva sino a
S. Bellarmino, morto nel 1621; insomma attaccava la dottrina sempre insegnata
dalla Chiesa sulla natura della Chiesa stessa. E gli argomenti che usava non
avrebbero potuto essere sostenuti senza problemi anche da un Protestante?
Con il togliere dall’art. 7 le parti più
significative: dall’aggettivo “vera” al
riferimento alla Croce e ai suoi meriti (sgraditissimo evidentemente ai
Protestanti oltre che a tutte le altre religioni della terra), al Primato di
Pietro e dei suoi successori, la Commissione Mista dimostrava di procedere
nello spirito del cardinale Liénart e dei suoi sodali in Nouvelle Théologie. Ma vediamo ora cosa resta di AeU 3-7 in Lumen
Gentium 4-8.
V. LA
CHIESA DI LG 4-8 É UNA CHIESA DELLO SPIRITO E DELL’AMORE, OSSIA UNA CHIESA NON
GERARCHICA E NON MILITANTE, SEMPRE IMPERFETTA, SEMPRE IN CERCA DELLA PIENEZZA
DELLA VERITÀ?
Cominciamo dunque con
l’esaminare LG 4, dedicato allo “Spirito santificatore della Chiesa”, uno degli
articoli interamente nuovi rispetto allo schema Aeterni Unigenitus. In quest’articolo si riafferma la
tradizionale molteplicità dei doni dello Spirito Santo. Qual è il fine dello Spirito Santo? Il giorno di Pentecoste esso fu inviato “per
santificare continuamente la Chiesa”. Ma anche affinché “i credenti avessero
così attraverso Cristo accesso al Padre in un solo Spirito (Ef 2, 18)”. Nella sua opera di “santificazione”, che cosa
propriamente fa lo Spirito Santo? Esso
“dà la vita”, si intende la vita dell’anima; è infatti “una sorgente di acqua
zampillante fino alla vita eterna (Gv 4, 14-17; 7, 38-39)”, che ci procura la
rigenerazione spirituale: “per mezzo suo
il Padre ridà la vita agli uomini, morti per il peccato, finché un giorno
risusciterà in Cristo i loro corpi mortali (Rm 8, 10-11)”. Dove “abita” (habitat) lo Spirito
Santo? “Nella Chiesa, nei cuori dei
fedeli come in un tempio e in essi prega e rende testimonianza della loro
condizione di figli di Dio per adozione (Gal 4, 6 etc.) ”. Ma lo Spirito Santo non contribuisce anche al
nostro retto intendimento, al giusto discernimento? La sua azione non incide anche sulla sfera
razionale dell’individuo? E difatti, lo
Spirito Santo “introduce la Chiesa in tutta la pienezza della verità”[Ecclesiam
quam in omnem veritatem inducit..](Gv 16, 13). Inoltre, esso “la unifica nella comunione e
nel ministero, la provvede e dirige con diversi doni gerarchici e carismatici,
la abbellisce dei suoi frutti. Con la
forza del Vangelo la fa ringiovanire, continuamente la rinnova e la conduce
alla perfetta unione col suo Sposo”. In
conclusione: “la Chiesa universale si
presenta come “un popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del
Figlio e dello Spirito Santo” (S. Cipriano; S. Agostino)”.
In questa ampia rappresentazione, intessuta di
immagini tradizionali, ci sono però, come ho già detto, alcuni aspetti che non
solo non sembrano affatto coincidere con l’impostazione di AeU ma che fanno
anche scorgere una concezione singolare dell’azione dello Spirito Santo.
1) In AeU lo Spirito Santo contribuisce
all’edificazione del Corpo Mistico di Cristo sempre “secondo la misura dei doni
di Cristo”. In LG 5 questa verità non
viene enunciata in modo così chiaro; essa resta come implicita, per non dire
addirittura sepolta nel riferimento ad Ef 2,18, che in realtà tratta
“dell’unico Spirito” di Cristo che avrebbe affratellato pagani ed ebrei, una
volta diventati tutti cristiani (sull’ulteriore uso conciliare di questo passo
di Ef 2, vedi infra).
2) Secondo la dottrina
tradizionale, lo Spirito Santo non è solo “grazia carismatica”, che cioè
conferisce i necessari doni o carismi spirituali alla Chiesa e ai singoli
fedeli. In quanto Persona della Santissima Trinità, la sua azione (e proprio in
base alle dichiarazioni di Nostro Signore) viene percepita anche come quella di
una persona, di un Soggetto che mostra una personalità, che opera con
discernimento e volontà. La funzione docente
dello Spirito Santo è appunto una di
quelle che lo caratterizza come Persona e non come semplice spirito impersonale[25]. LG 4 ricorda la funzione docente dello
Spirito Santo, ma in che modo?
1. Uno
Spirito Santo che solamente “ci introduce” a “tutta la verità”?
Risulta chiaramente
dal Vangelo che lo Spirito Santo “insegnerà [docebit] alla Chiesa tutta
la verità” della Rivelazione ed insegnerà ai singoli fedeli cosa rispondere ai
persecutori, una volta tradotti nei loro tribunali (“lo Spirito Santo vi
insegnerà [docebit] in quel momento stesso ciò che dovrete dire” – Lc
12,10). In LG 4, invece, lo Spirito
“introduce la Chiesa in tutta la verità” o “nella pienezza della verità”,
secondo il volgare italiano. Il francese dice, ugualmente: “Cette Église qu’il
introduit dans la vérité toute entière..”.
Tra l’insegnare tout court tutta la verità e l’introdurre ad
essa, c’è o no una sensibile differenza?
A me sembra di sì. Un conto è
dire che lo Spirito Santo “vi insegnerà tutta la verità” (docebit vos omnem
veritatem, Gv 16,13), espressione forte, senza sfumature, sia dal lato
dell’azione docente sia da quello della materia insegnata, che è tutta
la verità. Il concetto lo si è reso anche traducendo dal greco in modo più
letterale, scrivendo: “vi guiderà a
tutta la verità”, come nelle edizioni della S. Bibbia della CEI di prima e dopo
il Concilio ma anche in quelle popolari della Pia Società di S. Girolamo,
regnante S. Pio X (“vi guiderà ad ogni vero”).
Il significato è esattamente il medesimo: l’insegnamento dello Spirito Santo è appunto
la preannunciata, sicura guida sovrannaturale a tutta la verità, già predicata
e spiegata da Cristo ma non ancora afferrata compiutamente dai Discepoli.
Altro, invece, è dire
che lo Spirito Santo “ci introduce a tutta la verità” (Ecclesiam, quam in
omnem veritatem inducit..), variando la traduzione latina consolidata del
medesimo passo evangelico sì da conferire all’insegnamento dello Spirito Santo
il valore di una semplice “introduzione”.
Un’introduzione alla verità ha in sé stessa, proprio come concetto,
qualcosa di parziale, l’idea di un vero che si inizia a conoscere ma resta
ancora incompiuto, quanto al suo definitivo possesso. E crea una certa difficoltà pensare ad una
“introduzione a tutta la verità”, proprio perché l’introdurre è sempre atto che
resta parziale e quindi non può riguardare “tutta” la verità.
Ma perché si è voluto
variare il latino della citazione? E
quali le possibili conseguenze di questo mutamento? Può incidere esso sul concetto di verità rivelata oltre che sul modo di
intendere lo Spirito Santo? Il passo
giovanneo è di fondamentale importanza per comprendere in modo esatto la
rivelazione di Nostro Signore a proposito dello Spirito Santo. Esso va inteso nel suo contesto proprio. “Ho ancora molte cose da dirvi, ma per ora
non potete sostenerle”. Si trattava di
verità ancora troppo profonde. “Quando
sarà venuto lo Spirito di verità, egli v’insegnerà tutta la verità; giacché non
parlerà da sé stesso, ma vi dirà quanto udrà, e vi annunzierà le cose che
dovranno succedere. Egli mi
glorificherà, perché prenderà del mio e ve lo annunzierà. Tutto ciò che ha il Padre, è mio; perciò ho
detto che prenderà dal mio e ve lo annunzierà” (Gv 16, 12-15).
Quindi: lo Spirito Santo completerà
l’insegnamento di Cristo, senza tralasciare nulla (“tutta la verità”, rivelata,
ovviamente). E potrà farlo perché
insegnerà “quanto udrà”. Da chi? Da Cristo stesso e dal Padre. Prenderà “del mio” da Nostro Signore, ma “il
mio” di Nostro Signore è sempre “il mio” del Padre, ab aeterno, perché è “tutto
ciò che ha il Padre”. L’insegnamento
dello Spirito Santo agli Apostoli, ivi comprese le profezie, riguardando “tutta
la verità” da approfondire rispetto a quanto già insegnato da Nostro Signore,
avrebbe pertanto concluso la Rivelazione.
E correttamente si è sempre ritenuta come verità di fede la proposizione
secondo la quale la Rivelazione si è conclusa con la morte dell’ultimo
Apostolo. L’insegnamento di “tutta la
verità” da parte dello Spirito Santo porta perciò a compimento il Deposito
della Fede.
Bisogna comunque tener
sempre presente, sottolinea Mons. Gherardini, che da parte dello Spirito Santo
si ha solo una “assistenza conservativa alla verità rivelata, non
un’integrazione in essa di verità altre o diverse da quelle rivelate,
o presunte come tali”. Alla
Pentecoste “non ci saranno ulteriori rivelazioni. L’unica si chiude con coloro ai quali Gesù
sta ora parlando [ai Discepoli, nel Vangelo di Giovanni citato]. Le sue parole si presentano con un
significato univoco, riguardante l’insegnamento da Lui impartito e soltanto
codest’insegnamento. Un linguaggio,
questo, non criptato o cifrato, ma limpido come il sole. Si potrebbe sollevar un’obiezione sulla
prospettiva d’apparente novità in relazione a quello che, ora taciuto da Gesù,
verrà annunziato dallo Spirito Santo; ma la delimitazione della sua assistenza
ad un’azione di guida verso il possesso di tutta la verità rivelata da Cristo
esclude novità sostanziali. Se novità
emergeranno, si tratterà di significati nuovi, non di verità nuove; donde il
giustissimo “eodem sensu eademque sententia” del Lerinense. Insomma, la pretesa d’agganciar
all’assistenza dello Spirito Santo ogni stormir di fronda, voglio dire ogni
novità e segnatamente quelle che commisurano la Chiesa sulle dimensioni della
cultura imperante e della c.d. dignità della persona umana, non solo è un
capovolgimento strutturale della Chiesa stessa, ma è pure un gran segno di
croce sui due testi sopra indicati [Gv 14,16-26 e 16, 13-14]”[26].
Ma se questo insegnamento
diventa una semplice “introduzione” a “tutta la verità”, non lo si accorcia
arbitrariamente, aprendo la via all’idea che esso avrebbe semplicemente
“introdotto” ad una verità che deve ancora completarsi? Un’introduzione, infatti, rinvia di per sé ad
un ulteriore sviluppo. E dove si ferma
questo sviluppo? Il concetto che lo
Spirito Santo “ci introduce” alla verità rivelata, è ripetuto dal Concilio
nella costituzione Dei Verbum sulla divina Rivelazione, all’art. 8, ove
si dice, alla fine: “e lo Spirito Santo,
per mezzo del quale la viva voce dell’Evangelo risuona nella Chiesa e per mezzo
di questa nel mondo, introduce i credenti alla verità intera [credentes in
omnem veritatem inducit] e in essi fa risiedere la parola di Cristo in
tutta la sua ricchezza (cfr. Col 3, 16)”, dove il riferimento paolino va
riferito solo al risiedere della parola di Cristo in noi, in tutta la sua
ricchezza. La traduzione francese è uguale:
“introduit les croyants dans la vérité tout entière”. Del resto, in
questo stesso articolo della DV, non si scrive forse che: ”la Chiesa nel corso
dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina [ad
plenitudinem divinae veritatis iugiter tendit], finché in essa vengano a
compimento le parole di Dio”? Come se la
Chiesa non avesse già il possesso della “pienezza” della verità divina nel
Deposito della Fede, conclusosi con la morte dell’ultimo Apostolo! Altro è dire che la Chiesa deve sempre
tendere alla migliore realizzazione del mandato divino e delle verità di
fede, migliorandosi costantemente nei suoi membri, ecclesiastici e laici,
nell’opera instancabile della santificazione quotidiana. Ma in DV 8 si parla proprio di un “tendere
incessantemente alla pienezza della verità”, come se la verità (rivelata)
tutt’intera la Chiesa non la possedesse ancora; la verità in quanto tale,
non la sua attuazione!
Mi chiedo se l’inducere
in di LG 4 non svolga una funzione analoga al subsistere in di LG
8: quella di introdurre l’idea di
movimento, sviluppo, ampliamento e nello stesso tempo parzialità in ciò che
dovrebbe essere di per sé completo ed immutabile: la verità rivelata una volta
per tutte, verità che comprende la Chiesa di Cristo costruita sulla roccia
rappresentata da Pietro e che può esser oggetto solamente di approfondimenti e
chiarimenti “eodemque sensu eodemque sententia”[27].
2. Un Regno di Dio che si accetta sola fide
e cui si partecipa senza il Giudizio?
Il Vaticano II non ha
mai impiegato in modo esplicito il concetto del sovrannaturale (meritandosi per
questo un famoso elogio di de Lubac) e ciò lo ha esposto all’accusa di non aver
riproposto la distinzione tra natura e sovrannaturale, Natura e Grazia,
favorendo anzi, di fatto, la confusione tra i due regni. Tuttavia, esso ha voluto dedicare un intero
articolo al “Regno di Dio”, che rappresenta per l’appunto il Sovrannaturale per
eccellenza. LG 5 è dedicato appunto al
Regno di Dio in connessione con il “mistero della Chiesa”. Anche quest’articolo è del tutto nuovo
rispetto allo schema AeU. L’articolo non
dice che cosa sia il Regno di Dio, non ne dà una definizione: sembra presupporne la nozione, come se fosse
cosa nota. Né sembra in alcun modo
riproporre l’immagine tradizionale del Regno di Dio come simbolo della Chiesa
in quanto tale (come in AeU) né la qualità sovrannaturale in senso proprio del
Regno, che coinciderà alla fine dei tempi con la Chiesa trionfante nella gloria
indicibile della Visione Beatifica: “O
isplendor di Dio, per cu’io vidi/l’alto trionfo del Regno verace,/dammi virtù a
dir com’io il vidi!” (Par., XXX, 97-100).
Come veniamo a sapere
del Regno di Dio? È Cristo che lo annuncia
e lo manifesta nelle sue parole e opere, con la sua stessa “presenza”, dimostrando
che esso “è arrivato sulla terra”. La
“parola del Signore” è appunto “paragonata al seme che viene seminato nel
campo”, secondo la nota parabola del Seminatore (Mc 4,14). Quelli che la ascoltano “con fede e
appartengono al piccolo gregge di Cristo hanno accolto il regno stesso di Dio
(Lc 12,32), poi il seme per virtù propria germoglia e cresce fino al tempo del
raccolto (Mc 4, 26-29)”. Non si tratta
solo della parola: “anche i miracoli di
Gesù provano che il regno è arrivato sulla terra” poiché Egli ha detto: “Se con il dito di Dio io scaccio i demoni,
allora è già pervenuto tra voi il regno di Dio” (Lc 11,20; Mt 12,28)”. Ma più ancora che nelle sue parole e opere,
precisa il testo, il Regno si manifesta nella persona stessa del Cristo,
“figlio di Dio e figlio dell’uomo, il quale è venuto “a servire e a dare la sua
vita in riscatto per i molti”(Mc 10,45)”(LG 5.1).
Che significa dire che
il Regno di Dio si manifesta soprattutto nella persona stessa di
Cristo? Si noti innanzitutto che si
scrive “Figlio di Dio e Figlio dell’uomo”, senza voler usare termini come
Unigenito o Consustanziale al Padre, che esprimono in modo dogmaticamente ineccepibile la natura divina
del Signore. E si noti, nel volgare
italiano, come il senso del testo di Mc 10,45 sia stato modificato poiché la
“redemptio pro multis (antì pollôn)” è sempre stata resa con “riscatto
per molti”, non “per i molti”, versione che sembra introdurre una certa
ambiguità. La versione francese
recita: “..et donner sa vie en rançon
d’une multitude”.
Dunque: il Regno si manifesta nella persona di
Cristo, che è venuto a dare la sua vita in riscatto “per i molti”. Ma “i molti” come entrano nel Regno di
Dio? Semplicemente attraverso la
“persona di Cristo”, accogliendo il suo insegnamento salvifico e lasciandolo
fruttificare, fino a che è maturo “per il raccolto”? In questo modo possiamo indubbiamente esporre
sinteticamente il rapporto tra la Parola di Cristo e il suo produr frutti in
noi, sino al “raccolto” finale (della vita eterna). Tuttavia, LG 5 non illustra
il concetto dell’”entrare nel Regno di Dio”.
Si limita alla sua manifestazione per opera di Cristo e al suo
accoglimento da parte nostra, con l’atto di fede di chi appartiene al “piccolo
gregge”. E non manca qualcosa, a
siffatta rappresentazione del Regno, per esser completa? Nostro Signore non ha detto qualcos’altro sul
suo Regno, “che non è di questo mondo”?
Si può entrare nel Regno di Dio senza esser battezzati e senza esser
giudicati da Nostro Signore alla fine della nostra vita? E la Chiesa, come viene nominata da LG 5?
La Chiesa, lo
sappiamo, è il Regno di Dio che comincia per noi già qui in terra,
nell’appartenenza alla Chiesa militante.
Ma questa è la dottrina tradizionale, riproposta da AeU. Per LG 5 la Chiesa è “germe e inizio” del Regno
come Chiesa universale santificata dallo Spirito nei modi illustrati da LG 4,
appena richiamato.
“La Chiesa perciò,
fornita dei doni del suo fondatore e osservando fedelmente i suoi precetti di
carità, umiltà e abnegazione, riceve la missione di annunziare e instaurare in
tutte le genti il regno di Cristo e di Dio, e di questo regno costituisce in
terra il germe e l’inizio. Intanto,
mentre va lentamente crescendo, anela al regno perfetto [Regnum consummatum]
e con tutte le sue forze spera e brama di unirsi col suo re nella gloria”(LG
5.2).
È vero che “la Chiesa”
(che qui non è ancora la Chiesa Cattolica) ha ricevuto dal suo fondatore la
missione di “annunziare ed instaurare in tutte le genti il Regno di Dio”, del
quale costituisce quindi “in terra il germe e l’inizio”. Ma vedere solo in questo – in sostanza nella
predicazione della Buona Novella – il nesso tra la Chiesa e il Regno di Dio non
è alquanto riduttivo? A S. Pietro, ossia alla Gerarchia della Chiesa
cattolica, ai sacerdoti, Nostro Signore non ha forse dato “le Chiavi del
Regno”? Nell’unico scarno riferimento ai
nomi della Chiesa contenuto in AeU 3.2, si è visto che tra di essi c’è anche il
“regnum Dei”. In nota, si rimanda a Mt
16,19, alla celebre frase rivolta da Nostro Signore a S. Pietro, che, per
divina ispirazione, l’aveva riconosciuto come il Messia: “E ti darò le chiavi
del Regno dei Cieli”. Il “Regno dei
Cieli”, lo sappiamo, non è cosa diversa dal “Regno di Dio”. E AeU 3.2
rimanda nella stessa nota all’enciclica Satis cognitum di Leone
XIII, del 5.9.1896 sull’unità della Chiesa, ove si legge:
“E per verità al solo
Pietro furono consegnate le chiavi del regno celeste, e a lui, unitamente agli
apostoli, fu dato, per testimonianza della sacra Scrittura, il potere di legare
e di sciogliere”[28].
Come mai in LG 5 manca
del tutto questo fondamentale aspetto del rapporto tra la Chiesa cattolica e il
Regno di Dio, pur accennato in AeU? E lo
sappiamo bene che l’attribuzione di tale potere a Pietro da parte di Nostro
Signore non è mai stata intesa in senso meramente simbolico. Per mandato divino la Chiesa Cattolica (la
Chiesa governata da Pietro e dai vescovi) è la custode del Regno di
Dio. E il custode lascia entrare solo
chi ha i giusti titoli. Se il sacerdote
non ti assolve in confessione, tu resti nei tuoi peccati e se morirai nei tuoi
peccati non entrerai mai nel Regno di Dio. La dottrina tradizionale ha sempre posto nel
dovuto rilievo la natura sovrannaturale del Regno, ribadendo che, con
l’insegnamento e i Sacramenti, la Chiesa “rinnova le anime, disponendole alla
fase ultima del Regno di Dio, che è la vita eterna”[29].
3. Le
ambiguità del “Regno” di LG 5
Il
rapporto tra la Chiesa e il regno sembra per la verità impostato da LG 5 in una
prospettiva soprattutto escatologica, ma si tratta di un’escatologia sui
generis poiché la natura sovrannaturale
del Regno di Dio non sembra mai emergere chiaramente. Il “regno perfetto” cui la Chiesa “anela”,
come sua meta finale, è il Regno dei Cieli nel quale entreranno gli Eletti dopo
il Giudizio universale? Che lo sia,
risulterebbe dal senso tradizionale dell’espressione utilizzata: “Regnum
consummatum”, con la quale, se non erro, si intende il Regno nel quale si
rivela la Visione Beatifica. Ma dire che
la Chiesa, dopo aver costituito in terra “il germe e l’inizio” del Regno, “spera
e brama con tutte le sue forze” di giungere alla Visione Beatifica, è
sufficiente per esporre in modo completo il giusto rapporto tra il Regno di Dio
e la Chiesa? È sufficiente, in assenza
di qualsiasi riferimento al Giudizio e alla divisione finale in Eletti e
Reprobi e al potere delle Sante Chiavi di aprire e chiudere le porte del Regno
di Dio? La “Chiesa” appare inoltre
lontana dal “Regno perfetto” perché vi anela solamente, e “spera e brama” di
“unirsi al suo Re nella gloria”. Non
dice nemmeno, il testo, che spera di entrare nel Regno, alla fine dei
tempi, affermazione che indicherebbe la natura sovrannaturale dello
stesso. La Chiesa di LG 5 appare sempre
imperfetta perché sempre in ricerca.
Ma l’anelare, lo sperare e il bramare possono applicarsi ai singoli
membri della “Chiesa” ma non alla Chiesa in quanto tale, depositaria della
verità rivelata, che già costituisce il Regno di Dio, in terra e nei cieli
(nelle anime di quei Cristiani che già sono in Paradiso e siedono alla destra
del Padre, con Nostro Signore).
Noi sappiamo dai Vangeli
che il Regno è sia esteriore che interiore. Rispondendo polemicamente ai Farisei, che
pensavano sempre al dominio temporale di Israele, Gesù rispose che il Regno “è
dentro di voi”(Lc, 17,21). Se poi
l’espressione deve esser intesa nel senso di “tra di voi” e non dentro ciascuno
di voi (“tra di voi” nell’Ecclesia Dei che stava nascendo con la
predicazione del Signore), ciò non toglie che noi siamo chiamati a “cercare” il
Regno, nel quale entrano solo coloro “che fanno violenza a sé stessi”(Mt 11,12;
Lc 16,16) ossia coloro che combattono vittoriosamente contro sé stessi,
obbedendo così in tutto ai precetti di Cristo e della sua Chiesa. Ma il rapporto tra ciascuno di noi credenti e
il Regno, come risulta da LG 5? Quelli
che ascoltano la parola del Signore “con fede e appartengono al piccolo gregge
di Cristo”, costoro “hanno accolto il regno stesso di Dio [Regnum ipsum
susceperunt]”, che poi germina e cresce “per virtù propria”, come il seme
nel campo, sino al tempo del raccolto. E cosa succederà al momento del
“raccolto”? LG 5 non ce lo vuol
rammentare. Esso si limita a questo:
poiché la parola del Signore annunzia il Regno, chi la accoglie con
fede, accoglie il Regno stesso di Dio e
questa parola cresce in lui per forza intrinseca. Ciò risulta da tutte le parabole del Regno
che lo paragonano ad un seme che cresce lentamente e per forza propria: è la forza della parola di Cristo che
germoglia lentamente nella nostra anima. Ma poi viene il momento del “raccolto”,
che si fa con la falce del Giudizio divino.
Infatti, “accogliere”
il Regno mediante la fede nella predicazione di Cristo, non è sufficiente per entrarvi
alla fine dei tempi. Non basta, come
risulta dalla stessa parabola del Seminatore (Mc 4, 3-20). In questa parabola, Nostro Signore ci rivela
che molti tra quelli che accolgono la parola che annuncia il Regno di Dio non
perseverano nella fede e quindi non entrano nel Regno, perdendosi nelle vie del
peccato. Nel Regno che si attua in
questo mondo (ovvero nella Chiesa) accanto ai buoni ci sono anche i cattivi e
la parabola della zizzania ci rivela che nel giorno del Giudizio il loglio sarà
separato dal buon grano e gettato nella “fornace ardente”. Ma questi fondamentali approfondimenti sono
forse ripresi da LG 5? Non lo sono. E mi
sembra manchino anche negli altri passi conciliari nei quali riappare la
visione del Regno. Dal tenore di LG 5
sembra che coloro che ascoltano inizialmente con fede la parola di Cristo, per
ciò stesso “accolgono” il Regno, che poi matura in loro ex opere operato, sino
al “raccolto”, nel quale evidentemente non succede nulla di particolare. Ridotto a quest’unica e mutila proposizione,
il rapporto tra ciascuno di noi e il Regno non risulta privo delle necessarie
sfumature e non sembra esser risolto a nostro favore dalla semplice fede nella
Parola di Cristo?
Ora, Nostro Signore ci
ha fatto chiaramente capire che il possesso del Regno non è affatto sicuro da
parte nostra senza l’opera della nostra santificazione quotidiana. Non basta la fede, occorrono anche le opere,
a cominciare da quell’opera fondamentale che è la nostra preghiera quotidiana,
nella quale Egli stesso ci ha insegnato ad invocare l’avvento del Regno di Dio,
nel Padre Nostro. Nel Discorso
della Montagna, quando ci esorta a non angustiarci per i nostri problemi
quotidiani perché Dio sa di che cosa abbiamo bisogno e veglia sempre su di noi,
ha detto: “Cercate prima il regno di Dio
e la sua giustizia e tutto il resto vi sarà dato per giunta. Non preoccupatevi dunque per il domani,
poiché il domani sarà sollecito di sé stesso”(Mt 6, 33-34). Qui, il “cercare” indica evidentemente quale
deve essere il corretto atteggiamento dell’anima nostra, che in ogni cosa della
vita deve far prevalere la “giustizia del Regno di Dio” ossia i princìpi
dell’etica cristiana, fondata sulla Rivelazione di Nostro Signore, senza
lasciarsi travolgere dai bisogni del presente, per i quali dobbiamo sempre
rimetterci alla Provvidenza.
Nel Regno non si entra
poi collettivamente, vale a dire grazie ad un accoglimento collettivo
della Parola di Cristo, come qualcuno potrebbe credere in base al dettato
ambiguo di LG 5. I testi sacri sono
piuttosto chiari in proposito.
Per abbassare
l’orgoglio mal posto dei Discepoli che litigavano per stabilire chi tra di essi
dovesse essere considerato “il maggiore”, Nostro Signore fece loro una bella
lezione d’umiltà, ricordando il principio: “chi governa sia come colui che
serve”. Lui stesso era rispetto a loro come uno che governa e tuttavia stava
“in mezzo a loro come uno che serve”. Ed
ecco il punto essenziale. Perché
affannarsi stoltamente per vane ambizioni terrene quando Egli stesso aveva preparato per ciascuno di loro un
posto nel suo Regno, dal quale avrebbe addirittura giudicato le tribù di
Israele? “Voi siete quelli che avete
perseverato con me nelle mie prove; io vi preparo un regno, come il Padre mio
l’ha preparato per me; affinché mangiate e beviate alla mia mensa [del tutto
spirituale] nel mio regno e sediate in trono a giudicare le dodici tribù di
Israele” (Lc 22, 24-30). Il “trono” è
singolo, ci si siede sopra individualmente.
Il Regno che è giunto in questa terra, testimoniato con la predicazione
ed i miracoli di Cristo, è la realtà sovrannaturale ed eterna che Cristo stesso
prepara per ognuno di quelli che avranno creduto in lui e perseverato
sino alla fine. Questo Regno è lo stesso
che il Padre ha preparato per Lui.
Questa verità è ripetuta in Gv 14,1-4.
Durante l’Ultima Cena con il tradimento e la persecuzione incipienti,
nell’incoraggiare i Discepoli, Gesù ripete che i suoi fedeli si riuniranno con
lui nella “Casa del Padre”, che è un altro modo di chiamare il Regno di
Dio. “Il vostro cuore non si turbi. Credete in Dio e credete anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte
dimore; se fosse diversamente ve lo avrei detto, perché io vado a preparare un
posto per voi. E quando sarò andato e
avrò preparato il vostro posto, tornerò e vi prenderò con me, affinché dove
sono io siate anche voi. Voi sapete dove
io vada e ne conoscete la via”. Anche
per ognuno di noi, di noi credenti che con l’aiuto della Grazia (e quindi della
Chiesa Cattolica Romana) avremo perseverato sino alla fine nella fede e nelle
buone opere (“Sii fedele sino alla morte e ti darò la corona della Vita”, Ap
2,10), Nostro Signore ha preparato “un posto” nella Casa del Padre, al quale
accederemo dopo il Giudizio e dopo le opportune purificazioni nel
Purgatorio.
4. Una vena “millenaristica” nella visione
conciliare del ‘Regno’?
Ho ricordato prima che de Lubac elogiò il
Concilio per non aver voluto proporre il concetto del Sovrannaturale. Il termine si trova solo qualche volta come
aggettivo, per esempio in frasi come la seguente, nella quale si coniuga
ambiguamente il concetto profano della “solidarietà” con la Verità
rivelata: “Egli, infatti, assumendo la
natura umana, ha legato a sé come sua famiglia tutto il genere umano in una
solidarietà soprannaturale…” (Decreto Apostolicam Actuositatem
sull’apostolato dei laici, 8). Ma cosa
disse de Lubac? “Il Concilio giudicò più
giusto e più saggio non usare una tale parola in certi contesti per non
perpetuare degli equivoci né ravvivare delle polemiche dando l’impressione di
canonizzare o almeno di favorire una teoria di scuola (detta della ‘natura
pura’ nel senso preciso che essa sosteneva due finalità ultime dell’uomo)”[30]. La cosiddetta “teoria di scuola” è quella
che, da ultimo nella cosiddetta “scuola romana”, ha espresso ed esprime
l’insegnamento costante della Chiesa, sino al Vaticano II, concernente la
gratuità dell’ordine sovrannaturale per l’uomo, il quale gli contrappone spesso
e volentieri la propria natura umana ferita dal peccato originale, capace
quindi, come “pura natura” non illuminata dalla Grazia ma decaduta, di
rifiutare la Grazia stessa e la Salvezza.
È noto che de Lubac, ispirandosi a
Blondel, e Rahner, ispirandosi a Heidegger, cercavano entrambi di dimostrare
che la Grazia deve considerarsi immanente alla natura. In tal modo dissolvevano la Grazia in quanto
dono gratuito di Dio, come insegnato da S. Paolo e da tutta la Chiesa nei secoli,
aprendo appunto la strada ad una concezione cosiddetta “millenaristica” del
Regno dei Cieli, ovvero all’errore secondo il quale (nell’ultima sua
formulazione) il Regno di Dio si realizzerebbe già in terra alla fine
dell’era cristiana, nell’unione pacifica di tutto il genere umano in una sorta
di nuova ed indefinita Età dello Spirito.
Al di là delle fumose
dichiarazioni di teologi neomodernisti come de Lubac e Rahner, il fatto
importante, ai fini della nostra analisi del Concilio, è costituito dall’entusiasmo
dei Protestanti per la chiusura conciliare al Sovrannaturale. Essi dichiararono che l’antropologia
delineata dalla costituzione Gaudium et spes, che riguarda la Chiesa e
il mondo contemporaneo, si segnalava “per la scomparsa della distinzione tra
natura e soprannaturale”, risultando quindi più affine alla concezione
dell’uomo del Protestantesimo[31]. Questa dichiarazione dei Protestanti è o non
è un bel siluro a chi sostiene che la “riforma” dottrinale apportata dal
Concilio è in piena continuità con tutta la Tradizione della Chiesa?
Il Concilio si è in
realtà occupato del Sovrannaturale, anche se non direttamente. Se ne è occupato tutte le volte che ha preso
in considerazione il “Regno di Dio”.
Non molte, ma sufficienti a far vedere la presenza di una corrente
dottrinale più vicina alle concezioni di de Lubac e Rahner che alla dottrina
ortodossa della Chiesa. Così gli spunti
in tal senso presenti in LG 13 e 35, nei quali si esamina il rapporto tra il bonum
temporale dei popoli e il Regno alla luce del contributo che i cristiani
devono dare all’incremento di tale bonum temporale “nel progresso
universale nella libertà umana e cristiana” (LG 35.2); questi spunti trovano la
loro elaborazione finale nella dottrina che espone addirittura “l’attività umana
nell’universo [De humana navitate in universo mundo]”, agli articoli
33-39 della costituzione conciliare Gaudium et spes. In particolare, l’art. 39, intitolato: Terra nuova e cielo nuovo, mostra
l’impronta delle visioni di tipo millenaristico di de Lubac, abbozzate in Catholicisme,
che è del 1937[32].
VI. LE
IMMAGINI DELLA CHIESA, SECONDO LG 6
Come ho già ricordato,
LG sviluppa alquanto il tema delle “immagini della Chiesa”, dedicandogli un
apposito, non breve articolo, il n. 6.
Esso riprende e amplia tutte quelle già presenti in AeU 3.2, con
l’eccezione di due: la Chiesa “colonna e
fondamento della verità” (spostata in LG 8.2) e il Regno di Dio. Si è appena visto che il Regno di Dio è stato
considerato a parte, senza mai dire che esso è da sempre immagine della Chiesa
ed anzi che è la Chiesa stessa, Cattolica, Apostolica e Romana, in quanto Corpo
Mistico di Cristo.
Perché tanto interesse nei confronti delle
“immagini” della Chiesa? La cosa è forse
importante? Lo è sicuramente per una
teologia che vuole affidarsi al “mistero” in maniera sovrabbondante, dato che
l’esplorazione del “mistero” avviene in genere attraverso quel tipo di
conoscenza che si suol definire “simbolica”.
Conoscenza forse affascinante, soprattutto per chi si è nutrito delle labili
categorie del pensiero contemporaneo, ma che facilmente pencola verso
l’irrazionale e quindi da prendersi con le molle. Essa tende a sostituire l’immagine al
concetto, il sentimento al ragionamento, la sensibilità alla morale.
Quali sono le immagini
della Chiesa e cosa si deve dedurre da esse in ordine alla comprensione della
natura della Chiesa? Queste immagini ci
fanno vedere “l’intima natura della Chiesa” e sono in gran parte abbozzate “nei
libri dei profeti” (LG 6.1). Nell’ordine
esse sono: l’ovile; il gregge; il podere o campo di Dio; la vigna scelta della
quale Cristo è la vera vite; l’edificio di Dio, chiamato anche casa di Dio,
dimora di Dio, “e soprattutto tempio santo, il quale, rappresentato dai
santuari di pietra, è l’oggetto della lode dei santi Padri ed è paragonato a
giusto titolo dalla liturgia alla Città santa, la nuova Gerusalemme” (LG
6.4). Pertanto la Chiesa viene anche
chiamata Gerusalemme celeste e madre nostra; immacolata sposa dell’Agnello
immacolato (LG 6.4).
Sull’immagine della
Chiesa “sposa dell’Agnello”, LG 6 si
dilunga. È la sposa che Cristo ha amato,
per la quale ha dato sé stesso per santificarla, che si è associata con patto
indissolubile, che nutre e cura, che, dopo averla purificata, volle a sé
congiunta e soggetta nell’amore e nella fedeltà; che ha, infine, riempito di
grazie celesti, “onde potessimo capire la carità di Dio e di Cristo verso di
noi, carità che sorpassa ogni conoscenza” (LG 6.5). Si tratta di immagini tratte in gran parte da
S. Paolo. Messe insieme in poche righe
sembrano voler celebrare le massime virtù della Chiesa, sposa immacolata di
Cristo.
1. Una Chiesa sempre imperfetta per
definizione
E tuttavia il capitolo si chiude con una
notazione che sembra richiamare di nuovo l’idea di un’imperfezione della
Chiesa. Nell’immagine di una Chiesa peregrinante su questa terra e lontana dal
Signore, riappare di nuovo la Chiesa che anela ad una perfezione che non
possiede, nonostante essa sia la sposa immacolata dell’Agnello. “Ma mentre la Chiesa compie su questa terra
il suo pellegrinaggio lontana dal Signore (cfr. 2 Cor 5,6), è come un esule, e
cerca e pensa alle cose di lassù, dove Cristo siede alla destra di Dio, dove la
vita della Chiesa è nascosta con Cristo in Dio, fino a che col suo Sposo comparirà
rivestita di gloria (cfr. Col 3, 1-4)” (LG 6.5).
Una Chiesa, dunque, che “cerca e pensa alle
cose di lassù”, come se non possedesse la verità rivelata nel Deposito della
Fede, del quale è custode. Il
riferimento a 2 Cor 5,6 mi sembra fuori posto.
Infatti, S. Paolo scrive che noi credenti, in quanto individui
costretti ancora a quest’esistenza mortale, “viviamo nel corpo, siamo
pellegrini lungi dal Signore”, ma ci tiene in vita la fede, grazie alla quale
sappiamo di poter accedere alla “dimora eterna” (2 Cr 5, 1-6). Non è “pellegrina” la Chiesa, sono
“pellegrini” e lontani da Dio i singoli credenti, compresi gli uomini di
Chiesa, finché si trovano a lottare in questo corpo mortale. LG sembra confondere ancora una volta la
Chiesa con i suoi membri, attribuire alla prima i limiti che appartengono solo
ai secondi. Siamo noi i “pellegrini” nel
pensiero di S. Paolo, non la Chiesa in quanto tale. Ugualmente male usato mi sembra il passo di
Col 3, 1-4, che concerne noi credenti, uti singuli, non la Chiesa, non il Corpo
Mistico. È un passo famoso, nel quale S.
Paolo incita i cristiani a vivere per il cielo in ogni momento della loro vita.
“Se dunque siete
risuscitati con Cristo, cercate le cose del Cielo, dov’è Cristo, assiso alla
destra del Padre: aspirate alle cose di
lassù e non a quelle che son sulla terra.
Voi, infatti, siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in
Dio. Ma quando comparirà Cristo, che è
la vostra vita, allora anche voi apparirete con lui nella gloria”(Col
3,1-4). Commenta l’edizione della CEI
del 1963: “Vedi Rm 6,11. Il Battesimo ci fa morire al mondo del
peccato, dà una vita nuova partecipata a noi dal nostro capo glorioso, Cristo”. E quella del 1974: ”La nuova vita cristiana
nasce dalla mistica unione del battezzato
con Cristo e, per lui, con Dio”.
Da questi commentari risulta che il passo si riferisce al singolo
credente non alla Chiesa. Il passo che
può creare difficoltà è quello in cui si dice che il cristiano “è morto e la
sua vita è nascosta con Cristo in Dio”.
Grazie al Battesimo siamo morti al peccato. Se viviamo da buoni cristiani possiamo dire
di esser comunque morti al peccato e che in noi è nato l’uomo nuovo. Ma la vita di quest’uomo nuovo è ancora
“nascosta con Cristo in Dio”. Solo Cristo e Dio la conoscono per ciò che essa
effettivamente è; diventerà di pubblico dominio nel giorno del Giudizio
universale, quando i Giusti appariranno con Cristo nella sua Gloria. I cristiani non devono dunque scoraggiarsi,
se la ricompensa eterna appare lontana, mentre sono ancora qui, a lottare sulla
terra: devono comunque avere il pensiero
fisso “alle cose di lassù”, alla vita eterna, l’unica cosa che conti.
L’immagine dell’esilio da Dio si può
forse applicare alla Chiesa di Cristo?
Si potrà applicare ai singoli credenti, “in esilio” rispetto alla Patria
celeste finché vivono in questo mondo, non alla Chiesa, se essa è il Corpo
Mistico di Cristo. Se Cristo ne è il
Capo, il Corpo non può essere “in esilio” da Lui. Finché la Chiesa conserva la purezza del
Deposito della Fede essa gode dell’assistenza dello Spirito Santo e allora come
può peregrinare “lontana dal Signore” come se fosse “esule”?
L’immagine di una
Chiesa dalla santità imperfetta [!] è ripresa negli ultimi due paragrafi
di LG 8. Sembra che il Concilio (la
fazione progressista che vi si è imposta) tenesse in modo particolare a
sottolineare questo singolare concetto.
Il soggetto del quale si sta parlando qui, non dobbiamo dimenticarlo, è
sempre la Chiesa di Cristo che sussiste nella Chiesa cattolica e negli
“elementi” acattolici al di fuori di essa.
LG 8.3 ricorda
giustamente come Nostro Signore abbia “compiuto la redenzione attraverso la
povertà e le persecuzioni” ragion per cui la Chiesa (di Cristo) “non è
costituita per cercare la gloria terrena bensì per diffondere, anche col suo
esempio, l’umiltà e l’abnegazione” (LG 8.3).
Perciò, come Cristo è venuto “ad annunciare la buona novella ai poveri,
a guarire quei che hanno il cuore contrito” (Lc 4,18), “a cercare e salvare ciò
che era perduto”(Lc 19,10), allo stesso modo “la Chiesa circonda d’affettuosa
cura quanti sono afflitti dall’umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei
sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di
sollevarne l’indigenza e in loro cerca di servire il Cristo”(ivi).
Nel riferimento ai
“poveri”, senza ulteriori determinazioni, qualcuno ha voluto scorgere uno
scivolone verso la c.d. “teologia della liberazione” dal momento che il testo,
non menzionando i “poveri nello spirito” cioè coloro che avranno “il Regno dei
Cieli” (Mt 5,1) perché vivono in spirito di povertà, che è spirito di
mitezza, di giustizia, di misericordia (Mt, 5 passim), sembra ridurre la
missione di Cristo ad una sorta di apostolato sociale cui la Chiesa deve
ispirarsi, privilegiando appunto i “poveri” e i “sofferenti” (in pauperibus
et patientibus). Soprattutto in loro si rifletterebbe l’immagine di Nostro
Signore “povero e sofferente” (pauper et patiens). Ora, si è sempre vista l’immagine di Cristo
anche nel “povero”, in senso materiale, come sembra sia il caso qui, e nel
“sofferente” per la povertà stessa, in colui che la subisce. Ma si è sempre saputo che Nostro Signore è
venuto a “guarire” tutti gli uomini dal peccato, più che ad alleviare le
sofferenze dei poveri, che pur vanno alleviate, per quanto possibile. Lo ricorda il Concilio stesso, citando Lc
4,18: “[sono venuto] a guarire [sanare]
quei che hannno il cuore contrito”. E
chi sono quelli che “hanno il cuore contrito”?
I poveri, gli indigenti? No. Sono
i peccatori in generale, che già soffrono interiormente per i loro peccati: e i
peccatori sono presenti in tutti gli strati della società (“Non sono venuto a
chiamare i giusti ma i peccatori”- Mc 2,18).
Non ci sono peccatori
anche tra i poveri, gli indigenti? Ci
sono di certo anche tra di loro e sarebbe un grave errore trasformare i poveri
in giusti per il solo fatto di essere poveri.
“Va offerto pertanto conforto a chi arde nel forno della miseria; mentre
è salutare il timore incusso a quelli che il conforto della gloria terrena
rende superbi [con citazione di Lc 6,24: “Guai a voi, ricchi, perché avete già
la vostra consolazione”]. È vero,
infatti, che i poveri posseggono
ricchezze invisibili e i ricchi non possono conservare le ricchezze che
posseggono. Tuttavia, la varietà dei
caratteri riesce persino a trasformare la categoria delle persone, tal che è
possibile trovare un ricco umile e un povero superbo. Il discorso va, pertanto, rapportato alla
condotta di chi ascolta. Sarà duro nel
colpire la superbia del povero, non giustificata dalla povertà. Sarà, invece, dolcissimo nel lodare l’umiltà
dei ricchi, se non li inorgoglisce l’esaltante abbondanza”[33].
Non mi sembra si possa
dire che LG 8.3 adotti una prospettiva simile a quella della teologia della
liberazione. Tuttavia, sembra privilegiare
“i poveri e sofferenti” come oggetto dell’attività della Chiesa, con la
conseguente (implicita) elevazione dell’attività di assistenza sociale e
umanitaria della Chiesa a scopo essenziale della Chiesa stessa. Il che non può essere perché l’assistenza
materiale ai poveri (e ai malati), per quanto di grande importanza per gli
assistiti e per la società, non costituisce lo scopo fondamentale della Chiesa,
che resta sempre quello di “guarire quelli che hanno il cuore contrito”, di
curare le anime non i corpi, cioè di convertire i peccatori, ricchi o poveri
che siano, strappandoli al “Principe di questo mondo”.
La “povertà” e la
“sofferenza” di Nostro Signore sono poi le stesse dei poveri? Il paragone è tradizionale ma va inteso nei
suoi giusti termini. Gesù di Nazareth,
secondo la Tradizione, aiutava il padre putativo, S. Giuseppe, nella sua
bottega di falegname: un mestiere valido, dignitoso, sufficiente a far vivere
decorosamente la famiglia. La povertà
fu scelta da Gesù quando cominciò la sua missione, che comportava una
vita da predicatore itinerante, con il suo piccolo seguito, affidati entrambi
al buon cuore di seguaci, amici e parenti.
La scelta della povertà era un portato necessario della sua missione,
impossibile senza il pieno distacco – anche esteriore – dai beni di questo
mondo, rimessi all’aiuto della Provvidenza per le esigenze giornaliere
dell’esistenza. In tal modo Nostro
Signore ha rivalutato il significato della povertà, togliendola dallo stolto
disprezzo con il quale era considerata, senza per questo farne un oggetto
privilegiato della sua predicazione.
Tant’è vero che né Lui né gli Apostoli incitano alle riforme sociali o,
peggio, alla rivoluzione in nome dei “diritti” dei poveri (dei loro “diritti
umani” si direbbe oggi). La condizione
dei poveri e degli schiavi deve piuttosto esser alleviata convertendo i ricchi
alla carità cristiana e quindi a forme sociali via via più giuste (Ef 6, 5-9).
In LG 8.3 ritorna il
tema della “santità imperfetta” della Chiesa, agganciato inaspettatamente
all’attività della Chiesa che vuole alleviare l’indigenza dei poveri, cercando
così di “servire Cristo”. Ho già citato
il passo. Mentre Cristo “santo, innocente, immacolato” non conobbe il peccato e
venne solo allo scopo di espiare i peccati del popolo, “la Chiesa, che
comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa
di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del
rinnovamente” (LG 8.3). Il “servire
Cristo” della Chiesa è dunque sempre imperfetto. Per le inevitabili carenze dei singoli? No.
Perché è la Chiesa stessa ad aver sempre bisogno di “purificazione”,
mediante una “penitenza” ed un “rinnovamento” continui. La Chiesa è dunque “santa” ma in modo imperfetto. Ma può esistere una santità “imperfetta”, mi
chiedo di nuovo? Che significa?
Nell’ultimo paragrafo,
LG 8.4, l’argomento si chiude
ripresentando due temi peculiari al Concilio: la virtù salvifica del Cristo
glorioso (vedi infra, cap. VII, § 2) e (di nuovo) l’imperfezione della
Chiesa. Si scrive che è “dalla virtù del
Signore risuscitato” (non dalla virtù della Croce) che la Chiesa (di Cristo)
trae la forza per superare tutte le difficoltà che le vengono dall’esterno e
dall’interno, e “per svelare in mezzo al mondo, con fedeltà, anche se non
perfettamente [licet sub umbris], il mistero di lui, fino a che alla
fine dei tempi esso sarà manifestato nella pienezza della luce”.
Ma su questa raccolta
di immagini della Chiesa mi sembra doveroso fare altre due osservazioni.
2. L’inserimento equivoco delle immagini di
Israele nelle immagini della Chiesa
La prima riguarda
l’inserimento dell’immagine di Israele nelle immagini della Chiesa. Dopo aver ricordato che per S. Paolo la
Chiesa è come il podere o campo di Dio, il testo così prosegue: “In quel campo cresce l’antico olivo, la cui
santa radice sono stati i patriarchi e nel quale è avvenuta e avverrà la
riconciliazione [reconciliatio facta est et fiet] dei Giudei e delle
Genti (cfr. Rm 11,13-26)”. L’antico
olivo, ci insegna S. Paolo nell’epistola citata, è Israele, dal quale sono
stati però tagliati i rami secchi (i Giudei increduli, persecutori di Cristo) e
nel quale sono stati inseriti quelli nuovi, rappresentati dai pagani che si
sono convertiti a Cristo. Ma un giorno,
che solo Dio conosce, quando sarà entrata “la totalità dei Gentili” anche
“tutto Israele si salverà” (ivi, 25-26), profezia che finora non si è avverata
e che è stata sempre intesa nel senso di una conversione in massa degli Ebrei
alla fine dei tempi, poco prima della Parusìa o ritorno di Cristo nella Gloria,
come Giudice dell’intero genere umano.
La Chiesa è dunque
cresciuta sulle “radici” dell’antico olivo rappresentato dalla fede degli Ebrei
(ivi, 11,17). Non è chiaro, tuttavia,
come “l’antico olivo” possa crescere “nel campo” ossia nella Chiesa, restando
“antico olivo”. Né come sia possibile
che “la riconciliazione” dei Giudei coi Gentili, profetizzata da S. Paolo, sia
anche (già) “avvenuta”. È corretto dire
che “avverrà”, secondo quanto ci annuncia S. Paolo (e non con il c.d. “dialogo”
ma con la “conversione” spontanea dell’intero Israele). Ma appare del tutto incomprensibile affermare
che essa sarebbe anche “avvenuta”.
Quando sarebbe avvenuta? Se i
Cristiani, per restare sempre a S. Paolo, sono i rami nuovi innestati dallo
Spirito Santo al posto dei vecchi tagliati via, ciò non può certamente
considerarsi una “reconciliatio”. La sostituzione
della Chiesa di Cristo all’Israele della carne non rappresenta di sicuro
una “riconciliazione” con l’Ebraismo.
L’antitesi è radicale perché solo la Chiesa è ora il vero “Israele di
Dio”. La riconciliazione avverrà solo
con la conversione di “tutto Israele”, alla vigilia della fine dei tempi. E che ci debba essere questa conversione
finale, quando gli Ebrei si renderanno conto del loro errore nei confronti di
Cristo allorché Dio avrà fatto cadere “il velo” che ancora oscura loro la vista
(2 Cr 3,16) – ciò è perfettamente logico, ci spiega S. Paolo, dal momento che
Dio “non ha rigettato il suo popolo”, che gli è rimasto caro, per le promesse
fatte ai Padri. Non avendolo rigettato, concederà che un giorno il suo
“accecamento” finisca (Rm, 11, 1 ss., 28-29, et passim). Finché Israele non si convertirà, riconoscendo
in Cristo il Messia, il mondo non finirà.
Il concetto espresso da S. Paolo è chiaro: il fatto che Dio abbia
mantenuto “l’elezione” di Israele significa che gli concederà la conversione,
non significa che l’attesa messianica dell’Israele della carne possa
considerarsi ancora valida, in contraddizione con la teologia della
sostituzione.
Ma l’inserimento
dell’immagine dell’antico olivo nelle immagini della Chiesa, come fatto da LG
6, è coerente con il senso evidente e tradizionale dell’insegnamento di S.
Paolo o non sembra produrre una discreta confusione? Confusione perché si parla di una
riconciliazione che sarebbe già “avvenuta” quando l’Ebraismo resta sempre
ostile a Cristo mentre si evita di specificare che la riconciliazione può
avvenire solo in seguito alla conversione degli Ebrei. Nella dichiarazione conciliare Nostra
Aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, come si
è visto nell’Introduzione di questo lavoro, viene ripetuto questo
concetto di una riconciliazione tra Ebrei e Gentili che sarebbe già avvenuta per
mezzo della Croce, grazie alla quale Cristo ha fatto dei due una sola cosa in
sé stesso (NAet 4.3). Ma il testo di S.
Paolo che si cita (Ef 2, 14-16) ancora una volta, ribadisce che la
“riconciliazione” ha luogo solo con la conversione di entrambi al Cristianesimo. Dice infatti l’Apostolo delle Genti ai pagani
convertiti: un tempo voi eravate
“all’infuori di Cristo” cioè ancora pagani nonché “esclusi dalla cittadinanza
d’Israele ed estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio nel
mondo”. Si intende: esclusi dalla
cittadinanza divina d’Israele, popolo eletto con “i patti della promessa”. Ma grazie a Cristo, al quale vi siete
convertiti, “voi che eravate lontani siete diventati vicini nel sangue di
Cristo”. “Vicini”, a chi? Agli Ebrei che hanno rifiutato Cristo e
perseguitano i suoi seguaci? Non può
essere. “Vicini” a Cristo ossia agli
Ebrei convertiti. L’ebreo che ha riconciliato i Gentili con gli Ebrei è Cristo
stesso, il Messia nel quale l’Ebraismo trova il suo compimento finale. Cristo “è la nostra pace” perché “ha fatto
delle due cose [Ebrei e Gentili] una sola, togliendo di mezzo il muro che li
separava, cioè l’inimicizia”; infatti, “nella sua carne annullò co’ suoi
precetti la Legge delle prescrizioni [giudaiche], al fine di ridurre in sé
stesso, artefice di pace, i due in unico uomo nuovo [il Cristiano], e
riconciliarli entrambi in un corpo unico a Dio [la Chiesa di Cristo] per mezzo
della croce, uccidendo in sé ogni inimicizia”[34]. Le “due cose” diventano una sola nell’”uomo
nuovo” rappresentato dal Cristiano, verità che, a mio avviso, non compare
affatto nei passi del Concilio analizzati, che utilizzano S. Paolo in un modo
che mi sembra alquanto ambiguo. La
“riconciliazione” paolina è unilaterale, va in una direzione sola ossia può
aver luogo solo nella vera Ecclesia Dei, alla quale verranno un giorno
tutti gli Ebrei.
Nell’inserimento
equivoco dell’immagine dell’antico olivo tra le “immagini della Chiesa”
appare quella che a me sembra una sopravvalutazione dell’Antico Testamento da
parte dei Novatori. Mi sembra presente
in Dei Verbum 16, articolo nel quale si parla di “unità dei due
Testamenti”, scrivendo: “[…] i libri del Vecchio Testamento, integralmente
assunti nella predicazione evangelica, acquistano e manifestano il loro pieno
significato nel Nuovo Testamento (cfr. Mt 5, 17 etc.), che essi a loro volta
illuminano e spiegano [illudque vicissim illuminant et explicant]”. È
vero che da certi passi dell’Antico si possono comprendere meglio alcuni del
Nuovo Testamento (vedi infra, cap. XVII, § 5). Ma non è azzardato affermare come principio
generale e assoluto che i libri dell’Antico Testamento, in quanto tali, “a loro
volta illuminano e spiegano” quelli del Nuovo? E per di più in blocco? E questo della totale reciproca “illuminazione
e spiegazione” dei due Testamenti è diventato una sorta di dogma
ermeneutico! Non si sente qui
l’infiltrazione della “falsa esegesi”
(dei Nuovi Teologi) condannata da Pio XII nella Humani generis? Esegesi “chiamata simbolica e spirituale”,
secondo la quale “i libri del Vecchio Testamento, che oggi nella Chiesa sono
una fonte chiusa e nascosta, verrebbero finalmente aperti a tutti” risolvendo
una volta per tutte [!] le difficoltà di chi si attiene al senso letterale
delle Scritture?[35]
L’apertura dell’Antico
Testamento al popolo l’ha fatta la montiniana Messa del Novus Ordo, che
ne offre regolari estratti nella domenicale Liturgia della Parola. Come dimenticare l’autentico martirio che
subiscono quei Sacri Testi, affidati alla lettura di laici più o meno
volonterosi, maschi e femmine che quasi mai danno l’impressione di capire
quello che stanno leggendo? Non che la
lettura dei contigui passi del Nuovo Testamento migliori di molto la
situazione, ovviamente, peggiorata poi ulteriormente dal pistolotto a sfondo
social-umanitario nel quale si rifugia in genere la predica dell’officiante,
smarrito di fronte alla mole di Vecchio e Nuovo Testamento che gli viene
propinata, per esser da lui trasfusa in qualche modo nel sermone.
3. La scelta delle immagini mostra
continuità con AeU?
La seconda
osservazione è di carattere più generale.
Da tutto questo florilegio emerge un’immagine della Chiesa che sia in
armonia con quella proposta dallo schema Aeterni Unigenitus? In quest’ultimo, l’immagine prevalente era
sempre quella della Chiesa militante, inquadrata nel Corpo Mistico di
Cristo. Ora il carattere militante
della Chiesa non viene più ricordato, con conseguente scomparsa delle immagini
connesse, ricavate da S. Paolo e dal Vangelo di Giovanni: la milizia, il cristiano come soldato di
Cristo, la lotta contro sé stessi e il mondo, il combattimento, anche come
competizione dell’atleta (il Cristiano atleta di Cristo). Tutto questo lo si considera ormai
anticaglia: la Chiesa non ha nemici e non ne hanno nemmeno i Cristiani. Si vuole evidentemente rinnegare ogni
immagine che implichi l’idea di lotta, combattimento, nemico da affrontare
(anche dentro di sé), contrapposizione radicale con il mondo “regno del
principe di questo mondo”: insomma, ogni
immagine che individui la Chiesa come “segno di contraddizione” nei confronti
del mondo, esponendola all’odio e alla persecuzione.
Inoltre, AeU precisa
che le “immagini” della Chiesa realizzano sempre una sintesi tra l’elemento
“mistico” e quello “sociale”. La sintesi
tra i due aspetti (Chiesa visibile ed invisibile) sembra essersi persa in LG,
dal momento che sembra prevalervi l’elemento “mistico”, nel senso però di misterico;
o, in modo affine, spirituale nel senso di uno “Spirito” dai tratti
tendenzialmente indefiniti. Un’ulteriore
differenza con lo schema rigettato è data dal fatto che attraverso una certa
lettura delle immagini della Chiesa si insinua una ambigua rappresentazione
dell’Ebraismo da un lato e del Sovrannaturale dall’altro.
L’immagine
resta nel campo puramente simbolico solo per modo di dire, dato che vi compare
sempre il modo nel quale si intende la cosa concreta, vale a dire il concetto
di Chiesa che dette immagini vogliono rappresentare. Tale concetto, come inteso da LG, si precisa
ulteriormente nell’analisi del concetto di Corpo Mistico.
VII. UN
“CORPO MISTICO” (LA CHIESA) INCENTRATO SUL CRISTO, CHE HA GIÀ REDENTO L’UOMO
CON LA SUA INCARNAZIONE, MORTE E RESURREZIONE?
Vengo pertanto
all’ultimo articolo della Lumen gentium, tra quelli che precedono il
famoso n. 8. Qui viene riproposto il
concetto del Corpo Mistico che, come si è visto, costituiva il cuore
dell’argomentazione di Aeternus Unigeniti.
Il testo di LG 7, che
si intitola : La Chiesa, corpo mistico di Cristo, è molto più
ampio. Dell’impostazione di AeU sembra
esser rimasto poco o nulla. In apertura,
si connette l’unione mistica del Corpo di Cristo nello Spirito Santo con la
redenzione dell’uomo. Quest’ultima,
però, è presentata come se fosse avvenuta direttamente con
l’Incarnazione, Morte e Resurrezione di Nostro Signore. Già avvenuta, sembrerebbe, come la
“riconciliazione” tra Ebrei e Cristiani.
“Il Figlio di Dio,
unendo a sé la natura umana e vincendo la morte con la sua morte e
resurrezione, ha redento l’uomo e l’ha trasformato in una nuova creatura (Gal
6,15; 2 Cr 5,17). Comunicando infatti il
suo Spirito, costituisce misticamente come suo corpo i suoi fratelli, che
raccoglie da tutte le genti”(LG 7.1).
1. La redenzione direttamente da Cristo,
indipendentemente dalla Chiesa?
Di questo periodo non
sono riuscito a trovare un aggancio nello schema Aeternus Unigeniti, in
particolare della sua prima frase. La
seconda ripropone in generale la “comunicazione” dello Spirito Santo, in quanto
costitutiva del Corpo Mistico. Le due
frasi sono collegate dallo “infatti” (enim). Se si guarda bene, tuttativa, il loro nesso
non è così lineare come potrebbe sembrare a prima vista. Si afferma perentoriamente e senza sfumature
che il Figlio di Dio con l’Incarnazione, la sua Morte e la sua Resurrezione “ha
redento l’uomo e l’ha trasformato in una nuova creatura”. E ciò risulta dal fatto (“infatti”) che ha
comunicato il suo Spirito ai “suoi fratelli” ovvero agli uomini (Eb 2,11-18),
in tutte le genti, costituendoli “misticamente come suo corpo”.
Il
Cristo costituisce dunque gli uomini “suoi fratelli” in un corpo mistico,
inviando lo Spirito Santo. La
redenzione, noi sappiamo, può aver luogo solo nel Corpo Mistico che è la
Chiesa. E la Chiesa è nata con la Pentecoste, con l’invio dello Spirito
Santo. Anteriormente, essa era già
cominciata con la predicazione di Nostro Signore e l’invio delle prime
“missioni” degli Apostoli. Ma solo con
l’effusione dello Spirito Santo si ha la compiuta formazione della Chiesa, come
Corpo Mistico di Cristo. Ma se si dice
che Cristo con l’Incarnazione, Morte e Resurrezione ha redento l’uomo, ciò non
significa dire che la redenzione, che trasforma l’uomo in una nuova creatura,
ha avuto luogo prima dell’invio dello Spirito Santo, cioè prima della
nascita della Chiesa? E se le cose
stanno così, allora non si spiega l’”infatti” della seconda frase, che sembra
invece attribuire la redenzione all’azione dello Spirito Santo che costituisce il
Corpo Mistico, quindi posteriormente all’Incarnazione, Morte e Resurrezione del
Signore.
Ma andiamo a vedere i
riferimenti scritturali paolini della prima frase: Gal 6,15 e 2 Cr 5,17. La perìcope della
Lettera ai Galati si trova nella chiusura della lettera. Polemizzando con i Giudaizzanti, che volevano
far circoncidere i Galati convertitisi al Cristianesimo perché a loro erroneo
giudizio i Cristiani dovevano continuare ad osservare le pratiche giudaiche, S.
Paolo ribadisce che l’unica cosa che conta è l’essere “una creatura nuova”
ossia convertito a Cristo nella fede e nelle opere. “Quanto a me sia lungi il gloriarmi d’altro
che della croce del Signor nostro Gesù Cristo, per la quale il mondo è stato
per me crocifisso, e io pel mondo. Né la
circoncisione ha valore, né l’essere incirconciso; ma l’essere una creatura
nuova” (Gal 6,14-15). Non contano le
pratiche formali, quali che siano, giudaiche o altre: conta l’esser un vero seguace di Cristo,
vivere effettivamente come “l’uomo nuovo” che il Battesimo fa nascere in
noi. E questo è possibile solo nella
Chiesa ovvero mettendo in pratica gli insegnamenti (nella fattispecie) di S.
Paolo, attraverso il quale parla il Signore.
L’altro testo è tratto da 2 Cr 5,17.
Esso recita: “Sicché, se uno è in
Cristo, è una creatura nuova, quel ch’era vecchio è sparito, ecco è sorto il
nuovo”. Solo se uno “è in Cristo” può
essere “la creatura nuova”, richiesta dallo stesso Cristo (Gv 3,5). Che vuol dire “se uno è in Cristo” (óste
ei tís en Christô)? Se uno si è
convertito, si è fatto cristiano, entrando nella Chiesa o Corpo Mistico. Solo a questa condizione può diventare un
“uomo nuovo”. Nuovo, si intende,
sempre nel senso voluto da Nostro Signore.
Ora, da questi due
testi dell’Apostolo delle Genti si ricava forse l’impressione che l’uomo sia
stato redento e trasformato “in una nuova creatura” direttamente
dall’Incarnazione, Morte e Resurrezione di Nostro Signore? Secondo me, no. S. Paolo si limita a dire che ognuno di noi
può essere la “creatura nuova” desiderata da Cristo, solo “se è in Cristo”,
cioè se vive da buon cristiano, in pensieri, parole e opere, obbedendo ai
precetti della Chiesa. E questo non è
possibile se non si fa parte della Chiesa o Corpo Mistico di Cristo.
L’apertura di LG 7
presenta dunque un tratto decisamente nuovo rispetto ad AeU, un tratto che fa
difficoltà perché sembra suggerire l’idea di una redenzione attuata direttamente
dal Cristo con l’Incarnazione, Morte e Resurrezione, prima ancora della nascita
della Chiesa da Lui fondata ad opera dello Spirito Santo. Fa difficoltà, questo tratto, perché richiama alla mente il “pancristismo” di
blondeliana memoria (ripreso da de Lubac e Teilhard de Chardin) secondo il
quale il Cristo con l’Incarnazione, Morte e Resurrezione avrebbe già salvato il
mondo, senza bisogno della Chiesa[36].
Ma vediamo ora
rapidamente gli elementi essenziali del Corpo Mistico secondo LG 7. Lo stile dell’argomentazione è simile a
quello di LG 6 sulle immagini della Chiesa.
Anche qui le immagini abbondano e abbondano anche le ripetizioni (una
costante nel prolisso argomentare del Vaticano II). Le immagini sono ovviamente tradizionali come
pure i concetti che ad esse si ricollegano, le une e gli altri ricavati in
genere da S. Paolo. Bisogna però vedere
come vengono utilizzati, per affermare quale concetto di Corpo Mistico.
La “vita di Cristo” si
diffonde nel Corpo di Cristo ai credenti attraverso i Sacramenti, mediante i
quali i credenti “si uniscono in modo arcano e reale a lui sofferente e
glorioso” (LG 7.2). Quest’affermazione
sulla presenza del Cristo glorioso nei Sacramenti si appoggia su una citazione
di S. Tommaso, della quale parlerò tra breve.
Il Battesimo ci rende conformi a Cristo, tramite il Battesimo siamo
simbolicamente uniti a Lui nella Morte e Resurrezione (Rm 6, 4-5). Nell’Eucaristia “siamo elevati alla comunione
con lui e tra di noi”; l’Eucaristia è simbolo di unità, essa crea un solo corpo
(concetto già visto in LG 3).
Nel Corpo Mistico di
Cristo “vige una diversità di membri e di offici” (LG 7.3). Ma “uno è lo Spirito”, che “distribuisce la
varietà dei suoi doni con magnificenza proporzionata alla sua ricchezza e alla
necessità dei ministeri. Tra i doni “eccelle quello degli apostoli” cioè le
grazie loro conferite. Lo Spirito
“produce e stimola la carità tra i fedeli” (ivi). Nel penultimo paragrafo (LG 7.7), si riprende
il discorso sullo “Spirito”, utilizzando l’immagine agostiniana dello Spirito
Santo come “anima” del Corpo Mistico, già presente nel Magistero precedente e
da ultimo in AeU, come si è visto. E
nell’ultimo paragrafo (LG 7.8) si ripete l’immagine della Chiesa come “sposa di
Cristo”.
Dopo essersi
soffermato sullo Spirito Santo, il testo si concentra sulla figura di Cristo
stesso, “capo” del Corpo Mistico, “che è la Chiesa”. Sono elencati molti degli attributi del
Cristo che si desumono dalle lettere di S. Paolo. Egli “è l’immagine dell’invisibile Dio e in
lui tutto è stato creato. Egli è
anteriore a tutti, e tutte le cose sussistono in lui. È il capo del corpo, che è la Chiesa. È il principio, il primo nato di tra i morti,
affinché abbia il primato in tutto”(Col 1,15-18)”(LG 7.4). Il testo omette dalla citazione della Lettera
ai Colossesi la pericope nella quale si afferma che “tutto per mezzo di lui e
in vista di lui fu creato [omnia per ipsum, et in ipso creata sunt]”
(ivi, 1,16): omette il passo dal quale
appare con chiarezza che il Verbo ha creato il mondo, dal quale risulta con
maggior forza la sua natura divina.
Cristo “domina sulle
cose celesti e terrestri” e “riempie delle ricchezze della sua gloria tutto il
suo corpo”. Perciò “tutti i membri
devono conformarsi a lui, finché Cristo non sia in essi formato”. Siamo pertanto “collegati ai misteri della
sua vita” finché con Lui regneremo.
Nella nostra peregrinazione terrena, veniamo associati alle sue
sofferenze e “soffriamo con lui per essere con Lui glorificati”(Rm 8,17)”(LG
7.5). Nel suo corpo, “che è la Chiesa”,
Egli dispensa continuamente “i doni dei ministeri”. Grazie ad essi, “ci aiutiamo vicendevolmente
a salvarci” e andiamo “crescendo verso colui che è il nostro capo”(LG
7.6). Segue infine il richiamo
all’azione “del suo Spirito”, del quale ci ha resi “partecipi”, che è “l’anima”
della Chiesa, ed il paragrafo finale, dedicato alla Chiesa. La Chiesa, sposa di Cristo, gli è soggetta
come al suo Capo. Cristo riempie la
Chiesa dei suoi doni – essa che è il suo Corpo e la sua pienezza (Ef 1,22-23) –
affinché essa sia protesa e pervenga alla pienezza totale di Dio [omnem
plenitudinem Dei] (Ef 3,19).
Pienezza totale che, evidentemente, la Chiesa ancora non possiede. Tuttavia, sono costretto a ricordare che
anche in quest’ultima perìcope, S. Paolo si riferisce ai singoli fedeli non
alla Chiesa: egli prega Dio perché
conceda loro la grazia della fede, in modo che essi possano comprendere tutta
la portata dell’amore di Cristo, “che sorpassa ogni scienza, affinché siate
ripieni di tutta la pienezza di Dio” (Ef 3, 14-19).
Della frase di apertura di LG 7 e delle
difficoltà che essa comporta, ho già detto.
Voglio sottolineare un uso a mio avviso non convincente dell’autorità di
S. Tommaso al fine di far dipendere l’azione salvifica dei Sacramenti anche dal
Cristo glorioso.
2. Uso improprio di un passo di S.
Tommaso
Vengo quindi a LG 7.2,
nel quale si nominano i Sacramenti citando a sostegno S. Tommaso in nota, in
modo da dar l’impressione che l’opinione
espressa nel testo sia fondata sul pensiero dell’Angelico. Di cosa si tratta? Del fatto che, nel ricordare la funzione dei
Sacramenti nel “Corpo di Cristo”, si ribadisce che i credenti mediante i
Sacramenti “si uniscono in modo arcano e reale a Lui sofferente e
glorioso”. Dov’è il problema, si
chiederà il lettore. La frase non è
forse corretta, dal punto di vista dogmatico?
Lo è, ma l’aggettivo “glorioso” aggiunto a “sofferente”, sulla supposta
autorità di S.Tommaso, non introduce una nota ambigua? Il “glorioso” vorrebbe dire che nei
Sacramenti, quali ad esempio la S. Comunione, noi celebriamo, oltre al Cristo
sofferente, anche il Cristo nella Gloria e quindi che la S. Comunione ricava il
suo significato non solo dal Sacrificio della Croce ma anche e in pari modo
dalla Resurrezione. Il che non è, perché
tra le due c’è un rapporto di causa ed effetto[37]. E non lo è nemmeno per S. Tommaso, così come
non lo è nella Messa cattolica di sempre.
La Resurrezione è sì nominata nella S. Messa di Rito Romano Antico (detta
impropriamente Tridentina), ma solo nell’Anàmnesi, ossia nella preghiera
che, immediatamente dopo la Consacrazione, dichiara espressamente che il S.
Sacrificio della Messa ricorda e rappresenta quello della Croce: ”..ricordando la beata passione del medesimo
Cristo tuo Figliolo, nostro Signore, la sua resurrezione dai morti, e la sua
gloriosa ascensione in cielo, offriamo all’eccelsa tua maestà, delle cose
che ci hai donate e date, l’Ostia pura, l’Ostia santa, l’Ostia immacolata, il
Pane santo della vita eterna e il Calice della perpetua salute”.
Questa preghiera viene
ancora letta nella Messa del Novus Ordo, subito dopo la Consacrazione
del vino. Tuttavia, la formula della
consacrazione è stata cambiata. Ora essa
recita: “Prendetene e bevetene
tutti: questo è il calice del mio sangue
per la Nuova ed eterna Alleanza, versato per voi e per molti in remissione dei
peccati. Fate questo in memoria di
Me”. Sono state tolte le parole:
“mistero della fede”, che ora vengono pronunciate subito dopo dal celebrante e
alle quali il popolo risponde:
“Annunziamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua resurrezione,
nell’attesa della tua venuta”. Il
“mistero della fede” graviterebbe ora nel senso della Resurrezione e
dell’attesa per la venuta (finale) di Nostro Signore nella Gloria. Prospettiva gloriosa ed escatologica, che
tende a prevalere su quella del significato satisfattorio e propiziatorio della
Messa, come dimostrato dall’interpretazione largamente diffusa della Messa come
“far memoria del Signore Risorto” (vedi supra) e anche dal fatto che il
“molti” della Consacrazione è stato sostituito arbitrariamente da “tutti” in
quasi tutti i vernacoli e solo parzialmente restaurato dopo l’intervento ad hoc
di Benedetto XVI, alcuni anni fa. Nel
canone dell’Ordo romano antico, che secondo la Tradizione risale
ai tempi apostolici, il senso del “mistero della fede” è connesso, invece,
esclusivamente alla “remissione dei peccati” ossia al significato satisfattorio
e propiziatorio del Sacrificio della Messa, che rinnova in modo incruento
quello della Croce : “Poiché questo è il
calice del Sangue mio, della nuova ed eterna alleanza – mistero della fede – il
quale sarà sparso per voi e per molti in remissione dei peccati”.
Andando a leggere il capitolo della Summa
citato dal Concilio, si vede che per l’Angelico è la Passione del Signore a
conferire ai Sacramenti il loro autentico significato salvifico, non la sua
Resurrezione.
Si tratta di Summa
theologiae III, q. 62, a. 5, ad 1.
L’art. 5 della questione 62 si occupa del seguente problema: “Se i sacramenti della nuova legge ricavino
la loro virtù dalla passione di Cristo”.
Elencate tre opinioni
contrarie ed una favorevole (desunta da Rm 5 col commento della Glossa
ordinaria), S. Tommaso prende nettamente posizione per quella
favorevole. Il Sacramento, scrive,
“opera per causare la grazia alla maniera di uno strumento”. Uno “strumento” va inteso in modo
duplice: “come realtà separata, p.e. un
bastone (baculus), o come realtà collegata ad un’altra, p.e. la
mano. Lo strumento “separato” è mosso da
quello “collegato”(coniunctum), come nel caso del bastone impugnato
dalla mano. “Ora, Dio stesso è la causa
efficiente principale della grazia.
L’umanità di Cristo è paragonata a Dio come uno strumento che gli è
congiunto, mentre il sacramento è inteso come strumento separato. Ne consegue pertanto che la “vis salutifera”
deriva dalla divinità di Cristo operante grazie alla sua umanità nei sacramenti
stessi [Et ideo oportet quod virtus salutifera derivetur a divinitate
Christi per eius humanitatem in ipsa sacramenta]. La grazia sacramentale mira essenzialmente a
due cose: ad eliminare i guasti [defectus] del peccato e a perfezionare
l’anima nelle cose che riguardano il culto di Dio. Ma è indubbio che Cristo ci ha liberati dai
nostri peccati soprattutto [praecipue] con la sua passione”. E non solo efficaciter,
ossia con l’efficacia di un’azione effettivamente causale, in quanto “strumento
della divinità” le cui azioni operano tutte per la salvezza dell’uomo; non solo
meritorie, cioè meritando la salvezza per noi in quanto membra della
Chiesa di cui è il Capo; ma anche
riparando all’offesa fatta a Dio dal peccato degli uomini (satisfactorie). Questa soddisfazione in quanto sovrabbondante
ci ottiene misericordia da Dio (propitiatio)[38]. Ugualmente, con la sua passione Egli ha
iniziato il culto della religione Cristiana, “dando sé stesso [come] oblazione
e sacrificio a Dio” [Ef 5,2]. Da tutto
ciò risulta in modo evidente che “i sacramenti della Chiesa ricavano in modo
particolare la loro virtù dalla passione di Cristo, la cui virtù ci si comunica
in qualche modo [proprio] mediante il ricevimento dei sacramenti”: la “virtus
remissiva” dei nostri peccati “appartiene in un certo special modo alla sua
passione”[39].
Nella Passione di
Nostro Signore, unica sorgente della “virtù” dei sacramenti, vediamo il Cristo
“sofferente” non quello “glorioso”, anche se quello “glorioso” è sempre
presente perché la Divinità non può esser intaccata dalle sofferenze
dell’umanità del Verbo (così come è presente nell’Ostia consacrata, che rinnova
però la Passione non la Resurrezione).
Ora, come può il Concilio attribuire a S. Tommaso il concetto che
attraverso i Sacramenti i fedeli “si uniscono in modo arcano e reale a lui
sofferente e glorioso”, come se per S. Tommaso Passione e Gloria
contribuissero in modo uguale al valore salvifico dei Sacramenti? LG 7.2
richiama una delle tre repliche finali dell’Angelico ai tre argomenti
contrari da lui esposti all’inizio dell’articolo 5. L’argomento contrario, che è il primo dei
tre, specula su di una frase di S. Agostino:
“La virtù dei sacramenti consiste nel causare la grazia nell’anima,
facendola vivere spiritualmente. Ma,
come dice Agostino nel Commento al Vangelo di Giovanni: ‘Il Verbo in quanto era in principio presso
Dio, vivifica le anime; ma una volta divenuto carne, vivifica i corpi’. Poiché la passione di Cristo riguarda il
Verbo in quanto incarnato [quod est caro factum], se ne conclude che non
possa causare la virtù [propria] dei sacramenti”.
Poiché la Passione
concerne il Verbo nella carne che aveva assunto, ossia nel corpo, come può essa
causare la virtù dei Sacramenti, che consiste nel vivificare l’anima? Gli effetti salvifici della Passione, mi
chiedo, dovrebbero allora restare limitati al corpo di Cristo? La tesi appare manifestamente assurda. La
replica di S.Tommaso (ad 1, contro il n. 1) costituisce il passo
cui rinvia il Concilio.
“Contro il primo
argomento bisogna dire che il Verbo, in quanto era in principio presso Dio,
vivifica le anime come agente principale [sicut agens principale];
tuttavia la sua carne e i misteri che in essa hanno avuto luogo [in ea
perpetrata], operano strumentalmente [instrumentaliter] alla vita dell’anima. Alla vita del corpo, invece, non solo
strumentalmente, ma anche con una certa esemplarità, come ho detto sopra”.
Non si possono
separare e contrapporre il corpo e l’anima, come sembrano fare i sostenitori
della tesi criticata. Il Verbo “vivifica”
le anime. Ma in quest’azione concorre
anche l’Incarnazione ovvero il corpo assunto dal Verbo, con tutti i misteri che
per noi esso presenta, come risultano in particolare dalle vicende della
Passione. L’Eucaristia è un sacramento
fondamentale per la nostra salvezza. Ma
senza il “corpo” e il “sangue” di Cristo essa non sarebbe possibile. Senza il “corpo” e il “sangue” reali
del Signore, rinnovati ad ogni Messa in modo incruento dal sacerdote
celebrante, nella Consacrazione. Qui S.
Tommaso fa una differenza tra “strumentale” ed “esemplare”.
Che significa
“strumentale”? Lo spiega nella questione
n. 56, a. 1, nel replicare a coloro che negano esser la resurrezione di Cristo
“causa” della resurrezione dei corpi.
La “giustizia di Dio,
scrive, è la causa prima della nostra resurrezione” mentre “la resurrezione di
Cristo è la causa secondaria e come strumentale”. Perché la “giustizia divina”? Perché è necessario “che i corpi siano
premiati o puniti assieme alle anime, per come reciprocamente presero parte ai
meriti o ai peccati [come dissero Dionigi Areopagita e S. Giovanni Damasceno,
precisa S.Tommaso nel testo]”. La
giustizia divina, in quanto “virtù dell’agente principale non ha bisogno di
determinarsi in modo specifico in questo strumento [Licet autem virtus
principalis agentis non determinetur ad hoc instrumentum determinate]”. Tuttavia, “dato che opera mediante questo
strumento, lo strumento stesso è causa di un effetto [instrumentum illud est
causa effectus]”. Ora, la giustizia divina non era obbligata ad agire come
ha agito, istituendo la nostra resurrezione sul modello di quella di Cristo:
poteva “liberarci” (dal peccato) in modo diverso dalla Passione e Resurrezione
del Signore. “Ma poiché ha scelto di liberarci
in questo modo, è chiaro che la resurrezione di Cristo è causa della nostra”.
Causa dunque
“secondaria” (rispetto alla “giustizia divina”) e “come strumentale” perché è
lo “strumento” mediante il quale opera la giustizia divina. Ne consegue che la
Passione opera “strumentalmente” alla vita della nostra anima nel senso che è
“causa strumentale” e quindi efficiente della sua rinascita, grazie ai
Sacramenti che da essa scaturiscono.
“Strumentale” non va inteso come riferito ad una realtà subordinata e
quindi ininfluente ma nel senso di ciò che produce il suo effetto pieno perché
inserito in un rapporto causale (della causalità efficiente, che, per produrre
un effetto, presuppone l’azione di un agente sorretta da uno scopo). Pertanto S. Tommaso non sembra affatto
mettere sullo stesso piano l’azione sulle anime del Verbo presso Dio (Cristo
glorioso), che è l’azione di un “agente principale”, e quella “secondaria” e
“strumentale” sulle anime da parte del Verbo Incarnato, la cui umanità ha
accettato liberamente le terribili sofferenze della Passione (Cristo
sofferente). Al contrario, sembra ribadire che l’azione “strumentale” del
Cristo sofferente agisce di per sé sulle anime, nella sua propria autonomia di
“strumento” della salvezza.
L’azione “esemplare”
del Verbo Incarnato nei confronti della “vita del corpo”, riguarda invece il
significato esemplare della Resurrezione di Cristo. Essa è causa efficiente della nostra, per via
della “virtù divina, il cui proprio è risuscitare i morti [mortuos
vivificare]”; è anche causa “esemplare” perché costituisce il modello o
esemplare della nostra individuale resurrezione (e in questo senso, pur
risuscitando tutti gli uomini, si applica solo agli Eletti, non a coloro che
vanno in perdizione).
VIII. BILANCIO DEL RAFFRONTO TRA AeU 1-7 E LG
1-8
Dalla comparazione
dello schema Aeternus Unigeniti 1-7
con la costituzione Lumen Gentium 1-8, cosa concludere? Abbiamo visto che LG 1-8 rielabora la
struttura generale di AeU 1-7, accogliendone delle parti, che ripropongono concezioni
tradizionali della Chiesa. Ma non è
certo questo tipo di rielaborazione a costituire i concetti essenziali della
dottrina proposta da LG 1-8, che introduce a sua volta elementi nuovi
concorrenti tutti ad una concezione della Chiesa che sembra alquanto diversa da
quella di AeU 1-7: non più militante
ma misterica ossia aperta al soffio di uno Spirito di tipo (cosiddetto)
carismatico, che investe anche le “comunità” degli acattolici, in quanto
tali. Possiamo dire, in coscienza,
specchiandoci nella nostra fede di Cattolici, della quale Nostro Signore ci
chiederà conto, accanto alle nostre opere, non appena moriremo, che la dottrina
sulla Chiesa proposta da LG 1-8 si dimostri in perfetta continuità con quella
della Chiesa di sempre, proposta da AeU 1-7?
Guardiamo alle novità
esistenti in LG 1-8, poiché sono esse a fare la differenza.
1. Vengono
accuratamente eliminati tutti i riferimenti di AeU al Primato di Pietro. Non acquista rilievo il ruolo dei
“praepositi” da Cristo sub Petro sin dall’inizio della Ecclesia Dei alla
predicazione e al governo della Chiesa. Esso viene ricordato solo in LG 8.2 ma
nella Chiesa cattolica dimidiata dal subsistit in. Si ha anche un
accenno in LG 7.3, ove si dice che tra i doni dello Spirito “eccelle quello
degli apostoli, alla cui autorità lo stesso Spirito sottomette anche i
carismatici (1 Cr 14)”. Si tratta di un
riconoscimento generico. Gli apostoli
sono comunque presentati qui come collegio, senza un capo, una gerarchia.
2. Il Corpo Mistico
appare incentrato soprattutto su Cristo, che “ha redento l’uomo e l’ha
trasformato in una nuova creatura” già prima della Pentecoste, con la sua Morte
e Resurrezione, poste sullo stesso piano quanto al loro significato
salvifico.
3. Il rapporto tra
Cristo e lo Spirito Santo nel Corpo Mistico non appare ben delineato come in
AeU e risulta anche ambiguo. Non si
ripete che i doni dello Spirito Santo avvengono “secondo la misura di Cristo”.
Inoltre, si indebolisce il nesso tra lo Spirito Santo e la Verità Rivelata,
visto che lo Spirito Santo si limiterebbe ad introdurci a “tutta la
verità”: prospettiva che di fatto si
presta a mettere tra parentesi il dogma del compimento della Rivelazione con la
morte dell’ultimo Apostolo e ad aprire la strada all’ambiguo concetto di
“tradizione vivente” di cui all’art. 8 della costituzione “dogmatica” Dei
Verbum. La forte enfasi posta
sull’opera dello Spirito Santo, che viene però tendenzialmente intesa come
l’avvento di un “carisma” che riposa su sé stesso, ha dato ad alcuni la
sensazione della presenza di un certo “gioachimismo” negli articoli 2-4 della
LG, come se in questi ultimi si riflettesse la ben nota, visionaria
tripartizione delle epoche del mondo in età del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo: quest’ultima, secondo l’abate calabrese, avrebbe inaugurato
un’epoca ultima e definitiva di libertà spirituale, nella quale si sarebbe
effusa maggiormente la Grazia. In quest’Età dello Spirito avremmo avuto “la
perfetta intelligenza” delle cose, la “libertà”, la “contemplazione”, “l’amicizia”,
il mondo sarebbe ringiovanito: in
pratica, la realizzazione (sia pure del tutto spirituale) del Regno di Dio in
questo mondo. Quest’impressione,
dell’affermazione di una natura “trinitaria” della Chiesa intessuta alle
visioni “trinitarie” del tutto personali di Gioacchino da Fiore, deriva anche
dalla presentazione ed esaltazione del Vaticano II quale autentica “Nuova
Pentecoste”, quasi il Concilio dovesse inaugurare una nuova Età dello Spirito,
foriera di trionfi per la Chiesa ed apportatrice di pace al mondo intero.
4. Nelle “immagini della Chiesa” si accentua il
lato “mistico” o “spirituale” (“pneumatico”) a scapito di quello sociale (della
Ecclesia societas, gerarchicamente ordinata) e a scapito dell’idea del
carattere “militante” della Chiesa visibile, che scompare completamente, con
tutte le sue immagini tradizionali della Chiesa e del credente, come se la
Chiesa non avesse nel mondo – regno del Principe di questo mondo - un
avversario formidabile contro il quale dover lottare, per strappargli le
anime.
5. Non appare ben delineato il rapporto con il
Sovrannaturale e la concezione del Regno di Dio appare ambigua; non è messo in
rilievo l’insegnamento tradizionale secondo il quale si entra nel Regno solo
dopo esser stati “pesati, contati, divisi” dal Cristo giudice subito dopo la
morte e nemmeno che l’alternativa alla conversione a Cristo è solo la
dannazione eterna. Quest’ultima verità di fede è ricordata in modo evidente da
AeU quando riporta l’affermazione di Nostro Signore: “chi non sarà battezzato
non si salverà”.
6. LG fa intravedere
un’immagine di tipo esistenziale della Chiesa, quale potrebbe concepirla
la sensibilità decadente del Secolo ateo e miscredente: la Chiesa come realtà sempre imperfetta,
sempre alla ricerca della “pienezza” della verità, “esule” da Dio e che si
piange addosso i propri peccati grazie all’arbitraria attribuzione dei peccati
e delle imperfezioni dei membri della Chiesa alla Chiesa stessa. L’immagine esistenziale della Chiesa
non è in grado di distinguere tra l’immacolata Sposa di Cristo ed i suoi
membri, tra il peccato nella Chiesa ed il peccato della Chiesa,
che non può aver luogo. E non sembra
nemmeno in grado di concepire ancora la Chiesa cattolica come unica Arca della
Salvezza.
7. Si ha una falsa rappresentazione del rapporto
tra la Chiesa e l’Ebraismo, dando ad intendere che entrambi sarebbero già stati
“riconciliati” dalla Croce di Cristo.
Cade l’immagine della Chiesa come unico “vero Israele dello spirito”, assai
nitida in AeU, e viene di fatto oscurata la teologia della sostituzione.
8. Giustificandosi con una lettura molto dubbia
di S. Tommaso, si delinea il tentativo di ancorare i Sacramenti anche alla
Resurrezione del Signore, di legittimarli cioè anche come manifestazione del
Cristo glorioso, cui si vuole attribuire efficacia sacramentale uguale a
quella della Passione, cosa che inclina in senso protestante il significato
della S. Messa.
* * *
Nell’ambito di
un’impostazione del genere, come stupirsi allora della definizione di Chiesa
cattolica che appare nell’articolo 8 della LG, corroborato da UR 3 e UR
15.1? Il “sussistere” in essa di una
Chiesa di Cristo che “sussiste” anche negli “elementi” rappresentati da “Chiese e comunità”
acattoliche, appare il coronamento inevitabile della concezione “aperta” e “spirituale” della Chiesa,
“esistenziale”, incentrata sul Cristo il cui “mistero pasquale” avrebbe già
redento gli uomini, che si delinea nei primi sette articoli di questa
costituzione conciliare “dogmatica”. Lo
studio fin qui fatto ci permette anche di comprendere meglio, io credo, il
significato che si tende a conferire oggi al termine “Chiesa” in ambito
cattolico. Quando si nomina “la Chiesa”
i più intendono, in modo più o meno consapevole, la Chiesa di Cristo,
nel senso di LG 8.2 e UR 3, della quale la Chiesa Cattolica in senso proprio è
solo una parte, come si è visto. I
cattolici più anziani e legati al senso della Tradizione, quando sentono dire o
leggono “Chiesa” nei documenti ecclesiastici ufficiali di oggi, credono
istintivamente che ci si riferisca sempre alla Chiesa Cattolica Romana, unica
vera Chiesa di Cristo. Ma così non
è. La “Chiesa” dei documenti è in genere
la “Chiesa di Cristo” come concepita dal Vaticano II.
E conta poco, a mio
avviso, la replica secondo la quale è indubbio che per il Concilio la Chiesa di
Cristo sussiste nella Chiesa Cattolica onde quest’ultima è la sola
Chiesa di Cristo, come si è sempre creduto.
Questa replica si basa più su ciò che si dovrebbe capire dai verbali del
Concilio che sull’analisi letterale dei documenti conciliari alla fine
approvati (sul punto, vedi infra, cap. X). Conta poco, poiché l’analisi accurata dei
testi fa vedere, come credo risulti dal presente lavoro, che la “sussistenza”
della Chiesa di Cristo anche nelle “Chiese e comunità” degli Acattolici in
quanto tali, costituisce la premessa “teologica” che la mens progressista del
Concilio si è voluta dare al fine di aprire il “dialogo ecumenico” con gli
Acattolici stessi. Sembra essersi di
fatto instaurato un regime della doppia verità, della quale nessuno
sembra accorgersi, nel senso che vengono ritenuti veri ed applicati nella
prassi entrambi questi asserti, tra loro inconciliabili alla luce non solo del
Deposito della Fede ma anche della logica più elementare: 1) la Chiesa di Cristo
sussiste nella Chiesa Cattolica Romana, necessaria alla salvezza, unica Chiesa
di Cristo; 2) la Chiesa di Cristo
sussiste anche nelle Chiese e Comunità che si trovano al di fuori della
Chiesa Cattolica Romana, nonostante le loro “carenze”. E queste “carenze” (non si può dimenticarlo)
sono il risultato di eresie e scismi!
Tutto ciò non è come dire che la Chiesa Cattolica Romana è l’unica
Chiesa di Cristo e nello stesso tempo non lo è?
Si può forse negare
che ci sia stato un mutamento semantico profondo? Il lemma “Chiesa”, in bocca a preti e fedeli,
non ha più il significato di una volta.
È la Chiesa “aperta” e “in ascolto dello Spirito”, cosiddetta
“dell’Amore”, “allargata” a tutti gli Acattolici, “solidale” con tutti ed anzi
con tutta l’umanità. Essa non vuole
apparire come qualcosa di separato dal mondo, come “segno di contraddizione”,
vuole immergersi nell’umanità del mondo, non per convertirla a Cristo ma per
collaborare con essa alla costruzione di un mondo che si vuole “migliore”,
sposandone per quanto possibile i “valori”.
Per questo è stata abolita la talare, l’abito delle suore è stato reso
simile a quello delle crocerossine, e comunque molti preti e suore hanno
abolito qualsiasi segno esteriore
dell’appartenenza alla Chiesa Cattolica Romana, quasi ne provassero vergogna.
Per questo si è voluto che i seminaristi non studiassero più in un collegio
separato, in un ambiente lontano dalle seduzioni del mondo, favorevole al
raccoglimento e alla preghiera, ai difficili studi, allo spirito di disciplina
e di corpo, all’esercizio dell’autorità.
E si comprende come una Gerarchia che vede la Chiesa di Cristo anche in
tutti gli Acattolici in quanto tali senta la necessità di ancorare i Sacramenti
al Cristo glorioso; in particolare l’Eucaristia, perché così piace ai
Protestanti ed evita l’’incomodo di innalzare la Santa Croce di fronte alle
altre religioni, che tutte la avversano.
O di dichiarare sempre “imperfetta” la sua santità. Come può, del resto, essere perfetta se ora “la Chiesa di Cristo” sussiste
anche in chi professa il “pecca fortemente ma credi ancor più fortemente”? Come può essere la stessa Chiesa di AeU e in
somma la medesima Chiesa Cattolica Romana di sempre, se ora la sua Gerarchia
desiste dal convertire chicchesia, negligendo quindi esplicitamente il
comandamento dato da Nostro Signore agli Apostoli e ai loro successori: “Rendete miei discepoli tutti i popoli”? E che conto fa essa del grave ammonimento: “ma colui che mi rinnegherà davanti agli
uomini, sarà rinnegato dinanzi agli Angeli di Dio” (Lc 12, 9)?
Come ha egregiamente
messo in rilievo Mons. Gherardini, attirandosi le ire dei difensori del
presente stato di cose, l’idea di Chiesa proposta dal Vaticano II, assai più
che dal Magistero precedente, deriva dal nuovo intreccio costituito da
“ecumenismo” e “libertà religiosa”.
Improntando l’idea di Chiesa a questi due “ideali”, entrambi presi a
prestito dalla filosofia moderna e dalle utopie di Protestanti e Teosofi, si è
giunti addirittura a costruire e a vivere un “esser Chiesa” (come dicono oggi)
che esclude in quanto tale la conversione!
“Dal vincolo che
stringe insieme ecumenismo e libertà religiosa […] sarebbe poi
scaturita la rinuncia al proselitismo, alla missione evangelicamente attiva,
alla conversione. Teresa di Calcutta
poté per questo dichiarare di non aver mai invitato nessuno dei diseredati da
lei accuditi a convertirsi; ed un prestigioso cardinale, arcivescovo d’una
grande diocesi, raccontò d’aver diassuaso alla conversione l’ebreo che gli
aveva confidato questo desiderio.
Ambedue, evidentemente, s’eran collocati sulla lunghezza d’onda del
messaggio conciliare che, a base della moralità pubblica e privata oltre che
della c.d. nuova evangelizzazione, poneva l’elefantiasi dei diritti
della persona umana, non l’indiscutibilità dei diritti di Dio e della sua
Parola. Come se questa Parola non avesse
stabilito la dipendenza della libertà dalla verità (Gv 8,32), la coincidenza
della fede e della conversione (cf. Mc 1,15), l’obbligo dell’annuncio salvifico
a tutte le genti (Mt 28, 18-20). Un
capovolgimento radicale era stato operato…”[40]. Ad opera di quale “Spirito”, dobbiamo
chiederci noi semplici credenti, e trarne le dovute conclusioni.
[1] DE
MATTEI, op. cit., p. 311.
[2] Abbé
LOVEY, op. cit., p. 122.
[3]
WILTGEN, op. cit., pp. 56-8; LOVEY, op.
cit., p. 121-3, con le puntuali repliche del cardinale Ottaviani. Le invettive del vescovo De Smedt ricordavano
quelle dei Modernisti d’antan.
[4]
Per l’originale latino dello schema rimando all’indicazione che ne dà il
cardinale Becker nel suo articolo, sopra citato: Schema Constitutionis dogmaticae de
Ecclesia Christi Patrum examini propositum:
Mansi 51, 539-553.
[5] DS
788/1511.
[6]
PIO XII, Enciclica Mystici Corporis, tr. it. cit., p. 65.
[7] C,
37-8.
[8] C,
39-40.
[9] La
Sacra Bibbia, Edizioni Paoline, Roma, 1960, p. 24, in nota.
[10]
Su questo tema, per maggiori approfondimenti, mi sia consentito rinviare ad un
mio intervento: PAOLO PASQUALUCCI, La
notion de l’unité du genre humain: une
intrusion de la pensée laïque
dans Vatican II, in La tentation de l’oecuménisme, Actes du IIIᵉ Congrès Théologique de
sì sì no no, Albano Laziale - Avril 1998, Versailles 1998, pp. 130-144.
[11]
C, 52.
[12]
Ivi.
[13]
C, 40.
[14]
Vedi DB, voce Regno di Dio.
[15]
“[…] questo Spirito ci fu meritato da Cristo sulla croce, spargendo il proprio
sangue; questo, egli lo donò alla Chiesa per rimettere i peccati, alitandolo
sopra gli Apostoli; e mentre soltanto Cristo ricevette questo Spirito senza
misura [Gv 3, 34], alle membra del Corpo mistico vien distribuito dalla
pienezza dello stesso Cristo secondo la misura del dono di Cristo [Ef 1, 8; 4,
7]”(Mystici Corporis, tr. it. cit., p. 45 [DS 2288/3807]).
[16]
BERNARD BARTMANN, Précis de théologie dogmatique (1924), tr. fr.
dell’Abbé Marcel Gauthier, Salvator,
Mulhouse, 1951, I, p. 230 ss. (§ 54).
[17]
Nel già citato articolo su “Il peccato nella Chiesa”, Karl Rahner si lamentava
del fatto che la LG, pur avendola ammessa, non fosse riuscita a fornire una
nota teologica checchesia alla nozione di “Chiesa peccatrice”. E come avrebbe potuto, mi chiedo? L’articolo di Rahner cerca di conferire
significato teologico a tale bislacca nozione, con un’esposizione a mio avviso ripetitiva, elusiva e
confusa. Mi sembra che egli cerchi di
applicare alla Chiesa, e nemmeno tanto velatamente, la nozione luterana di
“simul iustus et peccator”, intrinsecamente contraddittoria. Allora, perché la Chiesa, pur
“peccatrice”, sarebbe anche santa? Per la possibilità che le è concessa, di
ricorrere sempre alla misericordia di Dio, nonostante il suo stato di
peccato: questo solo la renderebbe
“santa”. La santità della Chiesa
peccatrice viene solo dalla Grazia, come quella del singolo peccatore (op.
cit., p. 431-4; 434). Siamo in pieno
Luteranesimo. Le elucubrazioni di Rahner
erano verosimilmente anche pro domo sua:
dopo la sua morte, una donna tedesca ha dimostrato con inappuntabile
documentazione di esser stata per vent’anni la sua compagna segreta.
[18]
DE MATTEI, op. cit., p. 311.
[19]
Op. cit., pp. 341-2. Suenens divenne poi
noto per le sue “liturgie ecumeniche” aperte a tutti i soffi dello “Spirito”
(vedi: JOHN VENNARI, Close-ups of the Charismatic Movement [Il
movimento carismatico visto da vicino], Tradition in Action Inc., Los
Angeles, 2002, pp. 155-162).
[20]
PIO XII, Enciclica Mediator Dei sulla sacra Liturgia, tr. it. con testo
lat. a fronte, Vita e Pensiero, Milano-Roma, 1956, pp. 126-8.
[21]
CONFERENZA EPISCOPALE DELL’EMILIA E ROMAGNA, Islam e Cristianesimo, EDB,
Bologna, 2000, p. 30.
[22]
Nelle note relative, AeU 6.2 rimanda alla dottrina contenuta in documenti di
Leone XIII, Pio IX, Pio XII, e in S. Tommaso.
[23]
Si trova in S. PAOLO, Rm 8,9; Fil 1,19 etc.; vedi BARTMANN, op. cit., I, p.
231.
[24]
Cit. in LOVEY, op. cit., p. 121-2. Ho
ritradotto dalla traduzione francese ivi presente.
[25]
Bartmann, op. cit., I, p. 219 (§ 52).
[26]
BRUNERO GHERARDINI, Chiesa-Tradizione-Magistero, articolo apparso sulla
rivista elettronica Disputationes Theologicae del 7 dicembre 2011, p. 3 di 4.
[27]
Il significato tradizionale di Gv 16,13 è confermato anche dalle edizioni dei Vangeli ispirate al metodo
storico-critico, che sottopone i manoscritti ad un vaglio ipercritico, alla
stregua di un qualsiasi testo letterario:
cfr. The Greek New Testament, cit.: Gv 16,13 con le relative note; nonché: BRUCE
M. METZGER & SOCII, A Textual Commentary on the Greek New Testament,
German Bible Society, Stuttgart, 1994², p. 210.
Il verbo, riportato dalla quasi totalità dei manoscritti, è il futuro hodeghései
en: guiderà verso, e in senso traslato insegnerà, istruirà (docebit,
in latino). Semanticamente contiene
l’idea della guida, la guida di un capo, un maestro (hodós: sentiero,
via; heghéomai: conduco come guida, capo). Non c’è l’idea di un semplice introdurre; c’è
l’idea di una guida in senso forte, di un capo o maestro fornito di piena
autorità, di uno che è un leader, viae dux (Zorell, LGNT, sub voce). Se
si fosse trattato di esprimere il concetto di “introdurre” alla verità, il
greco non avrebbe dovuto usare un termine completamente diverso, come ad
esempio: eiságo? Pochissimi manoscritti riportano : “dieghésetai hymîn”: “vi esporrà”, più
descrittivo, ma comunque lontano dall’idea dell’introduzione. La filologia dimostra, dunque, che lo
“inducit” di LG 4 non ha fondamento alcuno nel Testo Sacro. Nel passo di Lc 12,10, il latino traduce
ugualmente con docebit il greco, costituito invece da: didáxei, insegnerà. Il verbo è qui didásko, insegno, doceo. Due verbi diversi, allora, tradotti allo
stesso modo in latino. Ma si tratta di
due situazioni diverse, che le maggiori sfumature del greco permettono di
esprimere. Lo Spirito Santo guida
con mano ferma di maestro gli Apostoli sulla via dell’approfondimento di tutta
la Rivelazione, procedendo per spirazione da Nostro Signore e dal Padre come da
un unico principio. Nell’altro caso, non
si tratta della Rivelazione ma di Ispirazione, al fine di vincere la paura del
dolore fisico e della morte per testimoniare la fede nel caso singolo e supremo
della persecuzione. Qui le parole ci
verranno alle labbra spontaneamente senza studio e preparazione specifica ma in
realtà ci saranno state insegnate direttamente dallo Spirito Santo, come
da Maestro a discepolo che deve solo ripeterle, per la Gloria di Dio e la
salvezza della sua anima.
[28]
DS 1961/3309.
[29]
Enciclopedia Cattolica, voce Chiesa, col. 1450 (ed. anteriore al
Concilio); DB, voce Regno di Dio, passim.
[30]
HENRI DE LUBAC S.I., “Soprannaturale” al Vaticano II, tr.
it., in ID., Spirito e libertà, Milano, 1980 (si tratta di una raccolta
di saggi di de Lubac tradotti in italiano), pp. 343-50, p. 347, citato da
GIOVANNI MORETTO, Destino dell’uomo e corpo mistico. Blondel, de Lubac e il Concilio Vaticano II,
Morcelliana, Brescia, 1994, pp. 117-8, nota n. 8. Nel passo citato, de Lubac riassume la
questione dal suo unilaterale punto di vista.
[31]
MORETTO, op. cit., p. 118.
[32]
Sull’influenza di de Lubac (e tramite lui di Blondel) sulla Gaudium et spes,
cfr. MORETTO, op. cit., tutto il capitolo sesto, pp. 115-29. Sul tema, mi sia permesso rinviare ad un
altro mio contributo: PAOLO PASQUALUCCI, L’alterazione dell’idea del
sovrannaturale nei testi del Vaticano II, in Bilancio e
prospettive. Per una vera restaurazione
della Chiesa, Atti del IV Congresso teologico di “sì sì no no”, Roma 2000,
Ed. Ichthys, Albano Laziale, 2003, pp. 195-236.
[33]
S. GREGORIO MAGNO, La regola pastorale, presentata e interpretata da Armando
Candelaresi, Edizioni Paoline, 1978², p. 198.
[34]
Ef 2, 14-16. L’inciso: “[giudaiche]” è
del traduttore dell’ Epistola paolina, nell’edizione della Bibbia curata
dall’abate Ricciotti.
[35]
PIO XII, Humani generis, tr. it. cit., p. 12.
[36]
In una delle lettere ricevute da
Blondel, durante il suo polemico scambio epistolare sulla natura della Chiesa
(1903), il Padre Wehrlé S.I. annotava a margine: “Blondel ammette la salvezza fuori della
Chiesa, direttamente ad opera del Cristo…La Chiesa non ha motivo di affannarsi
con le preghiere…”. Cosa aveva scritto
Blondel? Tra altre cose, che un
primitivo (“un pauvre sauvage mourant”) che non conosce Cristo, se si salva
l’anima, “ce n’est point en vertu de la Révélation en tant qu’elle est connue
d’un grand nombre, c’est en vertu de la Rédemption en tant qu’elle a été
acquise par Un seul et mystérieusement communiquée par les sollicitations
anonymes de la grâce” (RENÉ MARLÉ S.I.[a
cura di], Au coeur de la crise moderniste.
Le dossier inédit d’une controverse. Lettres de Maurice Blondel, Henri
Bremond etc., Aubier, Paris,1960, pp. 268-9).
[37]
“Però quel Gesù, che è stato per breve tempo inferiore agli Angeli, noi lo
vediamo ora coronato di gloria e di onore, a motivo della morte che ha
sofferto, affinché per grazia di Dio, la morte da lui sopportata fosse di
vantaggio a tutti” (Eb 2, 9). Nel greco
dell’originale, la frase “a motivo della morte che ha sofferto” è resa con la
preposizione dià e l’accusativo (dià tò páthema toû thanátou etc.)
che ha significato causale (cfr. The Greek New Testament, cit., p.
750). Senza la Resurrezione vana è la
nostra fede, ci insegna S.Paolo (1 Cr, 15); ma senza la Santa Croce non poteva
esservi la Resurrezione. “Perché dunque
tanta paura di prenderti la croce che è la via del cielo? Nella croce è la salvezza, nella croce la
vita, nella croce il baluardo contro i nemici. Nella croce la sorgente delle
soavità celesti, la forza dell’anima, la gioia dello spirito. Nella croce la pienezza della virtù, nella
croce la perfezione della santità. Nessuna possibilità di salvezza per l’anima,
nessuna speranza di vita eterna fuorché nella croce” (Imitazione di Cristo, cap.
XII del libro secondo: ‘La via regia della Santa Croce’, B.U.R., Milano,
1958, tr. it. di Carlo Vitali, p. 81).
[38] I
concetti trattati nell’ultimo periodo li ho riassunti da ST, III, q. 48, a. 1 e
2, 6.
[39] ST,
III, q. 62, a. 5 e ad 2.
[40]
D, 187.
Sessant’anni dal Concilio - V
di Paolo Pasqualucci
V - Raffronto tra loa Chiesa
illegalmente scartato e la costituzione ‘Lumen Gentium’ sulla Chiesa, che lo ha
rielaborato, in realtà alterandolo alquanto.
[Nota previa.
Dopo la settimana di Ferragosto, riprendo la pubblicazione di alcune
parti del mio libro Unam Sanctam. Studio sulle deviazioni dottrinali nella
Chiesa del XXI secolo, Solfanelli, 2013, pp. 437. Questa volta il testo è più lungo, avendovi
io dovuto accorpare diversi capitoli, nessuno dei quali troppo lungo. Si tratta di sessantaquattro pagine formato
Bodoni MT 14. I capitoli riuniti sono
sei, occorre pertanto un inquadramento generale. Si tratta di capitoli tra loro connessi
perché concentrati su un unico tema: un accurato raffronto tra il primo
capitolo dello schema sulla Chiesa scartato e il primo capitolo della
costituzione dogmatica (senza dogmi) Lumen Gentium sulla Chiesa (=LG): entrambi questi capitoli eleborano il
concetto della Chiesa. Dovrebbe
trattarsi del medesimo concetto, ma sarebbe arduo e persino azzardato
l’affermarlo.
I capitoli riuniti
sono dunque s e i , dal cap. III al cap.
VIII. Ricordo ancora che lo schema lasciato cadere si intitolava Aeternus
Unigeniti Pater, abbreviato in Aeternus Unigeniti (AeU).
Il cap. III delinea un
parallelo generale tra AeU parr. 1-7 e LG parr. 1-8. Il cap. IV espone la struttura generale di
AeU parr. 3 -7 contrapposta a LG parr. 4-8.
Il cap. V si
chiede: la Chiesa di LG parr. 4-8 è una
Chiesa dello Spirito e dell’Amore, ossia una Chiesa non gerarchica e non
militante, sempre imperfetta, sempre in cerca della pienezza della verità? In sostanza, come si è poi visto, una Chiesa
che non insegna più verità morali e religiose rivelate da Dio e quindi
obbligatorie per la salvezza di ciascuno ma all’opposto “si pone in ascolto del
mondo” animata da uno spirito di grande misericordia e comprensione delle
esigenze del mondo, desiderosa di collaborare con esso per realizzare l’unità
del genere umano e la pace universale?
Il cap. VI si interroga
sulle “immagini della Chiesa” secondo LG par. 6, chiedendosi se esse mostrino
continuità con AeU. Un argomento in
apparenza secondario ma che ha la sua importanza.
Il cap. VII pone
un’ulteriore domanda, scaturente dall’ambiguità del testo conciliare: Un corpo mistico (la Chiesa) incentrato sul
Cristo, che ha già redento l’uomo con la sua incarnazione, morte e resurrezione?
Il cap. VIII, infine,
si intitola: Bilancio del raffronto
tra AeU 1-7 e LG 1-8. Questo
capitoletto finale l’ho già proposto ai lettori. Poiché repetita iuvant, lo ripropongo,
sicuro che potrà esser meglio compreso dopo l’analisi articolata dei due testi
in questione.
Per favorire la
lettura ricordo anche i due autori sui quali mi sono principalmente basato (in
senso opposto) in questo lavoro: mons.
Brunero Gherardini e il suo critico, il sacerdote prof. Pietro Cantoni, a mio
avviso rappresentativo della mentalità dei difensori del Concilio Vaticano II,
trincerata a priori dietro il principio d’autorità, come se, per l’appunto, il Vaticano
II fosse stato un Concilio dogmatico – il che non è – e pertanto infallibile ed
intoccabile. Lo studio del prof.
Cantoni, da me confutato più volte nel testo, si intitola: Riforma nella continuità. Riflessioni sul Vaticano II e
sull’anti-conciliarismo, SugarCo, Milano, 2011. Il testo è citato spesso
con la sola lettera C maiuscola. L’anticonciliarismo sarebbe l’atteggiamento di
chi critica (osa criticare) il Vaticano II. Della produzione assai vasta di mons.
Gherardini mi sono avvalso soprattutto del suo magistrale testo sulla
Tradizione e del suo primo, ampio saggio critico sul Concilio: Brunero Gherardini, Quod et tradidi
vobis. La tradizione vita e giovinezza
della Chiesa, in “Divinitas”, nn. 1-2-3, Città del Vaticano, Roma,
2010. L’opera fu poi ristampata sempre
nel 2010 da Casa Mariana Editrice, Frigento, 2010: ID., Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana
Editrice, Frigento, 2009.
La lettura di due
testi in parallelo non è mai troppo agevole.
Tuttavia, se vogliamo afferrare ciò che è veramente accaduto al Vaticano
II, in tutta la sua straordinaria gravità, dobbiamo sobbarcarci pazientemente a
letture di questo tipo, le sole capaci di svelare l’alchimia perversa che ha
distillato i testi alla fine ufficiali del Concilio. L’analisi comparata dei due nostri testi dimostra
che, in quello venuto alla fine a far parte della costituzione conciliare Lumen
Gentium sulla Chiesa, pescindendo da gravi omissioni ed ambiguità, rispetto
allo schema scartato sono stati eliminati i seguenti concetti: che solo la Chiesa cattolica è l’Israele dello
spirito; che solo la Chiesa cattolica è
l’unica e vera Chiesa di Cristo; che il Papa esercita un primato di
giurisdizione su tutta la Chiesa di Cristo].
III.
PARALLELO TRA “AETERNUS UNIGENITI” 1-7, SCHEMA SCARTATO, E “LUMEN
GENTIUM” 1-8 CHE LO HA RIELABORATO
1. Uno schema contestato
Ho ricordato prima
come la Commissione Teologica Mista avesse rifuso nel nuovo lo schema iniziale sulla Chiesa, finito tra quelli “scartati”
e sottoposto a rifacimento pur trattandosi di uno schema di costituzione
dogmatica elaborato secondo la dottrina tradizionale della Chiesa, che si
rifaceva ad un San Bellarmino, riletto dalla Mystici Corporis, e che
ovviamente riprovava una concezione della Chiesa “pneumatica” o dello Spirito,
dell’Amore, propagandata dalla Nouvelle théologie e in particolare dal
domenicano Yves Congar[1]. Nella fase preparatoria lo schema era stato
attaccato a fondo dai cardinali dell’indirizzo ammodernante (Liénart e Bea in
particolare) che lo accusavano di scarso spirito ecumenico e di proporre un
concetto ristretto di Chiesa, limitato alla sola Chiesa Cattolica Romana! L’art. 7 dello schema, che ribadiva con
estrema chiarezza come solo la Chiesa Cattolica Romana avesse il diritto di
considerarsi il vero e unico Corpo Mistico di Cristo, fu duramente contestato
dal cardinale Bea, che lo accusava di non essere “ecumenico”. Egli
rimproverò con acrimonia Ottaviani per
non aver tenuto conto dei suggerimenti del suo Segretariato al fine di
modificarlo nel senso, appunto, dell’apertura “ecumenica” voluta da Giovanni
XXIII[2]. Queste accuse furono ripetute a più voci
durante la breve discussione in Aula (nel dicembre 1962) in seguito alla quale
fu deciso di rifondere lo schema con quello proposto dal Segretariato. Particolarmente teatrali furono gli accenti
del vescovo belga Émile De Smedt, un mastino dell’antiromanesimo, già
distintosi negli attacchi allo schema sulle due Fonti della Rivelazione. Egli
bollò lo schema di “trionfalismo, clericalismo, legalismo”[3].
Nonostante questi precedenti, il rifacimento viene presentato sempre come uno
sviluppo nella continuità. Osserviamo
attentamente.
2. Chiesa “militante” o semplicemente
“terrena”?
Il
cap. I dello schema rigettato (AeU) constava di sette articoli che
illustravano la “natura della Chiesa militante”, titolo assolutamente
tradizionale, ben diverso da quello del cap. I di LG, vertente sul “mistero
della Chiesa”[4]. Dal Vaticano II in poi la nozione di “Chiesa
militante” è caduta in disuso e un motivo ci dovrà pur essere. Che cos’è la Chiesa militante? È la Chiesa visibile in questo mondo, fondata
da Nostro Signore a partire da Pietro e dai Dodici, organizzata
gerarchicamente, costituita dalla Gerarchia vera e propria in tutte le sue
componenti e dai fedeli, dal “popolo di Dio”, che è sempre stato considerato
solamente una parte della Chiesa visibile. “Militante” questa Chiesa
perché essa è una milizia impegnata nella lotta quotidiana contro Satana che è
“il principe di questo mondo” (Gv 12, 31).
Essendo “omicida sin dall’inizio
e padre della menzogna” (Gv 8,44), lo Spirito
Maligno opera innanzitutto nella nostra mente con tentazioni di ogni
tipo per farci peccare e trascinarci nell’eterna dannazione. Il cattolico è quindi un “miles Christi”,
egli combatte come soldato di Cristo innanzitutto contro sé stesso per
resistere alle tentazioni e all’odio del mondo (Gv 15, 18-25) con l’aiuto
indispensabile della Grazia, dei Sacramenti e dei Sacerdoti. E senza dimenticare,
ovviamente, quello non meno importante, anche se indiretto, delle Suore e
Religiose: pensiamo al grande e
fondamentale esempio di vita santa, autenticamente cristiana che esse ci hanno
sempre offerto.
Lo scopo di questa
lotta è realizzare la propria santificazione in questo mondo, senza la quale
non è possibile accedere alla vita eterna, e contribuire alla conversione delle
anime con l’esempio di una vita veramente cristiana, improntata all’ideale
della carità, che esige la nostra massima generosità nel rispondere alla
volontà di Dio, che ci chiede di amare il Prossimo per amor di Dio, cioè
tenendo presente innanzitutto la salvezza della sua anima. Accanto alla Chiesa militante esiste la
Chiesa “purgante”, delle anime sante nel Purgatorio, e quella “trionfante”,
delle anime degli Eletti, che sono già in Paradiso. Di contro vi è la Gehenna,
l’Inferno, nel quale soffriranno in eterno coloro che Nostro Signore avrà
dannato, nel giudizio individuale dell’anima subito dopo la morte, confermato
in quello Universale, pubblico, alla fine dei tempi (Mt 25, 31-45). I tre aspetti della Chiesa di Cristo
costituiscono un’unità nel “Corpo mistico di Cristo”, del quale il capo è
Cristo in cielo mentre il Papa, successore di Pietro nella continuità
apostolica, ne è il suo Vicario in terra.
La Chiesa “militante” gode perciò di una connessione sovrannaturale
permanente, in quanto parte visibile del Corpo
Mistico di Cristo, con il quale coincide perfettamente in questo mondo
(come insegnato dalla Mystici Corporis).
Ho dovuto ripetere
(per quanto sta alle mie capacità) queste elementari nozioni tradizionali
perché a partire dal Vaticano II sembra non vengano più insegnate. Il lettore pertanto resterebbe perplesso di
fronte al concetto di Chiesa “militante”. Non è forse vero che oggi viene
insegnato un concetto diverso di Chiesa, intesa solo come “popolo di Dio”
inglobante anche la Gerarchia e di taglio sostanzialmente intramondano? E il cattolico è ancora visto come “miles
Christi”, come “soldato di Cristo”? E si
insegna ancora che la vita in questo mondo è una milizia perché è l’ardua
prova mediante la quale veniamo vagliati per esser giudicati degni di
entrare alla fine dei tempi nel Regno di Dio, che dura in eterno, così come è
stato vagliato Nostro Signore durante la sua vita e soprattutto durante la sua
Passione?
3. La
Chiesa “nuovo Israele”, unico vero “Israele di Dio” secondo AeU
La struttura generale del capitolo di AeU in
questione è più o meno la stessa del posteriore capitolo iniziale di LG. Anche in AeU il discorso muove dal disegno
del Padre, che ha voluto redimere il mondo con il suo Figlio Incarnato e ha
voluto che “i redenti” costituissero anche “un nuovo genere (genus), un
regale sacerdozio, una gente santa, ossia il nuovo Israele, sotto un unico Capo
Gesù Cristo” (AeU 1). Qui la Chiesa di
Cristo appare subito come ”il nuovo Israele” concepito ab aeterno dal
Padre. Nell’art. 1 della LG si dice che
“la Santa Chiesa” è stata “annunciata in figura sin dal principio del mondo” e
“mirabilmente preparata nella storia del popolo d’Israele e nell’antica
Alleanza”: non si dice però che la
Chiesa di Cristo è “il nuovo Israele”. Si lascia nell’ombra la cesura
intervenuta tra noi Cristiani e l’Ebraismo, provocata dal fatto che la Chiesa,
possedendo essa sola la vera Rivelazione, si è sempre considerata, sin
dall’inizio, il nuovo Israele.
Dell’Israele della carne la LG parla all’art. 9, primo articolo del cap.
II dedicato a Il popolo di Dio, che illustra il concetto della “nuova
alleanza”, ma in modo che sembra suggerire l’idea di un’analogia e di una
continuità senza rotture: “Come già
l’Israele secondo la carne peregrinante nel deserto viene chiamato Chiesa di
Dio, così il nuovo Israele dell’èra presente (ita novus Israel, qui in
praesenti saeculo incedens), che cammina alla ricerca della città futura e
permanente, si chiama pure Chiesa di Cristo; è il Cristo infatti che l’ha
acquistata col suo sangue, riempita del suo Spirito e fornita di mezzi adatti
per l’unione visibile e sociale”. La
frase contenente il paragone proviene da AeU 3 ma appare mutila (come vedremo)
ed inquadrata in un contesto diverso, di tipo sostanzialmente descrittivo, dal
momento che non si è precisato esser la Chiesa di Cristo il vero Israele di
Dio al di fuori del quale non c’è salvezza (come pur fa AeU 2).
L’art. 2 di AeU,
infatti, tratta dell’”esecuzione del disegno del Padre da parte del Figlio
Unigenito”, termine, quest’ultimo, che ribadisce la natura divina di Cristo
(viene dal Credo) e che il Vaticano II,
se non vado errato, non usa. Di sicuro non compare in questo capitolo di LG che
tratta del “mistero della Chiesa” fondata da Cristo. L’art. 2 AeU mette subito in evidenza che
Nostro Signore ha posto dei capi scelti da Lui (per electos a se praepositos)
per guidare “il popolo di Dio” alla vita eterna. A queste guide o pastori ha conferito
numerosi càrismi (che in greco vuol dire semplicemente doni, anche se
viene in genere inteso nel senso di doni particolari, grazie speciali),
da esercitarsi sotto la guida di Pietro (sub Petro exercendis), come
risulta da Mt 28, 18-20 e Mc 16, 15-16.
Il testo riporta interamente i due passi di Matteo e di Marco. In
quest’ultimo, nell’ultima perìcope, c’è l’ammonimento terribile, già
incontrato: “ Chi crederà e sarà
battezzato sarà salvo, chi in verità non crederà sarà condannato”.
Questo nuovo popolo,
che è “l’Israele di Dio” (Gal 6,16) non procede come una massa sparpagliata ma
in formazione serrata come un esercito (non
tanquam effusa turba, sed ut confertum agmen procedit). Così inquadrata dalla Gerarchia e dalla
dottrina resisterà alle insidie di Satana; nutrita del cibo spirituale, questa
milizia durerà sino alla fine del mondo ”nell’unità di fede, nella comunione
dei sacramenti e sotto il governo apostolico”.
Nel rappresentare “l’esecuzione” del disegno del Padre da parte del
Figlio Unigenito, l’articolo già richiama il Primato di Pietro; il dogma della
dannazione eterna per chi non avrà voluto credere; e di nuovo la teologia della
sostituzione, essendo ora la Chiesa (il popolo di Dio guidato come una milizia
dalla Gerarchia sub Petro) il vero Israël Dei. L’attuazione del disegno del Padre si ha
perciò nella Chiesa di Cristo, che ha sostituito completamente “l’Israele della
carne”, e fuori di essa non c’è salvezza, come si evince chiaramente da Mc
16,16 già ricordato.
4. La teologia della sostituzione appare in
ombra nella LG
Tutto ciò manca
completamente in LG 3, l’articolo che si occupa della “missione del Figlio”.
Qui la Chiesa, si è visto, è “il regno di Dio già presente in mistero”, nei
“predestinati”, che “cresce visibilmente nel mondo per la potenza di Dio”. La Chiesa non è più una “milizia”; è
soprattutto un “mistero”, il mistero della nostra redenzione. E se si accentua troppo la nota del “mistero”
(la cui esistenza nessuno ha mai negato) non si finisce con il privilegiare la
natura invisibile (detta anche spirituale o pneumatica) della
Chiesa a scapito di quella visibile, uscendo in tal modo dal seminato? In molti se lo sono chiesto, tra quelli che
non si sono lasciati abbagliare da tutta questa profusione di “mistero”. Inizio e crescita del mistero vengono
significati simbolicamente dal sangue e dall’acqua che uscirono dal costato del
Signore e dalle sue parole, in Gv 12, 32:
“quando sarò levato in alto da terra [in Croce], tutti attirerò a
me”(ivi). Nel sacrificio dell’altare “si
rinnova l’opera della nostra redenzione e si rappresenta l’unità dei fedeli,
che sono un solo corpo in Cristo” e “tutti gli uomini sono chiamati a questa
unione con Cristo” (LG 3). Il significato
del “mistero” che è la Chiesa viene dunque colto mediante questi simboli di
unità, che coinvolgono l’intero genere umano; non si chiarifica nell’esistenza,
natura, missione concreta della Chiesa Cattolica Romana, sotto il
governo del Vicario di Cristo.
5. La missione della Chiesa è forse quella
di realizzare l’unità del genere umano?
Qual è dunque la “missione” del Figlio,
secondo LG 3? La redenzione di tutti gli
uomini mediante l’unione con Cristo, già rappresentata dall’unità dei fedeli
nell’Eucaristia. Sembra pertanto che
l’unità di tutti in Cristo non dipenda tanto dalla conversione (e quindi
dall’ingresso nella Chiesa Cattolica) quanto dalla partecipazione
all’Eucarestia (che poi il Concilio rappresenterà con un nuovo termine, ignoto ai Padri della
Chiesa, a tutta la Tradizione, ricorrendo sempre alla nozione del mistero: “il mistero pasquale”). Linguaggio e simboli scelti da LG 3 non
coincidono con quelli di AeU. Manca del
tutto il riferimento ai testi citati dal secondo, sopra riportati, che mostrano
la netta separazione tra la Chiesa di Cristo e il mondo “regno del principe di
questo mondo”, “regno” che alla fine dei tempi sarà condannato senza
appello. Le immagini usate da LG sono
sempre tradizionali, ricavate da ben noti passi evangelici e dai Padri della
Chiesa. E tuttavia ciò non elimina
l’impressione di un’impostazione diversa, anche a causa delle omissioni;
l’impressione di trovarsi di fronte ad un concetto di Chiesa di Cristo – voglio
dire – che sembra miri a sviluppare soprattutto la componente misterica
della Chiesa, esaltata pertanto soprattutto come realtà salvifica invisibile,
spirituale. Ciò significa, come recita
l’art. 1 della LG, attribuire alla Chiesa soprattutto la missione di realizzare
in questo mondo l’unità di tutto il genere umano, dato che quest’ultimo
sarebbe di per sé già “in intima unione con Dio”, unione invisibile, pneumatica.
L’idea di questa “intima unione” non è del tutto chiara, per il comune
credente. Che significa,
esattamente? E come si giustifica alla
luce del dogma del peccato originale?
Dobbiamo ritenere che dopo la Caduta il genere umano sia rimasto “in
intima unione con Dio”? E come ha fatto,
se, come ha ribadito il dogmatico Concilio di Trento, esso, a causa del
peccato, ha perduto l’originaria somiglianza con Dio?[5]
Ora, una “missione”
così concepita non appare staccata dal corpo concreto di Cristo,
costituito dal “popolo di Dio” inteso come Chiesa militante sub Petro e gli
Apostoli? Cristo, afferma LG, chiama
tutti gli uomini all’unione con Lui, esemplificata dall’unione dei fedeli
nell’Eucaristia. Si è sempre attribuito
all’Eucarestia il significato simbolico (e quindi secondario) di rappresentare
l’unione dei fedeli tra di loro e loro con Cristo. Il significato primario (non
simbolico ma reale) è quello di essere il rinnovamento incruento del Sacrificio
sulla Croce, che soddisfa l’ira divina e ci procura misericordia per i nostri
peccati. L’Eucaristia come simbolo di
unione dei cattolici è ribadito anche
dalla Mystici Corporis: “Giacché
Gesù Cristo volle che questa mirabile unione, mai abbastanza lodata, per la
quale veniamo congiunti tra di noi e col divino nostro Capo, si manifestasse ai
credenti in modo speciale per mezzo del sacrificio eucaristico…”[6]. Ma come è utilizzato il simbolo da LG? Con il presentare l’unione con Cristo non
solo dei fedeli ma di tutti gli uomini, senza che per “tutti gli uomini” si affermi la
necessità di entrare preliminarmente nella Chiesa cattolica, di
pentirsi, convertirsi e mutar vita.
6. Unione
senza conversione a Cristo
In questa “unione” lo
strumento essenziale sembra esser l’Eucaristia non la Chiesa visibile,
militante appunto. E non deve
quest’ultima (la cui Gerarchia amministra i Sacramenti) considerarsi lo
strumento essenziale della “missione” di Cristo? La “missione” consisterebbe allora
soprattutto nel realizzare l’unità del genere umano e senza dire apertamente
che quest’unità (da un punto di vista cattolico) si può conseguire solo con la previa conversione a Cristo. Un’idea di unità separata da quella di
conversione non resta ambigua, per non dire falsa? Ma, direbbe qualcuno, “esser chiamati a
questa unione con Cristo” non significa forse, in modo indiretto o implicito,
“esser chiamati a convertirsi a Cristo”?
La frase si può certo leggere in questo modo, se si vuole. Vi ostano, comunque, a mio avviso due
osservazioni: 1) perché usare un linguaggio così indiretto? Che motivo c’era di
sostituire “unione” a “conversione”? 2)
“l’unione con Cristo” non è invocata sul presupposto che essa sia l’unica
possibilità di salvezza concessa all’uomo.
L’Eucarestia, adesso, in quanto simbolo, oltre che dell’unità dei
cattolici, ci deve anche dare l’immagine dell’unità del genere umano, in quanto
tale? Non ne risulta uno stravolgimento
del vero significato del simbolo?
7. Unità
dei credenti nella Chiesa, non del genere umano
Se questo significato di “unione” senza
“conversione” si può ricavare da LG 3, bisogna dire allora che esso non si
accorda con la Tradizione della Chiesa, dato che essa ha sempre visto come
scopo della “missione” del Signore (per ciò che riguarda l’idea dell’unità)
l’unità di coloro che credono in Cristo, l’unità di fede, che sola rende
testimonianza al Padre (Gv 17, 7-9; 20-21), non di tutto il genere umano in
quanto tale, mai proposta in passato ed anzi considerata alla stregua di una
pericolosa chimera. I credenti in Cristo
vengono da tutto il genere umano perché gli uomini sono tutti uguali, in quanto
creati da Dio, che non ha “preferenze di persone”: in questo senso solamente, la conversione può
realizzare l’unità complessiva del genere umano. Se si obietta che, nel comandare ai Discepoli
la loro missione, Cristo risorto ha detto : “rendete miei [discepoli] tutti i
popoli” (Mt 28,19), bisogna rispondere che Egli non voleva additar loro l’unità
del genere umano come scopo. Voleva dire
che essi dovevano predicare a tutti i popoli (superando l’esclusivismo
dell’Israele della carne, nel quale era storicamente prevalsa la componente
particolaristica, nazionalistica e millenaristica dell’Ebraismo) per farli
entrare nella Chiesa universale, che non realizza l’unità di tutto il genere
umano (cosa irrealistica, chimerica) ma di tutti i credenti, quale che sia la
loro razza o nazione. E tutti i credenti
non coincidono mai con tutti gli uomini.
Del resto, che tale unità non costituisse lo scopo della sua “missione”,
Nostro Signore non lo dimostra forse quando ci rivela che il Giorno del
Giudizio una parte dell’umanità (non sappiamo ovviamente quanto grande ma
sicuramente non piccola – Mt 7, 13-14) sarà dannata per sempre, per sua propria
colpa? E se una parte consistente dell’umanità se ne andrà in perdizione, ciò
significa che solo una parte si salverà e che nella vita eterna non si avrà
affatto l’unità di tutto il genere umano bensì la sua divisione perenne in
Eletti e Reprobi.
8. La
critica di Mons. Gherardini a LG 1, le sconcertanti repliche del prof. Cantoni
Suscitando le ire del
prof. Cantoni, Mons. Gherardini critica la dottrina proposta da LG 1 sulla
Chiesa come sacramento ossia “segno e strumento dell’intima unione con
Dio e dell’unità del genere umano”. Ecco
il passo, come riportato dal prof. Cantoni:
“Che la Chiesa, in
quanto sacramento di Cristo e sua presenza misterica nella storia dell’uomo,
sia per questo segno e strumento della grazia che salva, è una grande e
consolante verità. Che tra gli effetti
della sua azione sacramentale s’annoveri anche l’unità del genere umano starà
scritto tra le nuvole, ma è lontano dalla più accreditata e consolidata
dottrina ecclesiologica, la quale prevede, sì, un’azione di causalità esemplare
della “Chiesa una” sull’”unità” di tutt’i popoli, ma non una causalità
sacramentale. L’aver sostenuto il
contrario non è, tuttavia, senza significato:
apre alla Chiesa una prospettiva sociologica e perfino socio-politica
[…] Con enorme sorpresa, LG 1 introduce
qui due inesplicabili novità: l’una
relativa alla causa finale e l’altra alla fonte dell’asserto. Allarga la causa finale dalla salvezza eterna
all’”unità dell’intero genere umano” e collega il tutto, anche lo stupefacente
allargamento, ai “precedenti Concili” dei quali intende continuare lo
svolgimento tematico”[7].
Una prima critica del
prof. Cantoni si concentra su quanto Mons. Gherardini scriveva circa trent’anni
fa, quando era meno severo nei confronti del Concilio, e non mette conto
occuparsene, come ho spiegato sopra. In
senso specifico, egli ribatte nel seguente modo:
“In realtà l’”intima
unione con Dio” e “l’unità di tutto il genere umano” di cui parla LG 1 si
devono intendere alla luce di una lettura teologica e quindi unitaria della
Sacra Scrittura, in cui i due episodi di Babele (Gn 11) e della Pentecoste
(Atti 2) si richiamano e si illuminano a vicenda. La divisione che minaccia e impedisce
l’unione con Dio e l’unità dell’uomo con se stesso e con gli altri è dunque il
peccato, a cui si contrappone, come unica forza unicamente proporzionata (anzi
sovrabbondante), l’efficacia salvifica che promana dai sacramenti da cui la
Chiesa è fatta e che essa stessa fa”.
Giovanni Paolo II, precisa l’Autore, ha illustrato questo aspetto nel
1984, nell’esortazione apostolica Reconciliatio et Paenitentia. Ma questo è solo il primo punto. Continua infatti il Nostro:
“Non riesco poi
proprio a capire che cosa ci sia di scandaloso nell’affermare che il Verbo
incarnato causi, mediante la Chiesa che è in qualche modo (quodammodo…)
la continuazione dell’incarnazione stessa, l’unità del genere umano. Mi parrebbe scandaloso affermare il
contrario! Che questa unità non sia
primariamente di carattere sociologico è evidente (che cosa c’entrerebbe allora
“l’intima unione con Dio”?), ma è altrettanto evidente che là dove si produce
per davvero non può non avere anche, a lungo andare, degli effetti sociologici
e politici: la fede cristiana ha fatto l’Europa”. Come sappiamo, quest’unità non comprenderà
tutti, né in questo mondo né nell’altro.
“Non tutti gli uomini, singolarmente presi, partecipano e parteciperanno
di questa “unità di tutto il genere umano”, come non tutti gli uomini
partecipano e parteciperanno (anche se non sappiamo quali e quanti) della
salvezza di Cristo. Questa
consapevolezza però non ha mai impedito ai cristiani di scrivere, ricamare e
scolpire in tanti modi e luoghi “JHS” (Jesus Hominum Salvator)”[8].
L’accenno alla “fede
cristiana che ha fatto l’Europa” mi sembra fuori luogo, per il semplice motivo
che (lo capiscono tutti) “la prospettiva socio-politica” cui allude Mons.
Gherardini, dischiusa da questa nuova missione di unificare tutto il genere
umano, è in realtà quella della “teologia della liberazione” dei popoli nelle
sue varie forme. Essa ha provocato lo stravolgimento dell’attività missionaria
in un’attività rivoluzionaria o a sfondo rivoluzionario che, al posto della
conversione delle anime e della costruzione equilibrata di una società
cristiana, mette le lotte per “la dignità dell’uomo”, per “i diritti umani”,
ivi compresi quelli “delle donne” concepiti in modo simile a certi assunti del
femminismo, lotte da condursi ovviamente assieme a tutte le forze laiche
“progressiste”, anticristiane per definizione. È la prospettiva politicizzata
con la quale le Conferenze episcopali guardano al mondo, passando parte
notevole del loro tempo ad occuparsi di economia, politica, finanza in
ponderosi e velleitari documenti, auspicanti, alla fin fine, la soluzione di
tutti i problemi della terra ad opera di un’istituenda “Autorità mondiale” che
elimini la povertà ed unifichi il mondo!
Si noti come manchi,
nella replica del prof. Cantoni, qualsiasi accenno alla conversione al
Cattolicesimo, per realizzare (l’auspicata) unità del genere umano. La “divisione”, che è anche quella dell’uomo
“con sé stesso”, sarebbe superata dalla “efficacia salvifica” dei Sacramenti.
Ma ci si deve battezzare o no? Si deve o
no entrare nella Chiesa Cattolica (Apostolica, Romana) per conseguire questa
“efficacia salvifica”? Dal testo non lo
si capisce. Mancando un chiaro
riferimento in questo senso, tutto il discorso resta astratto e nello stesso
tempo ambiguo poiché fa apparire un’unità del genere umano che la Chiesa
dovrebbe realizzare senza però convertire nessuno. Ma bastano i Sacramenti da soli a vincere “il
peccato” che divide, senza l’appartenenza alla Chiesa di chi deve fruirne? Forse oggi si è convinti che bastino e anche
siffatta convinzione spiegherebbe il perdurare del grande scandalo delle
cosiddette “liturgie ecumeniche”, con invenzione di riti e partecipazione di
Acattolici di ogni tipo.
In passato le idee
erano nettamente più chiare. Si osservi
quanto scriveva a commento dell’episodio della Torre di Babele l’edizione della
Bibbia della CEI, anteriore al Vaticano II: “Allora Dio, per separare, confuse le lingue;
nella Pentecoste, invece, per unire tutti i popoli in una sola Chiesa, dette
agli Apostoli il dono di parlare le lingue.
Oggi la Chiesa continua il fatto iniziato nella Pentecoste e parla tutte
le lingue, perché si è estesa ad ogni nazione della terra. Sicché tutti i Cattolici, anche se di rito
diverso, credono le stesse verità, recitano il medesimo Credo, obbediscono al
medesimo Papa e appartengono al medesimo regno di Dio. Il loro punto d’incontro è duplice: nelle chiese, ai piedi dell’altare dov’è
Cristo nell’Eucarestia; e nei suoi ministri, in Vaticano ove dimora il suo
Vicario, faro di luce per tutte le genti”[9]. Qui è esposto chiaramente il tradizionale
modo di intendere la missione della Chiesa:
unire tutti i popoli, per quanto possibile, in una sola Chiesa, nella
Chiesa Cattolica Romana, che realizza l’unità di tutti i suoi credenti, non
del genere umano.
9. Un
fine “scandaloso”, preso a prestito dal pensiero profano
Che
quest’unità del genere umano possa apparire “scandalosa” se riferita al
Cristianesimo, come fa capire Mons. Gherardini, ciò risulta a mio avviso già da
questa semplice riflessione: l’ideale
che essa rappresenta attribuisce al “genere umano” un valore autonomo e
indipendente, ragion per cui la supposta sua unità verrebbe a costituire un
fine del tutto terreno e fatalmente “sociologico” ossia “politico”, che metterebbe la Chiesa in contraddizione con la
propria vocazione sovrannaturale, che rimane sempre quella di condurre il
maggior numero possibile di anime (una per una) alla vita eterna, senza
preoccuparsi dell’unità o meno del genere umano.
È noto, del resto, che
tale ideale non proviene dalla Tradizione della Chiesa ma rappresenta
un’aspirazione ed un mito del pensiero laico.
Se vogliamo, una delle sue peggiori utopie. Per il Cattolicesimo, si tratta di un prodotto d’importazione. L’unità del genere umano, quale prodotto
della ragione resasi autonoma rispetto alla Rivelazione, è stato ed ancora è
uno degli obiettivi vorrei dire classici del pensiero moderno e contemporaneo.
Compare nella filosofia della storia di taglio illuministico: dei Condorcet,
dei Kant.
Kant concepisce la
storia come un progresso costante del genere umano “verso il meglio”,
rappresentato dall’affermarsi graduale di un’etica fondata solamente sulla
ragione dell’uomo e di un “diritto cosmopolitico” capace di realizzare, alla
fine, l’unità del genere umano nella “pace perpetua”. Infatti, le tesi 8 e 9
della sua Idea della storia universale da un punto di vista cosmopolitico
(1784), sostengono che la storia non è altro che l’esecuzione “di un piano
occulto della natura per realizzare una costituzione politica perfetta”, in
modo da realizzare altresì “la perfetta unione civile del genere umano”.
Nel pensiero di Mazzini, apostolo dell’idea di
Patria ma rivoluzionario visionario e
panteista in religione, troviamo ripetuta applicazione di un’idea tipica
del socialismo utopistico, quella del Cristianesimo come religione dell’Umanità
che, in nome della Fratellanza Universale, deve realizzare l’unità del genere
umano; rappresentazione del Cristianesimo che ne falsa completamente il
significato, mutandolo in quello di una religione secolare, politica[10].
E
circa la verità a noi rivelata, secondo la quale una parte dell’umanità non si
salverà, quale posizione assume il prof. Cantoni? Replica con un’immagine, quella di Jesus
Hominum Salvator, che a ben vedere va contro la sua tesi. Infatti, essa ci dice che il sensus fidei del
popolo ha sempre ritenuto Gesù “salvatore degli uomini” non di tutti gli
uomini, in quanto tali, come se potesse salvarsi anche chi si rifiuta
coscientemente alla fede in Cristo e alla Grazia.
10. Quante
“salvezze” esistono, per il prof. Cantoni?
Il
lettore avrà notato un’altra stranezza nell’esposizione del Nostro. Egli scrive
infatti: “[…] non tutti gli uomini partecipano e parteciperanno […] della
salvezza di Cristo”. Mi chiedo: c’è forse bisogno di precisare che la
salvezza è la “salvezza di Cristo”?
Esiste forse un’altra “salvezza”, per un cattolico? Una salvezza che non viene da Nostro Signore? Chi scrive “salvezza di Cristo” potrebbe
credere che esistono altre forme di salvezza, non di Cristo. Ma questo sospetto, che il nostro Autore –
sacerdote cattolico – ammetta altri tipi di salvezza, su che cosa si
fonda? Su un altro passo del suo lavoro,
nel quale egli sembra presentare il Corano come portatore di una verità
rivelata, allo stesso modo dei Vangeli!
Polemizzando con le
critiche di Mons. Gherardini alla costituzione conciliare Dei Verbum sulla divina Rivelazione perché essa non
parla mai di “Fonti della Rivelazione”, il Nostro afferma che la critica non ha
motivo di essere perché, scrive, il concilio ha voluto identificare “la parola
di Dio annunciata dalla Chiesa […] con Cristo stesso, essendo lui il culmine e
la pienezza della rivelazione. Così
facendo si voleva evitare una comprensione troppo “concettualista” del sacro
deposito, facendo capire che esso non è un insieme di proposizioni, ma coincide
ultimamente con Cristo stesso”[11]. Confesso che, come semplice credente, non
riesco a comprendere il significato di queste affermazioni. Il “sacro deposito” non consta di articoli di
fede che possano esser spiegati razionalmente, secondo concetti comprensibili, anche se vertono su verità
rivelate che restano inaccessibili all’intelletto umano? Sembra di no.
Esso “non è un insieme di proposizioni”, esso “coincide con
Cristo”. Che significa? Ma arrivo al punto che mi preme. Il fatto che “il sacro deposito” coincida con
Cristo stesso, “dà provvidenzialmente un sapore realistico alla rivelazione
cristiana e contribuisce a distinguerla in modo più netto da altri modelli di
rivelazione, come per esempio quella coranica.
Il cristianesimo non è una “religione del libro””[12].
Dunque, il Corano
costituirebbe “un altro modello di rivelazione”? E che significa affermare “il sapore
realistico della rivelazione cristiana”?
È vera o non è vera? Il prof.
Cantoni crede alla storicità dei Vangeli?
Se ci crede, perché usa un termine così ambiguo come “sapore
realistico”? Ma torniamo al Corano. Esso costituisce dunque, per il Nostro, un
“altro modello di rivelazione”. Una
rivelazione concorrente, per così dire!
Il prof. Cantoni ritiene dunque vi siano più “modelli di rivelazione” e
quindi più “salvezze”. Si comprende
allora perché egli senta il bisogno di scrivere: “salvezza di Cristo”. C’è anche la “salvezza di Maometto”, a quanto
pare. E sicuramente anche quella offerta da tutte le altre religioni, comprese
quelle che adorano i feticci e le forze della natura. Di fronte a tanta
confusione, che sembra proprio il risultato
dall’ecumenismo attuale, figlio del Vaticano II, bisogna ribadire il
vero ossia che per noi Cattolici il Corano non può ritenersi verità
rivelata. Primo, perché è verità di fede
che la Rivelazione (quella autentica) è finita con la morte dell’ultimo
Apostolo, più di cinque secoli prima dell’avvento di Maometto. Secondo, perché il Corano è un libro che nega
tutti gli elementi essenziali del Cristianesimo, sia quelli religiosi in senso
stretto (l’autenticità dei Vangeli, la S.ma Trinità, la nascita miracolosa e la
divinità di Cristo, la sua morte in croce, la Resurrezione) sia quelli che costituiscono
il fondamento della morale cristiana. Il
secondo punto conferma nel merito il primo.
11. Vietato mettere in dubbio la
“continuità” del Vaticano II
E come osa Mons.
Gherardini – continua il prof. Cantoni – mettere in dubbio la “continuità”
dell’insegnamento del Vaticano II a proposito della nuova dottrina che
“allarga” la causa finale dell’azione della Chiesa “dalla salvezza eterna
all’unità del genere umano”?
“Non riesco neppure a
capire in che cosa consista la novità dell’affermazione di un concilio non
materialmente contenuta in quelli precedenti:
quello che dichiara, decreta e definisce il concilio di Trento non è
certamente contenuto nei documenti del concilio di Nicea, ma non siamo perciò
autorizzati a concludere che non ne sia la “continuazione”. Tutto il magistero della Chiesa è un unico
discorso e tutte le volte che riprende a parlare è come se dicesse: dicebamus heri”[13].
Non siamo autorizzati
a concludere che il Tridentino non sia la continuazione del Niceno I perché,
dal punto di vista del Deposito della Fede, ciò che il Tridentino insegna è già
contenuto nel Niceno e non vi contraddice in alcun modo. Ma il Vaticano II ha voluto trarre “nuovi
elementi [nova congruentia] dalla dottrina sacra e dalla tradizione
della Chiesa”, dichiarando naturalmente che essi sono “in costante armonia con
quelli già posseduti”(Dichiarazione Dignitatis humanae, sulla libertà
religiosa, 1). Poiché l’ossequio che
Nostro Signore richiede al credente è sempre un “ossequio razionale” (Rm 12,1), noi fedeli, affidandoci ai princìpi
della recta ratio, abbiamo tutto il diritto di confrontare questi “nuovi
elementi”, non presentati come dogmi di fede ma come princìpi di una nuova
pastorale, con quelli della Tradizione della Chiesa per verificare se sono effettivamente
“in costante armonia” con essi. Il
disastro che si è abbattuto sulla Chiesa dopo il Vaticano II, disastro tuttora
perdurante, rende doppiamente legittimo questo confronto. Certamente, “tutto il magistero della Chiesa
è un unico discorso”. Ma sempre sul
presupposto che in ogni sua parte questo discorso sia fedele al Deposito della
Fede (1 Tm 6,2). Ora, la “novità” non consiste qui solo nel
non esser “materialmente contenuta” la nuova dottrina nei Concili
precedenti: dal punto di vista della sua
qualità, di ciò che essa dice, la novità consiste nell’apparire essa
ambigua e contorta e persino non conforme al Deposito per alcuni aspetti. La questione non è di forma ma di sostanza,
riguarda il merito di ciò che viene proposto. All’analisi imparziale, queste nuove
dottrine, già a causa della forma ambigua, obliqua nella quale vengono esposte,
non sembrano affatto costituire un approfondimento e un chiarimento del
Dogma. Al contrario, esse fanno
addirittura scorgere la presenza di errori già condannati dalla Chiesa, come
per esempio il “pancristismo” precorritore del “neoecumenismo” attuale.
Torniamo ora al nostro
esame parallelo di AeU 1-7 e LG 1-8.
IV.
STRUTTURA GENERALE DI “AETERNUS UNIGENITI” 3-7
1. Sintesi di “Aeternus Unigeniti” 3-7 nel confronto con “Lumen Gentium” 4-8
Dopo aver illustrato
nei suoi primi due articoli l’intenzione (consilium) del Padre e la sua
esecuzione da parte del Figlio Unigenito, lo schema AeU espone l’indole (indoles)
o natura dello “Israele di Dio”, della Chiesa, in sé (art. 3.1) e come risulta
dalle varie “figure” nelle quali è rappresentata (expressa) (art.
3.2). Tra queste figure (regno, casa,
tempio di Dio, gregge, ovile, sposa di Cristo, colonna e fondamento della
verità), la più importante è quella della Chiesa come “Corpo di Cristo”, perché
– si scrive - rende al meglio l’unità della Chiesa con il suo
fondatore e l’unità dell’elemento “sociale” con quello “mistico”, continuamente
presente (art. 4). Si “enuclea” pertanto
la figura del corpo nelle sue componenti (art. 5), per dimostrare alla fine
come la “societas” che è la Chiesa visibile sia “il mistico Corpo di Cristo” ad
opera dello Spirito Santo, condannando, sulla scia della Mystici Corporis,
l’errore (neomodernista) di chi sosteneva una concezione della Chiesa
cosiddetta “carismatica o fondata sull’amore”, del tutto separata dalla Chiesa
visibile e gerarchica (art. 6). Perciò
lo schema, dopo aver delineato la Chiesa come il vero Israele di Dio, Corpo
Mistico di Cristo, termina con l’art. 7 che afferma in modo perentorio e
definitivo esser l’unica e vera Chiesa di Cristo la Chiesa Cattolica
Romana. Per ciò che riguarda l’Ebraismo,
lo schema riafferma in modo netto il principio a fondamento della teologia
della sostituzione, secondo il quale, come dice il nome stesso, dopo il ripudio
del Messia (Nostro Signore Gesù Cristo) da parte dell’ Israele della carne, la
Chiesa, da Cristo stesso fondata, si è inevitabilmente sostituita ad esso nel
disegno salvifico del Padre: essa è ora
l’Israele di Dio, l’unica porta della salvezza.
Lo schema ribadisce in
modo nettissimo l’identità assoluta dell’unica e vera Chiesa di Cristo con la
Chiesa Cattolica Romana, che è pertanto il Corpo Mistico di Cristo.
La struttura di AeU è
ripresa da LG 3-8 ma con consistenti modifiche, provocate sia da
aggiunte di parti nuove che da rilevanti
omissioni. Di LG 3, dedicato alla
“Missione del Figlio”, ho già detto ampiamente.
Colpisce poi l’ampio articolo dedicato allo Spirito Santo (LG 4). Si tratta di un approfondimento specifico del
Vaticano II. In AeU, come vedremo,
l’opera dello Spirito Santo era menzionata in modo più sobrio, rigorosamente
inquadrata nell’ambito del Corpo Mistico, del quale lo Spirito Santo è
considerato per l’appunto “l’anima”.
L’approfondimento apportato dal Vaticano II è stato salutato con
entusiasmo da molti. In effetti,
quest’articolo sullo “Spirito santificatore della Chiesa” è una vera e propria
palinodia dell’azione dello Spirito Santo, costruita utilizzando tutta una serie
di ineccepibili passi neotestamentari e dei Padri della Chiesa. Tuttavia sembrano esserci due sfumature che,
a mio avviso, intorbidano l’atmosfera.
Su di esse mi soffermerò in seguito.
Proseguo ora nella sintesi generale.
Dopo il grande rilievo dato all’azione dello Spirito Santo, LG 5
illustra il mistero della Chiesa esponendo il concetto del “Regno di Dio”. Anche questa parte è nuova rispetto allo
schema AeU. Com’è rappresentato qui il
Regno di Dio? Nella persona, nelle
parole, nelle opere di Nostro Signore (che ha per l’appunto annunciato
l’avvento del Regno di Dio) attraverso la consueta, nutrita serie di
riferimenti a passi evangelici. La “Chiesa”, in relazione al Regno, appare alla fine dell’articolo per ricordarci
che essa deve annunciare ed instaurare in tutte le genti il Regno mentre
costituisce di questo Regno “il germe e l’inizio su questa terra”. Essa poi “anela al regno perfetto”, che
ancora non possiede. Ma questo “regno
perfetto” si trova in questo mondo o nell’altro? Il testo mantiene la dovuta distinzione tra
la natura e il sovrannaturale? Né si
afferma chiaramente la tesi tradizionale: che la Chiesa cattolica sub Petro,
fondata da Gesù, è già l’attuazione del Regno di Dio in terra[14].
L’art. 6 LG riprende
il tema delle immagini della Chiesa.
AeU, come si è visto, si era soffermato soprattutto sulla figura del
“Corpo di Cristo”, che risale a S. Paolo, considerata la più efficace per
capire effettivamente la natura della Chiesa.
LG 6 amplia enormemente l’analisi di queste immagini della Chiesa,
preoccupandosi tra l’altro di stabilire un rapporto tra di esse e l’Antico
Testamento, in quanto immagini già annunziate dai Profeti. Da tutta questa analisi, come già per l’art.
5, emerge soprattutto una visione spirituale ed escatologica della Chiesa, ma
di un’escatologia un po’ particolare poiché il Sovrannaturale non vi si
distingue nettamente.
Né mi sembra che si
cambi impostazione nell’art. 7, che tratta della Chiesa “Corpo Mistico di
Cristo”. Non abbiamo qui una ripetizione
di quanto detto nello schema AeU.
L’articolo, come vedremo, sembra voler accentuare l’aspetto per così
dire “mistico” del Corpo Mistico di Cristo e tutto il discorso sembra vertere
più su Cristo che sul “Corpo di Cristo”, rappresentato dalla Chiesa Cattolica
Romana nella sua realtà storica concreta.
Dopo questa sintetica
presentazione, vediamo ora in che modo AeU delinei la “figura” del Corpo
Mistico di Cristo, scelta tra tutte quelle che rappresentano tradizionalmente
l’immagine della Chiesa.
2. L’“Israele
di Dio” denominato “Chiesa di Dio”, “Corpo di Cristo” e “Corpo Mistico di
Cristo” coincide unicamente con la Chiesa Cattolica Romana, unica vera Chiesa
di Cristo, secondo AeU
L’art. 3.1 di AeU
tratta della natura (indoles) dell’Israele di Dio, manifestata in varie
figure, a cominciare da quella espressa dal termine ecclèsia, Chiesa,
che in greco (ecclesìa) vuol dire originariamente “assemblea”,
“assemblea popolare”, “adunanza” (da ek-kaléo: chiamo fuori) ma che si
traduce anche con “comunità” o “popolo”.
All’inizio dell’articolo si trova il passo cui ho già accennato,
contenente il paragone con l’Antico Testamento, ripreso poi da LG 9 (vedi supra,
cap. III, § 3).
“Pertanto come Mosè
chiamò Chiesa di Dio [Dei Ecclesiam] l’Israele secondo la carne che
peregrinava nel deserto, così Cristo si riferì all’Israele di Dio che avanzando
nell’era presente aspira ad una città futura ed eterna, come alla sua Chiesa,
non solo perché l’acquistò con il suo sangue ma anche perché, dopo averla
preparata al suo fine con i mezzi opportuni, l’edificò su Pietro (Mt
16,18) e sui suoi successori [i Pontefici], nei quali rimanesse in perpetuo il
medesimo Pietro con la sua autorità”(AeU 3.1). E perché gli uomini capissero meglio la
natura della Chiesa, prosegue l’articolo, lui stesso o per mezzo degli Apostoli
la rappresentò con diverse figure e nomi:
“regno, casa di Dio, tempio di Dio, gregge, ovile, sposa di Cristo,
colonna e fondamento della verità”.
Ho messo la parte finale della citazione
iniziale in corsivo sottolineato per metter in evidenza la parte della frase
che è stata lasciata cadere da LG 9, che riporta invece il resto, come ho
ricordato sopra. La parte lasciata
cadere è proprio quella che identifica sin dall’inizio l’Israele di Dio con la
“roccia” costituita per volere di Cristo da S. Pietro; che identifica perciò la
Chiesa di Cristo con la Chiesa Cattolica Romana, i cui Pontefici sono i
successori legittimi di S. Pietro, avendo essi soli mantenuto la continuità
apostolica e dottrinale, come ho già ricordato.
3. Il senso del parallelo con l’Antico
Testamento
Il testo di AeU rinvia
in nota a due passi dell’Antico Testamento per documentare l’appellativo Dei
Ecclesia conferito al popolo ebraico:
Num 20,4 e Deut 23,2. Nel primo
si narra di un principio di ribellione del “popolo del Signore” (Ecclesia
Dei) ovvero del popolo ebraico contro Mosè ed Aronne durante la traversata
del deserto, allorché si era trovato momentaneamente senz’acqua. Nel secondo, si enunciano le categorie degli
esclusi dalla “assemblea di Israele”, ordinando: “Il bastardo nato da meretricio, non entrerà
nella comunità del Signore [Ecclesia Dei] sino alla decima generazione”.
Il riferimento ai
Libri di Mosè permette di stabilire la giusta analogia tra Antico e Nuovo
Testamento, che non è tra cose uguali.
La Ecclesia mosaica è quella limitata e ristretta all’Israele
della carne e riguarda le sue vicende e leggi particolari, anche se
inquadrate nell’economia della
salvezza. Invece la Ecclesia di
Cristo è stata concepita dal Signore e dichiarata “sua”, non solo perché
acquisita con il sacrificio della Croce, perché provvista da Lui dei mezzi
necessari al suo fine sovrannaturale, ma anche perché edificata “su Pietro e i
suoi successori”, cioè sui Romani Pontefici, la cui autorità si fonda
direttamente su Cristo non su quella del collegio apostolico né sulla “carne”
di un’istituzione e di una tradizione meramente nazionali. La Chiesa, pertanto, non si incorpora in un
determinato popolo: il suo “corpo” è
quello di Cristo, che ne è il capo.
Stabilita in modo
netto da AeU 3.1 la differenza tra l’Ecclesia Dei mosaica e l’Ecclesia
Dei fondata da Nostro Signore, AeU 4 inizia l’analisi della Chiesa come
“figura del corpo di Cristo”: nozione fondamentale, che ribadisce l’origine e
la natura sovrannaturale della Chiesa militante, senza attenuarne il carattere
appunto “militante”, terreno e visibile, gerarchico, sociale.
4. La Chiesa come “Corpo di Cristo” in AeU
4
Di tutte le figure
della Chiesa, prosegue il testo, quella del “corpo” occupa il posto principale
“perché esprime in modo più chiaro l’unione dell’elemento sociale [della Chiesa
come societas terrena] con quello mistico”. Il concetto compare in S. Paolo, “ispirato da
Cristo”, in due noti passi: Col 1,18 ed
Ef 1,23: “Ed egli [Cristo] è il capo del
corpo che è la Chiesa”; “…[Egli] è il
capo supremo della Chiesa, che è il corpo di Lui e complemento di Colui che
tutto completa in tutti”.
L’immagine del corpo
implica quella dell’unità del corpo con il Capo, Nostro Signore, e dei membri del
corpo tra di loro. “Perciò – continua
Aeu 4 – tutti coloro che sono entrati nella Chiesa col battesimo e si sono
rivestiti di Cristo nella comunione dei santi [Gal 3, 27], allorché partecipano
dell’unico pane eucaristico, raggiungono il compimento nell’unità dell’unico
Corpo [di Cristo], “perché unico pane ed unico corpo formiamo noi pur essendo
molti, poiché tutti partecipiamo dell’unico pane”” [1 Cr 10,17]. Quest’immagine tradizionale che connette
l’unità del Corpo di Cristo all’unità che simbolicamente si realizza
nell’Eucaristia, è ripresa, come si è visto, da LG 3 (vedi supra, cap.
III, § 5). Ma in AeU 4 l’unità,
conformemente alla dottrina tradizionale, è rigorosamente circoscritta ai soli
battezzati che professino la vera fede in parole e opere (nel modo di
esprimersi di S. Paolo: che si siano
rivestiti di Cristo nella comunione dei Santi) senza accenni ad allargamenti ed
estensioni che giungano a ricomprendere tutti gli uomini, anche i non
convertiti (unità di tutto il genere umano)!
Gli accenni all’estensione dell’unità del Corpo di Cristo a tutti gli
uomini, nel senso appena indicato, sono una caratteristica del Vaticano II.
Stabilito in che senso
l’immagine del “Corpo di Cristo” faccia intendere l’unità dell’elemento
“sociale” con quello “mistico” nella Chiesa, l’art. 5 di AeU procede ad
“enucleare la figura del corpo” nei suoi elementi costitutivi.
Il corpo che è la
Chiesa è innanzitutto “visibile” (oculis cernitur: si scorge con gli occhi, come soleva dire
Leone XIII) ed è composto da molti membri di diversa natura (“chierici e laici,
governanti e sudditi, maestri e discepoli”) che danno luogo a diversi ordini (status)
nella Chiesa stessa, ai quali presiede Cristo, che fornisce le grazie
necessarie per mantenerli nel giusto equilibrio. I vari ordini della Chiesa
sono analizzati nei capitoli successivi dello schema. Ma nella “compagine dei membri del corpo” c’è
un’altra connexio che opera a mantenere l’unità del tutto; connexio
soprannaturale, che risale anch’essa al Signore, da lui illustrata quando ha
detto: “Io sono la vite, voi i
tralci. Colui che rimane in Me e Io in
lui, porta abbondanti frutti; perché senza di Me non potete far nulla” (Gv
15,5). La connessione profonda che
mantiene l’unità della Chiesa visibile, l’unità di un vero e proprio Corpo, è
quindi sempre sovrannaturale ed è prodotta dallo Spirito Santo. La seconda e la terza Persona della
Santissima Trinità concorrono quindi a costituire e a mantenere la Chiesa
visibile come unità, unità dei soli credenti non di tutto il genere umano.
“Così come infatti
Cristo è il Capo del Corpo, allo stesso modo lo Spirito Santo, che inabita nel
Capo e nelle membra, è la sua Anima;
essendo uno, costituisce e tiene tutto il corpo in unità e a tutti i
membri, secondo la misura del dono di Cristo, amministra la grazia e i doni, e
conferisce i carismi. Per tal motivo la
Chiesa è detta essere una persona veramente mistica in Cristo Gesù: “Infatti voi tutti siete uno in Cristo Gesù”
(Gal 3, 28).
Qual è il rapporto tra
lo Spirito Santo e la Chiesa corpo di Cristo?
Lo Spirito Santo è “l’anima” della Chiesa ma senza esser mai
indipendente dal Capo, cioè da Cristo.
Non può esistere un dualismo tra il Capo del corpo e l’Anima dello
stesso. Quest’immagine agostiniana è
ripresa da Leone XIII e successivamente dalla Mystici Corporis. Fuor di metafora: lo Spirito Santo “amministra” (administrat)
e “conferisce” (confert) la grazia, i doni, i “carismi” (nel senso di
doni particolari, eccezionali) ma sempre “secondo la misura del dono di
Cristo”. Questo principio fu ribadito
con estrema chiarezza nella Mystici Corporis[15]. Esso è verità rivelata da S. Paolo. Proviene
da Ef 4,7, da un capitolo nel quale S. Paolo sta spiegando le virtù
fondamentali della vita cristiana: “A
ciascuno poi di noi fu data la grazia secondo la misura del dono di Cristo” [data
est gratia secundum mensuram donationis Christi]. Il “dono”
è molteplice: “Ed egli diede gli
uni apostoli, gli altri profeti, gli altri evangelisti, gli altri pastori e
maestri, per il perfezionamento dei santi [dei credenti fra i Gentili], in
vista dell’opera del ministero, che è l’edificazione del corpo di Cristo…”(Ef
4,11-12). Naturalmente, come mostra il
prosieguo dell’epistola paolina, “i doni di Cristo” non sono riservati al solo
corpo docente della Chiesa nascente, essi sono attribuiti a tutti i membri
della Chiesa, come appunto ribadito da AeU 5. Senza un’illustrazione precisa
dell’opera dello Spirito Santo non si potrebbe definire la Chiesa come “corpo
mistico di Cristo”. E
quest’illustrazione riflette la dottrina ortodossa, il dogma secondo il quale
“la terza Persona della Santissima Trinità procede per spirazione dalla prima e
dalla seconda, come da un solo principio”[16].
5. Il peccato dei suoi membri non lede la
santità della Chiesa
L’ultimo paragrafo di AeU 5 tratta della
santità della Chiesa nonostante i peccati commessi dai “membri malati” che ne
fanno parte.
“Tuttavia i peccati di
costoro offendono in verità la Chiesa ma non ne ledono la santità essenziale;
infatti, la Chiesa è santa soprattutto perché, come sposa di Cristo è
costituita nella santità, genera i suoi membri nella santità e non manca mai di
membri che eccellono nella santità.
Inoltre, non si limita a reprimere i peccati dei suoi membri ma si
adopera affinché questi stessi membri malati siano ricondotti nella pristina
condizione di santità, a volte persino più elevata”.
Avendo definito la
Chiesa come “Corpo Mistico di Cristo”, bisogna spiegare il rapporto che con
esso hanno quei membri che cadano nel peccato.
E chi è, anche tra i cristiani, che non sia peccatore? Il fatto di appartenere alla Chiesa non li
salva dall’eterna dannazione, se induriscono nel peccato. In nota, AeU 5 cita S. Agostino, il quale
insegnava che “anche nel Corpo di Cristo l’amore per la meretrice manda
all’Inferno” (Serm. 349, 2: PL
39, 1530), ove con “meretricis amorem” si devono evidentemente intendere
i peccati della carne in tutti i loro vari aspetti, per maschi e femmine.
Ma perché la Chiesa
può sanare il membro malato del suo corpo, grazie all’uso dei Sacramenti,
istituiti da Cristo come strumenti, se così posso dire, della santità
della Chiesa? Proprio perché è sempre
santa in quanto Sposa di Cristo, il quale, tramite lo Spirito Santo, non
abbandona la sua Chiesa: il peccato del
cristiano “offende” il Corpo Mistico ma senza “lederlo”. Infatti, una cosa è “l’offesa”, un’altra la
“lesione”: i nostri peccati offendono
Dio ma non possono certo lederlo, ferirlo nella sua divinità, ulcerandola o
diminuendola! Idem per la Santa Chiesa, fondata da Nostro Signore. Da sé stessa, proprio perché assistita
sovrannaturalmente dal Signore e dallo Spirito Santo, essa può sempre trovare
le forze per sanare il male al suo interno sia punendo sia esercitando il ministero della misericordia,
che mira al pentimento e alla conversione del peccatore. Inoltre, osservo, se la Chiesa dovesse
ritenersi in quanto tale peccatrice, e quindi esserlo nella sua
totalità, lo status di peccato non dovrebbe coinvolgere, oltre a tutte le
membra, anche il Capo, ossia Nostro Signore?
Se la Chiesa è il “corpo mistico di Cristo” e tale corpo è immerso nel
peccato, come fa a non considerarsi “peccatore” anche il Capo del Corpo? A tali conseguenze aberranti conduce, dunque,
la logica intrinseca all’idea assurda di una Chiesa “peccatrice”.
6. LG 8 sembra attribuire il peccato anche
alla Chiesa come tale
Questo stesso concetto
è ripreso nel penultimo paragrafo di Lumen gentium 8, ma in modo che a
molti è parso ambiguo. Recita infatti il
testo: “Ma mentre Cristo, “santo,
innocente, immacolato” non conobbe il peccato e venne solo allo scopo di
espiare i peccati del popolo, la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori
ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza
continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento [Ecclesia in
proprio sinu peccatores complectentes, sancta simul et semper purificanda,
poenitentiam et renovationem continuo prosequitur]” (LG 8.3). Si vede subito che qui non è stata ripresa la
distinzione di AeU tra “offesa” e “lesione”.
Dobbiamo allora ritenere che il peccato dei Cattolici incida sulla
santità della Chiesa? In effetti, il
testo potrebbe legittimare un’interpretazione di questo genere perché afferma
che, in conseguenza del peccato dei suoi membri, è la Chiesa in quanto tale
ad aver bisogno di “purificazione” e ad avanzare continuamente “per il cammino della penitenza”. Ora, chi, se non il peccatore, ha bisogno di
“purificazione” e di avanzare senza posa “per il cammino della penitenza”? L’idea di una peccaminosità della
Chiesa (notoriamente sostenuta da Karl Rahner) verrebbe dunque insinuata
nell’argomentare obliquo tipico per l’appunto di certi testi del Vaticano
II. Ulteriori riferimenti conciliari
mantengono l’ambiguità e forse l’aggravano (LG 11: coloro che si confessano si riconciliano con
la Chiesa alla quale “hanno inflitto una ferita col peccato”; LG 39: “La Chiesa
[…] è agli occhi della fede indefettibilmente santa [indefectibiliter sancta
creditur]”: in sé stessa o agli occhi della fede solamente? LG 48:
la Chiesa già sulla terra “è adornata di santità anche se
imperfetta”: ma esiste una “santità
imperfetta”? Che significa?).
Secondo AeU 5, invece,
era solo il peccatore ad aver bisogno di “purificazione” e poteva ottenerla
proprio perché la santità della Chiesa non era venuta meno, grazie
all’assistenza divina. È giusto dire che
la santità della Chiesa può essere offesa dal peccato ma non può esserne
“ferita”, perché il peccato non può colpire la Chiesa ontologicamente,
nella sua essenza, che è divina e non umana, e gode sempre dell’assistenza
divina. È la santità permanente della
Chiesa a garantirle quei mezzi (i Sacramenti) mediante i quali essa ci purifica
dai nostri peccati, inducendoci a cambiar vita e a correre verso Cristo come il
Figliol Prodigo verso il Padre.
L’ambiguità di LG 8.3 rafforza la
sensazione di trovarsi in presenza di un diverso e contraddittorio concetto di
Chiesa, visto che ora la si potrebbe intendere contemporaneamente come santa
e peccatrice. Bisogna, inoltre
aggiungere che, se la Chiesa, la Sposa di Cristo, fosse essa stessa
“peccatrice” e quindi sempre “imperfetta” nella sua santità, non potrebbe
trovare in sé stessa i mezzi necessari per purificare i suoi membri peccatori[17].
7. L’errore di chi concepisce una Chiesa
solo “carismatica o dell’amore”
Stabiliti
gli elementi essenziali della Chiesa come “Corpo Mistico di Cristo”, il
penultimo articolo dello schema rigettato, AeU 6, prende posizione contro
l’errore al tempo diffuso ad opera della Nouvelle Théologie, e già
ricordato da me, secondo il quale la natura della Chiesa era soprattutto quella
di essere un ente carismatico o spirituale, del tutto separato dalla Chiesa
gerarchica e militante, sentita anzi come un impaccio, un peso morto. È quasi superfluo rilevare che di questa
precisazione e condanna non v’è traccia nella Lumen Gentium. E come
avrebbe potuto, visto che i profeti della “Chiesa carismatica” come P. Congar
OP, grazie al “buon cuore” di Roncalli, facevano ora parte della Commissione
Teologica?
In ogni
caso, nella Allocuzione di apertura del Vaticano II, l’11 ottobre 1962,
Giovanni XXIII non aveva forse detto che non bisognava più condannare gli
errori ma usare la medicina della misericordia (come se condannare gli errori
non fosse già opera di misericordia nei confronti dell’errante e dei fedeli
messi così sull’avviso - Amerio), dato che gli uomini del Secolo presente erano
talmente progrediti da condannare ormai da sé stessi certi errori? E che dire, allora, del fatto che nel 1961
era entrata in commercio negli Stati Uniti la pillola anticoncezionale, che
avrebbe potentemente contribuito alla cosiddetta “emancipazione” delle donne,
consegnandole in pratica alla corruzione del Secolo? La diffusione degli anticoncezionali, che si
è dimostrata letale per l’Occidente, dimostrava forse che l’umanità ormai
condannava da sé stessa certi errori?
Tanto poco li condannava, che questi errori penetrarono ampiamente nella
Cattolicità, come dimostrò la vasta ribellione, guidata da interi settori
dell’episcopato, che scoppiò quando Paolo VI, pur liberale di temperamento,
dovette finalmente dichiarare illecito l’uso degli anticoncezionali,
nell’enciclica Humanae vitae, del 25.7.1968. Come si sa, questa proibizione è rimasta a
tutt’oggi lettera morta per molti cattolici.
Ma torniamo ad AeU
6. L’argomento dell’articolo è: “La Chiesa in quanto società è il Corpo
mistico di Cristo”. Ossia: il Corpo Mistico non è solo “spirituale” o
“pneumatico” (dal greco pneuma, soffio, spirito), comprende anche la Chiesa
società, visibile, gerarchica, militante.
“Dato dunque che lo
Spirito Santo elargisce molti carismi alla Chiesa, che corrispondono alla sua
indole sociale e alla sua missione divina, in vari offici e ministeri, affinché
coloro che li ricevono, operino unitariamente quali cooperatori di Dio [Dei
adiutores] all’edificazione del
corpo di Cristo, è falso sostenere che la Chiesa gerarchica o giuridica
differisca nei fatti [re] dalla
Chiesa carismatica o dell’amore, come dicono.
Per il semplice fatto che la Chiesa in quanto società [Ecclesia
societas] e il Corpo Mistico di Cristo non sono affatto due cose diverse [haud
binae res sunt], ma la medesima cosa, che si palesa nel suo aspetto umano e
divino; sì da venir assimilata al Mistero del Verbo Incarnato, con analogia di
non piccola importanza”.
In cosa consiste,
dunque, l’errore degli Ammodernanti? Nel
voler ritenere che l’azione dello Spirito Santo si svolga fornendo di doni o càrismi solo la componente
invisibile della Chiesa, agendo quindi
principalmente sul cuore e sul sentimento, che verrebbero così elevati a
componenti di una Chiesa “dell’amore” (per l’umanità) del tutto indipendente
dalla Chiesa gerarchica, ossia dalla Chiesa-società, istituzione. Quest’ultima si troverebbe allora
istituzionalmente (re) fuori dell’azione dello Spirito Santo, non
godrebbe dei suoi doni. Ma ciò è
impossibile, obietta giustamente AeU 6, per il semplice motivo che la Ecclesia
societas, con tutti i suoi ordini, non è stata fondata dagli uomini ma da
Cristo stesso, che l’ha costruita a partire dai Dodici, ossia cominciando
dall’alto, dai quadri, dalla gerarchia, non dal basso, dal popolo dei fedeli,
che doveva ancora esser formato. In
quanto fondata da Cristo, la Chiesa gerarchica e militante gode pertanto dei
doni dello Spirito Santo che, come si è visto, sono sempre, ci rivela S. Paolo,
“secondo la misura dei doni di Cristo”.
Non ha perciò senso
ipotizzare l’esistenza di una Chiesa dello Spirito, del tutto
invisibile, che operi con i suoi doni nei cuori degli uomini ed addirittura si
contrapponga a quella gerarchica. Ed
ancor meno ne ha, pretendere di “riformare” la Chiesa gerarchica in modo da
renderla “carismatica o dell’amore”, come volevano Congar e i suoi amici; cosa
che renderebbe – osservo – il Cattolicesimo una sorta di pappa del cuore. Una concezione del genere riflette le eresie
dei Protestanti, per i quali la vera Chiesa è appunto solo quella invisibile,
costruita dal cuore, dal sentimento, dalla coscienza di ciascuno, e di essa
ogni credente sarebbe il sacerdote, con lo Spirito Santo che lo assisterebbe
nella lettura individuale della Bibbia, qualsiasi cosa creda egli poi di
trovarvi! Inoltre, quell’erronea
concezione non tiene conto del dato storico offerto dai Vangeli, che mostrano
appunto come Nostro Signore abbia fondato nei particolari la Chiesa come realtà
gerarchica e sociale visibile, alla quale ha promesso l’aiuto dello Spirito
Santo, poi inviato in forma sensibile con il miracolo del giorno della
Pentecoste. E come abbia insegnato a
santificarci nella rinuncia a noi stessi e nella lotta contro noi stessi,
ricercando il Regno di Dio e la sua giustizia, non la nostra; a non
abbandonarci alle ingannevoli lusinghe del cuore o del sentimento, sempre
pronti a lasciarsi sedurre dal peccato.
I sostenitori dell’idea
di una Chiesa “pneumatica” proponevano un’ecclesiologia nella quale si
riaffacciavano le eresie dei Modernisti.
Ciò apparve in modo evidente quando si aprì la discussione sullo schema De
Ecclesia rielaborato dalla Commissione Mista, nella 37ᵃ Congregazione
generale del Concilio. “I due primi
interventi, quelli del cardinale Frings e Siri confermarono la profonda
divergenza di vedute esistente all’interno dell’assemblea. Da una parte vi era la concezione della Nouvelle
Théologie, in particolare di Congar, che contrapponeva alla “Chiesa del
Diritto” quella pneumatica dell’Amore; dall’altra la visione tradizionale, che
si rifaceva alla dottrina di san Roberto Bellarmino, letta alla luce della Mystici
Corporis”. Il giorno successivo un
altro esponente dei Novatori, il cardinale cileno Raul Silva Henríquez sostenne
che “la Chiesa deve esser considerata come una comunione di chiese locali,
nello stesso senso in cui san Paolo si rivolgeva alla ‘Chiesa di Corinto’ e
alla ‘Chiesa di Efeso’[una “comunione” retta dallo “Spirito”, più che dal
Vicario di Cristo]. Ruffini, in polemica
anche con Frings, criticò il concetto di Chiesa-sacramento [utilizzato in LG 1]
già usato dall’eretico Tyrrell [gesuita irlandese, uno dei capi del Modernismo,
scomunicato da S. Pio X] e contestò la base scritturistica della collegialità,
ricordando che Cristo disse solo a Pietro:
“Tu sei Pietro e su questa pietra costruirò la mia Chiesa”[18].
La visione di una
Chiesa “pneumatica” o “dello Spirito” separava l’azione dello Spirito Santo da
quella di Nostro Signore, rendendola incontrollata e pencolando verso una
“Chiesa” costituita da “movimenti” di spiritati e invasati dallo “Spirito”, sul
tipo dei c.d. “carismatici” protestanti. Oggi “movimenti” di questo tipo, che
bisognerebbe definire pseudocattolici, hanno invaso la Chiesa Cattolica,
tollerati dall’autorità ecclesiastica.
Ma era proprio questo il modello, c.d. “profetico”, verso il quale
tendeva l’ecclesiologia del “popolo di Dio” propugnata con particolare
intensità dal cardinale belga Suenens[19].
Mi sembra utile
ricordare, a questo punto, che nell’importante enciclica Mediator Dei
sulla sacra Liturgia, del 20.11.1947, Pio XII condannava l’errore di “autori
moderni” i quali, a proposito della liturgia:
“ingannati da una pretesa
più alta disciplina mistica, osano affermare che non ci si deve concentrare sul
Cristo storico, ma sul Cristo “pneumatico e glorificato”; e non dubitano di
asserire che nella pietà dei fedeli si sarebbe verificato un mutamento, per cui
il Cristo è stato quasi detronizzato, con l’occultamento del Cristo glorificato
che vive e regna nei secoli dei secoli e siede alla destra del Padre, mentre al
suo posto è subentrato il Cristo della vita terrena. Alcuni perciò arrivano fino al punto di voler
rimuovere dalle chiese le immagini del Divino Redentore che soffre in Croce
[sic].
Ma queste false
opinioni sono del tutto contrarie alla sacra dottrina tradizionale. “Credi nel Cristo nato in carne – così
Sant’Agostino – e arriverai al Cristo nato da Dio, Dio presso Dio”. La sacra Liturgia, poi, ci propone tutto il
Cristo, nei vari aspetti della sua vita [sino alla sua Passione, Morte e
Resurrezione, continua il Papa, dopo la quale egli ci invia lo Spirito Santo]. E inoltre non ce lo presenta soltanto come un
esempio da imitare, ma anche come maestro da ascoltare, un pastore da seguire,
come mediatore della nostra salvezza, principio della nostra santità, e Mistico
Capo di cui siamo membra, viventi della sua stessa vita. E siccome i suoi acerbi dolori costituiscono
il mistero principale da cui proviene la nostra salvezza, è secondo le esigenze
della fede cattolica porre ciò nella sua massima luce, poiché esso è come il
centro del culto divino, essendone il Sacrificio Eucaristico la quotidiana
rappresentazione e rinnovazione, ed essendo tutti i Sacramenti congiunti con
strettissimo vincolo alla Croce”[20].
Ho voluto ricordare la
riprovazione pacelliana delle false dottrine sul Cristo “pneumatico e
glorificato” che avrebbe dovuto occupare il centro della liturgia cattolica
perché esse sono certamente da connettere alla falsa idea di una Chiesa
“carismatica e dell’amore” alternativa alla Chiesa gerarchica e militante,
condannata da AeU 6. Sembrano
costituirne l’applicazione nell’ambito della riforma liturgica auspicata dagli
elementi deviati del Movimento Liturgico, attivo soprattutto fra le due
guerre mondiali. E la riforma liturgica
posta in essere su impulso del Vaticano II, ha portato o no, di fatto, a vedere
nella Resurrezione – in quanto momento di gaudio e gioia – il momento
essenziale della S. Messa? Tanto per
fare un esempio, la Conferenza Episcopale dell’Emilia Romagna, in un opuscolo
dedicato al confronto-dialogo tra Cristianesimo e Islam, in che modo presenta
sinteticamente la S. Messa agli occhi dei Mussulmani? In questo modo: “La Chiesa fa memoria del Signore Risorto
mettendo in una comunione viva e reale i suoi figli con Dio uno e trino”[21]. In questa definizione, che sembra addirittura
inclinare alla S. Messa intesa come semplice “memoriale” e “sacrificio di
lode”, alla maniera dei Protestanti eretici, non vi è più nessuna traccia
dell’idea della S. Messa come Sacrificio propiziatorio, che ci ottiene
misericordia (propitiatio) per i nostri peccati. Qui la S. Croce non sembra pertanto esser più
il centro del culto divino, il che rappresenterebbe una deviazione terrificante
dalla retta dottrina e liturgia, un vero e proprio tradimento.
8. L’analogia con il Verbo Incarnato
Il secondo e ultimo
paragrafo di AeU 6 spiega l’analogia tra la Chiesa e il Verbo Incarnato.
“Infatti, come nel
Verbo Incarnato la natura umana, quale strumento vivo della sua stessa natura
divina, si dedica alla salute nostra e di tutto il mondo e continua nei cieli a
dedicarvisi [è l’umanità trasfigurata del Corpo Glorioso del Signore, che è
nostro Patrono in Cielo – Eb 7,25], così la Chiesa in quanto società [Ecclesia
societas] riceve i doni [charismatibus] della predicazione, del
sacerdozio, della regalità [di Nostro Signore] affinché essa serva lo Spirito
di Cristo nell’edificazione del Corpo di Cristo. Infatti, questi doni, non altrimenti che gli
altri ricevuti dallo Spirito Santo, devono esser messi a frutto come servizio e
ministero di verità e carità, affinché la salvezza originata da Cristo e
contemporaneamente tutti i benefici che ne scaturiscono, si propaghino a tutti
gli uomini e a tutte le età”[22].
Il senso della non
facile ma tuttavia evidente analogia sembra essere il seguente: il rapporto tra la Ecclesia societas e
il Corpo Mistico è simile a quello tra la natura umana e la natura divina del
Verbo Incarnato, le quali non si confondono mai pur costituendo un’unità
inscindibile nella Persona stessa del Verbo.
La Ecclesia societas, gerarchica e militante, ha ricevuto da
Cristo suo fondatore determinati doni per edificare il Corpo di Cristo, in
un’azione sempre obbediente allo “Spirito di Cristo”, che è altro modo
tradizionale di designare lo Spirito Santo[23]. La Ecclesia societas ha ricevuto i
doni dal suo divino fondatore e li mantiene con l’aiuto dello Spirito Santo
proprio perché unita in terra al Corpo Mistico di Cristo ma senza confondersi
in esso, così come la natura umana è unita, senza confondervisi, a quella
divina del Verbo. La Chiesa gerarchica e militante svolge, pertanto, la stessa
funzione di “strumento” della natura divina espletato dalla natura umana del
Verbo. Separarla dallo Spirito Santo
equivarrebbe a separarla dal Verbo, suo fondatore, il che sarebbe assurdo oltre
che eretico perché equivarrebbe a negare la storicità dei Vangeli.
9. L’unica
e vera Chiesa di Cristo è la Chiesa Cattolica Romana
Tutto
ciò considerato, lo schema si conclude con l’art. 7, che dichiara senza mezzi
termini esser la Chiesa cattolica romana l’unica e vera Chiesa di Cristo: questa è la vera natura della Chiesa
militante. Il titolo dell’articolo
recita: “La Chiesa cattolica romana è il
Corpo Mistico di Cristo”.
“Insegna pertanto il
Sacro Sinodo e professa solennemente che non vi è se non un’unica vera
Chiesa di Cristo, e cioè quella che nel Simbolo celebriamo una, santa,
cattolica e apostolica, vale a dire quella che il Salvatore si acquistò
sulla Croce e congiunse a sé come il corpo alla testa e la sposa allo sposo,
e dopo la sua resurrezione diede a S. Pietro e Successori, che
sono i Romani Pontefici, affinché la governassero; e che pertanto è la sola che
di diritto viene chiamata Chiesa Cattolica Romana”.
Ho messo in corsivo e
sottolineato le parti di questa definizione lasciate cadere dalla
rielaborazione che ne avrebbe fatto la Commissione Mista, sopra richiamata,
inserendo i resti in LG 8.2. La presente
definizione, chiara, semplice e lineare, rappresenta la conclusione logica di
tutto il discorso che la precede, che a sua volta viene condotto in perfetta
continuità con la dottrina tradizionale della Chiesa. Anche in AeU vengono usate le varie
denominazioni tradizionali della Chiesa.
Non c’è però nessuna confusione.
I termini tradizionali usati esprimono tutti una medesima realtà. Il nuovo “Israele di Dio” o “Chiesa di Dio” è
la “Chiesa di Cristo” da lui fondata, che è nello stesso tempo il “Corpo
Mistico di Cristo”, il quale coincide perfettamente in questo mondo con la
Chiesa Cattolica Apostolica Romana, governata dal Vicario di Cristo in terra,
il Sommo Pontefice, Vescovo di Roma, Primate d’Italia.
Ma, durante la fase preparatoria,
proprio contro questo articolo 7 si scatenò l’ira degli Ammodernanti, come si è
detto, in particolare del cardinale Liénart (l’uomo del 13 ottobre) e del
cardinale Bea. Due cardinali di S.
Romana Chiesa, e non erano i soli, non accettavano più una definizione della
Chiesa conforme all’insegnamento di sempre, che identificava la Chiesa
Cattolica Romana con l’unica vera Chiesa di Cristo e quindi con il Corpo
Mistico di Cristo! E non l’accettavano in nome delle esigenze ecumeniche
indicate da Giovanni XXIII, grazie alle quali l’idea e il concetto della vera
Chiesa di Cristo si dovevano poter applicare anche ai “fratelli separati”, i
quali erano (e restano) scismatici ed eretici?
Nel corpo della Gerarchia, agli alti livelli, c’era evidentemente qualcosa
che non quadrava, dal punto di vista teologico.
Ma
vediamo la critica all’articolo avanzata dal cardinale Liénart. Dopo aver detto che lo schema non gli piaceva
perché trascurava l’aspirazione all’unità dei “cristiani separati”, sferrò il
suo attacco in questo modo. “Mi sembra,
disse, che non possiamo “confessare solennemente”, come propone il testo
all’art. 7, che la Chiesa romana e il Corpo Mistico siano l’identica realtà,
come se il Corpo Mistico fosse interamente ricompreso nei limiti della Chiesa
romana. Difatti il Corpo Mistico di Cristo è molto più ampio della Chiesa
cattolica militante. Abbraccia la Chiesa
sofferente al Purgatorio e la Chiesa trionfante in cielo. Dal che si conclude che la nostra Chiesa, per
quanto sia l’aspetto visibile del Corpo Mistico di Cristo, non possa
assolutamente identificarsi con esso”[24]. Il cardinale Liénart ne faceva una questione
di quantità! Poiché l’intero
Corpo Mistico è senz’altro più esteso della Chiesa militante, allora i due non
si identificano. Non diceva
nemmeno: bisogna dire che si
identificano in parte, solo in questo mondo:
non si identificano e basta. Come
se si trattasse di due realtà diverse. E
in nome di questa maggior estensione del Corpo Mistico rispetto alla Chiesa
militante il cardinale rifiutava il concetto tradizionale di Chiesa per
ricercarne uno che si estendesse anche ai “fratelli separati”? La Chiesa Cattolica “militante” non si
identificava con il Corpo Mistico mentre vi si sarebbe identificata una Chiesa
aperta ai “fratelli separati”? Forse che questa nuova “Chiesa” avrebbe
potuto estendersi al Purgatorio e al Paradiso? Ma quando S. Paolo insegnava che la Chiesa
era il Corpo il cui Capo era il Cristo, non includeva quella che poi si è
chiamata Chiesa militante nel Corpo di Cristo ossia nel Corpo Mistico di
Cristo? E la includeva come un qualcosa
di estraneo o come qualcosa che si identificava perfettamente con il Corpo
Mistico di Cristo? Dal punto di vista qualitativo, della sua specifica
natura, la Chiesa visibile fondata in terra da Nostro Signore non si distingue
in alcun modo dalla “pienezza” del Corpo Mistico di cui il Cristo è il Capo in
cielo. È dunque corretto esprimere questa identità assoluta usando il verbo essere,
e dire che la Chiesa militante è il Corpo Mistico di Cristo. E che lo sia in terra è ovvio, risulta già
dall’aggettivo “militante”, che designa da sempre la Chiesa visibile, in questo
mondo. Nell’attaccare lo schema, Liénart
non attaccava solo Ottaviani e la Curia.
Attaccava in realtà l’insegnamento della Mystici Corporis, che a
sua volta (come si è detto) si basava su quello di Leone XIII e risaliva sino a
S. Bellarmino, morto nel 1621; insomma attaccava la dottrina sempre insegnata
dalla Chiesa sulla natura della Chiesa stessa. E gli argomenti che usava non
avrebbero potuto essere sostenuti senza problemi anche da un Protestante?
Con il togliere dall’art. 7 le parti più
significative: dall’aggettivo “vera” al
riferimento alla Croce e ai suoi meriti (sgraditissimo evidentemente ai
Protestanti oltre che a tutte le altre religioni della terra), al Primato di
Pietro e dei suoi successori, la Commissione Mista dimostrava di procedere
nello spirito del cardinale Liénart e dei suoi sodali in Nouvelle Théologie. Ma vediamo ora cosa resta di AeU 3-7 in Lumen
Gentium 4-8.
V. LA
CHIESA DI LG 4-8 É UNA CHIESA DELLO SPIRITO E DELL’AMORE, OSSIA UNA CHIESA NON
GERARCHICA E NON MILITANTE, SEMPRE IMPERFETTA, SEMPRE IN CERCA DELLA PIENEZZA
DELLA VERITÀ?
Cominciamo dunque con
l’esaminare LG 4, dedicato allo “Spirito santificatore della Chiesa”, uno degli
articoli interamente nuovi rispetto allo schema Aeterni Unigenitus. In quest’articolo si riafferma la
tradizionale molteplicità dei doni dello Spirito Santo. Qual è il fine dello Spirito Santo? Il giorno di Pentecoste esso fu inviato “per
santificare continuamente la Chiesa”. Ma anche affinché “i credenti avessero
così attraverso Cristo accesso al Padre in un solo Spirito (Ef 2, 18)”. Nella sua opera di “santificazione”, che cosa
propriamente fa lo Spirito Santo? Esso
“dà la vita”, si intende la vita dell’anima; è infatti “una sorgente di acqua
zampillante fino alla vita eterna (Gv 4, 14-17; 7, 38-39)”, che ci procura la
rigenerazione spirituale: “per mezzo suo
il Padre ridà la vita agli uomini, morti per il peccato, finché un giorno
risusciterà in Cristo i loro corpi mortali (Rm 8, 10-11)”. Dove “abita” (habitat) lo Spirito
Santo? “Nella Chiesa, nei cuori dei
fedeli come in un tempio e in essi prega e rende testimonianza della loro
condizione di figli di Dio per adozione (Gal 4, 6 etc.) ”. Ma lo Spirito Santo non contribuisce anche al
nostro retto intendimento, al giusto discernimento? La sua azione non incide anche sulla sfera
razionale dell’individuo? E difatti, lo
Spirito Santo “introduce la Chiesa in tutta la pienezza della verità”[Ecclesiam
quam in omnem veritatem inducit..](Gv 16, 13). Inoltre, esso “la unifica nella comunione e
nel ministero, la provvede e dirige con diversi doni gerarchici e carismatici,
la abbellisce dei suoi frutti. Con la
forza del Vangelo la fa ringiovanire, continuamente la rinnova e la conduce
alla perfetta unione col suo Sposo”. In
conclusione: “la Chiesa universale si
presenta come “un popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del
Figlio e dello Spirito Santo” (S. Cipriano; S. Agostino)”.
In questa ampia rappresentazione, intessuta di
immagini tradizionali, ci sono però, come ho già detto, alcuni aspetti che non
solo non sembrano affatto coincidere con l’impostazione di AeU ma che fanno
anche scorgere una concezione singolare dell’azione dello Spirito Santo.
1) In AeU lo Spirito Santo contribuisce
all’edificazione del Corpo Mistico di Cristo sempre “secondo la misura dei doni
di Cristo”. In LG 5 questa verità non
viene enunciata in modo così chiaro; essa resta come implicita, per non dire
addirittura sepolta nel riferimento ad Ef 2,18, che in realtà tratta
“dell’unico Spirito” di Cristo che avrebbe affratellato pagani ed ebrei, una
volta diventati tutti cristiani (sull’ulteriore uso conciliare di questo passo
di Ef 2, vedi infra).
2) Secondo la dottrina
tradizionale, lo Spirito Santo non è solo “grazia carismatica”, che cioè
conferisce i necessari doni o carismi spirituali alla Chiesa e ai singoli
fedeli. In quanto Persona della Santissima Trinità, la sua azione (e proprio in
base alle dichiarazioni di Nostro Signore) viene percepita anche come quella di
una persona, di un Soggetto che mostra una personalità, che opera con
discernimento e volontà. La funzione docente
dello Spirito Santo è appunto una di
quelle che lo caratterizza come Persona e non come semplice spirito impersonale[25]. LG 4 ricorda la funzione docente dello
Spirito Santo, ma in che modo?
1. Uno
Spirito Santo che solamente “ci introduce” a “tutta la verità”?
Risulta chiaramente
dal Vangelo che lo Spirito Santo “insegnerà [docebit] alla Chiesa tutta
la verità” della Rivelazione ed insegnerà ai singoli fedeli cosa rispondere ai
persecutori, una volta tradotti nei loro tribunali (“lo Spirito Santo vi
insegnerà [docebit] in quel momento stesso ciò che dovrete dire” – Lc
12,10). In LG 4, invece, lo Spirito
“introduce la Chiesa in tutta la verità” o “nella pienezza della verità”,
secondo il volgare italiano. Il francese dice, ugualmente: “Cette Église qu’il
introduit dans la vérité toute entière..”.
Tra l’insegnare tout court tutta la verità e l’introdurre ad
essa, c’è o no una sensibile differenza?
A me sembra di sì. Un conto è
dire che lo Spirito Santo “vi insegnerà tutta la verità” (docebit vos omnem
veritatem, Gv 16,13), espressione forte, senza sfumature, sia dal lato
dell’azione docente sia da quello della materia insegnata, che è tutta
la verità. Il concetto lo si è reso anche traducendo dal greco in modo più
letterale, scrivendo: “vi guiderà a
tutta la verità”, come nelle edizioni della S. Bibbia della CEI di prima e dopo
il Concilio ma anche in quelle popolari della Pia Società di S. Girolamo,
regnante S. Pio X (“vi guiderà ad ogni vero”).
Il significato è esattamente il medesimo: l’insegnamento dello Spirito Santo è appunto
la preannunciata, sicura guida sovrannaturale a tutta la verità, già predicata
e spiegata da Cristo ma non ancora afferrata compiutamente dai Discepoli.
Altro, invece, è dire
che lo Spirito Santo “ci introduce a tutta la verità” (Ecclesiam, quam in
omnem veritatem inducit..), variando la traduzione latina consolidata del
medesimo passo evangelico sì da conferire all’insegnamento dello Spirito Santo
il valore di una semplice “introduzione”.
Un’introduzione alla verità ha in sé stessa, proprio come concetto,
qualcosa di parziale, l’idea di un vero che si inizia a conoscere ma resta
ancora incompiuto, quanto al suo definitivo possesso. E crea una certa difficoltà pensare ad una
“introduzione a tutta la verità”, proprio perché l’introdurre è sempre atto che
resta parziale e quindi non può riguardare “tutta” la verità.
Ma perché si è voluto
variare il latino della citazione? E
quali le possibili conseguenze di questo mutamento? Può incidere esso sul concetto di verità rivelata oltre che sul modo di
intendere lo Spirito Santo? Il passo
giovanneo è di fondamentale importanza per comprendere in modo esatto la
rivelazione di Nostro Signore a proposito dello Spirito Santo. Esso va inteso nel suo contesto proprio. “Ho ancora molte cose da dirvi, ma per ora
non potete sostenerle”. Si trattava di
verità ancora troppo profonde. “Quando
sarà venuto lo Spirito di verità, egli v’insegnerà tutta la verità; giacché non
parlerà da sé stesso, ma vi dirà quanto udrà, e vi annunzierà le cose che
dovranno succedere. Egli mi
glorificherà, perché prenderà del mio e ve lo annunzierà. Tutto ciò che ha il Padre, è mio; perciò ho
detto che prenderà dal mio e ve lo annunzierà” (Gv 16, 12-15).
Quindi: lo Spirito Santo completerà
l’insegnamento di Cristo, senza tralasciare nulla (“tutta la verità”, rivelata,
ovviamente). E potrà farlo perché
insegnerà “quanto udrà”. Da chi? Da Cristo stesso e dal Padre. Prenderà “del mio” da Nostro Signore, ma “il
mio” di Nostro Signore è sempre “il mio” del Padre, ab aeterno, perché è “tutto
ciò che ha il Padre”. L’insegnamento
dello Spirito Santo agli Apostoli, ivi comprese le profezie, riguardando “tutta
la verità” da approfondire rispetto a quanto già insegnato da Nostro Signore,
avrebbe pertanto concluso la Rivelazione.
E correttamente si è sempre ritenuta come verità di fede la proposizione
secondo la quale la Rivelazione si è conclusa con la morte dell’ultimo
Apostolo. L’insegnamento di “tutta la
verità” da parte dello Spirito Santo porta perciò a compimento il Deposito
della Fede.
Bisogna comunque tener
sempre presente, sottolinea Mons. Gherardini, che da parte dello Spirito Santo
si ha solo una “assistenza conservativa alla verità rivelata, non
un’integrazione in essa di verità altre o diverse da quelle rivelate,
o presunte come tali”. Alla
Pentecoste “non ci saranno ulteriori rivelazioni. L’unica si chiude con coloro ai quali Gesù
sta ora parlando [ai Discepoli, nel Vangelo di Giovanni citato]. Le sue parole si presentano con un
significato univoco, riguardante l’insegnamento da Lui impartito e soltanto
codest’insegnamento. Un linguaggio,
questo, non criptato o cifrato, ma limpido come il sole. Si potrebbe sollevar un’obiezione sulla
prospettiva d’apparente novità in relazione a quello che, ora taciuto da Gesù,
verrà annunziato dallo Spirito Santo; ma la delimitazione della sua assistenza
ad un’azione di guida verso il possesso di tutta la verità rivelata da Cristo
esclude novità sostanziali. Se novità
emergeranno, si tratterà di significati nuovi, non di verità nuove; donde il
giustissimo “eodem sensu eademque sententia” del Lerinense. Insomma, la pretesa d’agganciar
all’assistenza dello Spirito Santo ogni stormir di fronda, voglio dire ogni
novità e segnatamente quelle che commisurano la Chiesa sulle dimensioni della
cultura imperante e della c.d. dignità della persona umana, non solo è un
capovolgimento strutturale della Chiesa stessa, ma è pure un gran segno di
croce sui due testi sopra indicati [Gv 14,16-26 e 16, 13-14]”[26].
Ma se questo insegnamento
diventa una semplice “introduzione” a “tutta la verità”, non lo si accorcia
arbitrariamente, aprendo la via all’idea che esso avrebbe semplicemente
“introdotto” ad una verità che deve ancora completarsi? Un’introduzione, infatti, rinvia di per sé ad
un ulteriore sviluppo. E dove si ferma
questo sviluppo? Il concetto che lo
Spirito Santo “ci introduce” alla verità rivelata, è ripetuto dal Concilio
nella costituzione Dei Verbum sulla divina Rivelazione, all’art. 8, ove
si dice, alla fine: “e lo Spirito Santo,
per mezzo del quale la viva voce dell’Evangelo risuona nella Chiesa e per mezzo
di questa nel mondo, introduce i credenti alla verità intera [credentes in
omnem veritatem inducit] e in essi fa risiedere la parola di Cristo in
tutta la sua ricchezza (cfr. Col 3, 16)”, dove il riferimento paolino va
riferito solo al risiedere della parola di Cristo in noi, in tutta la sua
ricchezza. La traduzione francese è uguale:
“introduit les croyants dans la vérité tout entière”. Del resto, in
questo stesso articolo della DV, non si scrive forse che: ”la Chiesa nel corso
dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina [ad
plenitudinem divinae veritatis iugiter tendit], finché in essa vengano a
compimento le parole di Dio”? Come se la
Chiesa non avesse già il possesso della “pienezza” della verità divina nel
Deposito della Fede, conclusosi con la morte dell’ultimo Apostolo! Altro è dire che la Chiesa deve sempre
tendere alla migliore realizzazione del mandato divino e delle verità di
fede, migliorandosi costantemente nei suoi membri, ecclesiastici e laici,
nell’opera instancabile della santificazione quotidiana. Ma in DV 8 si parla proprio di un “tendere
incessantemente alla pienezza della verità”, come se la verità (rivelata)
tutt’intera la Chiesa non la possedesse ancora; la verità in quanto tale,
non la sua attuazione!
Mi chiedo se l’inducere
in di LG 4 non svolga una funzione analoga al subsistere in di LG
8: quella di introdurre l’idea di
movimento, sviluppo, ampliamento e nello stesso tempo parzialità in ciò che
dovrebbe essere di per sé completo ed immutabile: la verità rivelata una volta
per tutte, verità che comprende la Chiesa di Cristo costruita sulla roccia
rappresentata da Pietro e che può esser oggetto solamente di approfondimenti e
chiarimenti “eodemque sensu eodemque sententia”[27].
2. Un Regno di Dio che si accetta sola fide
e cui si partecipa senza il Giudizio?
Il Vaticano II non ha
mai impiegato in modo esplicito il concetto del sovrannaturale (meritandosi per
questo un famoso elogio di de Lubac) e ciò lo ha esposto all’accusa di non aver
riproposto la distinzione tra natura e sovrannaturale, Natura e Grazia,
favorendo anzi, di fatto, la confusione tra i due regni. Tuttavia, esso ha voluto dedicare un intero
articolo al “Regno di Dio”, che rappresenta per l’appunto il Sovrannaturale per
eccellenza. LG 5 è dedicato appunto al
Regno di Dio in connessione con il “mistero della Chiesa”. Anche quest’articolo è del tutto nuovo
rispetto allo schema AeU. L’articolo non
dice che cosa sia il Regno di Dio, non ne dà una definizione: sembra presupporne la nozione, come se fosse
cosa nota. Né sembra in alcun modo
riproporre l’immagine tradizionale del Regno di Dio come simbolo della Chiesa
in quanto tale (come in AeU) né la qualità sovrannaturale in senso proprio del
Regno, che coinciderà alla fine dei tempi con la Chiesa trionfante nella gloria
indicibile della Visione Beatifica: “O
isplendor di Dio, per cu’io vidi/l’alto trionfo del Regno verace,/dammi virtù a
dir com’io il vidi!” (Par., XXX, 97-100).
Come veniamo a sapere
del Regno di Dio? È Cristo che lo annuncia
e lo manifesta nelle sue parole e opere, con la sua stessa “presenza”, dimostrando
che esso “è arrivato sulla terra”. La
“parola del Signore” è appunto “paragonata al seme che viene seminato nel
campo”, secondo la nota parabola del Seminatore (Mc 4,14). Quelli che la ascoltano “con fede e
appartengono al piccolo gregge di Cristo hanno accolto il regno stesso di Dio
(Lc 12,32), poi il seme per virtù propria germoglia e cresce fino al tempo del
raccolto (Mc 4, 26-29)”. Non si tratta
solo della parola: “anche i miracoli di
Gesù provano che il regno è arrivato sulla terra” poiché Egli ha detto: “Se con il dito di Dio io scaccio i demoni,
allora è già pervenuto tra voi il regno di Dio” (Lc 11,20; Mt 12,28)”. Ma più ancora che nelle sue parole e opere,
precisa il testo, il Regno si manifesta nella persona stessa del Cristo,
“figlio di Dio e figlio dell’uomo, il quale è venuto “a servire e a dare la sua
vita in riscatto per i molti”(Mc 10,45)”(LG 5.1).
Che significa dire che
il Regno di Dio si manifesta soprattutto nella persona stessa di
Cristo? Si noti innanzitutto che si
scrive “Figlio di Dio e Figlio dell’uomo”, senza voler usare termini come
Unigenito o Consustanziale al Padre, che esprimono in modo dogmaticamente ineccepibile la natura divina
del Signore. E si noti, nel volgare
italiano, come il senso del testo di Mc 10,45 sia stato modificato poiché la
“redemptio pro multis (antì pollôn)” è sempre stata resa con “riscatto
per molti”, non “per i molti”, versione che sembra introdurre una certa
ambiguità. La versione francese
recita: “..et donner sa vie en rançon
d’une multitude”.
Dunque: il Regno si manifesta nella persona di
Cristo, che è venuto a dare la sua vita in riscatto “per i molti”. Ma “i molti” come entrano nel Regno di
Dio? Semplicemente attraverso la
“persona di Cristo”, accogliendo il suo insegnamento salvifico e lasciandolo
fruttificare, fino a che è maturo “per il raccolto”? In questo modo possiamo indubbiamente esporre
sinteticamente il rapporto tra la Parola di Cristo e il suo produr frutti in
noi, sino al “raccolto” finale (della vita eterna). Tuttavia, LG 5 non illustra
il concetto dell’”entrare nel Regno di Dio”.
Si limita alla sua manifestazione per opera di Cristo e al suo
accoglimento da parte nostra, con l’atto di fede di chi appartiene al “piccolo
gregge”. E non manca qualcosa, a
siffatta rappresentazione del Regno, per esser completa? Nostro Signore non ha detto qualcos’altro sul
suo Regno, “che non è di questo mondo”?
Si può entrare nel Regno di Dio senza esser battezzati e senza esser
giudicati da Nostro Signore alla fine della nostra vita? E la Chiesa, come viene nominata da LG 5?
La Chiesa, lo
sappiamo, è il Regno di Dio che comincia per noi già qui in terra,
nell’appartenenza alla Chiesa militante.
Ma questa è la dottrina tradizionale, riproposta da AeU. Per LG 5 la Chiesa è “germe e inizio” del Regno
come Chiesa universale santificata dallo Spirito nei modi illustrati da LG 4,
appena richiamato.
“La Chiesa perciò,
fornita dei doni del suo fondatore e osservando fedelmente i suoi precetti di
carità, umiltà e abnegazione, riceve la missione di annunziare e instaurare in
tutte le genti il regno di Cristo e di Dio, e di questo regno costituisce in
terra il germe e l’inizio. Intanto,
mentre va lentamente crescendo, anela al regno perfetto [Regnum consummatum]
e con tutte le sue forze spera e brama di unirsi col suo re nella gloria”(LG
5.2).
È vero che “la Chiesa”
(che qui non è ancora la Chiesa Cattolica) ha ricevuto dal suo fondatore la
missione di “annunziare ed instaurare in tutte le genti il Regno di Dio”, del
quale costituisce quindi “in terra il germe e l’inizio”. Ma vedere solo in questo – in sostanza nella
predicazione della Buona Novella – il nesso tra la Chiesa e il Regno di Dio non
è alquanto riduttivo? A S. Pietro, ossia alla Gerarchia della Chiesa
cattolica, ai sacerdoti, Nostro Signore non ha forse dato “le Chiavi del
Regno”? Nell’unico scarno riferimento ai
nomi della Chiesa contenuto in AeU 3.2, si è visto che tra di essi c’è anche il
“regnum Dei”. In nota, si rimanda a Mt
16,19, alla celebre frase rivolta da Nostro Signore a S. Pietro, che, per
divina ispirazione, l’aveva riconosciuto come il Messia: “E ti darò le chiavi
del Regno dei Cieli”. Il “Regno dei
Cieli”, lo sappiamo, non è cosa diversa dal “Regno di Dio”. E AeU 3.2
rimanda nella stessa nota all’enciclica Satis cognitum di Leone
XIII, del 5.9.1896 sull’unità della Chiesa, ove si legge:
“E per verità al solo
Pietro furono consegnate le chiavi del regno celeste, e a lui, unitamente agli
apostoli, fu dato, per testimonianza della sacra Scrittura, il potere di legare
e di sciogliere”[28].
Come mai in LG 5 manca
del tutto questo fondamentale aspetto del rapporto tra la Chiesa cattolica e il
Regno di Dio, pur accennato in AeU? E lo
sappiamo bene che l’attribuzione di tale potere a Pietro da parte di Nostro
Signore non è mai stata intesa in senso meramente simbolico. Per mandato divino la Chiesa Cattolica (la
Chiesa governata da Pietro e dai vescovi) è la custode del Regno di
Dio. E il custode lascia entrare solo
chi ha i giusti titoli. Se il sacerdote
non ti assolve in confessione, tu resti nei tuoi peccati e se morirai nei tuoi
peccati non entrerai mai nel Regno di Dio. La dottrina tradizionale ha sempre posto nel
dovuto rilievo la natura sovrannaturale del Regno, ribadendo che, con
l’insegnamento e i Sacramenti, la Chiesa “rinnova le anime, disponendole alla
fase ultima del Regno di Dio, che è la vita eterna”[29].
3. Le
ambiguità del “Regno” di LG 5
Il
rapporto tra la Chiesa e il regno sembra per la verità impostato da LG 5 in una
prospettiva soprattutto escatologica, ma si tratta di un’escatologia sui
generis poiché la natura sovrannaturale
del Regno di Dio non sembra mai emergere chiaramente. Il “regno perfetto” cui la Chiesa “anela”,
come sua meta finale, è il Regno dei Cieli nel quale entreranno gli Eletti dopo
il Giudizio universale? Che lo sia,
risulterebbe dal senso tradizionale dell’espressione utilizzata: “Regnum
consummatum”, con la quale, se non erro, si intende il Regno nel quale si
rivela la Visione Beatifica. Ma dire che
la Chiesa, dopo aver costituito in terra “il germe e l’inizio” del Regno, “spera
e brama con tutte le sue forze” di giungere alla Visione Beatifica, è
sufficiente per esporre in modo completo il giusto rapporto tra il Regno di Dio
e la Chiesa? È sufficiente, in assenza
di qualsiasi riferimento al Giudizio e alla divisione finale in Eletti e
Reprobi e al potere delle Sante Chiavi di aprire e chiudere le porte del Regno
di Dio? La “Chiesa” appare inoltre
lontana dal “Regno perfetto” perché vi anela solamente, e “spera e brama” di
“unirsi al suo Re nella gloria”. Non
dice nemmeno, il testo, che spera di entrare nel Regno, alla fine dei
tempi, affermazione che indicherebbe la natura sovrannaturale dello
stesso. La Chiesa di LG 5 appare sempre
imperfetta perché sempre in ricerca.
Ma l’anelare, lo sperare e il bramare possono applicarsi ai singoli
membri della “Chiesa” ma non alla Chiesa in quanto tale, depositaria della
verità rivelata, che già costituisce il Regno di Dio, in terra e nei cieli
(nelle anime di quei Cristiani che già sono in Paradiso e siedono alla destra
del Padre, con Nostro Signore).
Noi sappiamo dai Vangeli
che il Regno è sia esteriore che interiore. Rispondendo polemicamente ai Farisei, che
pensavano sempre al dominio temporale di Israele, Gesù rispose che il Regno “è
dentro di voi”(Lc, 17,21). Se poi
l’espressione deve esser intesa nel senso di “tra di voi” e non dentro ciascuno
di voi (“tra di voi” nell’Ecclesia Dei che stava nascendo con la
predicazione del Signore), ciò non toglie che noi siamo chiamati a “cercare” il
Regno, nel quale entrano solo coloro “che fanno violenza a sé stessi”(Mt 11,12;
Lc 16,16) ossia coloro che combattono vittoriosamente contro sé stessi,
obbedendo così in tutto ai precetti di Cristo e della sua Chiesa. Ma il rapporto tra ciascuno di noi credenti e
il Regno, come risulta da LG 5? Quelli
che ascoltano la parola del Signore “con fede e appartengono al piccolo gregge
di Cristo”, costoro “hanno accolto il regno stesso di Dio [Regnum ipsum
susceperunt]”, che poi germina e cresce “per virtù propria”, come il seme
nel campo, sino al tempo del raccolto. E cosa succederà al momento del
“raccolto”? LG 5 non ce lo vuol
rammentare. Esso si limita a questo:
poiché la parola del Signore annunzia il Regno, chi la accoglie con
fede, accoglie il Regno stesso di Dio e
questa parola cresce in lui per forza intrinseca. Ciò risulta da tutte le parabole del Regno
che lo paragonano ad un seme che cresce lentamente e per forza propria: è la forza della parola di Cristo che
germoglia lentamente nella nostra anima. Ma poi viene il momento del “raccolto”,
che si fa con la falce del Giudizio divino.
Infatti, “accogliere”
il Regno mediante la fede nella predicazione di Cristo, non è sufficiente per entrarvi
alla fine dei tempi. Non basta, come
risulta dalla stessa parabola del Seminatore (Mc 4, 3-20). In questa parabola, Nostro Signore ci rivela
che molti tra quelli che accolgono la parola che annuncia il Regno di Dio non
perseverano nella fede e quindi non entrano nel Regno, perdendosi nelle vie del
peccato. Nel Regno che si attua in
questo mondo (ovvero nella Chiesa) accanto ai buoni ci sono anche i cattivi e
la parabola della zizzania ci rivela che nel giorno del Giudizio il loglio sarà
separato dal buon grano e gettato nella “fornace ardente”. Ma questi fondamentali approfondimenti sono
forse ripresi da LG 5? Non lo sono. E mi
sembra manchino anche negli altri passi conciliari nei quali riappare la
visione del Regno. Dal tenore di LG 5
sembra che coloro che ascoltano inizialmente con fede la parola di Cristo, per
ciò stesso “accolgono” il Regno, che poi matura in loro ex opere operato, sino
al “raccolto”, nel quale evidentemente non succede nulla di particolare. Ridotto a quest’unica e mutila proposizione,
il rapporto tra ciascuno di noi e il Regno non risulta privo delle necessarie
sfumature e non sembra esser risolto a nostro favore dalla semplice fede nella
Parola di Cristo?
Ora, Nostro Signore ci
ha fatto chiaramente capire che il possesso del Regno non è affatto sicuro da
parte nostra senza l’opera della nostra santificazione quotidiana. Non basta la fede, occorrono anche le opere,
a cominciare da quell’opera fondamentale che è la nostra preghiera quotidiana,
nella quale Egli stesso ci ha insegnato ad invocare l’avvento del Regno di Dio,
nel Padre Nostro. Nel Discorso
della Montagna, quando ci esorta a non angustiarci per i nostri problemi
quotidiani perché Dio sa di che cosa abbiamo bisogno e veglia sempre su di noi,
ha detto: “Cercate prima il regno di Dio
e la sua giustizia e tutto il resto vi sarà dato per giunta. Non preoccupatevi dunque per il domani,
poiché il domani sarà sollecito di sé stesso”(Mt 6, 33-34). Qui, il “cercare” indica evidentemente quale
deve essere il corretto atteggiamento dell’anima nostra, che in ogni cosa della
vita deve far prevalere la “giustizia del Regno di Dio” ossia i princìpi
dell’etica cristiana, fondata sulla Rivelazione di Nostro Signore, senza
lasciarsi travolgere dai bisogni del presente, per i quali dobbiamo sempre
rimetterci alla Provvidenza.
Nel Regno non si entra
poi collettivamente, vale a dire grazie ad un accoglimento collettivo
della Parola di Cristo, come qualcuno potrebbe credere in base al dettato
ambiguo di LG 5. I testi sacri sono
piuttosto chiari in proposito.
Per abbassare
l’orgoglio mal posto dei Discepoli che litigavano per stabilire chi tra di essi
dovesse essere considerato “il maggiore”, Nostro Signore fece loro una bella
lezione d’umiltà, ricordando il principio: “chi governa sia come colui che
serve”. Lui stesso era rispetto a loro come uno che governa e tuttavia stava
“in mezzo a loro come uno che serve”. Ed
ecco il punto essenziale. Perché
affannarsi stoltamente per vane ambizioni terrene quando Egli stesso aveva preparato per ciascuno di loro un
posto nel suo Regno, dal quale avrebbe addirittura giudicato le tribù di
Israele? “Voi siete quelli che avete
perseverato con me nelle mie prove; io vi preparo un regno, come il Padre mio
l’ha preparato per me; affinché mangiate e beviate alla mia mensa [del tutto
spirituale] nel mio regno e sediate in trono a giudicare le dodici tribù di
Israele” (Lc 22, 24-30). Il “trono” è
singolo, ci si siede sopra individualmente.
Il Regno che è giunto in questa terra, testimoniato con la predicazione
ed i miracoli di Cristo, è la realtà sovrannaturale ed eterna che Cristo stesso
prepara per ognuno di quelli che avranno creduto in lui e perseverato
sino alla fine. Questo Regno è lo stesso
che il Padre ha preparato per Lui.
Questa verità è ripetuta in Gv 14,1-4.
Durante l’Ultima Cena con il tradimento e la persecuzione incipienti,
nell’incoraggiare i Discepoli, Gesù ripete che i suoi fedeli si riuniranno con
lui nella “Casa del Padre”, che è un altro modo di chiamare il Regno di
Dio. “Il vostro cuore non si turbi. Credete in Dio e credete anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte
dimore; se fosse diversamente ve lo avrei detto, perché io vado a preparare un
posto per voi. E quando sarò andato e
avrò preparato il vostro posto, tornerò e vi prenderò con me, affinché dove
sono io siate anche voi. Voi sapete dove
io vada e ne conoscete la via”. Anche
per ognuno di noi, di noi credenti che con l’aiuto della Grazia (e quindi della
Chiesa Cattolica Romana) avremo perseverato sino alla fine nella fede e nelle
buone opere (“Sii fedele sino alla morte e ti darò la corona della Vita”, Ap
2,10), Nostro Signore ha preparato “un posto” nella Casa del Padre, al quale
accederemo dopo il Giudizio e dopo le opportune purificazioni nel
Purgatorio.
4. Una vena “millenaristica” nella visione
conciliare del ‘Regno’?
Ho ricordato prima che de Lubac elogiò il
Concilio per non aver voluto proporre il concetto del Sovrannaturale. Il termine si trova solo qualche volta come
aggettivo, per esempio in frasi come la seguente, nella quale si coniuga
ambiguamente il concetto profano della “solidarietà” con la Verità
rivelata: “Egli, infatti, assumendo la
natura umana, ha legato a sé come sua famiglia tutto il genere umano in una
solidarietà soprannaturale…” (Decreto Apostolicam Actuositatem
sull’apostolato dei laici, 8). Ma cosa
disse de Lubac? “Il Concilio giudicò più
giusto e più saggio non usare una tale parola in certi contesti per non
perpetuare degli equivoci né ravvivare delle polemiche dando l’impressione di
canonizzare o almeno di favorire una teoria di scuola (detta della ‘natura
pura’ nel senso preciso che essa sosteneva due finalità ultime dell’uomo)”[30]. La cosiddetta “teoria di scuola” è quella
che, da ultimo nella cosiddetta “scuola romana”, ha espresso ed esprime
l’insegnamento costante della Chiesa, sino al Vaticano II, concernente la
gratuità dell’ordine sovrannaturale per l’uomo, il quale gli contrappone spesso
e volentieri la propria natura umana ferita dal peccato originale, capace
quindi, come “pura natura” non illuminata dalla Grazia ma decaduta, di
rifiutare la Grazia stessa e la Salvezza.
È noto che de Lubac, ispirandosi a
Blondel, e Rahner, ispirandosi a Heidegger, cercavano entrambi di dimostrare
che la Grazia deve considerarsi immanente alla natura. In tal modo dissolvevano la Grazia in quanto
dono gratuito di Dio, come insegnato da S. Paolo e da tutta la Chiesa nei secoli,
aprendo appunto la strada ad una concezione cosiddetta “millenaristica” del
Regno dei Cieli, ovvero all’errore secondo il quale (nell’ultima sua
formulazione) il Regno di Dio si realizzerebbe già in terra alla fine
dell’era cristiana, nell’unione pacifica di tutto il genere umano in una sorta
di nuova ed indefinita Età dello Spirito.
Al di là delle fumose
dichiarazioni di teologi neomodernisti come de Lubac e Rahner, il fatto
importante, ai fini della nostra analisi del Concilio, è costituito dall’entusiasmo
dei Protestanti per la chiusura conciliare al Sovrannaturale. Essi dichiararono che l’antropologia
delineata dalla costituzione Gaudium et spes, che riguarda la Chiesa e
il mondo contemporaneo, si segnalava “per la scomparsa della distinzione tra
natura e soprannaturale”, risultando quindi più affine alla concezione
dell’uomo del Protestantesimo[31]. Questa dichiarazione dei Protestanti è o non
è un bel siluro a chi sostiene che la “riforma” dottrinale apportata dal
Concilio è in piena continuità con tutta la Tradizione della Chiesa?
Il Concilio si è in
realtà occupato del Sovrannaturale, anche se non direttamente. Se ne è occupato tutte le volte che ha preso
in considerazione il “Regno di Dio”.
Non molte, ma sufficienti a far vedere la presenza di una corrente
dottrinale più vicina alle concezioni di de Lubac e Rahner che alla dottrina
ortodossa della Chiesa. Così gli spunti
in tal senso presenti in LG 13 e 35, nei quali si esamina il rapporto tra il bonum
temporale dei popoli e il Regno alla luce del contributo che i cristiani
devono dare all’incremento di tale bonum temporale “nel progresso
universale nella libertà umana e cristiana” (LG 35.2); questi spunti trovano la
loro elaborazione finale nella dottrina che espone addirittura “l’attività umana
nell’universo [De humana navitate in universo mundo]”, agli articoli
33-39 della costituzione conciliare Gaudium et spes. In particolare, l’art. 39, intitolato: Terra nuova e cielo nuovo, mostra
l’impronta delle visioni di tipo millenaristico di de Lubac, abbozzate in Catholicisme,
che è del 1937[32].
VI. LE
IMMAGINI DELLA CHIESA, SECONDO LG 6
Come ho già ricordato,
LG sviluppa alquanto il tema delle “immagini della Chiesa”, dedicandogli un
apposito, non breve articolo, il n. 6.
Esso riprende e amplia tutte quelle già presenti in AeU 3.2, con
l’eccezione di due: la Chiesa “colonna e
fondamento della verità” (spostata in LG 8.2) e il Regno di Dio. Si è appena visto che il Regno di Dio è stato
considerato a parte, senza mai dire che esso è da sempre immagine della Chiesa
ed anzi che è la Chiesa stessa, Cattolica, Apostolica e Romana, in quanto Corpo
Mistico di Cristo.
Perché tanto interesse nei confronti delle
“immagini” della Chiesa? La cosa è forse
importante? Lo è sicuramente per una
teologia che vuole affidarsi al “mistero” in maniera sovrabbondante, dato che
l’esplorazione del “mistero” avviene in genere attraverso quel tipo di
conoscenza che si suol definire “simbolica”.
Conoscenza forse affascinante, soprattutto per chi si è nutrito delle labili
categorie del pensiero contemporaneo, ma che facilmente pencola verso
l’irrazionale e quindi da prendersi con le molle. Essa tende a sostituire l’immagine al
concetto, il sentimento al ragionamento, la sensibilità alla morale.
Quali sono le immagini
della Chiesa e cosa si deve dedurre da esse in ordine alla comprensione della
natura della Chiesa? Queste immagini ci
fanno vedere “l’intima natura della Chiesa” e sono in gran parte abbozzate “nei
libri dei profeti” (LG 6.1). Nell’ordine
esse sono: l’ovile; il gregge; il podere o campo di Dio; la vigna scelta della
quale Cristo è la vera vite; l’edificio di Dio, chiamato anche casa di Dio,
dimora di Dio, “e soprattutto tempio santo, il quale, rappresentato dai
santuari di pietra, è l’oggetto della lode dei santi Padri ed è paragonato a
giusto titolo dalla liturgia alla Città santa, la nuova Gerusalemme” (LG
6.4). Pertanto la Chiesa viene anche
chiamata Gerusalemme celeste e madre nostra; immacolata sposa dell’Agnello
immacolato (LG 6.4).
Sull’immagine della
Chiesa “sposa dell’Agnello”, LG 6 si
dilunga. È la sposa che Cristo ha amato,
per la quale ha dato sé stesso per santificarla, che si è associata con patto
indissolubile, che nutre e cura, che, dopo averla purificata, volle a sé
congiunta e soggetta nell’amore e nella fedeltà; che ha, infine, riempito di
grazie celesti, “onde potessimo capire la carità di Dio e di Cristo verso di
noi, carità che sorpassa ogni conoscenza” (LG 6.5). Si tratta di immagini tratte in gran parte da
S. Paolo. Messe insieme in poche righe
sembrano voler celebrare le massime virtù della Chiesa, sposa immacolata di
Cristo.
1. Una Chiesa sempre imperfetta per
definizione
E tuttavia il capitolo si chiude con una
notazione che sembra richiamare di nuovo l’idea di un’imperfezione della
Chiesa. Nell’immagine di una Chiesa peregrinante su questa terra e lontana dal
Signore, riappare di nuovo la Chiesa che anela ad una perfezione che non
possiede, nonostante essa sia la sposa immacolata dell’Agnello. “Ma mentre la Chiesa compie su questa terra
il suo pellegrinaggio lontana dal Signore (cfr. 2 Cor 5,6), è come un esule, e
cerca e pensa alle cose di lassù, dove Cristo siede alla destra di Dio, dove la
vita della Chiesa è nascosta con Cristo in Dio, fino a che col suo Sposo comparirà
rivestita di gloria (cfr. Col 3, 1-4)” (LG 6.5).
Una Chiesa, dunque, che “cerca e pensa alle
cose di lassù”, come se non possedesse la verità rivelata nel Deposito della
Fede, del quale è custode. Il
riferimento a 2 Cor 5,6 mi sembra fuori posto.
Infatti, S. Paolo scrive che noi credenti, in quanto individui
costretti ancora a quest’esistenza mortale, “viviamo nel corpo, siamo
pellegrini lungi dal Signore”, ma ci tiene in vita la fede, grazie alla quale
sappiamo di poter accedere alla “dimora eterna” (2 Cr 5, 1-6). Non è “pellegrina” la Chiesa, sono
“pellegrini” e lontani da Dio i singoli credenti, compresi gli uomini di
Chiesa, finché si trovano a lottare in questo corpo mortale. LG sembra confondere ancora una volta la
Chiesa con i suoi membri, attribuire alla prima i limiti che appartengono solo
ai secondi. Siamo noi i “pellegrini” nel
pensiero di S. Paolo, non la Chiesa in quanto tale. Ugualmente male usato mi sembra il passo di
Col 3, 1-4, che concerne noi credenti, uti singuli, non la Chiesa, non il Corpo
Mistico. È un passo famoso, nel quale S.
Paolo incita i cristiani a vivere per il cielo in ogni momento della loro vita.
“Se dunque siete
risuscitati con Cristo, cercate le cose del Cielo, dov’è Cristo, assiso alla
destra del Padre: aspirate alle cose di
lassù e non a quelle che son sulla terra.
Voi, infatti, siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in
Dio. Ma quando comparirà Cristo, che è
la vostra vita, allora anche voi apparirete con lui nella gloria”(Col
3,1-4). Commenta l’edizione della CEI
del 1963: “Vedi Rm 6,11. Il Battesimo ci fa morire al mondo del
peccato, dà una vita nuova partecipata a noi dal nostro capo glorioso, Cristo”. E quella del 1974: ”La nuova vita cristiana
nasce dalla mistica unione del battezzato
con Cristo e, per lui, con Dio”.
Da questi commentari risulta che il passo si riferisce al singolo
credente non alla Chiesa. Il passo che
può creare difficoltà è quello in cui si dice che il cristiano “è morto e la
sua vita è nascosta con Cristo in Dio”.
Grazie al Battesimo siamo morti al peccato. Se viviamo da buoni cristiani possiamo dire
di esser comunque morti al peccato e che in noi è nato l’uomo nuovo. Ma la vita di quest’uomo nuovo è ancora
“nascosta con Cristo in Dio”. Solo Cristo e Dio la conoscono per ciò che essa
effettivamente è; diventerà di pubblico dominio nel giorno del Giudizio
universale, quando i Giusti appariranno con Cristo nella sua Gloria. I cristiani non devono dunque scoraggiarsi,
se la ricompensa eterna appare lontana, mentre sono ancora qui, a lottare sulla
terra: devono comunque avere il pensiero
fisso “alle cose di lassù”, alla vita eterna, l’unica cosa che conti.
L’immagine dell’esilio da Dio si può
forse applicare alla Chiesa di Cristo?
Si potrà applicare ai singoli credenti, “in esilio” rispetto alla Patria
celeste finché vivono in questo mondo, non alla Chiesa, se essa è il Corpo
Mistico di Cristo. Se Cristo ne è il
Capo, il Corpo non può essere “in esilio” da Lui. Finché la Chiesa conserva la purezza del
Deposito della Fede essa gode dell’assistenza dello Spirito Santo e allora come
può peregrinare “lontana dal Signore” come se fosse “esule”?
L’immagine di una
Chiesa dalla santità imperfetta [!] è ripresa negli ultimi due paragrafi
di LG 8. Sembra che il Concilio (la
fazione progressista che vi si è imposta) tenesse in modo particolare a
sottolineare questo singolare concetto.
Il soggetto del quale si sta parlando qui, non dobbiamo dimenticarlo, è
sempre la Chiesa di Cristo che sussiste nella Chiesa cattolica e negli
“elementi” acattolici al di fuori di essa.
LG 8.3 ricorda
giustamente come Nostro Signore abbia “compiuto la redenzione attraverso la
povertà e le persecuzioni” ragion per cui la Chiesa (di Cristo) “non è
costituita per cercare la gloria terrena bensì per diffondere, anche col suo
esempio, l’umiltà e l’abnegazione” (LG 8.3).
Perciò, come Cristo è venuto “ad annunciare la buona novella ai poveri,
a guarire quei che hanno il cuore contrito” (Lc 4,18), “a cercare e salvare ciò
che era perduto”(Lc 19,10), allo stesso modo “la Chiesa circonda d’affettuosa
cura quanti sono afflitti dall’umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei
sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di
sollevarne l’indigenza e in loro cerca di servire il Cristo”(ivi).
Nel riferimento ai
“poveri”, senza ulteriori determinazioni, qualcuno ha voluto scorgere uno
scivolone verso la c.d. “teologia della liberazione” dal momento che il testo,
non menzionando i “poveri nello spirito” cioè coloro che avranno “il Regno dei
Cieli” (Mt 5,1) perché vivono in spirito di povertà, che è spirito di
mitezza, di giustizia, di misericordia (Mt, 5 passim), sembra ridurre la
missione di Cristo ad una sorta di apostolato sociale cui la Chiesa deve
ispirarsi, privilegiando appunto i “poveri” e i “sofferenti” (in pauperibus
et patientibus). Soprattutto in loro si rifletterebbe l’immagine di Nostro
Signore “povero e sofferente” (pauper et patiens). Ora, si è sempre vista l’immagine di Cristo
anche nel “povero”, in senso materiale, come sembra sia il caso qui, e nel
“sofferente” per la povertà stessa, in colui che la subisce. Ma si è sempre saputo che Nostro Signore è
venuto a “guarire” tutti gli uomini dal peccato, più che ad alleviare le
sofferenze dei poveri, che pur vanno alleviate, per quanto possibile. Lo ricorda il Concilio stesso, citando Lc
4,18: “[sono venuto] a guarire [sanare]
quei che hannno il cuore contrito”. E
chi sono quelli che “hanno il cuore contrito”?
I poveri, gli indigenti? No. Sono
i peccatori in generale, che già soffrono interiormente per i loro peccati: e i
peccatori sono presenti in tutti gli strati della società (“Non sono venuto a
chiamare i giusti ma i peccatori”- Mc 2,18).
Non ci sono peccatori
anche tra i poveri, gli indigenti? Ci
sono di certo anche tra di loro e sarebbe un grave errore trasformare i poveri
in giusti per il solo fatto di essere poveri.
“Va offerto pertanto conforto a chi arde nel forno della miseria; mentre
è salutare il timore incusso a quelli che il conforto della gloria terrena
rende superbi [con citazione di Lc 6,24: “Guai a voi, ricchi, perché avete già
la vostra consolazione”]. È vero,
infatti, che i poveri posseggono
ricchezze invisibili e i ricchi non possono conservare le ricchezze che
posseggono. Tuttavia, la varietà dei
caratteri riesce persino a trasformare la categoria delle persone, tal che è
possibile trovare un ricco umile e un povero superbo. Il discorso va, pertanto, rapportato alla
condotta di chi ascolta. Sarà duro nel
colpire la superbia del povero, non giustificata dalla povertà. Sarà, invece, dolcissimo nel lodare l’umiltà
dei ricchi, se non li inorgoglisce l’esaltante abbondanza”[33].
Non mi sembra si possa
dire che LG 8.3 adotti una prospettiva simile a quella della teologia della
liberazione. Tuttavia, sembra privilegiare
“i poveri e sofferenti” come oggetto dell’attività della Chiesa, con la
conseguente (implicita) elevazione dell’attività di assistenza sociale e
umanitaria della Chiesa a scopo essenziale della Chiesa stessa. Il che non può essere perché l’assistenza
materiale ai poveri (e ai malati), per quanto di grande importanza per gli
assistiti e per la società, non costituisce lo scopo fondamentale della Chiesa,
che resta sempre quello di “guarire quelli che hanno il cuore contrito”, di
curare le anime non i corpi, cioè di convertire i peccatori, ricchi o poveri
che siano, strappandoli al “Principe di questo mondo”.
La “povertà” e la
“sofferenza” di Nostro Signore sono poi le stesse dei poveri? Il paragone è tradizionale ma va inteso nei
suoi giusti termini. Gesù di Nazareth,
secondo la Tradizione, aiutava il padre putativo, S. Giuseppe, nella sua
bottega di falegname: un mestiere valido, dignitoso, sufficiente a far vivere
decorosamente la famiglia. La povertà
fu scelta da Gesù quando cominciò la sua missione, che comportava una
vita da predicatore itinerante, con il suo piccolo seguito, affidati entrambi
al buon cuore di seguaci, amici e parenti.
La scelta della povertà era un portato necessario della sua missione,
impossibile senza il pieno distacco – anche esteriore – dai beni di questo
mondo, rimessi all’aiuto della Provvidenza per le esigenze giornaliere
dell’esistenza. In tal modo Nostro
Signore ha rivalutato il significato della povertà, togliendola dallo stolto
disprezzo con il quale era considerata, senza per questo farne un oggetto
privilegiato della sua predicazione.
Tant’è vero che né Lui né gli Apostoli incitano alle riforme sociali o,
peggio, alla rivoluzione in nome dei “diritti” dei poveri (dei loro “diritti
umani” si direbbe oggi). La condizione
dei poveri e degli schiavi deve piuttosto esser alleviata convertendo i ricchi
alla carità cristiana e quindi a forme sociali via via più giuste (Ef 6, 5-9).
In LG 8.3 ritorna il
tema della “santità imperfetta” della Chiesa, agganciato inaspettatamente
all’attività della Chiesa che vuole alleviare l’indigenza dei poveri, cercando
così di “servire Cristo”. Ho già citato
il passo. Mentre Cristo “santo, innocente, immacolato” non conobbe il peccato e
venne solo allo scopo di espiare i peccati del popolo, “la Chiesa, che
comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa
di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del
rinnovamente” (LG 8.3). Il “servire
Cristo” della Chiesa è dunque sempre imperfetto. Per le inevitabili carenze dei singoli? No.
Perché è la Chiesa stessa ad aver sempre bisogno di “purificazione”,
mediante una “penitenza” ed un “rinnovamento” continui. La Chiesa è dunque “santa” ma in modo imperfetto. Ma può esistere una santità “imperfetta”, mi
chiedo di nuovo? Che significa?
Nell’ultimo paragrafo,
LG 8.4, l’argomento si chiude
ripresentando due temi peculiari al Concilio: la virtù salvifica del Cristo
glorioso (vedi infra, cap. VII, § 2) e (di nuovo) l’imperfezione della
Chiesa. Si scrive che è “dalla virtù del
Signore risuscitato” (non dalla virtù della Croce) che la Chiesa (di Cristo)
trae la forza per superare tutte le difficoltà che le vengono dall’esterno e
dall’interno, e “per svelare in mezzo al mondo, con fedeltà, anche se non
perfettamente [licet sub umbris], il mistero di lui, fino a che alla
fine dei tempi esso sarà manifestato nella pienezza della luce”.
Ma su questa raccolta
di immagini della Chiesa mi sembra doveroso fare altre due osservazioni.
2. L’inserimento equivoco delle immagini di
Israele nelle immagini della Chiesa
La prima riguarda
l’inserimento dell’immagine di Israele nelle immagini della Chiesa. Dopo aver ricordato che per S. Paolo la
Chiesa è come il podere o campo di Dio, il testo così prosegue: “In quel campo cresce l’antico olivo, la cui
santa radice sono stati i patriarchi e nel quale è avvenuta e avverrà la
riconciliazione [reconciliatio facta est et fiet] dei Giudei e delle
Genti (cfr. Rm 11,13-26)”. L’antico
olivo, ci insegna S. Paolo nell’epistola citata, è Israele, dal quale sono
stati però tagliati i rami secchi (i Giudei increduli, persecutori di Cristo) e
nel quale sono stati inseriti quelli nuovi, rappresentati dai pagani che si
sono convertiti a Cristo. Ma un giorno,
che solo Dio conosce, quando sarà entrata “la totalità dei Gentili” anche
“tutto Israele si salverà” (ivi, 25-26), profezia che finora non si è avverata
e che è stata sempre intesa nel senso di una conversione in massa degli Ebrei
alla fine dei tempi, poco prima della Parusìa o ritorno di Cristo nella Gloria,
come Giudice dell’intero genere umano.
La Chiesa è dunque
cresciuta sulle “radici” dell’antico olivo rappresentato dalla fede degli Ebrei
(ivi, 11,17). Non è chiaro, tuttavia,
come “l’antico olivo” possa crescere “nel campo” ossia nella Chiesa, restando
“antico olivo”. Né come sia possibile
che “la riconciliazione” dei Giudei coi Gentili, profetizzata da S. Paolo, sia
anche (già) “avvenuta”. È corretto dire
che “avverrà”, secondo quanto ci annuncia S. Paolo (e non con il c.d. “dialogo”
ma con la “conversione” spontanea dell’intero Israele). Ma appare del tutto incomprensibile affermare
che essa sarebbe anche “avvenuta”.
Quando sarebbe avvenuta? Se i
Cristiani, per restare sempre a S. Paolo, sono i rami nuovi innestati dallo
Spirito Santo al posto dei vecchi tagliati via, ciò non può certamente
considerarsi una “reconciliatio”. La sostituzione
della Chiesa di Cristo all’Israele della carne non rappresenta di sicuro
una “riconciliazione” con l’Ebraismo.
L’antitesi è radicale perché solo la Chiesa è ora il vero “Israele di
Dio”. La riconciliazione avverrà solo
con la conversione di “tutto Israele”, alla vigilia della fine dei tempi. E che ci debba essere questa conversione
finale, quando gli Ebrei si renderanno conto del loro errore nei confronti di
Cristo allorché Dio avrà fatto cadere “il velo” che ancora oscura loro la vista
(2 Cr 3,16) – ciò è perfettamente logico, ci spiega S. Paolo, dal momento che
Dio “non ha rigettato il suo popolo”, che gli è rimasto caro, per le promesse
fatte ai Padri. Non avendolo rigettato, concederà che un giorno il suo
“accecamento” finisca (Rm, 11, 1 ss., 28-29, et passim). Finché Israele non si convertirà, riconoscendo
in Cristo il Messia, il mondo non finirà.
Il concetto espresso da S. Paolo è chiaro: il fatto che Dio abbia
mantenuto “l’elezione” di Israele significa che gli concederà la conversione,
non significa che l’attesa messianica dell’Israele della carne possa
considerarsi ancora valida, in contraddizione con la teologia della
sostituzione.
Ma l’inserimento
dell’immagine dell’antico olivo nelle immagini della Chiesa, come fatto da LG
6, è coerente con il senso evidente e tradizionale dell’insegnamento di S.
Paolo o non sembra produrre una discreta confusione? Confusione perché si parla di una
riconciliazione che sarebbe già “avvenuta” quando l’Ebraismo resta sempre
ostile a Cristo mentre si evita di specificare che la riconciliazione può
avvenire solo in seguito alla conversione degli Ebrei. Nella dichiarazione conciliare Nostra
Aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, come si
è visto nell’Introduzione di questo lavoro, viene ripetuto questo
concetto di una riconciliazione tra Ebrei e Gentili che sarebbe già avvenuta per
mezzo della Croce, grazie alla quale Cristo ha fatto dei due una sola cosa in
sé stesso (NAet 4.3). Ma il testo di S.
Paolo che si cita (Ef 2, 14-16) ancora una volta, ribadisce che la
“riconciliazione” ha luogo solo con la conversione di entrambi al Cristianesimo. Dice infatti l’Apostolo delle Genti ai pagani
convertiti: un tempo voi eravate
“all’infuori di Cristo” cioè ancora pagani nonché “esclusi dalla cittadinanza
d’Israele ed estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio nel
mondo”. Si intende: esclusi dalla
cittadinanza divina d’Israele, popolo eletto con “i patti della promessa”. Ma grazie a Cristo, al quale vi siete
convertiti, “voi che eravate lontani siete diventati vicini nel sangue di
Cristo”. “Vicini”, a chi? Agli Ebrei che hanno rifiutato Cristo e
perseguitano i suoi seguaci? Non può
essere. “Vicini” a Cristo ossia agli
Ebrei convertiti. L’ebreo che ha riconciliato i Gentili con gli Ebrei è Cristo
stesso, il Messia nel quale l’Ebraismo trova il suo compimento finale. Cristo “è la nostra pace” perché “ha fatto
delle due cose [Ebrei e Gentili] una sola, togliendo di mezzo il muro che li
separava, cioè l’inimicizia”; infatti, “nella sua carne annullò co’ suoi
precetti la Legge delle prescrizioni [giudaiche], al fine di ridurre in sé
stesso, artefice di pace, i due in unico uomo nuovo [il Cristiano], e
riconciliarli entrambi in un corpo unico a Dio [la Chiesa di Cristo] per mezzo
della croce, uccidendo in sé ogni inimicizia”[34]. Le “due cose” diventano una sola nell’”uomo
nuovo” rappresentato dal Cristiano, verità che, a mio avviso, non compare
affatto nei passi del Concilio analizzati, che utilizzano S. Paolo in un modo
che mi sembra alquanto ambiguo. La
“riconciliazione” paolina è unilaterale, va in una direzione sola ossia può
aver luogo solo nella vera Ecclesia Dei, alla quale verranno un giorno
tutti gli Ebrei.
Nell’inserimento
equivoco dell’immagine dell’antico olivo tra le “immagini della Chiesa”
appare quella che a me sembra una sopravvalutazione dell’Antico Testamento da
parte dei Novatori. Mi sembra presente
in Dei Verbum 16, articolo nel quale si parla di “unità dei due
Testamenti”, scrivendo: “[…] i libri del Vecchio Testamento, integralmente
assunti nella predicazione evangelica, acquistano e manifestano il loro pieno
significato nel Nuovo Testamento (cfr. Mt 5, 17 etc.), che essi a loro volta
illuminano e spiegano [illudque vicissim illuminant et explicant]”. È
vero che da certi passi dell’Antico si possono comprendere meglio alcuni del
Nuovo Testamento (vedi infra, cap. XVII, § 5). Ma non è azzardato affermare come principio
generale e assoluto che i libri dell’Antico Testamento, in quanto tali, “a loro
volta illuminano e spiegano” quelli del Nuovo? E per di più in blocco? E questo della totale reciproca “illuminazione
e spiegazione” dei due Testamenti è diventato una sorta di dogma
ermeneutico! Non si sente qui
l’infiltrazione della “falsa esegesi”
(dei Nuovi Teologi) condannata da Pio XII nella Humani generis? Esegesi “chiamata simbolica e spirituale”,
secondo la quale “i libri del Vecchio Testamento, che oggi nella Chiesa sono
una fonte chiusa e nascosta, verrebbero finalmente aperti a tutti” risolvendo
una volta per tutte [!] le difficoltà di chi si attiene al senso letterale
delle Scritture?[35]
L’apertura dell’Antico
Testamento al popolo l’ha fatta la montiniana Messa del Novus Ordo, che
ne offre regolari estratti nella domenicale Liturgia della Parola. Come dimenticare l’autentico martirio che
subiscono quei Sacri Testi, affidati alla lettura di laici più o meno
volonterosi, maschi e femmine che quasi mai danno l’impressione di capire
quello che stanno leggendo? Non che la
lettura dei contigui passi del Nuovo Testamento migliori di molto la
situazione, ovviamente, peggiorata poi ulteriormente dal pistolotto a sfondo
social-umanitario nel quale si rifugia in genere la predica dell’officiante,
smarrito di fronte alla mole di Vecchio e Nuovo Testamento che gli viene
propinata, per esser da lui trasfusa in qualche modo nel sermone.
3. La scelta delle immagini mostra
continuità con AeU?
La seconda
osservazione è di carattere più generale.
Da tutto questo florilegio emerge un’immagine della Chiesa che sia in
armonia con quella proposta dallo schema Aeterni Unigenitus? In quest’ultimo, l’immagine prevalente era
sempre quella della Chiesa militante, inquadrata nel Corpo Mistico di
Cristo. Ora il carattere militante
della Chiesa non viene più ricordato, con conseguente scomparsa delle immagini
connesse, ricavate da S. Paolo e dal Vangelo di Giovanni: la milizia, il cristiano come soldato di
Cristo, la lotta contro sé stessi e il mondo, il combattimento, anche come
competizione dell’atleta (il Cristiano atleta di Cristo). Tutto questo lo si considera ormai
anticaglia: la Chiesa non ha nemici e non ne hanno nemmeno i Cristiani. Si vuole evidentemente rinnegare ogni
immagine che implichi l’idea di lotta, combattimento, nemico da affrontare
(anche dentro di sé), contrapposizione radicale con il mondo “regno del
principe di questo mondo”: insomma, ogni
immagine che individui la Chiesa come “segno di contraddizione” nei confronti
del mondo, esponendola all’odio e alla persecuzione.
Inoltre, AeU precisa
che le “immagini” della Chiesa realizzano sempre una sintesi tra l’elemento
“mistico” e quello “sociale”. La sintesi
tra i due aspetti (Chiesa visibile ed invisibile) sembra essersi persa in LG,
dal momento che sembra prevalervi l’elemento “mistico”, nel senso però di misterico;
o, in modo affine, spirituale nel senso di uno “Spirito” dai tratti
tendenzialmente indefiniti. Un’ulteriore
differenza con lo schema rigettato è data dal fatto che attraverso una certa
lettura delle immagini della Chiesa si insinua una ambigua rappresentazione
dell’Ebraismo da un lato e del Sovrannaturale dall’altro.
L’immagine
resta nel campo puramente simbolico solo per modo di dire, dato che vi compare
sempre il modo nel quale si intende la cosa concreta, vale a dire il concetto
di Chiesa che dette immagini vogliono rappresentare. Tale concetto, come inteso da LG, si precisa
ulteriormente nell’analisi del concetto di Corpo Mistico.
VII. UN
“CORPO MISTICO” (LA CHIESA) INCENTRATO SUL CRISTO, CHE HA GIÀ REDENTO L’UOMO
CON LA SUA INCARNAZIONE, MORTE E RESURREZIONE?
Vengo pertanto
all’ultimo articolo della Lumen gentium, tra quelli che precedono il
famoso n. 8. Qui viene riproposto il
concetto del Corpo Mistico che, come si è visto, costituiva il cuore
dell’argomentazione di Aeternus Unigeniti.
Il testo di LG 7, che
si intitola : La Chiesa, corpo mistico di Cristo, è molto più
ampio. Dell’impostazione di AeU sembra
esser rimasto poco o nulla. In apertura,
si connette l’unione mistica del Corpo di Cristo nello Spirito Santo con la
redenzione dell’uomo. Quest’ultima,
però, è presentata come se fosse avvenuta direttamente con
l’Incarnazione, Morte e Resurrezione di Nostro Signore. Già avvenuta, sembrerebbe, come la
“riconciliazione” tra Ebrei e Cristiani.
“Il Figlio di Dio,
unendo a sé la natura umana e vincendo la morte con la sua morte e
resurrezione, ha redento l’uomo e l’ha trasformato in una nuova creatura (Gal
6,15; 2 Cr 5,17). Comunicando infatti il
suo Spirito, costituisce misticamente come suo corpo i suoi fratelli, che
raccoglie da tutte le genti”(LG 7.1).
1. La redenzione direttamente da Cristo,
indipendentemente dalla Chiesa?
Di questo periodo non
sono riuscito a trovare un aggancio nello schema Aeternus Unigeniti, in
particolare della sua prima frase. La
seconda ripropone in generale la “comunicazione” dello Spirito Santo, in quanto
costitutiva del Corpo Mistico. Le due
frasi sono collegate dallo “infatti” (enim). Se si guarda bene, tuttativa, il loro nesso
non è così lineare come potrebbe sembrare a prima vista. Si afferma perentoriamente e senza sfumature
che il Figlio di Dio con l’Incarnazione, la sua Morte e la sua Resurrezione “ha
redento l’uomo e l’ha trasformato in una nuova creatura”. E ciò risulta dal fatto (“infatti”) che ha
comunicato il suo Spirito ai “suoi fratelli” ovvero agli uomini (Eb 2,11-18),
in tutte le genti, costituendoli “misticamente come suo corpo”.
Il
Cristo costituisce dunque gli uomini “suoi fratelli” in un corpo mistico,
inviando lo Spirito Santo. La
redenzione, noi sappiamo, può aver luogo solo nel Corpo Mistico che è la
Chiesa. E la Chiesa è nata con la Pentecoste, con l’invio dello Spirito
Santo. Anteriormente, essa era già
cominciata con la predicazione di Nostro Signore e l’invio delle prime
“missioni” degli Apostoli. Ma solo con
l’effusione dello Spirito Santo si ha la compiuta formazione della Chiesa, come
Corpo Mistico di Cristo. Ma se si dice
che Cristo con l’Incarnazione, Morte e Resurrezione ha redento l’uomo, ciò non
significa dire che la redenzione, che trasforma l’uomo in una nuova creatura,
ha avuto luogo prima dell’invio dello Spirito Santo, cioè prima della
nascita della Chiesa? E se le cose
stanno così, allora non si spiega l’”infatti” della seconda frase, che sembra
invece attribuire la redenzione all’azione dello Spirito Santo che costituisce il
Corpo Mistico, quindi posteriormente all’Incarnazione, Morte e Resurrezione del
Signore.
Ma andiamo a vedere i
riferimenti scritturali paolini della prima frase: Gal 6,15 e 2 Cr 5,17. La perìcope della
Lettera ai Galati si trova nella chiusura della lettera. Polemizzando con i Giudaizzanti, che volevano
far circoncidere i Galati convertitisi al Cristianesimo perché a loro erroneo
giudizio i Cristiani dovevano continuare ad osservare le pratiche giudaiche, S.
Paolo ribadisce che l’unica cosa che conta è l’essere “una creatura nuova”
ossia convertito a Cristo nella fede e nelle opere. “Quanto a me sia lungi il gloriarmi d’altro
che della croce del Signor nostro Gesù Cristo, per la quale il mondo è stato
per me crocifisso, e io pel mondo. Né la
circoncisione ha valore, né l’essere incirconciso; ma l’essere una creatura
nuova” (Gal 6,14-15). Non contano le
pratiche formali, quali che siano, giudaiche o altre: conta l’esser un vero seguace di Cristo,
vivere effettivamente come “l’uomo nuovo” che il Battesimo fa nascere in
noi. E questo è possibile solo nella
Chiesa ovvero mettendo in pratica gli insegnamenti (nella fattispecie) di S.
Paolo, attraverso il quale parla il Signore.
L’altro testo è tratto da 2 Cr 5,17.
Esso recita: “Sicché, se uno è in
Cristo, è una creatura nuova, quel ch’era vecchio è sparito, ecco è sorto il
nuovo”. Solo se uno “è in Cristo” può
essere “la creatura nuova”, richiesta dallo stesso Cristo (Gv 3,5). Che vuol dire “se uno è in Cristo” (óste
ei tís en Christô)? Se uno si è
convertito, si è fatto cristiano, entrando nella Chiesa o Corpo Mistico. Solo a questa condizione può diventare un
“uomo nuovo”. Nuovo, si intende,
sempre nel senso voluto da Nostro Signore.
Ora, da questi due
testi dell’Apostolo delle Genti si ricava forse l’impressione che l’uomo sia
stato redento e trasformato “in una nuova creatura” direttamente
dall’Incarnazione, Morte e Resurrezione di Nostro Signore? Secondo me, no. S. Paolo si limita a dire che ognuno di noi
può essere la “creatura nuova” desiderata da Cristo, solo “se è in Cristo”,
cioè se vive da buon cristiano, in pensieri, parole e opere, obbedendo ai
precetti della Chiesa. E questo non è
possibile se non si fa parte della Chiesa o Corpo Mistico di Cristo.
L’apertura di LG 7
presenta dunque un tratto decisamente nuovo rispetto ad AeU, un tratto che fa
difficoltà perché sembra suggerire l’idea di una redenzione attuata direttamente
dal Cristo con l’Incarnazione, Morte e Resurrezione, prima ancora della nascita
della Chiesa da Lui fondata ad opera dello Spirito Santo. Fa difficoltà, questo tratto, perché richiama alla mente il “pancristismo” di
blondeliana memoria (ripreso da de Lubac e Teilhard de Chardin) secondo il
quale il Cristo con l’Incarnazione, Morte e Resurrezione avrebbe già salvato il
mondo, senza bisogno della Chiesa[36].
Ma vediamo ora
rapidamente gli elementi essenziali del Corpo Mistico secondo LG 7. Lo stile dell’argomentazione è simile a
quello di LG 6 sulle immagini della Chiesa.
Anche qui le immagini abbondano e abbondano anche le ripetizioni (una
costante nel prolisso argomentare del Vaticano II). Le immagini sono ovviamente tradizionali come
pure i concetti che ad esse si ricollegano, le une e gli altri ricavati in
genere da S. Paolo. Bisogna però vedere
come vengono utilizzati, per affermare quale concetto di Corpo Mistico.
La “vita di Cristo” si
diffonde nel Corpo di Cristo ai credenti attraverso i Sacramenti, mediante i
quali i credenti “si uniscono in modo arcano e reale a lui sofferente e
glorioso” (LG 7.2). Quest’affermazione
sulla presenza del Cristo glorioso nei Sacramenti si appoggia su una citazione
di S. Tommaso, della quale parlerò tra breve.
Il Battesimo ci rende conformi a Cristo, tramite il Battesimo siamo
simbolicamente uniti a Lui nella Morte e Resurrezione (Rm 6, 4-5). Nell’Eucaristia “siamo elevati alla comunione
con lui e tra di noi”; l’Eucaristia è simbolo di unità, essa crea un solo corpo
(concetto già visto in LG 3).
Nel Corpo Mistico di
Cristo “vige una diversità di membri e di offici” (LG 7.3). Ma “uno è lo Spirito”, che “distribuisce la
varietà dei suoi doni con magnificenza proporzionata alla sua ricchezza e alla
necessità dei ministeri. Tra i doni “eccelle quello degli apostoli” cioè le
grazie loro conferite. Lo Spirito
“produce e stimola la carità tra i fedeli” (ivi). Nel penultimo paragrafo (LG 7.7), si riprende
il discorso sullo “Spirito”, utilizzando l’immagine agostiniana dello Spirito
Santo come “anima” del Corpo Mistico, già presente nel Magistero precedente e
da ultimo in AeU, come si è visto. E
nell’ultimo paragrafo (LG 7.8) si ripete l’immagine della Chiesa come “sposa di
Cristo”.
Dopo essersi
soffermato sullo Spirito Santo, il testo si concentra sulla figura di Cristo
stesso, “capo” del Corpo Mistico, “che è la Chiesa”. Sono elencati molti degli attributi del
Cristo che si desumono dalle lettere di S. Paolo. Egli “è l’immagine dell’invisibile Dio e in
lui tutto è stato creato. Egli è
anteriore a tutti, e tutte le cose sussistono in lui. È il capo del corpo, che è la Chiesa. È il principio, il primo nato di tra i morti,
affinché abbia il primato in tutto”(Col 1,15-18)”(LG 7.4). Il testo omette dalla citazione della Lettera
ai Colossesi la pericope nella quale si afferma che “tutto per mezzo di lui e
in vista di lui fu creato [omnia per ipsum, et in ipso creata sunt]”
(ivi, 1,16): omette il passo dal quale
appare con chiarezza che il Verbo ha creato il mondo, dal quale risulta con
maggior forza la sua natura divina.
Cristo “domina sulle
cose celesti e terrestri” e “riempie delle ricchezze della sua gloria tutto il
suo corpo”. Perciò “tutti i membri
devono conformarsi a lui, finché Cristo non sia in essi formato”. Siamo pertanto “collegati ai misteri della
sua vita” finché con Lui regneremo.
Nella nostra peregrinazione terrena, veniamo associati alle sue
sofferenze e “soffriamo con lui per essere con Lui glorificati”(Rm 8,17)”(LG
7.5). Nel suo corpo, “che è la Chiesa”,
Egli dispensa continuamente “i doni dei ministeri”. Grazie ad essi, “ci aiutiamo vicendevolmente
a salvarci” e andiamo “crescendo verso colui che è il nostro capo”(LG
7.6). Segue infine il richiamo
all’azione “del suo Spirito”, del quale ci ha resi “partecipi”, che è “l’anima”
della Chiesa, ed il paragrafo finale, dedicato alla Chiesa. La Chiesa, sposa di Cristo, gli è soggetta
come al suo Capo. Cristo riempie la
Chiesa dei suoi doni – essa che è il suo Corpo e la sua pienezza (Ef 1,22-23) –
affinché essa sia protesa e pervenga alla pienezza totale di Dio [omnem
plenitudinem Dei] (Ef 3,19).
Pienezza totale che, evidentemente, la Chiesa ancora non possiede. Tuttavia, sono costretto a ricordare che
anche in quest’ultima perìcope, S. Paolo si riferisce ai singoli fedeli non
alla Chiesa: egli prega Dio perché
conceda loro la grazia della fede, in modo che essi possano comprendere tutta
la portata dell’amore di Cristo, “che sorpassa ogni scienza, affinché siate
ripieni di tutta la pienezza di Dio” (Ef 3, 14-19).
Della frase di apertura di LG 7 e delle
difficoltà che essa comporta, ho già detto.
Voglio sottolineare un uso a mio avviso non convincente dell’autorità di
S. Tommaso al fine di far dipendere l’azione salvifica dei Sacramenti anche dal
Cristo glorioso.
2. Uso improprio di un passo di S.
Tommaso
Vengo quindi a LG 7.2,
nel quale si nominano i Sacramenti citando a sostegno S. Tommaso in nota, in
modo da dar l’impressione che l’opinione
espressa nel testo sia fondata sul pensiero dell’Angelico. Di cosa si tratta? Del fatto che, nel ricordare la funzione dei
Sacramenti nel “Corpo di Cristo”, si ribadisce che i credenti mediante i
Sacramenti “si uniscono in modo arcano e reale a Lui sofferente e
glorioso”. Dov’è il problema, si
chiederà il lettore. La frase non è
forse corretta, dal punto di vista dogmatico?
Lo è, ma l’aggettivo “glorioso” aggiunto a “sofferente”, sulla supposta
autorità di S.Tommaso, non introduce una nota ambigua? Il “glorioso” vorrebbe dire che nei
Sacramenti, quali ad esempio la S. Comunione, noi celebriamo, oltre al Cristo
sofferente, anche il Cristo nella Gloria e quindi che la S. Comunione ricava il
suo significato non solo dal Sacrificio della Croce ma anche e in pari modo
dalla Resurrezione. Il che non è, perché
tra le due c’è un rapporto di causa ed effetto[37]. E non lo è nemmeno per S. Tommaso, così come
non lo è nella Messa cattolica di sempre.
La Resurrezione è sì nominata nella S. Messa di Rito Romano Antico (detta
impropriamente Tridentina), ma solo nell’Anàmnesi, ossia nella preghiera
che, immediatamente dopo la Consacrazione, dichiara espressamente che il S.
Sacrificio della Messa ricorda e rappresenta quello della Croce: ”..ricordando la beata passione del medesimo
Cristo tuo Figliolo, nostro Signore, la sua resurrezione dai morti, e la sua
gloriosa ascensione in cielo, offriamo all’eccelsa tua maestà, delle cose
che ci hai donate e date, l’Ostia pura, l’Ostia santa, l’Ostia immacolata, il
Pane santo della vita eterna e il Calice della perpetua salute”.
Questa preghiera viene
ancora letta nella Messa del Novus Ordo, subito dopo la Consacrazione
del vino. Tuttavia, la formula della
consacrazione è stata cambiata. Ora essa
recita: “Prendetene e bevetene
tutti: questo è il calice del mio sangue
per la Nuova ed eterna Alleanza, versato per voi e per molti in remissione dei
peccati. Fate questo in memoria di
Me”. Sono state tolte le parole:
“mistero della fede”, che ora vengono pronunciate subito dopo dal celebrante e
alle quali il popolo risponde:
“Annunziamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua resurrezione,
nell’attesa della tua venuta”. Il
“mistero della fede” graviterebbe ora nel senso della Resurrezione e
dell’attesa per la venuta (finale) di Nostro Signore nella Gloria. Prospettiva gloriosa ed escatologica, che
tende a prevalere su quella del significato satisfattorio e propiziatorio della
Messa, come dimostrato dall’interpretazione largamente diffusa della Messa come
“far memoria del Signore Risorto” (vedi supra) e anche dal fatto che il
“molti” della Consacrazione è stato sostituito arbitrariamente da “tutti” in
quasi tutti i vernacoli e solo parzialmente restaurato dopo l’intervento ad hoc
di Benedetto XVI, alcuni anni fa. Nel
canone dell’Ordo romano antico, che secondo la Tradizione risale
ai tempi apostolici, il senso del “mistero della fede” è connesso, invece,
esclusivamente alla “remissione dei peccati” ossia al significato satisfattorio
e propiziatorio del Sacrificio della Messa, che rinnova in modo incruento
quello della Croce : “Poiché questo è il
calice del Sangue mio, della nuova ed eterna alleanza – mistero della fede – il
quale sarà sparso per voi e per molti in remissione dei peccati”.
Andando a leggere il capitolo della Summa
citato dal Concilio, si vede che per l’Angelico è la Passione del Signore a
conferire ai Sacramenti il loro autentico significato salvifico, non la sua
Resurrezione.
Si tratta di Summa
theologiae III, q. 62, a. 5, ad 1.
L’art. 5 della questione 62 si occupa del seguente problema: “Se i sacramenti della nuova legge ricavino
la loro virtù dalla passione di Cristo”.
Elencate tre opinioni
contrarie ed una favorevole (desunta da Rm 5 col commento della Glossa
ordinaria), S. Tommaso prende nettamente posizione per quella
favorevole. Il Sacramento, scrive,
“opera per causare la grazia alla maniera di uno strumento”. Uno “strumento” va inteso in modo
duplice: “come realtà separata, p.e. un
bastone (baculus), o come realtà collegata ad un’altra, p.e. la
mano. Lo strumento “separato” è mosso da
quello “collegato”(coniunctum), come nel caso del bastone impugnato
dalla mano. “Ora, Dio stesso è la causa
efficiente principale della grazia.
L’umanità di Cristo è paragonata a Dio come uno strumento che gli è
congiunto, mentre il sacramento è inteso come strumento separato. Ne consegue pertanto che la “vis salutifera”
deriva dalla divinità di Cristo operante grazie alla sua umanità nei sacramenti
stessi [Et ideo oportet quod virtus salutifera derivetur a divinitate
Christi per eius humanitatem in ipsa sacramenta]. La grazia sacramentale mira essenzialmente a
due cose: ad eliminare i guasti [defectus] del peccato e a perfezionare
l’anima nelle cose che riguardano il culto di Dio. Ma è indubbio che Cristo ci ha liberati dai
nostri peccati soprattutto [praecipue] con la sua passione”. E non solo efficaciter,
ossia con l’efficacia di un’azione effettivamente causale, in quanto “strumento
della divinità” le cui azioni operano tutte per la salvezza dell’uomo; non solo
meritorie, cioè meritando la salvezza per noi in quanto membra della
Chiesa di cui è il Capo; ma anche
riparando all’offesa fatta a Dio dal peccato degli uomini (satisfactorie). Questa soddisfazione in quanto sovrabbondante
ci ottiene misericordia da Dio (propitiatio)[38]. Ugualmente, con la sua passione Egli ha
iniziato il culto della religione Cristiana, “dando sé stesso [come] oblazione
e sacrificio a Dio” [Ef 5,2]. Da tutto
ciò risulta in modo evidente che “i sacramenti della Chiesa ricavano in modo
particolare la loro virtù dalla passione di Cristo, la cui virtù ci si comunica
in qualche modo [proprio] mediante il ricevimento dei sacramenti”: la “virtus
remissiva” dei nostri peccati “appartiene in un certo special modo alla sua
passione”[39].
Nella Passione di
Nostro Signore, unica sorgente della “virtù” dei sacramenti, vediamo il Cristo
“sofferente” non quello “glorioso”, anche se quello “glorioso” è sempre
presente perché la Divinità non può esser intaccata dalle sofferenze
dell’umanità del Verbo (così come è presente nell’Ostia consacrata, che rinnova
però la Passione non la Resurrezione).
Ora, come può il Concilio attribuire a S. Tommaso il concetto che
attraverso i Sacramenti i fedeli “si uniscono in modo arcano e reale a lui
sofferente e glorioso”, come se per S. Tommaso Passione e Gloria
contribuissero in modo uguale al valore salvifico dei Sacramenti? LG 7.2
richiama una delle tre repliche finali dell’Angelico ai tre argomenti
contrari da lui esposti all’inizio dell’articolo 5. L’argomento contrario, che è il primo dei
tre, specula su di una frase di S. Agostino:
“La virtù dei sacramenti consiste nel causare la grazia nell’anima,
facendola vivere spiritualmente. Ma,
come dice Agostino nel Commento al Vangelo di Giovanni: ‘Il Verbo in quanto era in principio presso
Dio, vivifica le anime; ma una volta divenuto carne, vivifica i corpi’. Poiché la passione di Cristo riguarda il
Verbo in quanto incarnato [quod est caro factum], se ne conclude che non
possa causare la virtù [propria] dei sacramenti”.
Poiché la Passione
concerne il Verbo nella carne che aveva assunto, ossia nel corpo, come può essa
causare la virtù dei Sacramenti, che consiste nel vivificare l’anima? Gli effetti salvifici della Passione, mi
chiedo, dovrebbero allora restare limitati al corpo di Cristo? La tesi appare manifestamente assurda. La
replica di S.Tommaso (ad 1, contro il n. 1) costituisce il passo
cui rinvia il Concilio.
“Contro il primo
argomento bisogna dire che il Verbo, in quanto era in principio presso Dio,
vivifica le anime come agente principale [sicut agens principale];
tuttavia la sua carne e i misteri che in essa hanno avuto luogo [in ea
perpetrata], operano strumentalmente [instrumentaliter] alla vita dell’anima. Alla vita del corpo, invece, non solo
strumentalmente, ma anche con una certa esemplarità, come ho detto sopra”.
Non si possono
separare e contrapporre il corpo e l’anima, come sembrano fare i sostenitori
della tesi criticata. Il Verbo “vivifica”
le anime. Ma in quest’azione concorre
anche l’Incarnazione ovvero il corpo assunto dal Verbo, con tutti i misteri che
per noi esso presenta, come risultano in particolare dalle vicende della
Passione. L’Eucaristia è un sacramento
fondamentale per la nostra salvezza. Ma
senza il “corpo” e il “sangue” di Cristo essa non sarebbe possibile. Senza il “corpo” e il “sangue” reali
del Signore, rinnovati ad ogni Messa in modo incruento dal sacerdote
celebrante, nella Consacrazione. Qui S.
Tommaso fa una differenza tra “strumentale” ed “esemplare”.
Che significa
“strumentale”? Lo spiega nella questione
n. 56, a. 1, nel replicare a coloro che negano esser la resurrezione di Cristo
“causa” della resurrezione dei corpi.
La “giustizia di Dio,
scrive, è la causa prima della nostra resurrezione” mentre “la resurrezione di
Cristo è la causa secondaria e come strumentale”. Perché la “giustizia divina”? Perché è necessario “che i corpi siano
premiati o puniti assieme alle anime, per come reciprocamente presero parte ai
meriti o ai peccati [come dissero Dionigi Areopagita e S. Giovanni Damasceno,
precisa S.Tommaso nel testo]”. La
giustizia divina, in quanto “virtù dell’agente principale non ha bisogno di
determinarsi in modo specifico in questo strumento [Licet autem virtus
principalis agentis non determinetur ad hoc instrumentum determinate]”. Tuttavia, “dato che opera mediante questo
strumento, lo strumento stesso è causa di un effetto [instrumentum illud est
causa effectus]”. Ora, la giustizia divina non era obbligata ad agire come
ha agito, istituendo la nostra resurrezione sul modello di quella di Cristo:
poteva “liberarci” (dal peccato) in modo diverso dalla Passione e Resurrezione
del Signore. “Ma poiché ha scelto di liberarci
in questo modo, è chiaro che la resurrezione di Cristo è causa della nostra”.
Causa dunque
“secondaria” (rispetto alla “giustizia divina”) e “come strumentale” perché è
lo “strumento” mediante il quale opera la giustizia divina. Ne consegue che la
Passione opera “strumentalmente” alla vita della nostra anima nel senso che è
“causa strumentale” e quindi efficiente della sua rinascita, grazie ai
Sacramenti che da essa scaturiscono.
“Strumentale” non va inteso come riferito ad una realtà subordinata e
quindi ininfluente ma nel senso di ciò che produce il suo effetto pieno perché
inserito in un rapporto causale (della causalità efficiente, che, per produrre
un effetto, presuppone l’azione di un agente sorretta da uno scopo). Pertanto S. Tommaso non sembra affatto
mettere sullo stesso piano l’azione sulle anime del Verbo presso Dio (Cristo
glorioso), che è l’azione di un “agente principale”, e quella “secondaria” e
“strumentale” sulle anime da parte del Verbo Incarnato, la cui umanità ha
accettato liberamente le terribili sofferenze della Passione (Cristo
sofferente). Al contrario, sembra ribadire che l’azione “strumentale” del
Cristo sofferente agisce di per sé sulle anime, nella sua propria autonomia di
“strumento” della salvezza.
L’azione “esemplare”
del Verbo Incarnato nei confronti della “vita del corpo”, riguarda invece il
significato esemplare della Resurrezione di Cristo. Essa è causa efficiente della nostra, per via
della “virtù divina, il cui proprio è risuscitare i morti [mortuos
vivificare]”; è anche causa “esemplare” perché costituisce il modello o
esemplare della nostra individuale resurrezione (e in questo senso, pur
risuscitando tutti gli uomini, si applica solo agli Eletti, non a coloro che
vanno in perdizione).
VIII. BILANCIO DEL RAFFRONTO TRA AeU 1-7 E LG
1-8
Dalla comparazione
dello schema Aeternus Unigeniti 1-7
con la costituzione Lumen Gentium 1-8, cosa concludere? Abbiamo visto che LG 1-8 rielabora la
struttura generale di AeU 1-7, accogliendone delle parti, che ripropongono concezioni
tradizionali della Chiesa. Ma non è
certo questo tipo di rielaborazione a costituire i concetti essenziali della
dottrina proposta da LG 1-8, che introduce a sua volta elementi nuovi
concorrenti tutti ad una concezione della Chiesa che sembra alquanto diversa da
quella di AeU 1-7: non più militante
ma misterica ossia aperta al soffio di uno Spirito di tipo (cosiddetto)
carismatico, che investe anche le “comunità” degli acattolici, in quanto
tali. Possiamo dire, in coscienza,
specchiandoci nella nostra fede di Cattolici, della quale Nostro Signore ci
chiederà conto, accanto alle nostre opere, non appena moriremo, che la dottrina
sulla Chiesa proposta da LG 1-8 si dimostri in perfetta continuità con quella
della Chiesa di sempre, proposta da AeU 1-7?
Guardiamo alle novità
esistenti in LG 1-8, poiché sono esse a fare la differenza.
1. Vengono
accuratamente eliminati tutti i riferimenti di AeU al Primato di Pietro. Non acquista rilievo il ruolo dei
“praepositi” da Cristo sub Petro sin dall’inizio della Ecclesia Dei alla
predicazione e al governo della Chiesa. Esso viene ricordato solo in LG 8.2 ma
nella Chiesa cattolica dimidiata dal subsistit in. Si ha anche un
accenno in LG 7.3, ove si dice che tra i doni dello Spirito “eccelle quello
degli apostoli, alla cui autorità lo stesso Spirito sottomette anche i
carismatici (1 Cr 14)”. Si tratta di un
riconoscimento generico. Gli apostoli
sono comunque presentati qui come collegio, senza un capo, una gerarchia.
2. Il Corpo Mistico
appare incentrato soprattutto su Cristo, che “ha redento l’uomo e l’ha
trasformato in una nuova creatura” già prima della Pentecoste, con la sua Morte
e Resurrezione, poste sullo stesso piano quanto al loro significato
salvifico.
3. Il rapporto tra
Cristo e lo Spirito Santo nel Corpo Mistico non appare ben delineato come in
AeU e risulta anche ambiguo. Non si
ripete che i doni dello Spirito Santo avvengono “secondo la misura di Cristo”.
Inoltre, si indebolisce il nesso tra lo Spirito Santo e la Verità Rivelata,
visto che lo Spirito Santo si limiterebbe ad introdurci a “tutta la
verità”: prospettiva che di fatto si
presta a mettere tra parentesi il dogma del compimento della Rivelazione con la
morte dell’ultimo Apostolo e ad aprire la strada all’ambiguo concetto di
“tradizione vivente” di cui all’art. 8 della costituzione “dogmatica” Dei
Verbum. La forte enfasi posta
sull’opera dello Spirito Santo, che viene però tendenzialmente intesa come
l’avvento di un “carisma” che riposa su sé stesso, ha dato ad alcuni la
sensazione della presenza di un certo “gioachimismo” negli articoli 2-4 della
LG, come se in questi ultimi si riflettesse la ben nota, visionaria
tripartizione delle epoche del mondo in età del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo: quest’ultima, secondo l’abate calabrese, avrebbe inaugurato
un’epoca ultima e definitiva di libertà spirituale, nella quale si sarebbe
effusa maggiormente la Grazia. In quest’Età dello Spirito avremmo avuto “la
perfetta intelligenza” delle cose, la “libertà”, la “contemplazione”, “l’amicizia”,
il mondo sarebbe ringiovanito: in
pratica, la realizzazione (sia pure del tutto spirituale) del Regno di Dio in
questo mondo. Quest’impressione,
dell’affermazione di una natura “trinitaria” della Chiesa intessuta alle
visioni “trinitarie” del tutto personali di Gioacchino da Fiore, deriva anche
dalla presentazione ed esaltazione del Vaticano II quale autentica “Nuova
Pentecoste”, quasi il Concilio dovesse inaugurare una nuova Età dello Spirito,
foriera di trionfi per la Chiesa ed apportatrice di pace al mondo intero.
4. Nelle “immagini della Chiesa” si accentua il
lato “mistico” o “spirituale” (“pneumatico”) a scapito di quello sociale (della
Ecclesia societas, gerarchicamente ordinata) e a scapito dell’idea del
carattere “militante” della Chiesa visibile, che scompare completamente, con
tutte le sue immagini tradizionali della Chiesa e del credente, come se la
Chiesa non avesse nel mondo – regno del Principe di questo mondo - un
avversario formidabile contro il quale dover lottare, per strappargli le
anime.
5. Non appare ben delineato il rapporto con il
Sovrannaturale e la concezione del Regno di Dio appare ambigua; non è messo in
rilievo l’insegnamento tradizionale secondo il quale si entra nel Regno solo
dopo esser stati “pesati, contati, divisi” dal Cristo giudice subito dopo la
morte e nemmeno che l’alternativa alla conversione a Cristo è solo la
dannazione eterna. Quest’ultima verità di fede è ricordata in modo evidente da
AeU quando riporta l’affermazione di Nostro Signore: “chi non sarà battezzato
non si salverà”.
6. LG fa intravedere
un’immagine di tipo esistenziale della Chiesa, quale potrebbe concepirla
la sensibilità decadente del Secolo ateo e miscredente: la Chiesa come realtà sempre imperfetta,
sempre alla ricerca della “pienezza” della verità, “esule” da Dio e che si
piange addosso i propri peccati grazie all’arbitraria attribuzione dei peccati
e delle imperfezioni dei membri della Chiesa alla Chiesa stessa. L’immagine esistenziale della Chiesa
non è in grado di distinguere tra l’immacolata Sposa di Cristo ed i suoi
membri, tra il peccato nella Chiesa ed il peccato della Chiesa,
che non può aver luogo. E non sembra
nemmeno in grado di concepire ancora la Chiesa cattolica come unica Arca della
Salvezza.
7. Si ha una falsa rappresentazione del rapporto
tra la Chiesa e l’Ebraismo, dando ad intendere che entrambi sarebbero già stati
“riconciliati” dalla Croce di Cristo.
Cade l’immagine della Chiesa come unico “vero Israele dello spirito”, assai
nitida in AeU, e viene di fatto oscurata la teologia della sostituzione.
8. Giustificandosi con una lettura molto dubbia
di S. Tommaso, si delinea il tentativo di ancorare i Sacramenti anche alla
Resurrezione del Signore, di legittimarli cioè anche come manifestazione del
Cristo glorioso, cui si vuole attribuire efficacia sacramentale uguale a
quella della Passione, cosa che inclina in senso protestante il significato
della S. Messa.
* * *
Nell’ambito di
un’impostazione del genere, come stupirsi allora della definizione di Chiesa
cattolica che appare nell’articolo 8 della LG, corroborato da UR 3 e UR
15.1? Il “sussistere” in essa di una
Chiesa di Cristo che “sussiste” anche negli “elementi” rappresentati da “Chiese e comunità”
acattoliche, appare il coronamento inevitabile della concezione “aperta” e “spirituale” della Chiesa,
“esistenziale”, incentrata sul Cristo il cui “mistero pasquale” avrebbe già
redento gli uomini, che si delinea nei primi sette articoli di questa
costituzione conciliare “dogmatica”. Lo
studio fin qui fatto ci permette anche di comprendere meglio, io credo, il
significato che si tende a conferire oggi al termine “Chiesa” in ambito
cattolico. Quando si nomina “la Chiesa”
i più intendono, in modo più o meno consapevole, la Chiesa di Cristo,
nel senso di LG 8.2 e UR 3, della quale la Chiesa Cattolica in senso proprio è
solo una parte, come si è visto. I
cattolici più anziani e legati al senso della Tradizione, quando sentono dire o
leggono “Chiesa” nei documenti ecclesiastici ufficiali di oggi, credono
istintivamente che ci si riferisca sempre alla Chiesa Cattolica Romana, unica
vera Chiesa di Cristo. Ma così non
è. La “Chiesa” dei documenti è in genere
la “Chiesa di Cristo” come concepita dal Vaticano II.
E conta poco, a mio
avviso, la replica secondo la quale è indubbio che per il Concilio la Chiesa di
Cristo sussiste nella Chiesa Cattolica onde quest’ultima è la sola
Chiesa di Cristo, come si è sempre creduto.
Questa replica si basa più su ciò che si dovrebbe capire dai verbali del
Concilio che sull’analisi letterale dei documenti conciliari alla fine
approvati (sul punto, vedi infra, cap. X). Conta poco, poiché l’analisi accurata dei
testi fa vedere, come credo risulti dal presente lavoro, che la “sussistenza”
della Chiesa di Cristo anche nelle “Chiese e comunità” degli Acattolici in
quanto tali, costituisce la premessa “teologica” che la mens progressista del
Concilio si è voluta dare al fine di aprire il “dialogo ecumenico” con gli
Acattolici stessi. Sembra essersi di
fatto instaurato un regime della doppia verità, della quale nessuno
sembra accorgersi, nel senso che vengono ritenuti veri ed applicati nella
prassi entrambi questi asserti, tra loro inconciliabili alla luce non solo del
Deposito della Fede ma anche della logica più elementare: 1) la Chiesa di Cristo
sussiste nella Chiesa Cattolica Romana, necessaria alla salvezza, unica Chiesa
di Cristo; 2) la Chiesa di Cristo
sussiste anche nelle Chiese e Comunità che si trovano al di fuori della
Chiesa Cattolica Romana, nonostante le loro “carenze”. E queste “carenze” (non si può dimenticarlo)
sono il risultato di eresie e scismi!
Tutto ciò non è come dire che la Chiesa Cattolica Romana è l’unica
Chiesa di Cristo e nello stesso tempo non lo è?
Si può forse negare
che ci sia stato un mutamento semantico profondo? Il lemma “Chiesa”, in bocca a preti e fedeli,
non ha più il significato di una volta.
È la Chiesa “aperta” e “in ascolto dello Spirito”, cosiddetta
“dell’Amore”, “allargata” a tutti gli Acattolici, “solidale” con tutti ed anzi
con tutta l’umanità. Essa non vuole
apparire come qualcosa di separato dal mondo, come “segno di contraddizione”,
vuole immergersi nell’umanità del mondo, non per convertirla a Cristo ma per
collaborare con essa alla costruzione di un mondo che si vuole “migliore”,
sposandone per quanto possibile i “valori”.
Per questo è stata abolita la talare, l’abito delle suore è stato reso
simile a quello delle crocerossine, e comunque molti preti e suore hanno
abolito qualsiasi segno esteriore
dell’appartenenza alla Chiesa Cattolica Romana, quasi ne provassero vergogna.
Per questo si è voluto che i seminaristi non studiassero più in un collegio
separato, in un ambiente lontano dalle seduzioni del mondo, favorevole al
raccoglimento e alla preghiera, ai difficili studi, allo spirito di disciplina
e di corpo, all’esercizio dell’autorità.
E si comprende come una Gerarchia che vede la Chiesa di Cristo anche in
tutti gli Acattolici in quanto tali senta la necessità di ancorare i Sacramenti
al Cristo glorioso; in particolare l’Eucaristia, perché così piace ai
Protestanti ed evita l’’incomodo di innalzare la Santa Croce di fronte alle
altre religioni, che tutte la avversano.
O di dichiarare sempre “imperfetta” la sua santità. Come può, del resto, essere perfetta se ora “la Chiesa di Cristo” sussiste
anche in chi professa il “pecca fortemente ma credi ancor più fortemente”? Come può essere la stessa Chiesa di AeU e in
somma la medesima Chiesa Cattolica Romana di sempre, se ora la sua Gerarchia
desiste dal convertire chicchesia, negligendo quindi esplicitamente il
comandamento dato da Nostro Signore agli Apostoli e ai loro successori: “Rendete miei discepoli tutti i popoli”? E che conto fa essa del grave ammonimento: “ma colui che mi rinnegherà davanti agli
uomini, sarà rinnegato dinanzi agli Angeli di Dio” (Lc 12, 9)?
Come ha egregiamente
messo in rilievo Mons. Gherardini, attirandosi le ire dei difensori del
presente stato di cose, l’idea di Chiesa proposta dal Vaticano II, assai più
che dal Magistero precedente, deriva dal nuovo intreccio costituito da
“ecumenismo” e “libertà religiosa”.
Improntando l’idea di Chiesa a questi due “ideali”, entrambi presi a
prestito dalla filosofia moderna e dalle utopie di Protestanti e Teosofi, si è
giunti addirittura a costruire e a vivere un “esser Chiesa” (come dicono oggi)
che esclude in quanto tale la conversione!
“Dal vincolo che
stringe insieme ecumenismo e libertà religiosa […] sarebbe poi
scaturita la rinuncia al proselitismo, alla missione evangelicamente attiva,
alla conversione. Teresa di Calcutta
poté per questo dichiarare di non aver mai invitato nessuno dei diseredati da
lei accuditi a convertirsi; ed un prestigioso cardinale, arcivescovo d’una
grande diocesi, raccontò d’aver diassuaso alla conversione l’ebreo che gli
aveva confidato questo desiderio.
Ambedue, evidentemente, s’eran collocati sulla lunghezza d’onda del
messaggio conciliare che, a base della moralità pubblica e privata oltre che
della c.d. nuova evangelizzazione, poneva l’elefantiasi dei diritti
della persona umana, non l’indiscutibilità dei diritti di Dio e della sua
Parola. Come se questa Parola non avesse
stabilito la dipendenza della libertà dalla verità (Gv 8,32), la coincidenza
della fede e della conversione (cf. Mc 1,15), l’obbligo dell’annuncio salvifico
a tutte le genti (Mt 28, 18-20). Un
capovolgimento radicale era stato operato…”[40]. Ad opera di quale “Spirito”, dobbiamo
chiederci noi semplici credenti, e trarne le dovute conclusioni.
[1] DE
MATTEI, op. cit., p. 311.
[2] Abbé
LOVEY, op. cit., p. 122.
[3]
WILTGEN, op. cit., pp. 56-8; LOVEY, op.
cit., p. 121-3, con le puntuali repliche del cardinale Ottaviani. Le invettive del vescovo De Smedt ricordavano
quelle dei Modernisti d’antan.
[4]
Per l’originale latino dello schema rimando all’indicazione che ne dà il
cardinale Becker nel suo articolo, sopra citato: Schema Constitutionis dogmaticae de
Ecclesia Christi Patrum examini propositum:
Mansi 51, 539-553.
[5] DS
788/1511.
[6]
PIO XII, Enciclica Mystici Corporis, tr. it. cit., p. 65.
[7] C,
37-8.
[8] C,
39-40.
[9] La
Sacra Bibbia, Edizioni Paoline, Roma, 1960, p. 24, in nota.
[10]
Su questo tema, per maggiori approfondimenti, mi sia consentito rinviare ad un
mio intervento: PAOLO PASQUALUCCI, La
notion de l’unité du genre humain: une
intrusion de la pensée laïque
dans Vatican II, in La tentation de l’oecuménisme, Actes du IIIᵉ Congrès Théologique de
sì sì no no, Albano Laziale - Avril 1998, Versailles 1998, pp. 130-144.
[11]
C, 52.
[12]
Ivi.
[13]
C, 40.
[14]
Vedi DB, voce Regno di Dio.
[15]
“[…] questo Spirito ci fu meritato da Cristo sulla croce, spargendo il proprio
sangue; questo, egli lo donò alla Chiesa per rimettere i peccati, alitandolo
sopra gli Apostoli; e mentre soltanto Cristo ricevette questo Spirito senza
misura [Gv 3, 34], alle membra del Corpo mistico vien distribuito dalla
pienezza dello stesso Cristo secondo la misura del dono di Cristo [Ef 1, 8; 4,
7]”(Mystici Corporis, tr. it. cit., p. 45 [DS 2288/3807]).
[16]
BERNARD BARTMANN, Précis de théologie dogmatique (1924), tr. fr.
dell’Abbé Marcel Gauthier, Salvator,
Mulhouse, 1951, I, p. 230 ss. (§ 54).
[17]
Nel già citato articolo su “Il peccato nella Chiesa”, Karl Rahner si lamentava
del fatto che la LG, pur avendola ammessa, non fosse riuscita a fornire una
nota teologica checchesia alla nozione di “Chiesa peccatrice”. E come avrebbe potuto, mi chiedo? L’articolo di Rahner cerca di conferire
significato teologico a tale bislacca nozione, con un’esposizione a mio avviso ripetitiva, elusiva e
confusa. Mi sembra che egli cerchi di
applicare alla Chiesa, e nemmeno tanto velatamente, la nozione luterana di
“simul iustus et peccator”, intrinsecamente contraddittoria. Allora, perché la Chiesa, pur
“peccatrice”, sarebbe anche santa? Per la possibilità che le è concessa, di
ricorrere sempre alla misericordia di Dio, nonostante il suo stato di
peccato: questo solo la renderebbe
“santa”. La santità della Chiesa
peccatrice viene solo dalla Grazia, come quella del singolo peccatore (op.
cit., p. 431-4; 434). Siamo in pieno
Luteranesimo. Le elucubrazioni di Rahner
erano verosimilmente anche pro domo sua:
dopo la sua morte, una donna tedesca ha dimostrato con inappuntabile
documentazione di esser stata per vent’anni la sua compagna segreta.
[18]
DE MATTEI, op. cit., p. 311.
[19]
Op. cit., pp. 341-2. Suenens divenne poi
noto per le sue “liturgie ecumeniche” aperte a tutti i soffi dello “Spirito”
(vedi: JOHN VENNARI, Close-ups of the Charismatic Movement [Il
movimento carismatico visto da vicino], Tradition in Action Inc., Los
Angeles, 2002, pp. 155-162).
[20]
PIO XII, Enciclica Mediator Dei sulla sacra Liturgia, tr. it. con testo
lat. a fronte, Vita e Pensiero, Milano-Roma, 1956, pp. 126-8.
[21]
CONFERENZA EPISCOPALE DELL’EMILIA E ROMAGNA, Islam e Cristianesimo, EDB,
Bologna, 2000, p. 30.
[22]
Nelle note relative, AeU 6.2 rimanda alla dottrina contenuta in documenti di
Leone XIII, Pio IX, Pio XII, e in S. Tommaso.
[23]
Si trova in S. PAOLO, Rm 8,9; Fil 1,19 etc.; vedi BARTMANN, op. cit., I, p.
231.
[24]
Cit. in LOVEY, op. cit., p. 121-2. Ho
ritradotto dalla traduzione francese ivi presente.
[25]
Bartmann, op. cit., I, p. 219 (§ 52).
[26]
BRUNERO GHERARDINI, Chiesa-Tradizione-Magistero, articolo apparso sulla
rivista elettronica Disputationes Theologicae del 7 dicembre 2011, p. 3 di 4.
[27]
Il significato tradizionale di Gv 16,13 è confermato anche dalle edizioni dei Vangeli ispirate al metodo
storico-critico, che sottopone i manoscritti ad un vaglio ipercritico, alla
stregua di un qualsiasi testo letterario:
cfr. The Greek New Testament, cit.: Gv 16,13 con le relative note; nonché: BRUCE
M. METZGER & SOCII, A Textual Commentary on the Greek New Testament,
German Bible Society, Stuttgart, 1994², p. 210.
Il verbo, riportato dalla quasi totalità dei manoscritti, è il futuro hodeghései
en: guiderà verso, e in senso traslato insegnerà, istruirà (docebit,
in latino). Semanticamente contiene
l’idea della guida, la guida di un capo, un maestro (hodós: sentiero,
via; heghéomai: conduco come guida, capo). Non c’è l’idea di un semplice introdurre; c’è
l’idea di una guida in senso forte, di un capo o maestro fornito di piena
autorità, di uno che è un leader, viae dux (Zorell, LGNT, sub voce). Se
si fosse trattato di esprimere il concetto di “introdurre” alla verità, il
greco non avrebbe dovuto usare un termine completamente diverso, come ad
esempio: eiságo? Pochissimi manoscritti riportano : “dieghésetai hymîn”: “vi esporrà”, più
descrittivo, ma comunque lontano dall’idea dell’introduzione. La filologia dimostra, dunque, che lo
“inducit” di LG 4 non ha fondamento alcuno nel Testo Sacro. Nel passo di Lc 12,10, il latino traduce
ugualmente con docebit il greco, costituito invece da: didáxei, insegnerà. Il verbo è qui didásko, insegno, doceo. Due verbi diversi, allora, tradotti allo
stesso modo in latino. Ma si tratta di
due situazioni diverse, che le maggiori sfumature del greco permettono di
esprimere. Lo Spirito Santo guida
con mano ferma di maestro gli Apostoli sulla via dell’approfondimento di tutta
la Rivelazione, procedendo per spirazione da Nostro Signore e dal Padre come da
un unico principio. Nell’altro caso, non
si tratta della Rivelazione ma di Ispirazione, al fine di vincere la paura del
dolore fisico e della morte per testimoniare la fede nel caso singolo e supremo
della persecuzione. Qui le parole ci
verranno alle labbra spontaneamente senza studio e preparazione specifica ma in
realtà ci saranno state insegnate direttamente dallo Spirito Santo, come
da Maestro a discepolo che deve solo ripeterle, per la Gloria di Dio e la
salvezza della sua anima.
[28]
DS 1961/3309.
[29]
Enciclopedia Cattolica, voce Chiesa, col. 1450 (ed. anteriore al
Concilio); DB, voce Regno di Dio, passim.
[30]
HENRI DE LUBAC S.I., “Soprannaturale” al Vaticano II, tr.
it., in ID., Spirito e libertà, Milano, 1980 (si tratta di una raccolta
di saggi di de Lubac tradotti in italiano), pp. 343-50, p. 347, citato da
GIOVANNI MORETTO, Destino dell’uomo e corpo mistico. Blondel, de Lubac e il Concilio Vaticano II,
Morcelliana, Brescia, 1994, pp. 117-8, nota n. 8. Nel passo citato, de Lubac riassume la
questione dal suo unilaterale punto di vista.
[31]
MORETTO, op. cit., p. 118.
[32]
Sull’influenza di de Lubac (e tramite lui di Blondel) sulla Gaudium et spes,
cfr. MORETTO, op. cit., tutto il capitolo sesto, pp. 115-29. Sul tema, mi sia permesso rinviare ad un
altro mio contributo: PAOLO PASQUALUCCI, L’alterazione dell’idea del
sovrannaturale nei testi del Vaticano II, in Bilancio e
prospettive. Per una vera restaurazione
della Chiesa, Atti del IV Congresso teologico di “sì sì no no”, Roma 2000,
Ed. Ichthys, Albano Laziale, 2003, pp. 195-236.
[33]
S. GREGORIO MAGNO, La regola pastorale, presentata e interpretata da Armando
Candelaresi, Edizioni Paoline, 1978², p. 198.
[34]
Ef 2, 14-16. L’inciso: “[giudaiche]” è
del traduttore dell’ Epistola paolina, nell’edizione della Bibbia curata
dall’abate Ricciotti.
[35]
PIO XII, Humani generis, tr. it. cit., p. 12.
[36]
In una delle lettere ricevute da
Blondel, durante il suo polemico scambio epistolare sulla natura della Chiesa
(1903), il Padre Wehrlé S.I. annotava a margine: “Blondel ammette la salvezza fuori della
Chiesa, direttamente ad opera del Cristo…La Chiesa non ha motivo di affannarsi
con le preghiere…”. Cosa aveva scritto
Blondel? Tra altre cose, che un
primitivo (“un pauvre sauvage mourant”) che non conosce Cristo, se si salva
l’anima, “ce n’est point en vertu de la Révélation en tant qu’elle est connue
d’un grand nombre, c’est en vertu de la Rédemption en tant qu’elle a été
acquise par Un seul et mystérieusement communiquée par les sollicitations
anonymes de la grâce” (RENÉ MARLÉ S.I.[a
cura di], Au coeur de la crise moderniste.
Le dossier inédit d’une controverse. Lettres de Maurice Blondel, Henri
Bremond etc., Aubier, Paris,1960, pp. 268-9).
[37]
“Però quel Gesù, che è stato per breve tempo inferiore agli Angeli, noi lo
vediamo ora coronato di gloria e di onore, a motivo della morte che ha
sofferto, affinché per grazia di Dio, la morte da lui sopportata fosse di
vantaggio a tutti” (Eb 2, 9). Nel greco
dell’originale, la frase “a motivo della morte che ha sofferto” è resa con la
preposizione dià e l’accusativo (dià tò páthema toû thanátou etc.)
che ha significato causale (cfr. The Greek New Testament, cit., p.
750). Senza la Resurrezione vana è la
nostra fede, ci insegna S.Paolo (1 Cr, 15); ma senza la Santa Croce non poteva
esservi la Resurrezione. “Perché dunque
tanta paura di prenderti la croce che è la via del cielo? Nella croce è la salvezza, nella croce la
vita, nella croce il baluardo contro i nemici. Nella croce la sorgente delle
soavità celesti, la forza dell’anima, la gioia dello spirito. Nella croce la pienezza della virtù, nella
croce la perfezione della santità. Nessuna possibilità di salvezza per l’anima,
nessuna speranza di vita eterna fuorché nella croce” (Imitazione di Cristo, cap.
XII del libro secondo: ‘La via regia della Santa Croce’, B.U.R., Milano,
1958, tr. it. di Carlo Vitali, p. 81).
[38] I
concetti trattati nell’ultimo periodo li ho riassunti da ST, III, q. 48, a. 1 e
2, 6.
[39] ST,
III, q. 62, a. 5 e ad 2.
[40]
D, 187. [ Sta per Vaticano II . Un discorso da fare ].
[ Testo stampato due volte per errore del sistema ]
Sessant’anni dal Concilio - V
di
Paolo Pasqualucci.
V - Raffronto tra lo schema sulla Chiesa
illegalmente scartato e la costituzione ‘Lumen Gentium’ sulla Chiesa, che lo ha
rielaborato, in realtà alterandolo alquanto.
[Nota previa.
Dopo la settimana di Ferragosto, riprendo la pubblicazione di alcune
parti del mio libro Unam Sanctam. Studio sulle deviazioni dottrinali nella
Chiesa del XXI secolo, Solfanelli, 2013, pp. 437. Questa volta il testo è più lungo, avendovi
io dovuto accorpare diversi capitoli, nessuno dei quali troppo lungo. Si tratta di sessantaquattro pagine formato
Bodoni MT 14. I capitoli riuniti sono
sei, occorre pertanto un inquadramento generale. Si tratta di capitoli tra loro connessi
perché concentrati su un unico tema: un accurato raffronto tra il primo
capitolo dello schema sulla Chiesa scartato e il primo capitolo della
costituzione dogmatica (senza dogmi) Lumen Gentium sulla Chiesa (=LG): entrambi questi capitoli eleborano il
concetto della Chiesa. Dovrebbe
trattarsi del medesimo concetto, ma sarebbe arduo e persino azzardato
l’affermarlo.
I capitoli riuniti
sono dunque s e i , dal cap. III al cap.
VIII. Ricordo ancora che lo schema lasciato cadere si intitolava Aeternus
Unigeniti Pater, abbreviato in Aeternus Unigeniti (AeU).
Il cap. III delinea un
parallelo generale tra AeU parr. 1-7 e LG parr. 1-8. Il cap. IV espone la struttura generale di
AeU parr. 3 -7 contrapposta a LG parr. 4-8.
Il cap. V si
chiede: la Chiesa di LG parr. 4-8 è una
Chiesa dello Spirito e dell’Amore, ossia una Chiesa non gerarchica e non
militante, sempre imperfetta, sempre in cerca della pienezza della verità? In sostanza, come si è poi visto, una Chiesa
che non insegna più verità morali e religiose rivelate da Dio e quindi
obbligatorie per la salvezza di ciascuno ma all’opposto “si pone in ascolto del
mondo” animata da uno spirito di grande misericordia e comprensione delle
esigenze del mondo, desiderosa di collaborare con esso per realizzare l’unità
del genere umano e la pace universale?
Il cap. VI si interroga
sulle “immagini della Chiesa” secondo LG par. 6, chiedendosi se esse mostrino
continuità con AeU. Un argomento in
apparenza secondario ma che ha la sua importanza.
Il cap. VII pone
un’ulteriore domanda, scaturente dall’ambiguità del testo conciliare: Un corpo mistico (la Chiesa) incentrato sul
Cristo, che ha già redento l’uomo con la sua incarnazione, morte e resurrezione?
Il cap. VIII, infine,
si intitola: Bilancio del raffronto
tra AeU 1-7 e LG 1-8. Questo
capitoletto finale l’ho già proposto ai lettori. Poiché repetita iuvant, lo ripropongo,
sicuro che potrà esser meglio compreso dopo l’analisi articolata dei due testi
in questione.
Per favorire la
lettura ricordo anche i due autori sui quali mi sono principalmente basato (in
senso opposto) in questo lavoro: mons.
Brunero Gherardini e il suo critico, il sacerdote prof. Pietro Cantoni, a mio
avviso rappresentativo della mentalità dei difensori del Concilio Vaticano II,
trincerata a priori dietro il principio d’autorità, come se, per l’appunto, il Vaticano
II fosse stato un Concilio dogmatico – il che non è – e pertanto infallibile ed
intoccabile. Lo studio del prof.
Cantoni, da me confutato più volte nel testo, si intitola: Riforma nella continuità. Riflessioni sul Vaticano II e
sull’anti-conciliarismo, SugarCo, Milano, 2011. Il testo è citato spesso
con la sola lettera C maiuscola. L’anticonciliarismo sarebbe l’atteggiamento di
chi critica (osa criticare) il Vaticano II. Della produzione assai vasta di mons.
Gherardini mi sono avvalso soprattutto del suo magistrale testo sulla
Tradizione e del suo primo, ampio saggio critico sul Concilio: Brunero Gherardini, Quod et tradidi
vobis. La tradizione vita e giovinezza
della Chiesa, in “Divinitas”, nn. 1-2-3, Città del Vaticano, Roma,
2010. L’opera fu poi ristampata sempre
nel 2010 da Casa Mariana Editrice, Frigento, 2010: ID., Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana
Editrice, Frigento, 2009.
La lettura di due
testi in parallelo non è mai troppo agevole.
Tuttavia, se vogliamo afferrare ciò che è veramente accaduto al Vaticano
II, in tutta la sua straordinaria gravità, dobbiamo sobbarcarci pazientemente a
letture di questo tipo, le sole capaci di svelare l’alchimia perversa che ha
distillato i testi alla fine ufficiali del Concilio. L’analisi comparata dei due nostri testi dimostra
che, in quello venuto alla fine a far parte della costituzione conciliare Lumen
Gentium sulla Chiesa, pescindendo da gravi omissioni ed ambiguità, rispetto
allo schema scartato sono stati eliminati i seguenti concetti: che solo la Chiesa cattolica è l’Israele dello
spirito; che solo la Chiesa cattolica è
l’unica e vera Chiesa di Cristo; che il Papa esercita un primato di
giurisdizione su tutta la Chiesa di Cristo].
III.
PARALLELO TRA “AETERNUS UNIGENITI” 1-7, SCHEMA SCARTATO, E “LUMEN
GENTIUM” 1-8 CHE LO HA RIELABORATO
1. Uno schema contestato
Ho ricordato prima
come la Commissione Teologica Mista avesse rifuso nel nuovo lo schema iniziale sulla Chiesa, finito tra quelli “scartati”
e sottoposto a rifacimento pur trattandosi di uno schema di costituzione
dogmatica elaborato secondo la dottrina tradizionale della Chiesa, che si
rifaceva ad un San Bellarmino, riletto dalla Mystici Corporis, e che
ovviamente riprovava una concezione della Chiesa “pneumatica” o dello Spirito,
dell’Amore, propagandata dalla Nouvelle théologie e in particolare dal
domenicano Yves Congar[1]. Nella fase preparatoria lo schema era stato
attaccato a fondo dai cardinali dell’indirizzo ammodernante (Liénart e Bea in
particolare) che lo accusavano di scarso spirito ecumenico e di proporre un
concetto ristretto di Chiesa, limitato alla sola Chiesa Cattolica Romana! L’art. 7 dello schema, che ribadiva con
estrema chiarezza come solo la Chiesa Cattolica Romana avesse il diritto di
considerarsi il vero e unico Corpo Mistico di Cristo, fu duramente contestato
dal cardinale Bea, che lo accusava di non essere “ecumenico”. Egli
rimproverò con acrimonia Ottaviani per
non aver tenuto conto dei suggerimenti del suo Segretariato al fine di
modificarlo nel senso, appunto, dell’apertura “ecumenica” voluta da Giovanni
XXIII[2]. Queste accuse furono ripetute a più voci
durante la breve discussione in Aula (nel dicembre 1962) in seguito alla quale
fu deciso di rifondere lo schema con quello proposto dal Segretariato. Particolarmente teatrali furono gli accenti
del vescovo belga Émile De Smedt, un mastino dell’antiromanesimo, già
distintosi negli attacchi allo schema sulle due Fonti della Rivelazione. Egli
bollò lo schema di “trionfalismo, clericalismo, legalismo”[3].
Nonostante questi precedenti, il rifacimento viene presentato sempre come uno
sviluppo nella continuità. Osserviamo
attentamente.
2. Chiesa “militante” o semplicemente
“terrena”?
Il
cap. I dello schema rigettato (AeU) constava di sette articoli che
illustravano la “natura della Chiesa militante”, titolo assolutamente
tradizionale, ben diverso da quello del cap. I di LG, vertente sul “mistero
della Chiesa”[4]. Dal Vaticano II in poi la nozione di “Chiesa
militante” è caduta in disuso e un motivo ci dovrà pur essere. Che cos’è la Chiesa militante? È la Chiesa visibile in questo mondo, fondata
da Nostro Signore a partire da Pietro e dai Dodici, organizzata
gerarchicamente, costituita dalla Gerarchia vera e propria in tutte le sue
componenti e dai fedeli, dal “popolo di Dio”, che è sempre stato considerato
solamente una parte della Chiesa visibile. “Militante” questa Chiesa
perché essa è una milizia impegnata nella lotta quotidiana contro Satana che è
“il principe di questo mondo” (Gv 12, 31).
Essendo “omicida sin dall’inizio
e padre della menzogna” (Gv 8,44), lo Spirito
Maligno opera innanzitutto nella nostra mente con tentazioni di ogni
tipo per farci peccare e trascinarci nell’eterna dannazione. Il cattolico è quindi un “miles Christi”,
egli combatte come soldato di Cristo innanzitutto contro sé stesso per
resistere alle tentazioni e all’odio del mondo (Gv 15, 18-25) con l’aiuto
indispensabile della Grazia, dei Sacramenti e dei Sacerdoti. E senza dimenticare,
ovviamente, quello non meno importante, anche se indiretto, delle Suore e
Religiose: pensiamo al grande e
fondamentale esempio di vita santa, autenticamente cristiana che esse ci hanno
sempre offerto.
Lo scopo di questa
lotta è realizzare la propria santificazione in questo mondo, senza la quale
non è possibile accedere alla vita eterna, e contribuire alla conversione delle
anime con l’esempio di una vita veramente cristiana, improntata all’ideale
della carità, che esige la nostra massima generosità nel rispondere alla
volontà di Dio, che ci chiede di amare il Prossimo per amor di Dio, cioè
tenendo presente innanzitutto la salvezza della sua anima. Accanto alla Chiesa militante esiste la
Chiesa “purgante”, delle anime sante nel Purgatorio, e quella “trionfante”,
delle anime degli Eletti, che sono già in Paradiso. Di contro vi è la Gehenna,
l’Inferno, nel quale soffriranno in eterno coloro che Nostro Signore avrà
dannato, nel giudizio individuale dell’anima subito dopo la morte, confermato
in quello Universale, pubblico, alla fine dei tempi (Mt 25, 31-45). I tre aspetti della Chiesa di Cristo
costituiscono un’unità nel “Corpo mistico di Cristo”, del quale il capo è
Cristo in cielo mentre il Papa, successore di Pietro nella continuità
apostolica, ne è il suo Vicario in terra.
La Chiesa “militante” gode perciò di una connessione sovrannaturale
permanente, in quanto parte visibile del Corpo
Mistico di Cristo, con il quale coincide perfettamente in questo mondo
(come insegnato dalla Mystici Corporis).
Ho dovuto ripetere
(per quanto sta alle mie capacità) queste elementari nozioni tradizionali
perché a partire dal Vaticano II sembra non vengano più insegnate. Il lettore pertanto resterebbe perplesso di
fronte al concetto di Chiesa “militante”. Non è forse vero che oggi viene
insegnato un concetto diverso di Chiesa, intesa solo come “popolo di Dio”
inglobante anche la Gerarchia e di taglio sostanzialmente intramondano? E il cattolico è ancora visto come “miles
Christi”, come “soldato di Cristo”? E si
insegna ancora che la vita in questo mondo è una milizia perché è l’ardua
prova mediante la quale veniamo vagliati per esser giudicati degni di
entrare alla fine dei tempi nel Regno di Dio, che dura in eterno, così come è
stato vagliato Nostro Signore durante la sua vita e soprattutto durante la sua
Passione?
3. La
Chiesa “nuovo Israele”, unico vero “Israele di Dio” secondo AeU
La struttura generale del capitolo di AeU in
questione è più o meno la stessa del posteriore capitolo iniziale di LG. Anche in AeU il discorso muove dal disegno
del Padre, che ha voluto redimere il mondo con il suo Figlio Incarnato e ha
voluto che “i redenti” costituissero anche “un nuovo genere (genus), un
regale sacerdozio, una gente santa, ossia il nuovo Israele, sotto un unico Capo
Gesù Cristo” (AeU 1). Qui la Chiesa di
Cristo appare subito come ”il nuovo Israele” concepito ab aeterno dal
Padre. Nell’art. 1 della LG si dice che
“la Santa Chiesa” è stata “annunciata in figura sin dal principio del mondo” e
“mirabilmente preparata nella storia del popolo d’Israele e nell’antica
Alleanza”: non si dice però che la
Chiesa di Cristo è “il nuovo Israele”. Si lascia nell’ombra la cesura
intervenuta tra noi Cristiani e l’Ebraismo, provocata dal fatto che la Chiesa,
possedendo essa sola la vera Rivelazione, si è sempre considerata, sin
dall’inizio, il nuovo Israele.
Dell’Israele della carne la LG parla all’art. 9, primo articolo del cap.
II dedicato a Il popolo di Dio, che illustra il concetto della “nuova
alleanza”, ma in modo che sembra suggerire l’idea di un’analogia e di una
continuità senza rotture: “Come già
l’Israele secondo la carne peregrinante nel deserto viene chiamato Chiesa di
Dio, così il nuovo Israele dell’èra presente (ita novus Israel, qui in
praesenti saeculo incedens), che cammina alla ricerca della città futura e
permanente, si chiama pure Chiesa di Cristo; è il Cristo infatti che l’ha
acquistata col suo sangue, riempita del suo Spirito e fornita di mezzi adatti
per l’unione visibile e sociale”. La
frase contenente il paragone proviene da AeU 3 ma appare mutila (come vedremo)
ed inquadrata in un contesto diverso, di tipo sostanzialmente descrittivo, dal
momento che non si è precisato esser la Chiesa di Cristo il vero Israele di
Dio al di fuori del quale non c’è salvezza (come pur fa AeU 2).
L’art. 2 di AeU,
infatti, tratta dell’”esecuzione del disegno del Padre da parte del Figlio
Unigenito”, termine, quest’ultimo, che ribadisce la natura divina di Cristo
(viene dal Credo) e che il Vaticano II,
se non vado errato, non usa. Di sicuro non compare in questo capitolo di LG che
tratta del “mistero della Chiesa” fondata da Cristo. L’art. 2 AeU mette subito in evidenza che
Nostro Signore ha posto dei capi scelti da Lui (per electos a se praepositos)
per guidare “il popolo di Dio” alla vita eterna. A queste guide o pastori ha conferito
numerosi càrismi (che in greco vuol dire semplicemente doni, anche se
viene in genere inteso nel senso di doni particolari, grazie speciali),
da esercitarsi sotto la guida di Pietro (sub Petro exercendis), come
risulta da Mt 28, 18-20 e Mc 16, 15-16.
Il testo riporta interamente i due passi di Matteo e di Marco. In
quest’ultimo, nell’ultima perìcope, c’è l’ammonimento terribile, già
incontrato: “ Chi crederà e sarà
battezzato sarà salvo, chi in verità non crederà sarà condannato”.
Questo nuovo popolo,
che è “l’Israele di Dio” (Gal 6,16) non procede come una massa sparpagliata ma
in formazione serrata come un esercito (non
tanquam effusa turba, sed ut confertum agmen procedit). Così inquadrata dalla Gerarchia e dalla
dottrina resisterà alle insidie di Satana; nutrita del cibo spirituale, questa
milizia durerà sino alla fine del mondo ”nell’unità di fede, nella comunione
dei sacramenti e sotto il governo apostolico”.
Nel rappresentare “l’esecuzione” del disegno del Padre da parte del
Figlio Unigenito, l’articolo già richiama il Primato di Pietro; il dogma della
dannazione eterna per chi non avrà voluto credere; e di nuovo la teologia della
sostituzione, essendo ora la Chiesa (il popolo di Dio guidato come una milizia
dalla Gerarchia sub Petro) il vero Israël Dei. L’attuazione del disegno del Padre si ha
perciò nella Chiesa di Cristo, che ha sostituito completamente “l’Israele della
carne”, e fuori di essa non c’è salvezza, come si evince chiaramente da Mc
16,16 già ricordato.
4. La teologia della sostituzione appare in
ombra nella LG
Tutto ciò manca
completamente in LG 3, l’articolo che si occupa della “missione del Figlio”.
Qui la Chiesa, si è visto, è “il regno di Dio già presente in mistero”, nei
“predestinati”, che “cresce visibilmente nel mondo per la potenza di Dio”. La Chiesa non è più una “milizia”; è
soprattutto un “mistero”, il mistero della nostra redenzione. E se si accentua troppo la nota del “mistero”
(la cui esistenza nessuno ha mai negato) non si finisce con il privilegiare la
natura invisibile (detta anche spirituale o pneumatica) della
Chiesa a scapito di quella visibile, uscendo in tal modo dal seminato? In molti se lo sono chiesto, tra quelli che
non si sono lasciati abbagliare da tutta questa profusione di “mistero”. Inizio e crescita del mistero vengono
significati simbolicamente dal sangue e dall’acqua che uscirono dal costato del
Signore e dalle sue parole, in Gv 12, 32:
“quando sarò levato in alto da terra [in Croce], tutti attirerò a
me”(ivi). Nel sacrificio dell’altare “si
rinnova l’opera della nostra redenzione e si rappresenta l’unità dei fedeli,
che sono un solo corpo in Cristo” e “tutti gli uomini sono chiamati a questa
unione con Cristo” (LG 3). Il significato
del “mistero” che è la Chiesa viene dunque colto mediante questi simboli di
unità, che coinvolgono l’intero genere umano; non si chiarifica nell’esistenza,
natura, missione concreta della Chiesa Cattolica Romana, sotto il
governo del Vicario di Cristo.
5. La missione della Chiesa è forse quella
di realizzare l’unità del genere umano?
Qual è dunque la “missione” del Figlio,
secondo LG 3? La redenzione di tutti gli
uomini mediante l’unione con Cristo, già rappresentata dall’unità dei fedeli
nell’Eucaristia. Sembra pertanto che
l’unità di tutti in Cristo non dipenda tanto dalla conversione (e quindi
dall’ingresso nella Chiesa Cattolica) quanto dalla partecipazione
all’Eucarestia (che poi il Concilio rappresenterà con un nuovo termine, ignoto ai Padri della
Chiesa, a tutta la Tradizione, ricorrendo sempre alla nozione del mistero: “il mistero pasquale”). Linguaggio e simboli scelti da LG 3 non
coincidono con quelli di AeU. Manca del
tutto il riferimento ai testi citati dal secondo, sopra riportati, che mostrano
la netta separazione tra la Chiesa di Cristo e il mondo “regno del principe di
questo mondo”, “regno” che alla fine dei tempi sarà condannato senza
appello. Le immagini usate da LG sono
sempre tradizionali, ricavate da ben noti passi evangelici e dai Padri della
Chiesa. E tuttavia ciò non elimina
l’impressione di un’impostazione diversa, anche a causa delle omissioni;
l’impressione di trovarsi di fronte ad un concetto di Chiesa di Cristo – voglio
dire – che sembra miri a sviluppare soprattutto la componente misterica
della Chiesa, esaltata pertanto soprattutto come realtà salvifica invisibile,
spirituale. Ciò significa, come recita
l’art. 1 della LG, attribuire alla Chiesa soprattutto la missione di realizzare
in questo mondo l’unità di tutto il genere umano, dato che quest’ultimo
sarebbe di per sé già “in intima unione con Dio”, unione invisibile, pneumatica.
L’idea di questa “intima unione” non è del tutto chiara, per il comune
credente. Che significa,
esattamente? E come si giustifica alla
luce del dogma del peccato originale?
Dobbiamo ritenere che dopo la Caduta il genere umano sia rimasto “in
intima unione con Dio”? E come ha fatto,
se, come ha ribadito il dogmatico Concilio di Trento, esso, a causa del
peccato, ha perduto l’originaria somiglianza con Dio?[5]
Ora, una “missione”
così concepita non appare staccata dal corpo concreto di Cristo,
costituito dal “popolo di Dio” inteso come Chiesa militante sub Petro e gli
Apostoli? Cristo, afferma LG, chiama
tutti gli uomini all’unione con Lui, esemplificata dall’unione dei fedeli
nell’Eucaristia. Si è sempre attribuito
all’Eucarestia il significato simbolico (e quindi secondario) di rappresentare
l’unione dei fedeli tra di loro e loro con Cristo. Il significato primario (non
simbolico ma reale) è quello di essere il rinnovamento incruento del Sacrificio
sulla Croce, che soddisfa l’ira divina e ci procura misericordia per i nostri
peccati. L’Eucaristia come simbolo di
unione dei cattolici è ribadito anche
dalla Mystici Corporis: “Giacché
Gesù Cristo volle che questa mirabile unione, mai abbastanza lodata, per la
quale veniamo congiunti tra di noi e col divino nostro Capo, si manifestasse ai
credenti in modo speciale per mezzo del sacrificio eucaristico…”[6]. Ma come è utilizzato il simbolo da LG? Con il presentare l’unione con Cristo non
solo dei fedeli ma di tutti gli uomini, senza che per “tutti gli uomini” si affermi la
necessità di entrare preliminarmente nella Chiesa cattolica, di
pentirsi, convertirsi e mutar vita.
6. Unione
senza conversione a Cristo
In questa “unione” lo
strumento essenziale sembra esser l’Eucaristia non la Chiesa visibile,
militante appunto. E non deve
quest’ultima (la cui Gerarchia amministra i Sacramenti) considerarsi lo
strumento essenziale della “missione” di Cristo? La “missione” consisterebbe allora
soprattutto nel realizzare l’unità del genere umano e senza dire apertamente
che quest’unità (da un punto di vista cattolico) si può conseguire solo con la previa conversione a Cristo. Un’idea di unità separata da quella di
conversione non resta ambigua, per non dire falsa? Ma, direbbe qualcuno, “esser chiamati a
questa unione con Cristo” non significa forse, in modo indiretto o implicito,
“esser chiamati a convertirsi a Cristo”?
La frase si può certo leggere in questo modo, se si vuole. Vi ostano, comunque, a mio avviso due
osservazioni: 1) perché usare un linguaggio così indiretto? Che motivo c’era di
sostituire “unione” a “conversione”? 2)
“l’unione con Cristo” non è invocata sul presupposto che essa sia l’unica
possibilità di salvezza concessa all’uomo.
L’Eucarestia, adesso, in quanto simbolo, oltre che dell’unità dei
cattolici, ci deve anche dare l’immagine dell’unità del genere umano, in quanto
tale? Non ne risulta uno stravolgimento
del vero significato del simbolo?
7. Unità
dei credenti nella Chiesa, non del genere umano
Se questo significato di “unione” senza
“conversione” si può ricavare da LG 3, bisogna dire allora che esso non si
accorda con la Tradizione della Chiesa, dato che essa ha sempre visto come
scopo della “missione” del Signore (per ciò che riguarda l’idea dell’unità)
l’unità di coloro che credono in Cristo, l’unità di fede, che sola rende
testimonianza al Padre (Gv 17, 7-9; 20-21), non di tutto il genere umano in
quanto tale, mai proposta in passato ed anzi considerata alla stregua di una
pericolosa chimera. I credenti in Cristo
vengono da tutto il genere umano perché gli uomini sono tutti uguali, in quanto
creati da Dio, che non ha “preferenze di persone”: in questo senso solamente, la conversione può
realizzare l’unità complessiva del genere umano. Se si obietta che, nel comandare ai Discepoli
la loro missione, Cristo risorto ha detto : “rendete miei [discepoli] tutti i
popoli” (Mt 28,19), bisogna rispondere che Egli non voleva additar loro l’unità
del genere umano come scopo. Voleva dire
che essi dovevano predicare a tutti i popoli (superando l’esclusivismo
dell’Israele della carne, nel quale era storicamente prevalsa la componente
particolaristica, nazionalistica e millenaristica dell’Ebraismo) per farli
entrare nella Chiesa universale, che non realizza l’unità di tutto il genere
umano (cosa irrealistica, chimerica) ma di tutti i credenti, quale che sia la
loro razza o nazione. E tutti i credenti
non coincidono mai con tutti gli uomini.
Del resto, che tale unità non costituisse lo scopo della sua “missione”,
Nostro Signore non lo dimostra forse quando ci rivela che il Giorno del
Giudizio una parte dell’umanità (non sappiamo ovviamente quanto grande ma
sicuramente non piccola – Mt 7, 13-14) sarà dannata per sempre, per sua propria
colpa? E se una parte consistente dell’umanità se ne andrà in perdizione, ciò
significa che solo una parte si salverà e che nella vita eterna non si avrà
affatto l’unità di tutto il genere umano bensì la sua divisione perenne in
Eletti e Reprobi.
8. La
critica di Mons. Gherardini a LG 1, le sconcertanti repliche del prof. Cantoni
Suscitando le ire del
prof. Cantoni, Mons. Gherardini critica la dottrina proposta da LG 1 sulla
Chiesa come sacramento ossia “segno e strumento dell’intima unione con
Dio e dell’unità del genere umano”. Ecco
il passo, come riportato dal prof. Cantoni:
“Che la Chiesa, in
quanto sacramento di Cristo e sua presenza misterica nella storia dell’uomo,
sia per questo segno e strumento della grazia che salva, è una grande e
consolante verità. Che tra gli effetti
della sua azione sacramentale s’annoveri anche l’unità del genere umano starà
scritto tra le nuvole, ma è lontano dalla più accreditata e consolidata
dottrina ecclesiologica, la quale prevede, sì, un’azione di causalità esemplare
della “Chiesa una” sull’”unità” di tutt’i popoli, ma non una causalità
sacramentale. L’aver sostenuto il
contrario non è, tuttavia, senza significato:
apre alla Chiesa una prospettiva sociologica e perfino socio-politica
[…] Con enorme sorpresa, LG 1 introduce
qui due inesplicabili novità: l’una
relativa alla causa finale e l’altra alla fonte dell’asserto. Allarga la causa finale dalla salvezza eterna
all’”unità dell’intero genere umano” e collega il tutto, anche lo stupefacente
allargamento, ai “precedenti Concili” dei quali intende continuare lo
svolgimento tematico”[7].
Una prima critica del
prof. Cantoni si concentra su quanto Mons. Gherardini scriveva circa trent’anni
fa, quando era meno severo nei confronti del Concilio, e non mette conto
occuparsene, come ho spiegato sopra. In
senso specifico, egli ribatte nel seguente modo:
“In realtà l’”intima
unione con Dio” e “l’unità di tutto il genere umano” di cui parla LG 1 si
devono intendere alla luce di una lettura teologica e quindi unitaria della
Sacra Scrittura, in cui i due episodi di Babele (Gn 11) e della Pentecoste
(Atti 2) si richiamano e si illuminano a vicenda. La divisione che minaccia e impedisce
l’unione con Dio e l’unità dell’uomo con se stesso e con gli altri è dunque il
peccato, a cui si contrappone, come unica forza unicamente proporzionata (anzi
sovrabbondante), l’efficacia salvifica che promana dai sacramenti da cui la
Chiesa è fatta e che essa stessa fa”.
Giovanni Paolo II, precisa l’Autore, ha illustrato questo aspetto nel
1984, nell’esortazione apostolica Reconciliatio et Paenitentia. Ma questo è solo il primo punto. Continua infatti il Nostro:
“Non riesco poi
proprio a capire che cosa ci sia di scandaloso nell’affermare che il Verbo
incarnato causi, mediante la Chiesa che è in qualche modo (quodammodo…)
la continuazione dell’incarnazione stessa, l’unità del genere umano. Mi parrebbe scandaloso affermare il
contrario! Che questa unità non sia
primariamente di carattere sociologico è evidente (che cosa c’entrerebbe allora
“l’intima unione con Dio”?), ma è altrettanto evidente che là dove si produce
per davvero non può non avere anche, a lungo andare, degli effetti sociologici
e politici: la fede cristiana ha fatto l’Europa”. Come sappiamo, quest’unità non comprenderà
tutti, né in questo mondo né nell’altro.
“Non tutti gli uomini, singolarmente presi, partecipano e parteciperanno
di questa “unità di tutto il genere umano”, come non tutti gli uomini
partecipano e parteciperanno (anche se non sappiamo quali e quanti) della
salvezza di Cristo. Questa
consapevolezza però non ha mai impedito ai cristiani di scrivere, ricamare e
scolpire in tanti modi e luoghi “JHS” (Jesus Hominum Salvator)”[8].
L’accenno alla “fede
cristiana che ha fatto l’Europa” mi sembra fuori luogo, per il semplice motivo
che (lo capiscono tutti) “la prospettiva socio-politica” cui allude Mons.
Gherardini, dischiusa da questa nuova missione di unificare tutto il genere
umano, è in realtà quella della “teologia della liberazione” dei popoli nelle
sue varie forme. Essa ha provocato lo stravolgimento dell’attività missionaria
in un’attività rivoluzionaria o a sfondo rivoluzionario che, al posto della
conversione delle anime e della costruzione equilibrata di una società
cristiana, mette le lotte per “la dignità dell’uomo”, per “i diritti umani”,
ivi compresi quelli “delle donne” concepiti in modo simile a certi assunti del
femminismo, lotte da condursi ovviamente assieme a tutte le forze laiche
“progressiste”, anticristiane per definizione. È la prospettiva politicizzata
con la quale le Conferenze episcopali guardano al mondo, passando parte
notevole del loro tempo ad occuparsi di economia, politica, finanza in
ponderosi e velleitari documenti, auspicanti, alla fin fine, la soluzione di
tutti i problemi della terra ad opera di un’istituenda “Autorità mondiale” che
elimini la povertà ed unifichi il mondo!
Si noti come manchi,
nella replica del prof. Cantoni, qualsiasi accenno alla conversione al
Cattolicesimo, per realizzare (l’auspicata) unità del genere umano. La “divisione”, che è anche quella dell’uomo
“con sé stesso”, sarebbe superata dalla “efficacia salvifica” dei Sacramenti.
Ma ci si deve battezzare o no? Si deve o
no entrare nella Chiesa Cattolica (Apostolica, Romana) per conseguire questa
“efficacia salvifica”? Dal testo non lo
si capisce. Mancando un chiaro
riferimento in questo senso, tutto il discorso resta astratto e nello stesso
tempo ambiguo poiché fa apparire un’unità del genere umano che la Chiesa
dovrebbe realizzare senza però convertire nessuno. Ma bastano i Sacramenti da soli a vincere “il
peccato” che divide, senza l’appartenenza alla Chiesa di chi deve fruirne? Forse oggi si è convinti che bastino e anche
siffatta convinzione spiegherebbe il perdurare del grande scandalo delle
cosiddette “liturgie ecumeniche”, con invenzione di riti e partecipazione di
Acattolici di ogni tipo.
In passato le idee
erano nettamente più chiare. Si osservi
quanto scriveva a commento dell’episodio della Torre di Babele l’edizione della
Bibbia della CEI, anteriore al Vaticano II: “Allora Dio, per separare, confuse le lingue;
nella Pentecoste, invece, per unire tutti i popoli in una sola Chiesa, dette
agli Apostoli il dono di parlare le lingue.
Oggi la Chiesa continua il fatto iniziato nella Pentecoste e parla tutte
le lingue, perché si è estesa ad ogni nazione della terra. Sicché tutti i Cattolici, anche se di rito
diverso, credono le stesse verità, recitano il medesimo Credo, obbediscono al
medesimo Papa e appartengono al medesimo regno di Dio. Il loro punto d’incontro è duplice: nelle chiese, ai piedi dell’altare dov’è
Cristo nell’Eucarestia; e nei suoi ministri, in Vaticano ove dimora il suo
Vicario, faro di luce per tutte le genti”[9]. Qui è esposto chiaramente il tradizionale
modo di intendere la missione della Chiesa:
unire tutti i popoli, per quanto possibile, in una sola Chiesa, nella
Chiesa Cattolica Romana, che realizza l’unità di tutti i suoi credenti, non
del genere umano.
9. Un
fine “scandaloso”, preso a prestito dal pensiero profano
Che
quest’unità del genere umano possa apparire “scandalosa” se riferita al
Cristianesimo, come fa capire Mons. Gherardini, ciò risulta a mio avviso già da
questa semplice riflessione: l’ideale
che essa rappresenta attribuisce al “genere umano” un valore autonomo e
indipendente, ragion per cui la supposta sua unità verrebbe a costituire un
fine del tutto terreno e fatalmente “sociologico” ossia “politico”, che metterebbe la Chiesa in contraddizione con la
propria vocazione sovrannaturale, che rimane sempre quella di condurre il
maggior numero possibile di anime (una per una) alla vita eterna, senza
preoccuparsi dell’unità o meno del genere umano.
È noto, del resto, che
tale ideale non proviene dalla Tradizione della Chiesa ma rappresenta
un’aspirazione ed un mito del pensiero laico.
Se vogliamo, una delle sue peggiori utopie. Per il Cattolicesimo, si tratta di un prodotto d’importazione. L’unità del genere umano, quale prodotto
della ragione resasi autonoma rispetto alla Rivelazione, è stato ed ancora è
uno degli obiettivi vorrei dire classici del pensiero moderno e contemporaneo.
Compare nella filosofia della storia di taglio illuministico: dei Condorcet,
dei Kant.
Kant concepisce la
storia come un progresso costante del genere umano “verso il meglio”,
rappresentato dall’affermarsi graduale di un’etica fondata solamente sulla
ragione dell’uomo e di un “diritto cosmopolitico” capace di realizzare, alla
fine, l’unità del genere umano nella “pace perpetua”. Infatti, le tesi 8 e 9
della sua Idea della storia universale da un punto di vista cosmopolitico
(1784), sostengono che la storia non è altro che l’esecuzione “di un piano
occulto della natura per realizzare una costituzione politica perfetta”, in
modo da realizzare altresì “la perfetta unione civile del genere umano”.
Nel pensiero di Mazzini, apostolo dell’idea di
Patria ma rivoluzionario visionario e
panteista in religione, troviamo ripetuta applicazione di un’idea tipica
del socialismo utopistico, quella del Cristianesimo come religione dell’Umanità
che, in nome della Fratellanza Universale, deve realizzare l’unità del genere
umano; rappresentazione del Cristianesimo che ne falsa completamente il
significato, mutandolo in quello di una religione secolare, politica[10].
E
circa la verità a noi rivelata, secondo la quale una parte dell’umanità non si
salverà, quale posizione assume il prof. Cantoni? Replica con un’immagine, quella di Jesus
Hominum Salvator, che a ben vedere va contro la sua tesi. Infatti, essa ci dice che il sensus fidei del
popolo ha sempre ritenuto Gesù “salvatore degli uomini” non di tutti gli
uomini, in quanto tali, come se potesse salvarsi anche chi si rifiuta
coscientemente alla fede in Cristo e alla Grazia.
10. Quante
“salvezze” esistono, per il prof. Cantoni?
Il
lettore avrà notato un’altra stranezza nell’esposizione del Nostro. Egli scrive
infatti: “[…] non tutti gli uomini partecipano e parteciperanno […] della
salvezza di Cristo”. Mi chiedo: c’è forse bisogno di precisare che la
salvezza è la “salvezza di Cristo”?
Esiste forse un’altra “salvezza”, per un cattolico? Una salvezza che non viene da Nostro Signore? Chi scrive “salvezza di Cristo” potrebbe
credere che esistono altre forme di salvezza, non di Cristo. Ma questo sospetto, che il nostro Autore –
sacerdote cattolico – ammetta altri tipi di salvezza, su che cosa si
fonda? Su un altro passo del suo lavoro,
nel quale egli sembra presentare il Corano come portatore di una verità
rivelata, allo stesso modo dei Vangeli!
Polemizzando con le
critiche di Mons. Gherardini alla costituzione conciliare Dei Verbum sulla divina Rivelazione perché essa non
parla mai di “Fonti della Rivelazione”, il Nostro afferma che la critica non ha
motivo di essere perché, scrive, il concilio ha voluto identificare “la parola
di Dio annunciata dalla Chiesa […] con Cristo stesso, essendo lui il culmine e
la pienezza della rivelazione. Così
facendo si voleva evitare una comprensione troppo “concettualista” del sacro
deposito, facendo capire che esso non è un insieme di proposizioni, ma coincide
ultimamente con Cristo stesso”[11]. Confesso che, come semplice credente, non
riesco a comprendere il significato di queste affermazioni. Il “sacro deposito” non consta di articoli di
fede che possano esser spiegati razionalmente, secondo concetti comprensibili, anche se vertono su verità
rivelate che restano inaccessibili all’intelletto umano? Sembra di no.
Esso “non è un insieme di proposizioni”, esso “coincide con
Cristo”. Che significa? Ma arrivo al punto che mi preme. Il fatto che “il sacro deposito” coincida con
Cristo stesso, “dà provvidenzialmente un sapore realistico alla rivelazione
cristiana e contribuisce a distinguerla in modo più netto da altri modelli di
rivelazione, come per esempio quella coranica.
Il cristianesimo non è una “religione del libro””[12].
Dunque, il Corano
costituirebbe “un altro modello di rivelazione”? E che significa affermare “il sapore
realistico della rivelazione cristiana”?
È vera o non è vera? Il prof.
Cantoni crede alla storicità dei Vangeli?
Se ci crede, perché usa un termine così ambiguo come “sapore
realistico”? Ma torniamo al Corano. Esso costituisce dunque, per il Nostro, un
“altro modello di rivelazione”. Una
rivelazione concorrente, per così dire!
Il prof. Cantoni ritiene dunque vi siano più “modelli di rivelazione” e
quindi più “salvezze”. Si comprende
allora perché egli senta il bisogno di scrivere: “salvezza di Cristo”. C’è anche la “salvezza di Maometto”, a quanto
pare. E sicuramente anche quella offerta da tutte le altre religioni, comprese
quelle che adorano i feticci e le forze della natura. Di fronte a tanta
confusione, che sembra proprio il risultato
dall’ecumenismo attuale, figlio del Vaticano II, bisogna ribadire il
vero ossia che per noi Cattolici il Corano non può ritenersi verità
rivelata. Primo, perché è verità di fede
che la Rivelazione (quella autentica) è finita con la morte dell’ultimo
Apostolo, più di cinque secoli prima dell’avvento di Maometto. Secondo, perché il Corano è un libro che nega
tutti gli elementi essenziali del Cristianesimo, sia quelli religiosi in senso
stretto (l’autenticità dei Vangeli, la S.ma Trinità, la nascita miracolosa e la
divinità di Cristo, la sua morte in croce, la Resurrezione) sia quelli che costituiscono
il fondamento della morale cristiana. Il
secondo punto conferma nel merito il primo.
11. Vietato mettere in dubbio la
“continuità” del Vaticano II
E come osa Mons.
Gherardini – continua il prof. Cantoni – mettere in dubbio la “continuità”
dell’insegnamento del Vaticano II a proposito della nuova dottrina che
“allarga” la causa finale dell’azione della Chiesa “dalla salvezza eterna
all’unità del genere umano”?
“Non riesco neppure a
capire in che cosa consista la novità dell’affermazione di un concilio non
materialmente contenuta in quelli precedenti:
quello che dichiara, decreta e definisce il concilio di Trento non è
certamente contenuto nei documenti del concilio di Nicea, ma non siamo perciò
autorizzati a concludere che non ne sia la “continuazione”. Tutto il magistero della Chiesa è un unico
discorso e tutte le volte che riprende a parlare è come se dicesse: dicebamus heri”[13].
Non siamo autorizzati
a concludere che il Tridentino non sia la continuazione del Niceno I perché,
dal punto di vista del Deposito della Fede, ciò che il Tridentino insegna è già
contenuto nel Niceno e non vi contraddice in alcun modo. Ma il Vaticano II ha voluto trarre “nuovi
elementi [nova congruentia] dalla dottrina sacra e dalla tradizione
della Chiesa”, dichiarando naturalmente che essi sono “in costante armonia con
quelli già posseduti”(Dichiarazione Dignitatis humanae, sulla libertà
religiosa, 1). Poiché l’ossequio che
Nostro Signore richiede al credente è sempre un “ossequio razionale” (Rm 12,1), noi fedeli, affidandoci ai princìpi
della recta ratio, abbiamo tutto il diritto di confrontare questi “nuovi
elementi”, non presentati come dogmi di fede ma come princìpi di una nuova
pastorale, con quelli della Tradizione della Chiesa per verificare se sono effettivamente
“in costante armonia” con essi. Il
disastro che si è abbattuto sulla Chiesa dopo il Vaticano II, disastro tuttora
perdurante, rende doppiamente legittimo questo confronto. Certamente, “tutto il magistero della Chiesa
è un unico discorso”. Ma sempre sul
presupposto che in ogni sua parte questo discorso sia fedele al Deposito della
Fede (1 Tm 6,2). Ora, la “novità” non consiste qui solo nel
non esser “materialmente contenuta” la nuova dottrina nei Concili
precedenti: dal punto di vista della sua
qualità, di ciò che essa dice, la novità consiste nell’apparire essa
ambigua e contorta e persino non conforme al Deposito per alcuni aspetti. La questione non è di forma ma di sostanza,
riguarda il merito di ciò che viene proposto. All’analisi imparziale, queste nuove
dottrine, già a causa della forma ambigua, obliqua nella quale vengono esposte,
non sembrano affatto costituire un approfondimento e un chiarimento del
Dogma. Al contrario, esse fanno
addirittura scorgere la presenza di errori già condannati dalla Chiesa, come
per esempio il “pancristismo” precorritore del “neoecumenismo” attuale.
Torniamo ora al nostro
esame parallelo di AeU 1-7 e LG 1-8.
IV.
STRUTTURA GENERALE DI “AETERNUS UNIGENITI” 3-7
1. Sintesi di “Aeternus Unigeniti” 3-7 nel confronto con “Lumen Gentium” 4-8
Dopo aver illustrato
nei suoi primi due articoli l’intenzione (consilium) del Padre e la sua
esecuzione da parte del Figlio Unigenito, lo schema AeU espone l’indole (indoles)
o natura dello “Israele di Dio”, della Chiesa, in sé (art. 3.1) e come risulta
dalle varie “figure” nelle quali è rappresentata (expressa) (art.
3.2). Tra queste figure (regno, casa,
tempio di Dio, gregge, ovile, sposa di Cristo, colonna e fondamento della
verità), la più importante è quella della Chiesa come “Corpo di Cristo”, perché
– si scrive - rende al meglio l’unità della Chiesa con il suo
fondatore e l’unità dell’elemento “sociale” con quello “mistico”, continuamente
presente (art. 4). Si “enuclea” pertanto
la figura del corpo nelle sue componenti (art. 5), per dimostrare alla fine
come la “societas” che è la Chiesa visibile sia “il mistico Corpo di Cristo” ad
opera dello Spirito Santo, condannando, sulla scia della Mystici Corporis,
l’errore (neomodernista) di chi sosteneva una concezione della Chiesa
cosiddetta “carismatica o fondata sull’amore”, del tutto separata dalla Chiesa
visibile e gerarchica (art. 6). Perciò
lo schema, dopo aver delineato la Chiesa come il vero Israele di Dio, Corpo
Mistico di Cristo, termina con l’art. 7 che afferma in modo perentorio e
definitivo esser l’unica e vera Chiesa di Cristo la Chiesa Cattolica
Romana. Per ciò che riguarda l’Ebraismo,
lo schema riafferma in modo netto il principio a fondamento della teologia
della sostituzione, secondo il quale, come dice il nome stesso, dopo il ripudio
del Messia (Nostro Signore Gesù Cristo) da parte dell’ Israele della carne, la
Chiesa, da Cristo stesso fondata, si è inevitabilmente sostituita ad esso nel
disegno salvifico del Padre: essa è ora
l’Israele di Dio, l’unica porta della salvezza.
Lo schema ribadisce in
modo nettissimo l’identità assoluta dell’unica e vera Chiesa di Cristo con la
Chiesa Cattolica Romana, che è pertanto il Corpo Mistico di Cristo.
La struttura di AeU è
ripresa da LG 3-8 ma con consistenti modifiche, provocate sia da
aggiunte di parti nuove che da rilevanti
omissioni. Di LG 3, dedicato alla
“Missione del Figlio”, ho già detto ampiamente.
Colpisce poi l’ampio articolo dedicato allo Spirito Santo (LG 4). Si tratta di un approfondimento specifico del
Vaticano II. In AeU, come vedremo,
l’opera dello Spirito Santo era menzionata in modo più sobrio, rigorosamente
inquadrata nell’ambito del Corpo Mistico, del quale lo Spirito Santo è
considerato per l’appunto “l’anima”.
L’approfondimento apportato dal Vaticano II è stato salutato con
entusiasmo da molti. In effetti,
quest’articolo sullo “Spirito santificatore della Chiesa” è una vera e propria
palinodia dell’azione dello Spirito Santo, costruita utilizzando tutta una serie
di ineccepibili passi neotestamentari e dei Padri della Chiesa. Tuttavia sembrano esserci due sfumature che,
a mio avviso, intorbidano l’atmosfera.
Su di esse mi soffermerò in seguito.
Proseguo ora nella sintesi generale.
Dopo il grande rilievo dato all’azione dello Spirito Santo, LG 5
illustra il mistero della Chiesa esponendo il concetto del “Regno di Dio”. Anche questa parte è nuova rispetto allo
schema AeU. Com’è rappresentato qui il
Regno di Dio? Nella persona, nelle
parole, nelle opere di Nostro Signore (che ha per l’appunto annunciato
l’avvento del Regno di Dio) attraverso la consueta, nutrita serie di
riferimenti a passi evangelici. La “Chiesa”, in relazione al Regno, appare alla fine dell’articolo per ricordarci
che essa deve annunciare ed instaurare in tutte le genti il Regno mentre
costituisce di questo Regno “il germe e l’inizio su questa terra”. Essa poi “anela al regno perfetto”, che
ancora non possiede. Ma questo “regno
perfetto” si trova in questo mondo o nell’altro? Il testo mantiene la dovuta distinzione tra
la natura e il sovrannaturale? Né si
afferma chiaramente la tesi tradizionale: che la Chiesa cattolica sub Petro,
fondata da Gesù, è già l’attuazione del Regno di Dio in terra[14].
L’art. 6 LG riprende
il tema delle immagini della Chiesa.
AeU, come si è visto, si era soffermato soprattutto sulla figura del
“Corpo di Cristo”, che risale a S. Paolo, considerata la più efficace per
capire effettivamente la natura della Chiesa.
LG 6 amplia enormemente l’analisi di queste immagini della Chiesa,
preoccupandosi tra l’altro di stabilire un rapporto tra di esse e l’Antico
Testamento, in quanto immagini già annunziate dai Profeti. Da tutta questa analisi, come già per l’art.
5, emerge soprattutto una visione spirituale ed escatologica della Chiesa, ma
di un’escatologia un po’ particolare poiché il Sovrannaturale non vi si
distingue nettamente.
Né mi sembra che si
cambi impostazione nell’art. 7, che tratta della Chiesa “Corpo Mistico di
Cristo”. Non abbiamo qui una ripetizione
di quanto detto nello schema AeU.
L’articolo, come vedremo, sembra voler accentuare l’aspetto per così
dire “mistico” del Corpo Mistico di Cristo e tutto il discorso sembra vertere
più su Cristo che sul “Corpo di Cristo”, rappresentato dalla Chiesa Cattolica
Romana nella sua realtà storica concreta.
Dopo questa sintetica
presentazione, vediamo ora in che modo AeU delinei la “figura” del Corpo
Mistico di Cristo, scelta tra tutte quelle che rappresentano tradizionalmente
l’immagine della Chiesa.
2. L’“Israele
di Dio” denominato “Chiesa di Dio”, “Corpo di Cristo” e “Corpo Mistico di
Cristo” coincide unicamente con la Chiesa Cattolica Romana, unica vera Chiesa
di Cristo, secondo AeU
L’art. 3.1 di AeU
tratta della natura (indoles) dell’Israele di Dio, manifestata in varie
figure, a cominciare da quella espressa dal termine ecclèsia, Chiesa,
che in greco (ecclesìa) vuol dire originariamente “assemblea”,
“assemblea popolare”, “adunanza” (da ek-kaléo: chiamo fuori) ma che si
traduce anche con “comunità” o “popolo”.
All’inizio dell’articolo si trova il passo cui ho già accennato,
contenente il paragone con l’Antico Testamento, ripreso poi da LG 9 (vedi supra,
cap. III, § 3).
“Pertanto come Mosè
chiamò Chiesa di Dio [Dei Ecclesiam] l’Israele secondo la carne che
peregrinava nel deserto, così Cristo si riferì all’Israele di Dio che avanzando
nell’era presente aspira ad una città futura ed eterna, come alla sua Chiesa,
non solo perché l’acquistò con il suo sangue ma anche perché, dopo averla
preparata al suo fine con i mezzi opportuni, l’edificò su Pietro (Mt
16,18) e sui suoi successori [i Pontefici], nei quali rimanesse in perpetuo il
medesimo Pietro con la sua autorità”(AeU 3.1). E perché gli uomini capissero meglio la
natura della Chiesa, prosegue l’articolo, lui stesso o per mezzo degli Apostoli
la rappresentò con diverse figure e nomi:
“regno, casa di Dio, tempio di Dio, gregge, ovile, sposa di Cristo,
colonna e fondamento della verità”.
Ho messo la parte finale della citazione
iniziale in corsivo sottolineato per metter in evidenza la parte della frase
che è stata lasciata cadere da LG 9, che riporta invece il resto, come ho
ricordato sopra. La parte lasciata
cadere è proprio quella che identifica sin dall’inizio l’Israele di Dio con la
“roccia” costituita per volere di Cristo da S. Pietro; che identifica perciò la
Chiesa di Cristo con la Chiesa Cattolica Romana, i cui Pontefici sono i
successori legittimi di S. Pietro, avendo essi soli mantenuto la continuità
apostolica e dottrinale, come ho già ricordato.
3. Il senso del parallelo con l’Antico
Testamento
Il testo di AeU rinvia
in nota a due passi dell’Antico Testamento per documentare l’appellativo Dei
Ecclesia conferito al popolo ebraico:
Num 20,4 e Deut 23,2. Nel primo
si narra di un principio di ribellione del “popolo del Signore” (Ecclesia
Dei) ovvero del popolo ebraico contro Mosè ed Aronne durante la traversata
del deserto, allorché si era trovato momentaneamente senz’acqua. Nel secondo, si enunciano le categorie degli
esclusi dalla “assemblea di Israele”, ordinando: “Il bastardo nato da meretricio, non entrerà
nella comunità del Signore [Ecclesia Dei] sino alla decima generazione”.
Il riferimento ai
Libri di Mosè permette di stabilire la giusta analogia tra Antico e Nuovo
Testamento, che non è tra cose uguali.
La Ecclesia mosaica è quella limitata e ristretta all’Israele
della carne e riguarda le sue vicende e leggi particolari, anche se
inquadrate nell’economia della
salvezza. Invece la Ecclesia di
Cristo è stata concepita dal Signore e dichiarata “sua”, non solo perché
acquisita con il sacrificio della Croce, perché provvista da Lui dei mezzi
necessari al suo fine sovrannaturale, ma anche perché edificata “su Pietro e i
suoi successori”, cioè sui Romani Pontefici, la cui autorità si fonda
direttamente su Cristo non su quella del collegio apostolico né sulla “carne”
di un’istituzione e di una tradizione meramente nazionali. La Chiesa, pertanto, non si incorpora in un
determinato popolo: il suo “corpo” è
quello di Cristo, che ne è il capo.
Stabilita in modo
netto da AeU 3.1 la differenza tra l’Ecclesia Dei mosaica e l’Ecclesia
Dei fondata da Nostro Signore, AeU 4 inizia l’analisi della Chiesa come
“figura del corpo di Cristo”: nozione fondamentale, che ribadisce l’origine e
la natura sovrannaturale della Chiesa militante, senza attenuarne il carattere
appunto “militante”, terreno e visibile, gerarchico, sociale.
4. La Chiesa come “Corpo di Cristo” in AeU
4
Di tutte le figure
della Chiesa, prosegue il testo, quella del “corpo” occupa il posto principale
“perché esprime in modo più chiaro l’unione dell’elemento sociale [della Chiesa
come societas terrena] con quello mistico”. Il concetto compare in S. Paolo, “ispirato da
Cristo”, in due noti passi: Col 1,18 ed
Ef 1,23: “Ed egli [Cristo] è il capo del
corpo che è la Chiesa”; “…[Egli] è il
capo supremo della Chiesa, che è il corpo di Lui e complemento di Colui che
tutto completa in tutti”.
L’immagine del corpo
implica quella dell’unità del corpo con il Capo, Nostro Signore, e dei membri del
corpo tra di loro. “Perciò – continua
Aeu 4 – tutti coloro che sono entrati nella Chiesa col battesimo e si sono
rivestiti di Cristo nella comunione dei santi [Gal 3, 27], allorché partecipano
dell’unico pane eucaristico, raggiungono il compimento nell’unità dell’unico
Corpo [di Cristo], “perché unico pane ed unico corpo formiamo noi pur essendo
molti, poiché tutti partecipiamo dell’unico pane”” [1 Cr 10,17]. Quest’immagine tradizionale che connette
l’unità del Corpo di Cristo all’unità che simbolicamente si realizza
nell’Eucaristia, è ripresa, come si è visto, da LG 3 (vedi supra, cap.
III, § 5). Ma in AeU 4 l’unità,
conformemente alla dottrina tradizionale, è rigorosamente circoscritta ai soli
battezzati che professino la vera fede in parole e opere (nel modo di
esprimersi di S. Paolo: che si siano
rivestiti di Cristo nella comunione dei Santi) senza accenni ad allargamenti ed
estensioni che giungano a ricomprendere tutti gli uomini, anche i non
convertiti (unità di tutto il genere umano)!
Gli accenni all’estensione dell’unità del Corpo di Cristo a tutti gli
uomini, nel senso appena indicato, sono una caratteristica del Vaticano II.
Stabilito in che senso
l’immagine del “Corpo di Cristo” faccia intendere l’unità dell’elemento
“sociale” con quello “mistico” nella Chiesa, l’art. 5 di AeU procede ad
“enucleare la figura del corpo” nei suoi elementi costitutivi.
Il corpo che è la
Chiesa è innanzitutto “visibile” (oculis cernitur: si scorge con gli occhi, come soleva dire
Leone XIII) ed è composto da molti membri di diversa natura (“chierici e laici,
governanti e sudditi, maestri e discepoli”) che danno luogo a diversi ordini (status)
nella Chiesa stessa, ai quali presiede Cristo, che fornisce le grazie
necessarie per mantenerli nel giusto equilibrio. I vari ordini della Chiesa
sono analizzati nei capitoli successivi dello schema. Ma nella “compagine dei membri del corpo” c’è
un’altra connexio che opera a mantenere l’unità del tutto; connexio
soprannaturale, che risale anch’essa al Signore, da lui illustrata quando ha
detto: “Io sono la vite, voi i
tralci. Colui che rimane in Me e Io in
lui, porta abbondanti frutti; perché senza di Me non potete far nulla” (Gv
15,5). La connessione profonda che
mantiene l’unità della Chiesa visibile, l’unità di un vero e proprio Corpo, è
quindi sempre sovrannaturale ed è prodotta dallo Spirito Santo. La seconda e la terza Persona della
Santissima Trinità concorrono quindi a costituire e a mantenere la Chiesa
visibile come unità, unità dei soli credenti non di tutto il genere umano.
“Così come infatti
Cristo è il Capo del Corpo, allo stesso modo lo Spirito Santo, che inabita nel
Capo e nelle membra, è la sua Anima;
essendo uno, costituisce e tiene tutto il corpo in unità e a tutti i
membri, secondo la misura del dono di Cristo, amministra la grazia e i doni, e
conferisce i carismi. Per tal motivo la
Chiesa è detta essere una persona veramente mistica in Cristo Gesù: “Infatti voi tutti siete uno in Cristo Gesù”
(Gal 3, 28).
Qual è il rapporto tra
lo Spirito Santo e la Chiesa corpo di Cristo?
Lo Spirito Santo è “l’anima” della Chiesa ma senza esser mai
indipendente dal Capo, cioè da Cristo.
Non può esistere un dualismo tra il Capo del corpo e l’Anima dello
stesso. Quest’immagine agostiniana è
ripresa da Leone XIII e successivamente dalla Mystici Corporis. Fuor di metafora: lo Spirito Santo “amministra” (administrat)
e “conferisce” (confert) la grazia, i doni, i “carismi” (nel senso di
doni particolari, eccezionali) ma sempre “secondo la misura del dono di
Cristo”. Questo principio fu ribadito
con estrema chiarezza nella Mystici Corporis[15]. Esso è verità rivelata da S. Paolo. Proviene
da Ef 4,7, da un capitolo nel quale S. Paolo sta spiegando le virtù
fondamentali della vita cristiana: “A
ciascuno poi di noi fu data la grazia secondo la misura del dono di Cristo” [data
est gratia secundum mensuram donationis Christi]. Il “dono”
è molteplice: “Ed egli diede gli
uni apostoli, gli altri profeti, gli altri evangelisti, gli altri pastori e
maestri, per il perfezionamento dei santi [dei credenti fra i Gentili], in
vista dell’opera del ministero, che è l’edificazione del corpo di Cristo…”(Ef
4,11-12). Naturalmente, come mostra il
prosieguo dell’epistola paolina, “i doni di Cristo” non sono riservati al solo
corpo docente della Chiesa nascente, essi sono attribuiti a tutti i membri
della Chiesa, come appunto ribadito da AeU 5. Senza un’illustrazione precisa
dell’opera dello Spirito Santo non si potrebbe definire la Chiesa come “corpo
mistico di Cristo”. E
quest’illustrazione riflette la dottrina ortodossa, il dogma secondo il quale
“la terza Persona della Santissima Trinità procede per spirazione dalla prima e
dalla seconda, come da un solo principio”[16].
5. Il peccato dei suoi membri non lede la
santità della Chiesa
L’ultimo paragrafo di AeU 5 tratta della
santità della Chiesa nonostante i peccati commessi dai “membri malati” che ne
fanno parte.
“Tuttavia i peccati di
costoro offendono in verità la Chiesa ma non ne ledono la santità essenziale;
infatti, la Chiesa è santa soprattutto perché, come sposa di Cristo è
costituita nella santità, genera i suoi membri nella santità e non manca mai di
membri che eccellono nella santità.
Inoltre, non si limita a reprimere i peccati dei suoi membri ma si
adopera affinché questi stessi membri malati siano ricondotti nella pristina
condizione di santità, a volte persino più elevata”.
Avendo definito la
Chiesa come “Corpo Mistico di Cristo”, bisogna spiegare il rapporto che con
esso hanno quei membri che cadano nel peccato.
E chi è, anche tra i cristiani, che non sia peccatore? Il fatto di appartenere alla Chiesa non li
salva dall’eterna dannazione, se induriscono nel peccato. In nota, AeU 5 cita S. Agostino, il quale
insegnava che “anche nel Corpo di Cristo l’amore per la meretrice manda
all’Inferno” (Serm. 349, 2: PL
39, 1530), ove con “meretricis amorem” si devono evidentemente intendere
i peccati della carne in tutti i loro vari aspetti, per maschi e femmine.
Ma perché la Chiesa
può sanare il membro malato del suo corpo, grazie all’uso dei Sacramenti,
istituiti da Cristo come strumenti, se così posso dire, della santità
della Chiesa? Proprio perché è sempre
santa in quanto Sposa di Cristo, il quale, tramite lo Spirito Santo, non
abbandona la sua Chiesa: il peccato del
cristiano “offende” il Corpo Mistico ma senza “lederlo”. Infatti, una cosa è “l’offesa”, un’altra la
“lesione”: i nostri peccati offendono
Dio ma non possono certo lederlo, ferirlo nella sua divinità, ulcerandola o
diminuendola! Idem per la Santa Chiesa, fondata da Nostro Signore. Da sé stessa, proprio perché assistita
sovrannaturalmente dal Signore e dallo Spirito Santo, essa può sempre trovare
le forze per sanare il male al suo interno sia punendo sia esercitando il ministero della misericordia,
che mira al pentimento e alla conversione del peccatore. Inoltre, osservo, se la Chiesa dovesse
ritenersi in quanto tale peccatrice, e quindi esserlo nella sua
totalità, lo status di peccato non dovrebbe coinvolgere, oltre a tutte le
membra, anche il Capo, ossia Nostro Signore?
Se la Chiesa è il “corpo mistico di Cristo” e tale corpo è immerso nel
peccato, come fa a non considerarsi “peccatore” anche il Capo del Corpo? A tali conseguenze aberranti conduce, dunque,
la logica intrinseca all’idea assurda di una Chiesa “peccatrice”.
6. LG 8 sembra attribuire il peccato anche
alla Chiesa come tale
Questo stesso concetto
è ripreso nel penultimo paragrafo di Lumen gentium 8, ma in modo che a
molti è parso ambiguo. Recita infatti il
testo: “Ma mentre Cristo, “santo,
innocente, immacolato” non conobbe il peccato e venne solo allo scopo di
espiare i peccati del popolo, la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori
ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza
continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento [Ecclesia in
proprio sinu peccatores complectentes, sancta simul et semper purificanda,
poenitentiam et renovationem continuo prosequitur]” (LG 8.3). Si vede subito che qui non è stata ripresa la
distinzione di AeU tra “offesa” e “lesione”.
Dobbiamo allora ritenere che il peccato dei Cattolici incida sulla
santità della Chiesa? In effetti, il
testo potrebbe legittimare un’interpretazione di questo genere perché afferma
che, in conseguenza del peccato dei suoi membri, è la Chiesa in quanto tale
ad aver bisogno di “purificazione” e ad avanzare continuamente “per il cammino della penitenza”. Ora, chi, se non il peccatore, ha bisogno di
“purificazione” e di avanzare senza posa “per il cammino della penitenza”? L’idea di una peccaminosità della
Chiesa (notoriamente sostenuta da Karl Rahner) verrebbe dunque insinuata
nell’argomentare obliquo tipico per l’appunto di certi testi del Vaticano
II. Ulteriori riferimenti conciliari
mantengono l’ambiguità e forse l’aggravano (LG 11: coloro che si confessano si riconciliano con
la Chiesa alla quale “hanno inflitto una ferita col peccato”; LG 39: “La Chiesa
[…] è agli occhi della fede indefettibilmente santa [indefectibiliter sancta
creditur]”: in sé stessa o agli occhi della fede solamente? LG 48:
la Chiesa già sulla terra “è adornata di santità anche se
imperfetta”: ma esiste una “santità
imperfetta”? Che significa?).
Secondo AeU 5, invece,
era solo il peccatore ad aver bisogno di “purificazione” e poteva ottenerla
proprio perché la santità della Chiesa non era venuta meno, grazie
all’assistenza divina. È giusto dire che
la santità della Chiesa può essere offesa dal peccato ma non può esserne
“ferita”, perché il peccato non può colpire la Chiesa ontologicamente,
nella sua essenza, che è divina e non umana, e gode sempre dell’assistenza
divina. È la santità permanente della
Chiesa a garantirle quei mezzi (i Sacramenti) mediante i quali essa ci purifica
dai nostri peccati, inducendoci a cambiar vita e a correre verso Cristo come il
Figliol Prodigo verso il Padre.
L’ambiguità di LG 8.3 rafforza la
sensazione di trovarsi in presenza di un diverso e contraddittorio concetto di
Chiesa, visto che ora la si potrebbe intendere contemporaneamente come santa
e peccatrice. Bisogna, inoltre
aggiungere che, se la Chiesa, la Sposa di Cristo, fosse essa stessa
“peccatrice” e quindi sempre “imperfetta” nella sua santità, non potrebbe
trovare in sé stessa i mezzi necessari per purificare i suoi membri peccatori[17].
7. L’errore di chi concepisce una Chiesa
solo “carismatica o dell’amore”
Stabiliti
gli elementi essenziali della Chiesa come “Corpo Mistico di Cristo”, il
penultimo articolo dello schema rigettato, AeU 6, prende posizione contro
l’errore al tempo diffuso ad opera della Nouvelle Théologie, e già
ricordato da me, secondo il quale la natura della Chiesa era soprattutto quella
di essere un ente carismatico o spirituale, del tutto separato dalla Chiesa
gerarchica e militante, sentita anzi come un impaccio, un peso morto. È quasi superfluo rilevare che di questa
precisazione e condanna non v’è traccia nella Lumen Gentium. E come
avrebbe potuto, visto che i profeti della “Chiesa carismatica” come P. Congar
OP, grazie al “buon cuore” di Roncalli, facevano ora parte della Commissione
Teologica?
In ogni
caso, nella Allocuzione di apertura del Vaticano II, l’11 ottobre 1962,
Giovanni XXIII non aveva forse detto che non bisognava più condannare gli
errori ma usare la medicina della misericordia (come se condannare gli errori
non fosse già opera di misericordia nei confronti dell’errante e dei fedeli
messi così sull’avviso - Amerio), dato che gli uomini del Secolo presente erano
talmente progrediti da condannare ormai da sé stessi certi errori? E che dire, allora, del fatto che nel 1961
era entrata in commercio negli Stati Uniti la pillola anticoncezionale, che
avrebbe potentemente contribuito alla cosiddetta “emancipazione” delle donne,
consegnandole in pratica alla corruzione del Secolo? La diffusione degli anticoncezionali, che si
è dimostrata letale per l’Occidente, dimostrava forse che l’umanità ormai
condannava da sé stessa certi errori?
Tanto poco li condannava, che questi errori penetrarono ampiamente nella
Cattolicità, come dimostrò la vasta ribellione, guidata da interi settori
dell’episcopato, che scoppiò quando Paolo VI, pur liberale di temperamento,
dovette finalmente dichiarare illecito l’uso degli anticoncezionali,
nell’enciclica Humanae vitae, del 25.7.1968. Come si sa, questa proibizione è rimasta a
tutt’oggi lettera morta per molti cattolici.
Ma torniamo ad AeU
6. L’argomento dell’articolo è: “La Chiesa in quanto società è il Corpo
mistico di Cristo”. Ossia: il Corpo Mistico non è solo “spirituale” o
“pneumatico” (dal greco pneuma, soffio, spirito), comprende anche la Chiesa
società, visibile, gerarchica, militante.
“Dato dunque che lo
Spirito Santo elargisce molti carismi alla Chiesa, che corrispondono alla sua
indole sociale e alla sua missione divina, in vari offici e ministeri, affinché
coloro che li ricevono, operino unitariamente quali cooperatori di Dio [Dei
adiutores] all’edificazione del
corpo di Cristo, è falso sostenere che la Chiesa gerarchica o giuridica
differisca nei fatti [re] dalla
Chiesa carismatica o dell’amore, come dicono.
Per il semplice fatto che la Chiesa in quanto società [Ecclesia
societas] e il Corpo Mistico di Cristo non sono affatto due cose diverse [haud
binae res sunt], ma la medesima cosa, che si palesa nel suo aspetto umano e
divino; sì da venir assimilata al Mistero del Verbo Incarnato, con analogia di
non piccola importanza”.
In cosa consiste,
dunque, l’errore degli Ammodernanti? Nel
voler ritenere che l’azione dello Spirito Santo si svolga fornendo di doni o càrismi solo la componente
invisibile della Chiesa, agendo quindi
principalmente sul cuore e sul sentimento, che verrebbero così elevati a
componenti di una Chiesa “dell’amore” (per l’umanità) del tutto indipendente
dalla Chiesa gerarchica, ossia dalla Chiesa-società, istituzione. Quest’ultima si troverebbe allora
istituzionalmente (re) fuori dell’azione dello Spirito Santo, non
godrebbe dei suoi doni. Ma ciò è
impossibile, obietta giustamente AeU 6, per il semplice motivo che la Ecclesia
societas, con tutti i suoi ordini, non è stata fondata dagli uomini ma da
Cristo stesso, che l’ha costruita a partire dai Dodici, ossia cominciando
dall’alto, dai quadri, dalla gerarchia, non dal basso, dal popolo dei fedeli,
che doveva ancora esser formato. In
quanto fondata da Cristo, la Chiesa gerarchica e militante gode pertanto dei
doni dello Spirito Santo che, come si è visto, sono sempre, ci rivela S. Paolo,
“secondo la misura dei doni di Cristo”.
Non ha perciò senso
ipotizzare l’esistenza di una Chiesa dello Spirito, del tutto
invisibile, che operi con i suoi doni nei cuori degli uomini ed addirittura si
contrapponga a quella gerarchica. Ed
ancor meno ne ha, pretendere di “riformare” la Chiesa gerarchica in modo da
renderla “carismatica o dell’amore”, come volevano Congar e i suoi amici; cosa
che renderebbe – osservo – il Cattolicesimo una sorta di pappa del cuore. Una concezione del genere riflette le eresie
dei Protestanti, per i quali la vera Chiesa è appunto solo quella invisibile,
costruita dal cuore, dal sentimento, dalla coscienza di ciascuno, e di essa
ogni credente sarebbe il sacerdote, con lo Spirito Santo che lo assisterebbe
nella lettura individuale della Bibbia, qualsiasi cosa creda egli poi di
trovarvi! Inoltre, quell’erronea
concezione non tiene conto del dato storico offerto dai Vangeli, che mostrano
appunto come Nostro Signore abbia fondato nei particolari la Chiesa come realtà
gerarchica e sociale visibile, alla quale ha promesso l’aiuto dello Spirito
Santo, poi inviato in forma sensibile con il miracolo del giorno della
Pentecoste. E come abbia insegnato a
santificarci nella rinuncia a noi stessi e nella lotta contro noi stessi,
ricercando il Regno di Dio e la sua giustizia, non la nostra; a non
abbandonarci alle ingannevoli lusinghe del cuore o del sentimento, sempre
pronti a lasciarsi sedurre dal peccato.
I sostenitori dell’idea
di una Chiesa “pneumatica” proponevano un’ecclesiologia nella quale si
riaffacciavano le eresie dei Modernisti.
Ciò apparve in modo evidente quando si aprì la discussione sullo schema De
Ecclesia rielaborato dalla Commissione Mista, nella 37ᵃ Congregazione
generale del Concilio. “I due primi
interventi, quelli del cardinale Frings e Siri confermarono la profonda
divergenza di vedute esistente all’interno dell’assemblea. Da una parte vi era la concezione della Nouvelle
Théologie, in particolare di Congar, che contrapponeva alla “Chiesa del
Diritto” quella pneumatica dell’Amore; dall’altra la visione tradizionale, che
si rifaceva alla dottrina di san Roberto Bellarmino, letta alla luce della Mystici
Corporis”. Il giorno successivo un
altro esponente dei Novatori, il cardinale cileno Raul Silva Henríquez sostenne
che “la Chiesa deve esser considerata come una comunione di chiese locali,
nello stesso senso in cui san Paolo si rivolgeva alla ‘Chiesa di Corinto’ e
alla ‘Chiesa di Efeso’[una “comunione” retta dallo “Spirito”, più che dal
Vicario di Cristo]. Ruffini, in polemica
anche con Frings, criticò il concetto di Chiesa-sacramento [utilizzato in LG 1]
già usato dall’eretico Tyrrell [gesuita irlandese, uno dei capi del Modernismo,
scomunicato da S. Pio X] e contestò la base scritturistica della collegialità,
ricordando che Cristo disse solo a Pietro:
“Tu sei Pietro e su questa pietra costruirò la mia Chiesa”[18].
La visione di una
Chiesa “pneumatica” o “dello Spirito” separava l’azione dello Spirito Santo da
quella di Nostro Signore, rendendola incontrollata e pencolando verso una
“Chiesa” costituita da “movimenti” di spiritati e invasati dallo “Spirito”, sul
tipo dei c.d. “carismatici” protestanti. Oggi “movimenti” di questo tipo, che
bisognerebbe definire pseudocattolici, hanno invaso la Chiesa Cattolica,
tollerati dall’autorità ecclesiastica.
Ma era proprio questo il modello, c.d. “profetico”, verso il quale
tendeva l’ecclesiologia del “popolo di Dio” propugnata con particolare
intensità dal cardinale belga Suenens[19].
Mi sembra utile
ricordare, a questo punto, che nell’importante enciclica Mediator Dei
sulla sacra Liturgia, del 20.11.1947, Pio XII condannava l’errore di “autori
moderni” i quali, a proposito della liturgia:
“ingannati da una pretesa
più alta disciplina mistica, osano affermare che non ci si deve concentrare sul
Cristo storico, ma sul Cristo “pneumatico e glorificato”; e non dubitano di
asserire che nella pietà dei fedeli si sarebbe verificato un mutamento, per cui
il Cristo è stato quasi detronizzato, con l’occultamento del Cristo glorificato
che vive e regna nei secoli dei secoli e siede alla destra del Padre, mentre al
suo posto è subentrato il Cristo della vita terrena. Alcuni perciò arrivano fino al punto di voler
rimuovere dalle chiese le immagini del Divino Redentore che soffre in Croce
[sic].
Ma queste false
opinioni sono del tutto contrarie alla sacra dottrina tradizionale. “Credi nel Cristo nato in carne – così
Sant’Agostino – e arriverai al Cristo nato da Dio, Dio presso Dio”. La sacra Liturgia, poi, ci propone tutto il
Cristo, nei vari aspetti della sua vita [sino alla sua Passione, Morte e
Resurrezione, continua il Papa, dopo la quale egli ci invia lo Spirito Santo]. E inoltre non ce lo presenta soltanto come un
esempio da imitare, ma anche come maestro da ascoltare, un pastore da seguire,
come mediatore della nostra salvezza, principio della nostra santità, e Mistico
Capo di cui siamo membra, viventi della sua stessa vita. E siccome i suoi acerbi dolori costituiscono
il mistero principale da cui proviene la nostra salvezza, è secondo le esigenze
della fede cattolica porre ciò nella sua massima luce, poiché esso è come il
centro del culto divino, essendone il Sacrificio Eucaristico la quotidiana
rappresentazione e rinnovazione, ed essendo tutti i Sacramenti congiunti con
strettissimo vincolo alla Croce”[20].
Ho voluto ricordare la
riprovazione pacelliana delle false dottrine sul Cristo “pneumatico e
glorificato” che avrebbe dovuto occupare il centro della liturgia cattolica
perché esse sono certamente da connettere alla falsa idea di una Chiesa
“carismatica e dell’amore” alternativa alla Chiesa gerarchica e militante,
condannata da AeU 6. Sembrano
costituirne l’applicazione nell’ambito della riforma liturgica auspicata dagli
elementi deviati del Movimento Liturgico, attivo soprattutto fra le due
guerre mondiali. E la riforma liturgica
posta in essere su impulso del Vaticano II, ha portato o no, di fatto, a vedere
nella Resurrezione – in quanto momento di gaudio e gioia – il momento
essenziale della S. Messa? Tanto per
fare un esempio, la Conferenza Episcopale dell’Emilia Romagna, in un opuscolo
dedicato al confronto-dialogo tra Cristianesimo e Islam, in che modo presenta
sinteticamente la S. Messa agli occhi dei Mussulmani? In questo modo: “La Chiesa fa memoria del Signore Risorto
mettendo in una comunione viva e reale i suoi figli con Dio uno e trino”[21]. In questa definizione, che sembra addirittura
inclinare alla S. Messa intesa come semplice “memoriale” e “sacrificio di
lode”, alla maniera dei Protestanti eretici, non vi è più nessuna traccia
dell’idea della S. Messa come Sacrificio propiziatorio, che ci ottiene
misericordia (propitiatio) per i nostri peccati. Qui la S. Croce non sembra pertanto esser più
il centro del culto divino, il che rappresenterebbe una deviazione terrificante
dalla retta dottrina e liturgia, un vero e proprio tradimento.
8. L’analogia con il Verbo Incarnato
Il secondo e ultimo
paragrafo di AeU 6 spiega l’analogia tra la Chiesa e il Verbo Incarnato.
“Infatti, come nel
Verbo Incarnato la natura umana, quale strumento vivo della sua stessa natura
divina, si dedica alla salute nostra e di tutto il mondo e continua nei cieli a
dedicarvisi [è l’umanità trasfigurata del Corpo Glorioso del Signore, che è
nostro Patrono in Cielo – Eb 7,25], così la Chiesa in quanto società [Ecclesia
societas] riceve i doni [charismatibus] della predicazione, del
sacerdozio, della regalità [di Nostro Signore] affinché essa serva lo Spirito
di Cristo nell’edificazione del Corpo di Cristo. Infatti, questi doni, non altrimenti che gli
altri ricevuti dallo Spirito Santo, devono esser messi a frutto come servizio e
ministero di verità e carità, affinché la salvezza originata da Cristo e
contemporaneamente tutti i benefici che ne scaturiscono, si propaghino a tutti
gli uomini e a tutte le età”[22].
Il senso della non
facile ma tuttavia evidente analogia sembra essere il seguente: il rapporto tra la Ecclesia societas e
il Corpo Mistico è simile a quello tra la natura umana e la natura divina del
Verbo Incarnato, le quali non si confondono mai pur costituendo un’unità
inscindibile nella Persona stessa del Verbo.
La Ecclesia societas, gerarchica e militante, ha ricevuto da
Cristo suo fondatore determinati doni per edificare il Corpo di Cristo, in
un’azione sempre obbediente allo “Spirito di Cristo”, che è altro modo
tradizionale di designare lo Spirito Santo[23]. La Ecclesia societas ha ricevuto i
doni dal suo divino fondatore e li mantiene con l’aiuto dello Spirito Santo
proprio perché unita in terra al Corpo Mistico di Cristo ma senza confondersi
in esso, così come la natura umana è unita, senza confondervisi, a quella
divina del Verbo. La Chiesa gerarchica e militante svolge, pertanto, la stessa
funzione di “strumento” della natura divina espletato dalla natura umana del
Verbo. Separarla dallo Spirito Santo
equivarrebbe a separarla dal Verbo, suo fondatore, il che sarebbe assurdo oltre
che eretico perché equivarrebbe a negare la storicità dei Vangeli.
9. L’unica
e vera Chiesa di Cristo è la Chiesa Cattolica Romana
Tutto
ciò considerato, lo schema si conclude con l’art. 7, che dichiara senza mezzi
termini esser la Chiesa cattolica romana l’unica e vera Chiesa di Cristo: questa è la vera natura della Chiesa
militante. Il titolo dell’articolo
recita: “La Chiesa cattolica romana è il
Corpo Mistico di Cristo”.
“Insegna pertanto il
Sacro Sinodo e professa solennemente che non vi è se non un’unica vera
Chiesa di Cristo, e cioè quella che nel Simbolo celebriamo una, santa,
cattolica e apostolica, vale a dire quella che il Salvatore si acquistò
sulla Croce e congiunse a sé come il corpo alla testa e la sposa allo sposo,
e dopo la sua resurrezione diede a S. Pietro e Successori, che
sono i Romani Pontefici, affinché la governassero; e che pertanto è la sola che
di diritto viene chiamata Chiesa Cattolica Romana”.
Ho messo in corsivo e
sottolineato le parti di questa definizione lasciate cadere dalla
rielaborazione che ne avrebbe fatto la Commissione Mista, sopra richiamata,
inserendo i resti in LG 8.2. La presente
definizione, chiara, semplice e lineare, rappresenta la conclusione logica di
tutto il discorso che la precede, che a sua volta viene condotto in perfetta
continuità con la dottrina tradizionale della Chiesa. Anche in AeU vengono usate le varie
denominazioni tradizionali della Chiesa.
Non c’è però nessuna confusione.
I termini tradizionali usati esprimono tutti una medesima realtà. Il nuovo “Israele di Dio” o “Chiesa di Dio” è
la “Chiesa di Cristo” da lui fondata, che è nello stesso tempo il “Corpo
Mistico di Cristo”, il quale coincide perfettamente in questo mondo con la
Chiesa Cattolica Apostolica Romana, governata dal Vicario di Cristo in terra,
il Sommo Pontefice, Vescovo di Roma, Primate d’Italia.
Ma, durante la fase preparatoria,
proprio contro questo articolo 7 si scatenò l’ira degli Ammodernanti, come si è
detto, in particolare del cardinale Liénart (l’uomo del 13 ottobre) e del
cardinale Bea. Due cardinali di S.
Romana Chiesa, e non erano i soli, non accettavano più una definizione della
Chiesa conforme all’insegnamento di sempre, che identificava la Chiesa
Cattolica Romana con l’unica vera Chiesa di Cristo e quindi con il Corpo
Mistico di Cristo! E non l’accettavano in nome delle esigenze ecumeniche
indicate da Giovanni XXIII, grazie alle quali l’idea e il concetto della vera
Chiesa di Cristo si dovevano poter applicare anche ai “fratelli separati”, i
quali erano (e restano) scismatici ed eretici?
Nel corpo della Gerarchia, agli alti livelli, c’era evidentemente qualcosa
che non quadrava, dal punto di vista teologico.
Ma
vediamo la critica all’articolo avanzata dal cardinale Liénart. Dopo aver detto che lo schema non gli piaceva
perché trascurava l’aspirazione all’unità dei “cristiani separati”, sferrò il
suo attacco in questo modo. “Mi sembra,
disse, che non possiamo “confessare solennemente”, come propone il testo
all’art. 7, che la Chiesa romana e il Corpo Mistico siano l’identica realtà,
come se il Corpo Mistico fosse interamente ricompreso nei limiti della Chiesa
romana. Difatti il Corpo Mistico di Cristo è molto più ampio della Chiesa
cattolica militante. Abbraccia la Chiesa
sofferente al Purgatorio e la Chiesa trionfante in cielo. Dal che si conclude che la nostra Chiesa, per
quanto sia l’aspetto visibile del Corpo Mistico di Cristo, non possa
assolutamente identificarsi con esso”[24]. Il cardinale Liénart ne faceva una questione
di quantità! Poiché l’intero
Corpo Mistico è senz’altro più esteso della Chiesa militante, allora i due non
si identificano. Non diceva
nemmeno: bisogna dire che si
identificano in parte, solo in questo mondo:
non si identificano e basta. Come
se si trattasse di due realtà diverse. E
in nome di questa maggior estensione del Corpo Mistico rispetto alla Chiesa
militante il cardinale rifiutava il concetto tradizionale di Chiesa per
ricercarne uno che si estendesse anche ai “fratelli separati”? La Chiesa Cattolica “militante” non si
identificava con il Corpo Mistico mentre vi si sarebbe identificata una Chiesa
aperta ai “fratelli separati”? Forse che questa nuova “Chiesa” avrebbe
potuto estendersi al Purgatorio e al Paradiso? Ma quando S. Paolo insegnava che la Chiesa
era il Corpo il cui Capo era il Cristo, non includeva quella che poi si è
chiamata Chiesa militante nel Corpo di Cristo ossia nel Corpo Mistico di
Cristo? E la includeva come un qualcosa
di estraneo o come qualcosa che si identificava perfettamente con il Corpo
Mistico di Cristo? Dal punto di vista qualitativo, della sua specifica
natura, la Chiesa visibile fondata in terra da Nostro Signore non si distingue
in alcun modo dalla “pienezza” del Corpo Mistico di cui il Cristo è il Capo in
cielo. È dunque corretto esprimere questa identità assoluta usando il verbo essere,
e dire che la Chiesa militante è il Corpo Mistico di Cristo. E che lo sia in terra è ovvio, risulta già
dall’aggettivo “militante”, che designa da sempre la Chiesa visibile, in questo
mondo. Nell’attaccare lo schema, Liénart
non attaccava solo Ottaviani e la Curia.
Attaccava in realtà l’insegnamento della Mystici Corporis, che a
sua volta (come si è detto) si basava su quello di Leone XIII e risaliva sino a
S. Bellarmino, morto nel 1621; insomma attaccava la dottrina sempre insegnata
dalla Chiesa sulla natura della Chiesa stessa. E gli argomenti che usava non
avrebbero potuto essere sostenuti senza problemi anche da un Protestante?
Con il togliere dall’art. 7 le parti più
significative: dall’aggettivo “vera” al
riferimento alla Croce e ai suoi meriti (sgraditissimo evidentemente ai
Protestanti oltre che a tutte le altre religioni della terra), al Primato di
Pietro e dei suoi successori, la Commissione Mista dimostrava di procedere
nello spirito del cardinale Liénart e dei suoi sodali in Nouvelle Théologie. Ma vediamo ora cosa resta di AeU 3-7 in Lumen
Gentium 4-8.
V. LA
CHIESA DI LG 4-8 É UNA CHIESA DELLO SPIRITO E DELL’AMORE, OSSIA UNA CHIESA NON
GERARCHICA E NON MILITANTE, SEMPRE IMPERFETTA, SEMPRE IN CERCA DELLA PIENEZZA
DELLA VERITÀ?
Cominciamo dunque con
l’esaminare LG 4, dedicato allo “Spirito santificatore della Chiesa”, uno degli
articoli interamente nuovi rispetto allo schema Aeterni Unigenitus. In quest’articolo si riafferma la
tradizionale molteplicità dei doni dello Spirito Santo. Qual è il fine dello Spirito Santo? Il giorno di Pentecoste esso fu inviato “per
santificare continuamente la Chiesa”. Ma anche affinché “i credenti avessero
così attraverso Cristo accesso al Padre in un solo Spirito (Ef 2, 18)”. Nella sua opera di “santificazione”, che cosa
propriamente fa lo Spirito Santo? Esso
“dà la vita”, si intende la vita dell’anima; è infatti “una sorgente di acqua
zampillante fino alla vita eterna (Gv 4, 14-17; 7, 38-39)”, che ci procura la
rigenerazione spirituale: “per mezzo suo
il Padre ridà la vita agli uomini, morti per il peccato, finché un giorno
risusciterà in Cristo i loro corpi mortali (Rm 8, 10-11)”. Dove “abita” (habitat) lo Spirito
Santo? “Nella Chiesa, nei cuori dei
fedeli come in un tempio e in essi prega e rende testimonianza della loro
condizione di figli di Dio per adozione (Gal 4, 6 etc.) ”. Ma lo Spirito Santo non contribuisce anche al
nostro retto intendimento, al giusto discernimento? La sua azione non incide anche sulla sfera
razionale dell’individuo? E difatti, lo
Spirito Santo “introduce la Chiesa in tutta la pienezza della verità”[Ecclesiam
quam in omnem veritatem inducit..](Gv 16, 13). Inoltre, esso “la unifica nella comunione e
nel ministero, la provvede e dirige con diversi doni gerarchici e carismatici,
la abbellisce dei suoi frutti. Con la
forza del Vangelo la fa ringiovanire, continuamente la rinnova e la conduce
alla perfetta unione col suo Sposo”. In
conclusione: “la Chiesa universale si
presenta come “un popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del
Figlio e dello Spirito Santo” (S. Cipriano; S. Agostino)”.
In questa ampia rappresentazione, intessuta di
immagini tradizionali, ci sono però, come ho già detto, alcuni aspetti che non
solo non sembrano affatto coincidere con l’impostazione di AeU ma che fanno
anche scorgere una concezione singolare dell’azione dello Spirito Santo.
1) In AeU lo Spirito Santo contribuisce
all’edificazione del Corpo Mistico di Cristo sempre “secondo la misura dei doni
di Cristo”. In LG 5 questa verità non
viene enunciata in modo così chiaro; essa resta come implicita, per non dire
addirittura sepolta nel riferimento ad Ef 2,18, che in realtà tratta
“dell’unico Spirito” di Cristo che avrebbe affratellato pagani ed ebrei, una
volta diventati tutti cristiani (sull’ulteriore uso conciliare di questo passo
di Ef 2, vedi infra).
2) Secondo la dottrina
tradizionale, lo Spirito Santo non è solo “grazia carismatica”, che cioè
conferisce i necessari doni o carismi spirituali alla Chiesa e ai singoli
fedeli. In quanto Persona della Santissima Trinità, la sua azione (e proprio in
base alle dichiarazioni di Nostro Signore) viene percepita anche come quella di
una persona, di un Soggetto che mostra una personalità, che opera con
discernimento e volontà. La funzione docente
dello Spirito Santo è appunto una di
quelle che lo caratterizza come Persona e non come semplice spirito impersonale[25]. LG 4 ricorda la funzione docente dello
Spirito Santo, ma in che modo?
1. Uno
Spirito Santo che solamente “ci introduce” a “tutta la verità”?
Risulta chiaramente
dal Vangelo che lo Spirito Santo “insegnerà [docebit] alla Chiesa tutta
la verità” della Rivelazione ed insegnerà ai singoli fedeli cosa rispondere ai
persecutori, una volta tradotti nei loro tribunali (“lo Spirito Santo vi
insegnerà [docebit] in quel momento stesso ciò che dovrete dire” – Lc
12,10). In LG 4, invece, lo Spirito
“introduce la Chiesa in tutta la verità” o “nella pienezza della verità”,
secondo il volgare italiano. Il francese dice, ugualmente: “Cette Église qu’il
introduit dans la vérité toute entière..”.
Tra l’insegnare tout court tutta la verità e l’introdurre ad
essa, c’è o no una sensibile differenza?
A me sembra di sì. Un conto è
dire che lo Spirito Santo “vi insegnerà tutta la verità” (docebit vos omnem
veritatem, Gv 16,13), espressione forte, senza sfumature, sia dal lato
dell’azione docente sia da quello della materia insegnata, che è tutta
la verità. Il concetto lo si è reso anche traducendo dal greco in modo più
letterale, scrivendo: “vi guiderà a
tutta la verità”, come nelle edizioni della S. Bibbia della CEI di prima e dopo
il Concilio ma anche in quelle popolari della Pia Società di S. Girolamo,
regnante S. Pio X (“vi guiderà ad ogni vero”).
Il significato è esattamente il medesimo: l’insegnamento dello Spirito Santo è appunto
la preannunciata, sicura guida sovrannaturale a tutta la verità, già predicata
e spiegata da Cristo ma non ancora afferrata compiutamente dai Discepoli.
Altro, invece, è dire
che lo Spirito Santo “ci introduce a tutta la verità” (Ecclesiam, quam in
omnem veritatem inducit..), variando la traduzione latina consolidata del
medesimo passo evangelico sì da conferire all’insegnamento dello Spirito Santo
il valore di una semplice “introduzione”.
Un’introduzione alla verità ha in sé stessa, proprio come concetto,
qualcosa di parziale, l’idea di un vero che si inizia a conoscere ma resta
ancora incompiuto, quanto al suo definitivo possesso. E crea una certa difficoltà pensare ad una
“introduzione a tutta la verità”, proprio perché l’introdurre è sempre atto che
resta parziale e quindi non può riguardare “tutta” la verità.
Ma perché si è voluto
variare il latino della citazione? E
quali le possibili conseguenze di questo mutamento? Può incidere esso sul concetto di verità rivelata oltre che sul modo di
intendere lo Spirito Santo? Il passo
giovanneo è di fondamentale importanza per comprendere in modo esatto la
rivelazione di Nostro Signore a proposito dello Spirito Santo. Esso va inteso nel suo contesto proprio. “Ho ancora molte cose da dirvi, ma per ora
non potete sostenerle”. Si trattava di
verità ancora troppo profonde. “Quando
sarà venuto lo Spirito di verità, egli v’insegnerà tutta la verità; giacché non
parlerà da sé stesso, ma vi dirà quanto udrà, e vi annunzierà le cose che
dovranno succedere. Egli mi
glorificherà, perché prenderà del mio e ve lo annunzierà. Tutto ciò che ha il Padre, è mio; perciò ho
detto che prenderà dal mio e ve lo annunzierà” (Gv 16, 12-15).
Quindi: lo Spirito Santo completerà
l’insegnamento di Cristo, senza tralasciare nulla (“tutta la verità”, rivelata,
ovviamente). E potrà farlo perché
insegnerà “quanto udrà”. Da chi? Da Cristo stesso e dal Padre. Prenderà “del mio” da Nostro Signore, ma “il
mio” di Nostro Signore è sempre “il mio” del Padre, ab aeterno, perché è “tutto
ciò che ha il Padre”. L’insegnamento
dello Spirito Santo agli Apostoli, ivi comprese le profezie, riguardando “tutta
la verità” da approfondire rispetto a quanto già insegnato da Nostro Signore,
avrebbe pertanto concluso la Rivelazione.
E correttamente si è sempre ritenuta come verità di fede la proposizione
secondo la quale la Rivelazione si è conclusa con la morte dell’ultimo
Apostolo. L’insegnamento di “tutta la
verità” da parte dello Spirito Santo porta perciò a compimento il Deposito
della Fede.
Bisogna comunque tener
sempre presente, sottolinea Mons. Gherardini, che da parte dello Spirito Santo
si ha solo una “assistenza conservativa alla verità rivelata, non
un’integrazione in essa di verità altre o diverse da quelle rivelate,
o presunte come tali”. Alla
Pentecoste “non ci saranno ulteriori rivelazioni. L’unica si chiude con coloro ai quali Gesù
sta ora parlando [ai Discepoli, nel Vangelo di Giovanni citato]. Le sue parole si presentano con un
significato univoco, riguardante l’insegnamento da Lui impartito e soltanto
codest’insegnamento. Un linguaggio,
questo, non criptato o cifrato, ma limpido come il sole. Si potrebbe sollevar un’obiezione sulla
prospettiva d’apparente novità in relazione a quello che, ora taciuto da Gesù,
verrà annunziato dallo Spirito Santo; ma la delimitazione della sua assistenza
ad un’azione di guida verso il possesso di tutta la verità rivelata da Cristo
esclude novità sostanziali. Se novità
emergeranno, si tratterà di significati nuovi, non di verità nuove; donde il
giustissimo “eodem sensu eademque sententia” del Lerinense. Insomma, la pretesa d’agganciar
all’assistenza dello Spirito Santo ogni stormir di fronda, voglio dire ogni
novità e segnatamente quelle che commisurano la Chiesa sulle dimensioni della
cultura imperante e della c.d. dignità della persona umana, non solo è un
capovolgimento strutturale della Chiesa stessa, ma è pure un gran segno di
croce sui due testi sopra indicati [Gv 14,16-26 e 16, 13-14]”[26].
Ma se questo insegnamento
diventa una semplice “introduzione” a “tutta la verità”, non lo si accorcia
arbitrariamente, aprendo la via all’idea che esso avrebbe semplicemente
“introdotto” ad una verità che deve ancora completarsi? Un’introduzione, infatti, rinvia di per sé ad
un ulteriore sviluppo. E dove si ferma
questo sviluppo? Il concetto che lo
Spirito Santo “ci introduce” alla verità rivelata, è ripetuto dal Concilio
nella costituzione Dei Verbum sulla divina Rivelazione, all’art. 8, ove
si dice, alla fine: “e lo Spirito Santo,
per mezzo del quale la viva voce dell’Evangelo risuona nella Chiesa e per mezzo
di questa nel mondo, introduce i credenti alla verità intera [credentes in
omnem veritatem inducit] e in essi fa risiedere la parola di Cristo in
tutta la sua ricchezza (cfr. Col 3, 16)”, dove il riferimento paolino va
riferito solo al risiedere della parola di Cristo in noi, in tutta la sua
ricchezza. La traduzione francese è uguale:
“introduit les croyants dans la vérité tout entière”. Del resto, in
questo stesso articolo della DV, non si scrive forse che: ”la Chiesa nel corso
dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina [ad
plenitudinem divinae veritatis iugiter tendit], finché in essa vengano a
compimento le parole di Dio”? Come se la
Chiesa non avesse già il possesso della “pienezza” della verità divina nel
Deposito della Fede, conclusosi con la morte dell’ultimo Apostolo! Altro è dire che la Chiesa deve sempre
tendere alla migliore realizzazione del mandato divino e delle verità di
fede, migliorandosi costantemente nei suoi membri, ecclesiastici e laici,
nell’opera instancabile della santificazione quotidiana. Ma in DV 8 si parla proprio di un “tendere
incessantemente alla pienezza della verità”, come se la verità (rivelata)
tutt’intera la Chiesa non la possedesse ancora; la verità in quanto tale,
non la sua attuazione!
Mi chiedo se l’inducere
in di LG 4 non svolga una funzione analoga al subsistere in di LG
8: quella di introdurre l’idea di
movimento, sviluppo, ampliamento e nello stesso tempo parzialità in ciò che
dovrebbe essere di per sé completo ed immutabile: la verità rivelata una volta
per tutte, verità che comprende la Chiesa di Cristo costruita sulla roccia
rappresentata da Pietro e che può esser oggetto solamente di approfondimenti e
chiarimenti “eodemque sensu eodemque sententia”[27].
2. Un Regno di Dio che si accetta sola fide
e cui si partecipa senza il Giudizio?
Il Vaticano II non ha
mai impiegato in modo esplicito il concetto del sovrannaturale (meritandosi per
questo un famoso elogio di de Lubac) e ciò lo ha esposto all’accusa di non aver
riproposto la distinzione tra natura e sovrannaturale, Natura e Grazia,
favorendo anzi, di fatto, la confusione tra i due regni. Tuttavia, esso ha voluto dedicare un intero
articolo al “Regno di Dio”, che rappresenta per l’appunto il Sovrannaturale per
eccellenza. LG 5 è dedicato appunto al
Regno di Dio in connessione con il “mistero della Chiesa”. Anche quest’articolo è del tutto nuovo
rispetto allo schema AeU. L’articolo non
dice che cosa sia il Regno di Dio, non ne dà una definizione: sembra presupporne la nozione, come se fosse
cosa nota. Né sembra in alcun modo
riproporre l’immagine tradizionale del Regno di Dio come simbolo della Chiesa
in quanto tale (come in AeU) né la qualità sovrannaturale in senso proprio del
Regno, che coinciderà alla fine dei tempi con la Chiesa trionfante nella gloria
indicibile della Visione Beatifica: “O
isplendor di Dio, per cu’io vidi/l’alto trionfo del Regno verace,/dammi virtù a
dir com’io il vidi!” (Par., XXX, 97-100).
Come veniamo a sapere
del Regno di Dio? È Cristo che lo annuncia
e lo manifesta nelle sue parole e opere, con la sua stessa “presenza”, dimostrando
che esso “è arrivato sulla terra”. La
“parola del Signore” è appunto “paragonata al seme che viene seminato nel
campo”, secondo la nota parabola del Seminatore (Mc 4,14). Quelli che la ascoltano “con fede e
appartengono al piccolo gregge di Cristo hanno accolto il regno stesso di Dio
(Lc 12,32), poi il seme per virtù propria germoglia e cresce fino al tempo del
raccolto (Mc 4, 26-29)”. Non si tratta
solo della parola: “anche i miracoli di
Gesù provano che il regno è arrivato sulla terra” poiché Egli ha detto: “Se con il dito di Dio io scaccio i demoni,
allora è già pervenuto tra voi il regno di Dio” (Lc 11,20; Mt 12,28)”. Ma più ancora che nelle sue parole e opere,
precisa il testo, il Regno si manifesta nella persona stessa del Cristo,
“figlio di Dio e figlio dell’uomo, il quale è venuto “a servire e a dare la sua
vita in riscatto per i molti”(Mc 10,45)”(LG 5.1).
Che significa dire che
il Regno di Dio si manifesta soprattutto nella persona stessa di
Cristo? Si noti innanzitutto che si
scrive “Figlio di Dio e Figlio dell’uomo”, senza voler usare termini come
Unigenito o Consustanziale al Padre, che esprimono in modo dogmaticamente ineccepibile la natura divina
del Signore. E si noti, nel volgare
italiano, come il senso del testo di Mc 10,45 sia stato modificato poiché la
“redemptio pro multis (antì pollôn)” è sempre stata resa con “riscatto
per molti”, non “per i molti”, versione che sembra introdurre una certa
ambiguità. La versione francese
recita: “..et donner sa vie en rançon
d’une multitude”.
Dunque: il Regno si manifesta nella persona di
Cristo, che è venuto a dare la sua vita in riscatto “per i molti”. Ma “i molti” come entrano nel Regno di
Dio? Semplicemente attraverso la
“persona di Cristo”, accogliendo il suo insegnamento salvifico e lasciandolo
fruttificare, fino a che è maturo “per il raccolto”? In questo modo possiamo indubbiamente esporre
sinteticamente il rapporto tra la Parola di Cristo e il suo produr frutti in
noi, sino al “raccolto” finale (della vita eterna). Tuttavia, LG 5 non illustra
il concetto dell’”entrare nel Regno di Dio”.
Si limita alla sua manifestazione per opera di Cristo e al suo
accoglimento da parte nostra, con l’atto di fede di chi appartiene al “piccolo
gregge”. E non manca qualcosa, a
siffatta rappresentazione del Regno, per esser completa? Nostro Signore non ha detto qualcos’altro sul
suo Regno, “che non è di questo mondo”?
Si può entrare nel Regno di Dio senza esser battezzati e senza esser
giudicati da Nostro Signore alla fine della nostra vita? E la Chiesa, come viene nominata da LG 5?
La Chiesa, lo
sappiamo, è il Regno di Dio che comincia per noi già qui in terra,
nell’appartenenza alla Chiesa militante.
Ma questa è la dottrina tradizionale, riproposta da AeU. Per LG 5 la Chiesa è “germe e inizio” del Regno
come Chiesa universale santificata dallo Spirito nei modi illustrati da LG 4,
appena richiamato.
“La Chiesa perciò,
fornita dei doni del suo fondatore e osservando fedelmente i suoi precetti di
carità, umiltà e abnegazione, riceve la missione di annunziare e instaurare in
tutte le genti il regno di Cristo e di Dio, e di questo regno costituisce in
terra il germe e l’inizio. Intanto,
mentre va lentamente crescendo, anela al regno perfetto [Regnum consummatum]
e con tutte le sue forze spera e brama di unirsi col suo re nella gloria”(LG
5.2).
È vero che “la Chiesa”
(che qui non è ancora la Chiesa Cattolica) ha ricevuto dal suo fondatore la
missione di “annunziare ed instaurare in tutte le genti il Regno di Dio”, del
quale costituisce quindi “in terra il germe e l’inizio”. Ma vedere solo in questo – in sostanza nella
predicazione della Buona Novella – il nesso tra la Chiesa e il Regno di Dio non
è alquanto riduttivo? A S. Pietro, ossia alla Gerarchia della Chiesa
cattolica, ai sacerdoti, Nostro Signore non ha forse dato “le Chiavi del
Regno”? Nell’unico scarno riferimento ai
nomi della Chiesa contenuto in AeU 3.2, si è visto che tra di essi c’è anche il
“regnum Dei”. In nota, si rimanda a Mt
16,19, alla celebre frase rivolta da Nostro Signore a S. Pietro, che, per
divina ispirazione, l’aveva riconosciuto come il Messia: “E ti darò le chiavi
del Regno dei Cieli”. Il “Regno dei
Cieli”, lo sappiamo, non è cosa diversa dal “Regno di Dio”. E AeU 3.2
rimanda nella stessa nota all’enciclica Satis cognitum di Leone
XIII, del 5.9.1896 sull’unità della Chiesa, ove si legge:
“E per verità al solo
Pietro furono consegnate le chiavi del regno celeste, e a lui, unitamente agli
apostoli, fu dato, per testimonianza della sacra Scrittura, il potere di legare
e di sciogliere”[28].
Come mai in LG 5 manca
del tutto questo fondamentale aspetto del rapporto tra la Chiesa cattolica e il
Regno di Dio, pur accennato in AeU? E lo
sappiamo bene che l’attribuzione di tale potere a Pietro da parte di Nostro
Signore non è mai stata intesa in senso meramente simbolico. Per mandato divino la Chiesa Cattolica (la
Chiesa governata da Pietro e dai vescovi) è la custode del Regno di
Dio. E il custode lascia entrare solo
chi ha i giusti titoli. Se il sacerdote
non ti assolve in confessione, tu resti nei tuoi peccati e se morirai nei tuoi
peccati non entrerai mai nel Regno di Dio. La dottrina tradizionale ha sempre posto nel
dovuto rilievo la natura sovrannaturale del Regno, ribadendo che, con
l’insegnamento e i Sacramenti, la Chiesa “rinnova le anime, disponendole alla
fase ultima del Regno di Dio, che è la vita eterna”[29].
3. Le
ambiguità del “Regno” di LG 5
Il
rapporto tra la Chiesa e il regno sembra per la verità impostato da LG 5 in una
prospettiva soprattutto escatologica, ma si tratta di un’escatologia sui
generis poiché la natura sovrannaturale
del Regno di Dio non sembra mai emergere chiaramente. Il “regno perfetto” cui la Chiesa “anela”,
come sua meta finale, è il Regno dei Cieli nel quale entreranno gli Eletti dopo
il Giudizio universale? Che lo sia,
risulterebbe dal senso tradizionale dell’espressione utilizzata: “Regnum
consummatum”, con la quale, se non erro, si intende il Regno nel quale si
rivela la Visione Beatifica. Ma dire che
la Chiesa, dopo aver costituito in terra “il germe e l’inizio” del Regno, “spera
e brama con tutte le sue forze” di giungere alla Visione Beatifica, è
sufficiente per esporre in modo completo il giusto rapporto tra il Regno di Dio
e la Chiesa? È sufficiente, in assenza
di qualsiasi riferimento al Giudizio e alla divisione finale in Eletti e
Reprobi e al potere delle Sante Chiavi di aprire e chiudere le porte del Regno
di Dio? La “Chiesa” appare inoltre
lontana dal “Regno perfetto” perché vi anela solamente, e “spera e brama” di
“unirsi al suo Re nella gloria”. Non
dice nemmeno, il testo, che spera di entrare nel Regno, alla fine dei
tempi, affermazione che indicherebbe la natura sovrannaturale dello
stesso. La Chiesa di LG 5 appare sempre
imperfetta perché sempre in ricerca.
Ma l’anelare, lo sperare e il bramare possono applicarsi ai singoli
membri della “Chiesa” ma non alla Chiesa in quanto tale, depositaria della
verità rivelata, che già costituisce il Regno di Dio, in terra e nei cieli
(nelle anime di quei Cristiani che già sono in Paradiso e siedono alla destra
del Padre, con Nostro Signore).
Noi sappiamo dai Vangeli
che il Regno è sia esteriore che interiore. Rispondendo polemicamente ai Farisei, che
pensavano sempre al dominio temporale di Israele, Gesù rispose che il Regno “è
dentro di voi”(Lc, 17,21). Se poi
l’espressione deve esser intesa nel senso di “tra di voi” e non dentro ciascuno
di voi (“tra di voi” nell’Ecclesia Dei che stava nascendo con la
predicazione del Signore), ciò non toglie che noi siamo chiamati a “cercare” il
Regno, nel quale entrano solo coloro “che fanno violenza a sé stessi”(Mt 11,12;
Lc 16,16) ossia coloro che combattono vittoriosamente contro sé stessi,
obbedendo così in tutto ai precetti di Cristo e della sua Chiesa. Ma il rapporto tra ciascuno di noi credenti e
il Regno, come risulta da LG 5? Quelli
che ascoltano la parola del Signore “con fede e appartengono al piccolo gregge
di Cristo”, costoro “hanno accolto il regno stesso di Dio [Regnum ipsum
susceperunt]”, che poi germina e cresce “per virtù propria”, come il seme
nel campo, sino al tempo del raccolto. E cosa succederà al momento del
“raccolto”? LG 5 non ce lo vuol
rammentare. Esso si limita a questo:
poiché la parola del Signore annunzia il Regno, chi la accoglie con
fede, accoglie il Regno stesso di Dio e
questa parola cresce in lui per forza intrinseca. Ciò risulta da tutte le parabole del Regno
che lo paragonano ad un seme che cresce lentamente e per forza propria: è la forza della parola di Cristo che
germoglia lentamente nella nostra anima. Ma poi viene il momento del “raccolto”,
che si fa con la falce del Giudizio divino.
Infatti, “accogliere”
il Regno mediante la fede nella predicazione di Cristo, non è sufficiente per entrarvi
alla fine dei tempi. Non basta, come
risulta dalla stessa parabola del Seminatore (Mc 4, 3-20). In questa parabola, Nostro Signore ci rivela
che molti tra quelli che accolgono la parola che annuncia il Regno di Dio non
perseverano nella fede e quindi non entrano nel Regno, perdendosi nelle vie del
peccato. Nel Regno che si attua in
questo mondo (ovvero nella Chiesa) accanto ai buoni ci sono anche i cattivi e
la parabola della zizzania ci rivela che nel giorno del Giudizio il loglio sarà
separato dal buon grano e gettato nella “fornace ardente”. Ma questi fondamentali approfondimenti sono
forse ripresi da LG 5? Non lo sono. E mi
sembra manchino anche negli altri passi conciliari nei quali riappare la
visione del Regno. Dal tenore di LG 5
sembra che coloro che ascoltano inizialmente con fede la parola di Cristo, per
ciò stesso “accolgono” il Regno, che poi matura in loro ex opere operato, sino
al “raccolto”, nel quale evidentemente non succede nulla di particolare. Ridotto a quest’unica e mutila proposizione,
il rapporto tra ciascuno di noi e il Regno non risulta privo delle necessarie
sfumature e non sembra esser risolto a nostro favore dalla semplice fede nella
Parola di Cristo?
Ora, Nostro Signore ci
ha fatto chiaramente capire che il possesso del Regno non è affatto sicuro da
parte nostra senza l’opera della nostra santificazione quotidiana. Non basta la fede, occorrono anche le opere,
a cominciare da quell’opera fondamentale che è la nostra preghiera quotidiana,
nella quale Egli stesso ci ha insegnato ad invocare l’avvento del Regno di Dio,
nel Padre Nostro. Nel Discorso
della Montagna, quando ci esorta a non angustiarci per i nostri problemi
quotidiani perché Dio sa di che cosa abbiamo bisogno e veglia sempre su di noi,
ha detto: “Cercate prima il regno di Dio
e la sua giustizia e tutto il resto vi sarà dato per giunta. Non preoccupatevi dunque per il domani,
poiché il domani sarà sollecito di sé stesso”(Mt 6, 33-34). Qui, il “cercare” indica evidentemente quale
deve essere il corretto atteggiamento dell’anima nostra, che in ogni cosa della
vita deve far prevalere la “giustizia del Regno di Dio” ossia i princìpi
dell’etica cristiana, fondata sulla Rivelazione di Nostro Signore, senza
lasciarsi travolgere dai bisogni del presente, per i quali dobbiamo sempre
rimetterci alla Provvidenza.
Nel Regno non si entra
poi collettivamente, vale a dire grazie ad un accoglimento collettivo
della Parola di Cristo, come qualcuno potrebbe credere in base al dettato
ambiguo di LG 5. I testi sacri sono
piuttosto chiari in proposito.
Per abbassare
l’orgoglio mal posto dei Discepoli che litigavano per stabilire chi tra di essi
dovesse essere considerato “il maggiore”, Nostro Signore fece loro una bella
lezione d’umiltà, ricordando il principio: “chi governa sia come colui che
serve”. Lui stesso era rispetto a loro come uno che governa e tuttavia stava
“in mezzo a loro come uno che serve”. Ed
ecco il punto essenziale. Perché
affannarsi stoltamente per vane ambizioni terrene quando Egli stesso aveva preparato per ciascuno di loro un
posto nel suo Regno, dal quale avrebbe addirittura giudicato le tribù di
Israele? “Voi siete quelli che avete
perseverato con me nelle mie prove; io vi preparo un regno, come il Padre mio
l’ha preparato per me; affinché mangiate e beviate alla mia mensa [del tutto
spirituale] nel mio regno e sediate in trono a giudicare le dodici tribù di
Israele” (Lc 22, 24-30). Il “trono” è
singolo, ci si siede sopra individualmente.
Il Regno che è giunto in questa terra, testimoniato con la predicazione
ed i miracoli di Cristo, è la realtà sovrannaturale ed eterna che Cristo stesso
prepara per ognuno di quelli che avranno creduto in lui e perseverato
sino alla fine. Questo Regno è lo stesso
che il Padre ha preparato per Lui.
Questa verità è ripetuta in Gv 14,1-4.
Durante l’Ultima Cena con il tradimento e la persecuzione incipienti,
nell’incoraggiare i Discepoli, Gesù ripete che i suoi fedeli si riuniranno con
lui nella “Casa del Padre”, che è un altro modo di chiamare il Regno di
Dio. “Il vostro cuore non si turbi. Credete in Dio e credete anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte
dimore; se fosse diversamente ve lo avrei detto, perché io vado a preparare un
posto per voi. E quando sarò andato e
avrò preparato il vostro posto, tornerò e vi prenderò con me, affinché dove
sono io siate anche voi. Voi sapete dove
io vada e ne conoscete la via”. Anche
per ognuno di noi, di noi credenti che con l’aiuto della Grazia (e quindi della
Chiesa Cattolica Romana) avremo perseverato sino alla fine nella fede e nelle
buone opere (“Sii fedele sino alla morte e ti darò la corona della Vita”, Ap
2,10), Nostro Signore ha preparato “un posto” nella Casa del Padre, al quale
accederemo dopo il Giudizio e dopo le opportune purificazioni nel
Purgatorio.
4. Una vena “millenaristica” nella visione
conciliare del ‘Regno’?
Ho ricordato prima che de Lubac elogiò il
Concilio per non aver voluto proporre il concetto del Sovrannaturale. Il termine si trova solo qualche volta come
aggettivo, per esempio in frasi come la seguente, nella quale si coniuga
ambiguamente il concetto profano della “solidarietà” con la Verità
rivelata: “Egli, infatti, assumendo la
natura umana, ha legato a sé come sua famiglia tutto il genere umano in una
solidarietà soprannaturale…” (Decreto Apostolicam Actuositatem
sull’apostolato dei laici, 8). Ma cosa
disse de Lubac? “Il Concilio giudicò più
giusto e più saggio non usare una tale parola in certi contesti per non
perpetuare degli equivoci né ravvivare delle polemiche dando l’impressione di
canonizzare o almeno di favorire una teoria di scuola (detta della ‘natura
pura’ nel senso preciso che essa sosteneva due finalità ultime dell’uomo)”[30]. La cosiddetta “teoria di scuola” è quella
che, da ultimo nella cosiddetta “scuola romana”, ha espresso ed esprime
l’insegnamento costante della Chiesa, sino al Vaticano II, concernente la
gratuità dell’ordine sovrannaturale per l’uomo, il quale gli contrappone spesso
e volentieri la propria natura umana ferita dal peccato originale, capace
quindi, come “pura natura” non illuminata dalla Grazia ma decaduta, di
rifiutare la Grazia stessa e la Salvezza.
È noto che de Lubac, ispirandosi a
Blondel, e Rahner, ispirandosi a Heidegger, cercavano entrambi di dimostrare
che la Grazia deve considerarsi immanente alla natura. In tal modo dissolvevano la Grazia in quanto
dono gratuito di Dio, come insegnato da S. Paolo e da tutta la Chiesa nei secoli,
aprendo appunto la strada ad una concezione cosiddetta “millenaristica” del
Regno dei Cieli, ovvero all’errore secondo il quale (nell’ultima sua
formulazione) il Regno di Dio si realizzerebbe già in terra alla fine
dell’era cristiana, nell’unione pacifica di tutto il genere umano in una sorta
di nuova ed indefinita Età dello Spirito.
Al di là delle fumose
dichiarazioni di teologi neomodernisti come de Lubac e Rahner, il fatto
importante, ai fini della nostra analisi del Concilio, è costituito dall’entusiasmo
dei Protestanti per la chiusura conciliare al Sovrannaturale. Essi dichiararono che l’antropologia
delineata dalla costituzione Gaudium et spes, che riguarda la Chiesa e
il mondo contemporaneo, si segnalava “per la scomparsa della distinzione tra
natura e soprannaturale”, risultando quindi più affine alla concezione
dell’uomo del Protestantesimo[31]. Questa dichiarazione dei Protestanti è o non
è un bel siluro a chi sostiene che la “riforma” dottrinale apportata dal
Concilio è in piena continuità con tutta la Tradizione della Chiesa?
Il Concilio si è in
realtà occupato del Sovrannaturale, anche se non direttamente. Se ne è occupato tutte le volte che ha preso
in considerazione il “Regno di Dio”.
Non molte, ma sufficienti a far vedere la presenza di una corrente
dottrinale più vicina alle concezioni di de Lubac e Rahner che alla dottrina
ortodossa della Chiesa. Così gli spunti
in tal senso presenti in LG 13 e 35, nei quali si esamina il rapporto tra il bonum
temporale dei popoli e il Regno alla luce del contributo che i cristiani
devono dare all’incremento di tale bonum temporale “nel progresso
universale nella libertà umana e cristiana” (LG 35.2); questi spunti trovano la
loro elaborazione finale nella dottrina che espone addirittura “l’attività umana
nell’universo [De humana navitate in universo mundo]”, agli articoli
33-39 della costituzione conciliare Gaudium et spes. In particolare, l’art. 39, intitolato: Terra nuova e cielo nuovo, mostra
l’impronta delle visioni di tipo millenaristico di de Lubac, abbozzate in Catholicisme,
che è del 1937[32].
VI. LE
IMMAGINI DELLA CHIESA, SECONDO LG 6
Come ho già ricordato,
LG sviluppa alquanto il tema delle “immagini della Chiesa”, dedicandogli un
apposito, non breve articolo, il n. 6.
Esso riprende e amplia tutte quelle già presenti in AeU 3.2, con
l’eccezione di due: la Chiesa “colonna e
fondamento della verità” (spostata in LG 8.2) e il Regno di Dio. Si è appena visto che il Regno di Dio è stato
considerato a parte, senza mai dire che esso è da sempre immagine della Chiesa
ed anzi che è la Chiesa stessa, Cattolica, Apostolica e Romana, in quanto Corpo
Mistico di Cristo.
Perché tanto interesse nei confronti delle
“immagini” della Chiesa? La cosa è forse
importante? Lo è sicuramente per una
teologia che vuole affidarsi al “mistero” in maniera sovrabbondante, dato che
l’esplorazione del “mistero” avviene in genere attraverso quel tipo di
conoscenza che si suol definire “simbolica”.
Conoscenza forse affascinante, soprattutto per chi si è nutrito delle labili
categorie del pensiero contemporaneo, ma che facilmente pencola verso
l’irrazionale e quindi da prendersi con le molle. Essa tende a sostituire l’immagine al
concetto, il sentimento al ragionamento, la sensibilità alla morale.
Quali sono le immagini
della Chiesa e cosa si deve dedurre da esse in ordine alla comprensione della
natura della Chiesa? Queste immagini ci
fanno vedere “l’intima natura della Chiesa” e sono in gran parte abbozzate “nei
libri dei profeti” (LG 6.1). Nell’ordine
esse sono: l’ovile; il gregge; il podere o campo di Dio; la vigna scelta della
quale Cristo è la vera vite; l’edificio di Dio, chiamato anche casa di Dio,
dimora di Dio, “e soprattutto tempio santo, il quale, rappresentato dai
santuari di pietra, è l’oggetto della lode dei santi Padri ed è paragonato a
giusto titolo dalla liturgia alla Città santa, la nuova Gerusalemme” (LG
6.4). Pertanto la Chiesa viene anche
chiamata Gerusalemme celeste e madre nostra; immacolata sposa dell’Agnello
immacolato (LG 6.4).
Sull’immagine della
Chiesa “sposa dell’Agnello”, LG 6 si
dilunga. È la sposa che Cristo ha amato,
per la quale ha dato sé stesso per santificarla, che si è associata con patto
indissolubile, che nutre e cura, che, dopo averla purificata, volle a sé
congiunta e soggetta nell’amore e nella fedeltà; che ha, infine, riempito di
grazie celesti, “onde potessimo capire la carità di Dio e di Cristo verso di
noi, carità che sorpassa ogni conoscenza” (LG 6.5). Si tratta di immagini tratte in gran parte da
S. Paolo. Messe insieme in poche righe
sembrano voler celebrare le massime virtù della Chiesa, sposa immacolata di
Cristo.
1. Una Chiesa sempre imperfetta per
definizione
E tuttavia il capitolo si chiude con una
notazione che sembra richiamare di nuovo l’idea di un’imperfezione della
Chiesa. Nell’immagine di una Chiesa peregrinante su questa terra e lontana dal
Signore, riappare di nuovo la Chiesa che anela ad una perfezione che non
possiede, nonostante essa sia la sposa immacolata dell’Agnello. “Ma mentre la Chiesa compie su questa terra
il suo pellegrinaggio lontana dal Signore (cfr. 2 Cor 5,6), è come un esule, e
cerca e pensa alle cose di lassù, dove Cristo siede alla destra di Dio, dove la
vita della Chiesa è nascosta con Cristo in Dio, fino a che col suo Sposo comparirà
rivestita di gloria (cfr. Col 3, 1-4)” (LG 6.5).
Una Chiesa, dunque, che “cerca e pensa alle
cose di lassù”, come se non possedesse la verità rivelata nel Deposito della
Fede, del quale è custode. Il
riferimento a 2 Cor 5,6 mi sembra fuori posto.
Infatti, S. Paolo scrive che noi credenti, in quanto individui
costretti ancora a quest’esistenza mortale, “viviamo nel corpo, siamo
pellegrini lungi dal Signore”, ma ci tiene in vita la fede, grazie alla quale
sappiamo di poter accedere alla “dimora eterna” (2 Cr 5, 1-6). Non è “pellegrina” la Chiesa, sono
“pellegrini” e lontani da Dio i singoli credenti, compresi gli uomini di
Chiesa, finché si trovano a lottare in questo corpo mortale. LG sembra confondere ancora una volta la
Chiesa con i suoi membri, attribuire alla prima i limiti che appartengono solo
ai secondi. Siamo noi i “pellegrini” nel
pensiero di S. Paolo, non la Chiesa in quanto tale. Ugualmente male usato mi sembra il passo di
Col 3, 1-4, che concerne noi credenti, uti singuli, non la Chiesa, non il Corpo
Mistico. È un passo famoso, nel quale S.
Paolo incita i cristiani a vivere per il cielo in ogni momento della loro vita.
“Se dunque siete
risuscitati con Cristo, cercate le cose del Cielo, dov’è Cristo, assiso alla
destra del Padre: aspirate alle cose di
lassù e non a quelle che son sulla terra.
Voi, infatti, siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in
Dio. Ma quando comparirà Cristo, che è
la vostra vita, allora anche voi apparirete con lui nella gloria”(Col
3,1-4). Commenta l’edizione della CEI
del 1963: “Vedi Rm 6,11. Il Battesimo ci fa morire al mondo del
peccato, dà una vita nuova partecipata a noi dal nostro capo glorioso, Cristo”. E quella del 1974: ”La nuova vita cristiana
nasce dalla mistica unione del battezzato
con Cristo e, per lui, con Dio”.
Da questi commentari risulta che il passo si riferisce al singolo
credente non alla Chiesa. Il passo che
può creare difficoltà è quello in cui si dice che il cristiano “è morto e la
sua vita è nascosta con Cristo in Dio”.
Grazie al Battesimo siamo morti al peccato. Se viviamo da buoni cristiani possiamo dire
di esser comunque morti al peccato e che in noi è nato l’uomo nuovo. Ma la vita di quest’uomo nuovo è ancora
“nascosta con Cristo in Dio”. Solo Cristo e Dio la conoscono per ciò che essa
effettivamente è; diventerà di pubblico dominio nel giorno del Giudizio
universale, quando i Giusti appariranno con Cristo nella sua Gloria. I cristiani non devono dunque scoraggiarsi,
se la ricompensa eterna appare lontana, mentre sono ancora qui, a lottare sulla
terra: devono comunque avere il pensiero
fisso “alle cose di lassù”, alla vita eterna, l’unica cosa che conti.
L’immagine dell’esilio da Dio si può
forse applicare alla Chiesa di Cristo?
Si potrà applicare ai singoli credenti, “in esilio” rispetto alla Patria
celeste finché vivono in questo mondo, non alla Chiesa, se essa è il Corpo
Mistico di Cristo. Se Cristo ne è il
Capo, il Corpo non può essere “in esilio” da Lui. Finché la Chiesa conserva la purezza del
Deposito della Fede essa gode dell’assistenza dello Spirito Santo e allora come
può peregrinare “lontana dal Signore” come se fosse “esule”?
L’immagine di una
Chiesa dalla santità imperfetta [!] è ripresa negli ultimi due paragrafi
di LG 8. Sembra che il Concilio (la
fazione progressista che vi si è imposta) tenesse in modo particolare a
sottolineare questo singolare concetto.
Il soggetto del quale si sta parlando qui, non dobbiamo dimenticarlo, è
sempre la Chiesa di Cristo che sussiste nella Chiesa cattolica e negli
“elementi” acattolici al di fuori di essa.
LG 8.3 ricorda
giustamente come Nostro Signore abbia “compiuto la redenzione attraverso la
povertà e le persecuzioni” ragion per cui la Chiesa (di Cristo) “non è
costituita per cercare la gloria terrena bensì per diffondere, anche col suo
esempio, l’umiltà e l’abnegazione” (LG 8.3).
Perciò, come Cristo è venuto “ad annunciare la buona novella ai poveri,
a guarire quei che hanno il cuore contrito” (Lc 4,18), “a cercare e salvare ciò
che era perduto”(Lc 19,10), allo stesso modo “la Chiesa circonda d’affettuosa
cura quanti sono afflitti dall’umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei
sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di
sollevarne l’indigenza e in loro cerca di servire il Cristo”(ivi).
Nel riferimento ai
“poveri”, senza ulteriori determinazioni, qualcuno ha voluto scorgere uno
scivolone verso la c.d. “teologia della liberazione” dal momento che il testo,
non menzionando i “poveri nello spirito” cioè coloro che avranno “il Regno dei
Cieli” (Mt 5,1) perché vivono in spirito di povertà, che è spirito di
mitezza, di giustizia, di misericordia (Mt, 5 passim), sembra ridurre la
missione di Cristo ad una sorta di apostolato sociale cui la Chiesa deve
ispirarsi, privilegiando appunto i “poveri” e i “sofferenti” (in pauperibus
et patientibus). Soprattutto in loro si rifletterebbe l’immagine di Nostro
Signore “povero e sofferente” (pauper et patiens). Ora, si è sempre vista l’immagine di Cristo
anche nel “povero”, in senso materiale, come sembra sia il caso qui, e nel
“sofferente” per la povertà stessa, in colui che la subisce. Ma si è sempre saputo che Nostro Signore è
venuto a “guarire” tutti gli uomini dal peccato, più che ad alleviare le
sofferenze dei poveri, che pur vanno alleviate, per quanto possibile. Lo ricorda il Concilio stesso, citando Lc
4,18: “[sono venuto] a guarire [sanare]
quei che hannno il cuore contrito”. E
chi sono quelli che “hanno il cuore contrito”?
I poveri, gli indigenti? No. Sono
i peccatori in generale, che già soffrono interiormente per i loro peccati: e i
peccatori sono presenti in tutti gli strati della società (“Non sono venuto a
chiamare i giusti ma i peccatori”- Mc 2,18).
Non ci sono peccatori
anche tra i poveri, gli indigenti? Ci
sono di certo anche tra di loro e sarebbe un grave errore trasformare i poveri
in giusti per il solo fatto di essere poveri.
“Va offerto pertanto conforto a chi arde nel forno della miseria; mentre
è salutare il timore incusso a quelli che il conforto della gloria terrena
rende superbi [con citazione di Lc 6,24: “Guai a voi, ricchi, perché avete già
la vostra consolazione”]. È vero,
infatti, che i poveri posseggono
ricchezze invisibili e i ricchi non possono conservare le ricchezze che
posseggono. Tuttavia, la varietà dei
caratteri riesce persino a trasformare la categoria delle persone, tal che è
possibile trovare un ricco umile e un povero superbo. Il discorso va, pertanto, rapportato alla
condotta di chi ascolta. Sarà duro nel
colpire la superbia del povero, non giustificata dalla povertà. Sarà, invece, dolcissimo nel lodare l’umiltà
dei ricchi, se non li inorgoglisce l’esaltante abbondanza”[33].
Non mi sembra si possa
dire che LG 8.3 adotti una prospettiva simile a quella della teologia della
liberazione. Tuttavia, sembra privilegiare
“i poveri e sofferenti” come oggetto dell’attività della Chiesa, con la
conseguente (implicita) elevazione dell’attività di assistenza sociale e
umanitaria della Chiesa a scopo essenziale della Chiesa stessa. Il che non può essere perché l’assistenza
materiale ai poveri (e ai malati), per quanto di grande importanza per gli
assistiti e per la società, non costituisce lo scopo fondamentale della Chiesa,
che resta sempre quello di “guarire quelli che hanno il cuore contrito”, di
curare le anime non i corpi, cioè di convertire i peccatori, ricchi o poveri
che siano, strappandoli al “Principe di questo mondo”.
La “povertà” e la
“sofferenza” di Nostro Signore sono poi le stesse dei poveri? Il paragone è tradizionale ma va inteso nei
suoi giusti termini. Gesù di Nazareth,
secondo la Tradizione, aiutava il padre putativo, S. Giuseppe, nella sua
bottega di falegname: un mestiere valido, dignitoso, sufficiente a far vivere
decorosamente la famiglia. La povertà
fu scelta da Gesù quando cominciò la sua missione, che comportava una
vita da predicatore itinerante, con il suo piccolo seguito, affidati entrambi
al buon cuore di seguaci, amici e parenti.
La scelta della povertà era un portato necessario della sua missione,
impossibile senza il pieno distacco – anche esteriore – dai beni di questo
mondo, rimessi all’aiuto della Provvidenza per le esigenze giornaliere
dell’esistenza. In tal modo Nostro
Signore ha rivalutato il significato della povertà, togliendola dallo stolto
disprezzo con il quale era considerata, senza per questo farne un oggetto
privilegiato della sua predicazione.
Tant’è vero che né Lui né gli Apostoli incitano alle riforme sociali o,
peggio, alla rivoluzione in nome dei “diritti” dei poveri (dei loro “diritti
umani” si direbbe oggi). La condizione
dei poveri e degli schiavi deve piuttosto esser alleviata convertendo i ricchi
alla carità cristiana e quindi a forme sociali via via più giuste (Ef 6, 5-9).
In LG 8.3 ritorna il
tema della “santità imperfetta” della Chiesa, agganciato inaspettatamente
all’attività della Chiesa che vuole alleviare l’indigenza dei poveri, cercando
così di “servire Cristo”. Ho già citato
il passo. Mentre Cristo “santo, innocente, immacolato” non conobbe il peccato e
venne solo allo scopo di espiare i peccati del popolo, “la Chiesa, che
comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa
di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del
rinnovamente” (LG 8.3). Il “servire
Cristo” della Chiesa è dunque sempre imperfetto. Per le inevitabili carenze dei singoli? No.
Perché è la Chiesa stessa ad aver sempre bisogno di “purificazione”,
mediante una “penitenza” ed un “rinnovamento” continui. La Chiesa è dunque “santa” ma in modo imperfetto. Ma può esistere una santità “imperfetta”, mi
chiedo di nuovo? Che significa?
Nell’ultimo paragrafo,
LG 8.4, l’argomento si chiude
ripresentando due temi peculiari al Concilio: la virtù salvifica del Cristo
glorioso (vedi infra, cap. VII, § 2) e (di nuovo) l’imperfezione della
Chiesa. Si scrive che è “dalla virtù del
Signore risuscitato” (non dalla virtù della Croce) che la Chiesa (di Cristo)
trae la forza per superare tutte le difficoltà che le vengono dall’esterno e
dall’interno, e “per svelare in mezzo al mondo, con fedeltà, anche se non
perfettamente [licet sub umbris], il mistero di lui, fino a che alla
fine dei tempi esso sarà manifestato nella pienezza della luce”.
Ma su questa raccolta
di immagini della Chiesa mi sembra doveroso fare altre due osservazioni.
2. L’inserimento equivoco delle immagini di
Israele nelle immagini della Chiesa
La prima riguarda
l’inserimento dell’immagine di Israele nelle immagini della Chiesa. Dopo aver ricordato che per S. Paolo la
Chiesa è come il podere o campo di Dio, il testo così prosegue: “In quel campo cresce l’antico olivo, la cui
santa radice sono stati i patriarchi e nel quale è avvenuta e avverrà la
riconciliazione [reconciliatio facta est et fiet] dei Giudei e delle
Genti (cfr. Rm 11,13-26)”. L’antico
olivo, ci insegna S. Paolo nell’epistola citata, è Israele, dal quale sono
stati però tagliati i rami secchi (i Giudei increduli, persecutori di Cristo) e
nel quale sono stati inseriti quelli nuovi, rappresentati dai pagani che si
sono convertiti a Cristo. Ma un giorno,
che solo Dio conosce, quando sarà entrata “la totalità dei Gentili” anche
“tutto Israele si salverà” (ivi, 25-26), profezia che finora non si è avverata
e che è stata sempre intesa nel senso di una conversione in massa degli Ebrei
alla fine dei tempi, poco prima della Parusìa o ritorno di Cristo nella Gloria,
come Giudice dell’intero genere umano.
La Chiesa è dunque
cresciuta sulle “radici” dell’antico olivo rappresentato dalla fede degli Ebrei
(ivi, 11,17). Non è chiaro, tuttavia,
come “l’antico olivo” possa crescere “nel campo” ossia nella Chiesa, restando
“antico olivo”. Né come sia possibile
che “la riconciliazione” dei Giudei coi Gentili, profetizzata da S. Paolo, sia
anche (già) “avvenuta”. È corretto dire
che “avverrà”, secondo quanto ci annuncia S. Paolo (e non con il c.d. “dialogo”
ma con la “conversione” spontanea dell’intero Israele). Ma appare del tutto incomprensibile affermare
che essa sarebbe anche “avvenuta”.
Quando sarebbe avvenuta? Se i
Cristiani, per restare sempre a S. Paolo, sono i rami nuovi innestati dallo
Spirito Santo al posto dei vecchi tagliati via, ciò non può certamente
considerarsi una “reconciliatio”. La sostituzione
della Chiesa di Cristo all’Israele della carne non rappresenta di sicuro
una “riconciliazione” con l’Ebraismo.
L’antitesi è radicale perché solo la Chiesa è ora il vero “Israele di
Dio”. La riconciliazione avverrà solo
con la conversione di “tutto Israele”, alla vigilia della fine dei tempi. E che ci debba essere questa conversione
finale, quando gli Ebrei si renderanno conto del loro errore nei confronti di
Cristo allorché Dio avrà fatto cadere “il velo” che ancora oscura loro la vista
(2 Cr 3,16) – ciò è perfettamente logico, ci spiega S. Paolo, dal momento che
Dio “non ha rigettato il suo popolo”, che gli è rimasto caro, per le promesse
fatte ai Padri. Non avendolo rigettato, concederà che un giorno il suo
“accecamento” finisca (Rm, 11, 1 ss., 28-29, et passim). Finché Israele non si convertirà, riconoscendo
in Cristo il Messia, il mondo non finirà.
Il concetto espresso da S. Paolo è chiaro: il fatto che Dio abbia
mantenuto “l’elezione” di Israele significa che gli concederà la conversione,
non significa che l’attesa messianica dell’Israele della carne possa
considerarsi ancora valida, in contraddizione con la teologia della
sostituzione.
Ma l’inserimento
dell’immagine dell’antico olivo nelle immagini della Chiesa, come fatto da LG
6, è coerente con il senso evidente e tradizionale dell’insegnamento di S.
Paolo o non sembra produrre una discreta confusione? Confusione perché si parla di una
riconciliazione che sarebbe già “avvenuta” quando l’Ebraismo resta sempre
ostile a Cristo mentre si evita di specificare che la riconciliazione può
avvenire solo in seguito alla conversione degli Ebrei. Nella dichiarazione conciliare Nostra
Aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, come si
è visto nell’Introduzione di questo lavoro, viene ripetuto questo
concetto di una riconciliazione tra Ebrei e Gentili che sarebbe già avvenuta per
mezzo della Croce, grazie alla quale Cristo ha fatto dei due una sola cosa in
sé stesso (NAet 4.3). Ma il testo di S.
Paolo che si cita (Ef 2, 14-16) ancora una volta, ribadisce che la
“riconciliazione” ha luogo solo con la conversione di entrambi al Cristianesimo. Dice infatti l’Apostolo delle Genti ai pagani
convertiti: un tempo voi eravate
“all’infuori di Cristo” cioè ancora pagani nonché “esclusi dalla cittadinanza
d’Israele ed estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio nel
mondo”. Si intende: esclusi dalla
cittadinanza divina d’Israele, popolo eletto con “i patti della promessa”. Ma grazie a Cristo, al quale vi siete
convertiti, “voi che eravate lontani siete diventati vicini nel sangue di
Cristo”. “Vicini”, a chi? Agli Ebrei che hanno rifiutato Cristo e
perseguitano i suoi seguaci? Non può
essere. “Vicini” a Cristo ossia agli
Ebrei convertiti. L’ebreo che ha riconciliato i Gentili con gli Ebrei è Cristo
stesso, il Messia nel quale l’Ebraismo trova il suo compimento finale. Cristo “è la nostra pace” perché “ha fatto
delle due cose [Ebrei e Gentili] una sola, togliendo di mezzo il muro che li
separava, cioè l’inimicizia”; infatti, “nella sua carne annullò co’ suoi
precetti la Legge delle prescrizioni [giudaiche], al fine di ridurre in sé
stesso, artefice di pace, i due in unico uomo nuovo [il Cristiano], e
riconciliarli entrambi in un corpo unico a Dio [la Chiesa di Cristo] per mezzo
della croce, uccidendo in sé ogni inimicizia”[34]. Le “due cose” diventano una sola nell’”uomo
nuovo” rappresentato dal Cristiano, verità che, a mio avviso, non compare
affatto nei passi del Concilio analizzati, che utilizzano S. Paolo in un modo
che mi sembra alquanto ambiguo. La
“riconciliazione” paolina è unilaterale, va in una direzione sola ossia può
aver luogo solo nella vera Ecclesia Dei, alla quale verranno un giorno
tutti gli Ebrei.
Nell’inserimento
equivoco dell’immagine dell’antico olivo tra le “immagini della Chiesa”
appare quella che a me sembra una sopravvalutazione dell’Antico Testamento da
parte dei Novatori. Mi sembra presente
in Dei Verbum 16, articolo nel quale si parla di “unità dei due
Testamenti”, scrivendo: “[…] i libri del Vecchio Testamento, integralmente
assunti nella predicazione evangelica, acquistano e manifestano il loro pieno
significato nel Nuovo Testamento (cfr. Mt 5, 17 etc.), che essi a loro volta
illuminano e spiegano [illudque vicissim illuminant et explicant]”. È
vero che da certi passi dell’Antico si possono comprendere meglio alcuni del
Nuovo Testamento (vedi infra, cap. XVII, § 5). Ma non è azzardato affermare come principio
generale e assoluto che i libri dell’Antico Testamento, in quanto tali, “a loro
volta illuminano e spiegano” quelli del Nuovo? E per di più in blocco? E questo della totale reciproca “illuminazione
e spiegazione” dei due Testamenti è diventato una sorta di dogma
ermeneutico! Non si sente qui
l’infiltrazione della “falsa esegesi”
(dei Nuovi Teologi) condannata da Pio XII nella Humani generis? Esegesi “chiamata simbolica e spirituale”,
secondo la quale “i libri del Vecchio Testamento, che oggi nella Chiesa sono
una fonte chiusa e nascosta, verrebbero finalmente aperti a tutti” risolvendo
una volta per tutte [!] le difficoltà di chi si attiene al senso letterale
delle Scritture?[35]
L’apertura dell’Antico
Testamento al popolo l’ha fatta la montiniana Messa del Novus Ordo, che
ne offre regolari estratti nella domenicale Liturgia della Parola. Come dimenticare l’autentico martirio che
subiscono quei Sacri Testi, affidati alla lettura di laici più o meno
volonterosi, maschi e femmine che quasi mai danno l’impressione di capire
quello che stanno leggendo? Non che la
lettura dei contigui passi del Nuovo Testamento migliori di molto la
situazione, ovviamente, peggiorata poi ulteriormente dal pistolotto a sfondo
social-umanitario nel quale si rifugia in genere la predica dell’officiante,
smarrito di fronte alla mole di Vecchio e Nuovo Testamento che gli viene
propinata, per esser da lui trasfusa in qualche modo nel sermone.
3. La scelta delle immagini mostra
continuità con AeU?
La seconda
osservazione è di carattere più generale.
Da tutto questo florilegio emerge un’immagine della Chiesa che sia in
armonia con quella proposta dallo schema Aeterni Unigenitus? In quest’ultimo, l’immagine prevalente era
sempre quella della Chiesa militante, inquadrata nel Corpo Mistico di
Cristo. Ora il carattere militante
della Chiesa non viene più ricordato, con conseguente scomparsa delle immagini
connesse, ricavate da S. Paolo e dal Vangelo di Giovanni: la milizia, il cristiano come soldato di
Cristo, la lotta contro sé stessi e il mondo, il combattimento, anche come
competizione dell’atleta (il Cristiano atleta di Cristo). Tutto questo lo si considera ormai
anticaglia: la Chiesa non ha nemici e non ne hanno nemmeno i Cristiani. Si vuole evidentemente rinnegare ogni
immagine che implichi l’idea di lotta, combattimento, nemico da affrontare
(anche dentro di sé), contrapposizione radicale con il mondo “regno del
principe di questo mondo”: insomma, ogni
immagine che individui la Chiesa come “segno di contraddizione” nei confronti
del mondo, esponendola all’odio e alla persecuzione.
Inoltre, AeU precisa
che le “immagini” della Chiesa realizzano sempre una sintesi tra l’elemento
“mistico” e quello “sociale”. La sintesi
tra i due aspetti (Chiesa visibile ed invisibile) sembra essersi persa in LG,
dal momento che sembra prevalervi l’elemento “mistico”, nel senso però di misterico;
o, in modo affine, spirituale nel senso di uno “Spirito” dai tratti
tendenzialmente indefiniti. Un’ulteriore
differenza con lo schema rigettato è data dal fatto che attraverso una certa
lettura delle immagini della Chiesa si insinua una ambigua rappresentazione
dell’Ebraismo da un lato e del Sovrannaturale dall’altro.
L’immagine
resta nel campo puramente simbolico solo per modo di dire, dato che vi compare
sempre il modo nel quale si intende la cosa concreta, vale a dire il concetto
di Chiesa che dette immagini vogliono rappresentare. Tale concetto, come inteso da LG, si precisa
ulteriormente nell’analisi del concetto di Corpo Mistico.
VII. UN
“CORPO MISTICO” (LA CHIESA) INCENTRATO SUL CRISTO, CHE HA GIÀ REDENTO L’UOMO
CON LA SUA INCARNAZIONE, MORTE E RESURREZIONE?
Vengo pertanto
all’ultimo articolo della Lumen gentium, tra quelli che precedono il
famoso n. 8. Qui viene riproposto il
concetto del Corpo Mistico che, come si è visto, costituiva il cuore
dell’argomentazione di Aeternus Unigeniti.
Il testo di LG 7, che
si intitola : La Chiesa, corpo mistico di Cristo, è molto più
ampio. Dell’impostazione di AeU sembra
esser rimasto poco o nulla. In apertura,
si connette l’unione mistica del Corpo di Cristo nello Spirito Santo con la
redenzione dell’uomo. Quest’ultima,
però, è presentata come se fosse avvenuta direttamente con
l’Incarnazione, Morte e Resurrezione di Nostro Signore. Già avvenuta, sembrerebbe, come la
“riconciliazione” tra Ebrei e Cristiani.
“Il Figlio di Dio,
unendo a sé la natura umana e vincendo la morte con la sua morte e
resurrezione, ha redento l’uomo e l’ha trasformato in una nuova creatura (Gal
6,15; 2 Cr 5,17). Comunicando infatti il
suo Spirito, costituisce misticamente come suo corpo i suoi fratelli, che
raccoglie da tutte le genti”(LG 7.1).
1. La redenzione direttamente da Cristo,
indipendentemente dalla Chiesa?
Di questo periodo non
sono riuscito a trovare un aggancio nello schema Aeternus Unigeniti, in
particolare della sua prima frase. La
seconda ripropone in generale la “comunicazione” dello Spirito Santo, in quanto
costitutiva del Corpo Mistico. Le due
frasi sono collegate dallo “infatti” (enim). Se si guarda bene, tuttativa, il loro nesso
non è così lineare come potrebbe sembrare a prima vista. Si afferma perentoriamente e senza sfumature
che il Figlio di Dio con l’Incarnazione, la sua Morte e la sua Resurrezione “ha
redento l’uomo e l’ha trasformato in una nuova creatura”. E ciò risulta dal fatto (“infatti”) che ha
comunicato il suo Spirito ai “suoi fratelli” ovvero agli uomini (Eb 2,11-18),
in tutte le genti, costituendoli “misticamente come suo corpo”.
Il
Cristo costituisce dunque gli uomini “suoi fratelli” in un corpo mistico,
inviando lo Spirito Santo. La
redenzione, noi sappiamo, può aver luogo solo nel Corpo Mistico che è la
Chiesa. E la Chiesa è nata con la Pentecoste, con l’invio dello Spirito
Santo. Anteriormente, essa era già
cominciata con la predicazione di Nostro Signore e l’invio delle prime
“missioni” degli Apostoli. Ma solo con
l’effusione dello Spirito Santo si ha la compiuta formazione della Chiesa, come
Corpo Mistico di Cristo. Ma se si dice
che Cristo con l’Incarnazione, Morte e Resurrezione ha redento l’uomo, ciò non
significa dire che la redenzione, che trasforma l’uomo in una nuova creatura,
ha avuto luogo prima dell’invio dello Spirito Santo, cioè prima della
nascita della Chiesa? E se le cose
stanno così, allora non si spiega l’”infatti” della seconda frase, che sembra
invece attribuire la redenzione all’azione dello Spirito Santo che costituisce il
Corpo Mistico, quindi posteriormente all’Incarnazione, Morte e Resurrezione del
Signore.
Ma andiamo a vedere i
riferimenti scritturali paolini della prima frase: Gal 6,15 e 2 Cr 5,17. La perìcope della
Lettera ai Galati si trova nella chiusura della lettera. Polemizzando con i Giudaizzanti, che volevano
far circoncidere i Galati convertitisi al Cristianesimo perché a loro erroneo
giudizio i Cristiani dovevano continuare ad osservare le pratiche giudaiche, S.
Paolo ribadisce che l’unica cosa che conta è l’essere “una creatura nuova”
ossia convertito a Cristo nella fede e nelle opere. “Quanto a me sia lungi il gloriarmi d’altro
che della croce del Signor nostro Gesù Cristo, per la quale il mondo è stato
per me crocifisso, e io pel mondo. Né la
circoncisione ha valore, né l’essere incirconciso; ma l’essere una creatura
nuova” (Gal 6,14-15). Non contano le
pratiche formali, quali che siano, giudaiche o altre: conta l’esser un vero seguace di Cristo,
vivere effettivamente come “l’uomo nuovo” che il Battesimo fa nascere in
noi. E questo è possibile solo nella
Chiesa ovvero mettendo in pratica gli insegnamenti (nella fattispecie) di S.
Paolo, attraverso il quale parla il Signore.
L’altro testo è tratto da 2 Cr 5,17.
Esso recita: “Sicché, se uno è in
Cristo, è una creatura nuova, quel ch’era vecchio è sparito, ecco è sorto il
nuovo”. Solo se uno “è in Cristo” può
essere “la creatura nuova”, richiesta dallo stesso Cristo (Gv 3,5). Che vuol dire “se uno è in Cristo” (óste
ei tís en Christô)? Se uno si è
convertito, si è fatto cristiano, entrando nella Chiesa o Corpo Mistico. Solo a questa condizione può diventare un
“uomo nuovo”. Nuovo, si intende,
sempre nel senso voluto da Nostro Signore.
Ora, da questi due
testi dell’Apostolo delle Genti si ricava forse l’impressione che l’uomo sia
stato redento e trasformato “in una nuova creatura” direttamente
dall’Incarnazione, Morte e Resurrezione di Nostro Signore? Secondo me, no. S. Paolo si limita a dire che ognuno di noi
può essere la “creatura nuova” desiderata da Cristo, solo “se è in Cristo”,
cioè se vive da buon cristiano, in pensieri, parole e opere, obbedendo ai
precetti della Chiesa. E questo non è
possibile se non si fa parte della Chiesa o Corpo Mistico di Cristo.
L’apertura di LG 7
presenta dunque un tratto decisamente nuovo rispetto ad AeU, un tratto che fa
difficoltà perché sembra suggerire l’idea di una redenzione attuata direttamente
dal Cristo con l’Incarnazione, Morte e Resurrezione, prima ancora della nascita
della Chiesa da Lui fondata ad opera dello Spirito Santo. Fa difficoltà, questo tratto, perché richiama alla mente il “pancristismo” di
blondeliana memoria (ripreso da de Lubac e Teilhard de Chardin) secondo il
quale il Cristo con l’Incarnazione, Morte e Resurrezione avrebbe già salvato il
mondo, senza bisogno della Chiesa[36].
Ma vediamo ora
rapidamente gli elementi essenziali del Corpo Mistico secondo LG 7. Lo stile dell’argomentazione è simile a
quello di LG 6 sulle immagini della Chiesa.
Anche qui le immagini abbondano e abbondano anche le ripetizioni (una
costante nel prolisso argomentare del Vaticano II). Le immagini sono ovviamente tradizionali come
pure i concetti che ad esse si ricollegano, le une e gli altri ricavati in
genere da S. Paolo. Bisogna però vedere
come vengono utilizzati, per affermare quale concetto di Corpo Mistico.
La “vita di Cristo” si
diffonde nel Corpo di Cristo ai credenti attraverso i Sacramenti, mediante i
quali i credenti “si uniscono in modo arcano e reale a lui sofferente e
glorioso” (LG 7.2). Quest’affermazione
sulla presenza del Cristo glorioso nei Sacramenti si appoggia su una citazione
di S. Tommaso, della quale parlerò tra breve.
Il Battesimo ci rende conformi a Cristo, tramite il Battesimo siamo
simbolicamente uniti a Lui nella Morte e Resurrezione (Rm 6, 4-5). Nell’Eucaristia “siamo elevati alla comunione
con lui e tra di noi”; l’Eucaristia è simbolo di unità, essa crea un solo corpo
(concetto già visto in LG 3).
Nel Corpo Mistico di
Cristo “vige una diversità di membri e di offici” (LG 7.3). Ma “uno è lo Spirito”, che “distribuisce la
varietà dei suoi doni con magnificenza proporzionata alla sua ricchezza e alla
necessità dei ministeri. Tra i doni “eccelle quello degli apostoli” cioè le
grazie loro conferite. Lo Spirito
“produce e stimola la carità tra i fedeli” (ivi). Nel penultimo paragrafo (LG 7.7), si riprende
il discorso sullo “Spirito”, utilizzando l’immagine agostiniana dello Spirito
Santo come “anima” del Corpo Mistico, già presente nel Magistero precedente e
da ultimo in AeU, come si è visto. E
nell’ultimo paragrafo (LG 7.8) si ripete l’immagine della Chiesa come “sposa di
Cristo”.
Dopo essersi
soffermato sullo Spirito Santo, il testo si concentra sulla figura di Cristo
stesso, “capo” del Corpo Mistico, “che è la Chiesa”. Sono elencati molti degli attributi del
Cristo che si desumono dalle lettere di S. Paolo. Egli “è l’immagine dell’invisibile Dio e in
lui tutto è stato creato. Egli è
anteriore a tutti, e tutte le cose sussistono in lui. È il capo del corpo, che è la Chiesa. È il principio, il primo nato di tra i morti,
affinché abbia il primato in tutto”(Col 1,15-18)”(LG 7.4). Il testo omette dalla citazione della Lettera
ai Colossesi la pericope nella quale si afferma che “tutto per mezzo di lui e
in vista di lui fu creato [omnia per ipsum, et in ipso creata sunt]”
(ivi, 1,16): omette il passo dal quale
appare con chiarezza che il Verbo ha creato il mondo, dal quale risulta con
maggior forza la sua natura divina.
Cristo “domina sulle
cose celesti e terrestri” e “riempie delle ricchezze della sua gloria tutto il
suo corpo”. Perciò “tutti i membri
devono conformarsi a lui, finché Cristo non sia in essi formato”. Siamo pertanto “collegati ai misteri della
sua vita” finché con Lui regneremo.
Nella nostra peregrinazione terrena, veniamo associati alle sue
sofferenze e “soffriamo con lui per essere con Lui glorificati”(Rm 8,17)”(LG
7.5). Nel suo corpo, “che è la Chiesa”,
Egli dispensa continuamente “i doni dei ministeri”. Grazie ad essi, “ci aiutiamo vicendevolmente
a salvarci” e andiamo “crescendo verso colui che è il nostro capo”(LG
7.6). Segue infine il richiamo
all’azione “del suo Spirito”, del quale ci ha resi “partecipi”, che è “l’anima”
della Chiesa, ed il paragrafo finale, dedicato alla Chiesa. La Chiesa, sposa di Cristo, gli è soggetta
come al suo Capo. Cristo riempie la
Chiesa dei suoi doni – essa che è il suo Corpo e la sua pienezza (Ef 1,22-23) –
affinché essa sia protesa e pervenga alla pienezza totale di Dio [omnem
plenitudinem Dei] (Ef 3,19).
Pienezza totale che, evidentemente, la Chiesa ancora non possiede. Tuttavia, sono costretto a ricordare che
anche in quest’ultima perìcope, S. Paolo si riferisce ai singoli fedeli non
alla Chiesa: egli prega Dio perché
conceda loro la grazia della fede, in modo che essi possano comprendere tutta
la portata dell’amore di Cristo, “che sorpassa ogni scienza, affinché siate
ripieni di tutta la pienezza di Dio” (Ef 3, 14-19).
Della frase di apertura di LG 7 e delle
difficoltà che essa comporta, ho già detto.
Voglio sottolineare un uso a mio avviso non convincente dell’autorità di
S. Tommaso al fine di far dipendere l’azione salvifica dei Sacramenti anche dal
Cristo glorioso.
2. Uso improprio di un passo di S.
Tommaso
Vengo quindi a LG 7.2,
nel quale si nominano i Sacramenti citando a sostegno S. Tommaso in nota, in
modo da dar l’impressione che l’opinione
espressa nel testo sia fondata sul pensiero dell’Angelico. Di cosa si tratta? Del fatto che, nel ricordare la funzione dei
Sacramenti nel “Corpo di Cristo”, si ribadisce che i credenti mediante i
Sacramenti “si uniscono in modo arcano e reale a Lui sofferente e
glorioso”. Dov’è il problema, si
chiederà il lettore. La frase non è
forse corretta, dal punto di vista dogmatico?
Lo è, ma l’aggettivo “glorioso” aggiunto a “sofferente”, sulla supposta
autorità di S.Tommaso, non introduce una nota ambigua? Il “glorioso” vorrebbe dire che nei
Sacramenti, quali ad esempio la S. Comunione, noi celebriamo, oltre al Cristo
sofferente, anche il Cristo nella Gloria e quindi che la S. Comunione ricava il
suo significato non solo dal Sacrificio della Croce ma anche e in pari modo
dalla Resurrezione. Il che non è, perché
tra le due c’è un rapporto di causa ed effetto[37]. E non lo è nemmeno per S. Tommaso, così come
non lo è nella Messa cattolica di sempre.
La Resurrezione è sì nominata nella S. Messa di Rito Romano Antico (detta
impropriamente Tridentina), ma solo nell’Anàmnesi, ossia nella preghiera
che, immediatamente dopo la Consacrazione, dichiara espressamente che il S.
Sacrificio della Messa ricorda e rappresenta quello della Croce: ”..ricordando la beata passione del medesimo
Cristo tuo Figliolo, nostro Signore, la sua resurrezione dai morti, e la sua
gloriosa ascensione in cielo, offriamo all’eccelsa tua maestà, delle cose
che ci hai donate e date, l’Ostia pura, l’Ostia santa, l’Ostia immacolata, il
Pane santo della vita eterna e il Calice della perpetua salute”.
Questa preghiera viene
ancora letta nella Messa del Novus Ordo, subito dopo la Consacrazione
del vino. Tuttavia, la formula della
consacrazione è stata cambiata. Ora essa
recita: “Prendetene e bevetene
tutti: questo è il calice del mio sangue
per la Nuova ed eterna Alleanza, versato per voi e per molti in remissione dei
peccati. Fate questo in memoria di
Me”. Sono state tolte le parole:
“mistero della fede”, che ora vengono pronunciate subito dopo dal celebrante e
alle quali il popolo risponde:
“Annunziamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua resurrezione,
nell’attesa della tua venuta”. Il
“mistero della fede” graviterebbe ora nel senso della Resurrezione e
dell’attesa per la venuta (finale) di Nostro Signore nella Gloria. Prospettiva gloriosa ed escatologica, che
tende a prevalere su quella del significato satisfattorio e propiziatorio della
Messa, come dimostrato dall’interpretazione largamente diffusa della Messa come
“far memoria del Signore Risorto” (vedi supra) e anche dal fatto che il
“molti” della Consacrazione è stato sostituito arbitrariamente da “tutti” in
quasi tutti i vernacoli e solo parzialmente restaurato dopo l’intervento ad hoc
di Benedetto XVI, alcuni anni fa. Nel
canone dell’Ordo romano antico, che secondo la Tradizione risale
ai tempi apostolici, il senso del “mistero della fede” è connesso, invece,
esclusivamente alla “remissione dei peccati” ossia al significato satisfattorio
e propiziatorio del Sacrificio della Messa, che rinnova in modo incruento
quello della Croce : “Poiché questo è il
calice del Sangue mio, della nuova ed eterna alleanza – mistero della fede – il
quale sarà sparso per voi e per molti in remissione dei peccati”.
Andando a leggere il capitolo della Summa
citato dal Concilio, si vede che per l’Angelico è la Passione del Signore a
conferire ai Sacramenti il loro autentico significato salvifico, non la sua
Resurrezione.
Si tratta di Summa
theologiae III, q. 62, a. 5, ad 1.
L’art. 5 della questione 62 si occupa del seguente problema: “Se i sacramenti della nuova legge ricavino
la loro virtù dalla passione di Cristo”.
Elencate tre opinioni
contrarie ed una favorevole (desunta da Rm 5 col commento della Glossa
ordinaria), S. Tommaso prende nettamente posizione per quella
favorevole. Il Sacramento, scrive,
“opera per causare la grazia alla maniera di uno strumento”. Uno “strumento” va inteso in modo
duplice: “come realtà separata, p.e. un
bastone (baculus), o come realtà collegata ad un’altra, p.e. la
mano. Lo strumento “separato” è mosso da
quello “collegato”(coniunctum), come nel caso del bastone impugnato
dalla mano. “Ora, Dio stesso è la causa
efficiente principale della grazia.
L’umanità di Cristo è paragonata a Dio come uno strumento che gli è
congiunto, mentre il sacramento è inteso come strumento separato. Ne consegue pertanto che la “vis salutifera”
deriva dalla divinità di Cristo operante grazie alla sua umanità nei sacramenti
stessi [Et ideo oportet quod virtus salutifera derivetur a divinitate
Christi per eius humanitatem in ipsa sacramenta]. La grazia sacramentale mira essenzialmente a
due cose: ad eliminare i guasti [defectus] del peccato e a perfezionare
l’anima nelle cose che riguardano il culto di Dio. Ma è indubbio che Cristo ci ha liberati dai
nostri peccati soprattutto [praecipue] con la sua passione”. E non solo efficaciter,
ossia con l’efficacia di un’azione effettivamente causale, in quanto “strumento
della divinità” le cui azioni operano tutte per la salvezza dell’uomo; non solo
meritorie, cioè meritando la salvezza per noi in quanto membra della
Chiesa di cui è il Capo; ma anche
riparando all’offesa fatta a Dio dal peccato degli uomini (satisfactorie). Questa soddisfazione in quanto sovrabbondante
ci ottiene misericordia da Dio (propitiatio)[38]. Ugualmente, con la sua passione Egli ha
iniziato il culto della religione Cristiana, “dando sé stesso [come] oblazione
e sacrificio a Dio” [Ef 5,2]. Da tutto
ciò risulta in modo evidente che “i sacramenti della Chiesa ricavano in modo
particolare la loro virtù dalla passione di Cristo, la cui virtù ci si comunica
in qualche modo [proprio] mediante il ricevimento dei sacramenti”: la “virtus
remissiva” dei nostri peccati “appartiene in un certo special modo alla sua
passione”[39].
Nella Passione di
Nostro Signore, unica sorgente della “virtù” dei sacramenti, vediamo il Cristo
“sofferente” non quello “glorioso”, anche se quello “glorioso” è sempre
presente perché la Divinità non può esser intaccata dalle sofferenze
dell’umanità del Verbo (così come è presente nell’Ostia consacrata, che rinnova
però la Passione non la Resurrezione).
Ora, come può il Concilio attribuire a S. Tommaso il concetto che
attraverso i Sacramenti i fedeli “si uniscono in modo arcano e reale a lui
sofferente e glorioso”, come se per S. Tommaso Passione e Gloria
contribuissero in modo uguale al valore salvifico dei Sacramenti? LG 7.2
richiama una delle tre repliche finali dell’Angelico ai tre argomenti
contrari da lui esposti all’inizio dell’articolo 5. L’argomento contrario, che è il primo dei
tre, specula su di una frase di S. Agostino:
“La virtù dei sacramenti consiste nel causare la grazia nell’anima,
facendola vivere spiritualmente. Ma,
come dice Agostino nel Commento al Vangelo di Giovanni: ‘Il Verbo in quanto era in principio presso
Dio, vivifica le anime; ma una volta divenuto carne, vivifica i corpi’. Poiché la passione di Cristo riguarda il
Verbo in quanto incarnato [quod est caro factum], se ne conclude che non
possa causare la virtù [propria] dei sacramenti”.
Poiché la Passione
concerne il Verbo nella carne che aveva assunto, ossia nel corpo, come può essa
causare la virtù dei Sacramenti, che consiste nel vivificare l’anima? Gli effetti salvifici della Passione, mi
chiedo, dovrebbero allora restare limitati al corpo di Cristo? La tesi appare manifestamente assurda. La
replica di S.Tommaso (ad 1, contro il n. 1) costituisce il passo
cui rinvia il Concilio.
“Contro il primo
argomento bisogna dire che il Verbo, in quanto era in principio presso Dio,
vivifica le anime come agente principale [sicut agens principale];
tuttavia la sua carne e i misteri che in essa hanno avuto luogo [in ea
perpetrata], operano strumentalmente [instrumentaliter] alla vita dell’anima. Alla vita del corpo, invece, non solo
strumentalmente, ma anche con una certa esemplarità, come ho detto sopra”.
Non si possono
separare e contrapporre il corpo e l’anima, come sembrano fare i sostenitori
della tesi criticata. Il Verbo “vivifica”
le anime. Ma in quest’azione concorre
anche l’Incarnazione ovvero il corpo assunto dal Verbo, con tutti i misteri che
per noi esso presenta, come risultano in particolare dalle vicende della
Passione. L’Eucaristia è un sacramento
fondamentale per la nostra salvezza. Ma
senza il “corpo” e il “sangue” di Cristo essa non sarebbe possibile. Senza il “corpo” e il “sangue” reali
del Signore, rinnovati ad ogni Messa in modo incruento dal sacerdote
celebrante, nella Consacrazione. Qui S.
Tommaso fa una differenza tra “strumentale” ed “esemplare”.
Che significa
“strumentale”? Lo spiega nella questione
n. 56, a. 1, nel replicare a coloro che negano esser la resurrezione di Cristo
“causa” della resurrezione dei corpi.
La “giustizia di Dio,
scrive, è la causa prima della nostra resurrezione” mentre “la resurrezione di
Cristo è la causa secondaria e come strumentale”. Perché la “giustizia divina”? Perché è necessario “che i corpi siano
premiati o puniti assieme alle anime, per come reciprocamente presero parte ai
meriti o ai peccati [come dissero Dionigi Areopagita e S. Giovanni Damasceno,
precisa S.Tommaso nel testo]”. La
giustizia divina, in quanto “virtù dell’agente principale non ha bisogno di
determinarsi in modo specifico in questo strumento [Licet autem virtus
principalis agentis non determinetur ad hoc instrumentum determinate]”. Tuttavia, “dato che opera mediante questo
strumento, lo strumento stesso è causa di un effetto [instrumentum illud est
causa effectus]”. Ora, la giustizia divina non era obbligata ad agire come
ha agito, istituendo la nostra resurrezione sul modello di quella di Cristo:
poteva “liberarci” (dal peccato) in modo diverso dalla Passione e Resurrezione
del Signore. “Ma poiché ha scelto di liberarci
in questo modo, è chiaro che la resurrezione di Cristo è causa della nostra”.
Causa dunque
“secondaria” (rispetto alla “giustizia divina”) e “come strumentale” perché è
lo “strumento” mediante il quale opera la giustizia divina. Ne consegue che la
Passione opera “strumentalmente” alla vita della nostra anima nel senso che è
“causa strumentale” e quindi efficiente della sua rinascita, grazie ai
Sacramenti che da essa scaturiscono.
“Strumentale” non va inteso come riferito ad una realtà subordinata e
quindi ininfluente ma nel senso di ciò che produce il suo effetto pieno perché
inserito in un rapporto causale (della causalità efficiente, che, per produrre
un effetto, presuppone l’azione di un agente sorretta da uno scopo). Pertanto S. Tommaso non sembra affatto
mettere sullo stesso piano l’azione sulle anime del Verbo presso Dio (Cristo
glorioso), che è l’azione di un “agente principale”, e quella “secondaria” e
“strumentale” sulle anime da parte del Verbo Incarnato, la cui umanità ha
accettato liberamente le terribili sofferenze della Passione (Cristo
sofferente). Al contrario, sembra ribadire che l’azione “strumentale” del
Cristo sofferente agisce di per sé sulle anime, nella sua propria autonomia di
“strumento” della salvezza.
L’azione “esemplare”
del Verbo Incarnato nei confronti della “vita del corpo”, riguarda invece il
significato esemplare della Resurrezione di Cristo. Essa è causa efficiente della nostra, per via
della “virtù divina, il cui proprio è risuscitare i morti [mortuos
vivificare]”; è anche causa “esemplare” perché costituisce il modello o
esemplare della nostra individuale resurrezione (e in questo senso, pur
risuscitando tutti gli uomini, si applica solo agli Eletti, non a coloro che
vanno in perdizione).
VIII. BILANCIO DEL RAFFRONTO TRA AeU 1-7 E LG
1-8
Dalla comparazione
dello schema Aeternus Unigeniti 1-7
con la costituzione Lumen Gentium 1-8, cosa concludere? Abbiamo visto che LG 1-8 rielabora la
struttura generale di AeU 1-7, accogliendone delle parti, che ripropongono concezioni
tradizionali della Chiesa. Ma non è
certo questo tipo di rielaborazione a costituire i concetti essenziali della
dottrina proposta da LG 1-8, che introduce a sua volta elementi nuovi
concorrenti tutti ad una concezione della Chiesa che sembra alquanto diversa da
quella di AeU 1-7: non più militante
ma misterica ossia aperta al soffio di uno Spirito di tipo (cosiddetto)
carismatico, che investe anche le “comunità” degli acattolici, in quanto
tali. Possiamo dire, in coscienza,
specchiandoci nella nostra fede di Cattolici, della quale Nostro Signore ci
chiederà conto, accanto alle nostre opere, non appena moriremo, che la dottrina
sulla Chiesa proposta da LG 1-8 si dimostri in perfetta continuità con quella
della Chiesa di sempre, proposta da AeU 1-7?
Guardiamo alle novità
esistenti in LG 1-8, poiché sono esse a fare la differenza.
1. Vengono
accuratamente eliminati tutti i riferimenti di AeU al Primato di Pietro. Non acquista rilievo il ruolo dei
“praepositi” da Cristo sub Petro sin dall’inizio della Ecclesia Dei alla
predicazione e al governo della Chiesa. Esso viene ricordato solo in LG 8.2 ma
nella Chiesa cattolica dimidiata dal subsistit in. Si ha anche un
accenno in LG 7.3, ove si dice che tra i doni dello Spirito “eccelle quello
degli apostoli, alla cui autorità lo stesso Spirito sottomette anche i
carismatici (1 Cr 14)”. Si tratta di un
riconoscimento generico. Gli apostoli
sono comunque presentati qui come collegio, senza un capo, una gerarchia.
2. Il Corpo Mistico
appare incentrato soprattutto su Cristo, che “ha redento l’uomo e l’ha
trasformato in una nuova creatura” già prima della Pentecoste, con la sua Morte
e Resurrezione, poste sullo stesso piano quanto al loro significato
salvifico.
3. Il rapporto tra
Cristo e lo Spirito Santo nel Corpo Mistico non appare ben delineato come in
AeU e risulta anche ambiguo. Non si
ripete che i doni dello Spirito Santo avvengono “secondo la misura di Cristo”.
Inoltre, si indebolisce il nesso tra lo Spirito Santo e la Verità Rivelata,
visto che lo Spirito Santo si limiterebbe ad introdurci a “tutta la
verità”: prospettiva che di fatto si
presta a mettere tra parentesi il dogma del compimento della Rivelazione con la
morte dell’ultimo Apostolo e ad aprire la strada all’ambiguo concetto di
“tradizione vivente” di cui all’art. 8 della costituzione “dogmatica” Dei
Verbum. La forte enfasi posta
sull’opera dello Spirito Santo, che viene però tendenzialmente intesa come
l’avvento di un “carisma” che riposa su sé stesso, ha dato ad alcuni la
sensazione della presenza di un certo “gioachimismo” negli articoli 2-4 della
LG, come se in questi ultimi si riflettesse la ben nota, visionaria
tripartizione delle epoche del mondo in età del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo: quest’ultima, secondo l’abate calabrese, avrebbe inaugurato
un’epoca ultima e definitiva di libertà spirituale, nella quale si sarebbe
effusa maggiormente la Grazia. In quest’Età dello Spirito avremmo avuto “la
perfetta intelligenza” delle cose, la “libertà”, la “contemplazione”, “l’amicizia”,
il mondo sarebbe ringiovanito: in
pratica, la realizzazione (sia pure del tutto spirituale) del Regno di Dio in
questo mondo. Quest’impressione,
dell’affermazione di una natura “trinitaria” della Chiesa intessuta alle
visioni “trinitarie” del tutto personali di Gioacchino da Fiore, deriva anche
dalla presentazione ed esaltazione del Vaticano II quale autentica “Nuova
Pentecoste”, quasi il Concilio dovesse inaugurare una nuova Età dello Spirito,
foriera di trionfi per la Chiesa ed apportatrice di pace al mondo intero.
4. Nelle “immagini della Chiesa” si accentua il
lato “mistico” o “spirituale” (“pneumatico”) a scapito di quello sociale (della
Ecclesia societas, gerarchicamente ordinata) e a scapito dell’idea del
carattere “militante” della Chiesa visibile, che scompare completamente, con
tutte le sue immagini tradizionali della Chiesa e del credente, come se la
Chiesa non avesse nel mondo – regno del Principe di questo mondo - un
avversario formidabile contro il quale dover lottare, per strappargli le
anime.
5. Non appare ben delineato il rapporto con il
Sovrannaturale e la concezione del Regno di Dio appare ambigua; non è messo in
rilievo l’insegnamento tradizionale secondo il quale si entra nel Regno solo
dopo esser stati “pesati, contati, divisi” dal Cristo giudice subito dopo la
morte e nemmeno che l’alternativa alla conversione a Cristo è solo la
dannazione eterna. Quest’ultima verità di fede è ricordata in modo evidente da
AeU quando riporta l’affermazione di Nostro Signore: “chi non sarà battezzato
non si salverà”.
6. LG fa intravedere
un’immagine di tipo esistenziale della Chiesa, quale potrebbe concepirla
la sensibilità decadente del Secolo ateo e miscredente: la Chiesa come realtà sempre imperfetta,
sempre alla ricerca della “pienezza” della verità, “esule” da Dio e che si
piange addosso i propri peccati grazie all’arbitraria attribuzione dei peccati
e delle imperfezioni dei membri della Chiesa alla Chiesa stessa. L’immagine esistenziale della Chiesa
non è in grado di distinguere tra l’immacolata Sposa di Cristo ed i suoi
membri, tra il peccato nella Chiesa ed il peccato della Chiesa,
che non può aver luogo. E non sembra
nemmeno in grado di concepire ancora la Chiesa cattolica come unica Arca della
Salvezza.
7. Si ha una falsa rappresentazione del rapporto
tra la Chiesa e l’Ebraismo, dando ad intendere che entrambi sarebbero già stati
“riconciliati” dalla Croce di Cristo.
Cade l’immagine della Chiesa come unico “vero Israele dello spirito”, assai
nitida in AeU, e viene di fatto oscurata la teologia della sostituzione.
8. Giustificandosi con una lettura molto dubbia
di S. Tommaso, si delinea il tentativo di ancorare i Sacramenti anche alla
Resurrezione del Signore, di legittimarli cioè anche come manifestazione del
Cristo glorioso, cui si vuole attribuire efficacia sacramentale uguale a
quella della Passione, cosa che inclina in senso protestante il significato
della S. Messa.
* * *
Nell’ambito di
un’impostazione del genere, come stupirsi allora della definizione di Chiesa
cattolica che appare nell’articolo 8 della LG, corroborato da UR 3 e UR
15.1? Il “sussistere” in essa di una
Chiesa di Cristo che “sussiste” anche negli “elementi” rappresentati da “Chiese e comunità”
acattoliche, appare il coronamento inevitabile della concezione “aperta” e “spirituale” della Chiesa,
“esistenziale”, incentrata sul Cristo il cui “mistero pasquale” avrebbe già
redento gli uomini, che si delinea nei primi sette articoli di questa
costituzione conciliare “dogmatica”. Lo
studio fin qui fatto ci permette anche di comprendere meglio, io credo, il
significato che si tende a conferire oggi al termine “Chiesa” in ambito
cattolico. Quando si nomina “la Chiesa”
i più intendono, in modo più o meno consapevole, la Chiesa di Cristo,
nel senso di LG 8.2 e UR 3, della quale la Chiesa Cattolica in senso proprio è
solo una parte, come si è visto. I
cattolici più anziani e legati al senso della Tradizione, quando sentono dire o
leggono “Chiesa” nei documenti ecclesiastici ufficiali di oggi, credono
istintivamente che ci si riferisca sempre alla Chiesa Cattolica Romana, unica
vera Chiesa di Cristo. Ma così non
è. La “Chiesa” dei documenti è in genere
la “Chiesa di Cristo” come concepita dal Vaticano II.
E conta poco, a mio
avviso, la replica secondo la quale è indubbio che per il Concilio la Chiesa di
Cristo sussiste nella Chiesa Cattolica onde quest’ultima è la sola
Chiesa di Cristo, come si è sempre creduto.
Questa replica si basa più su ciò che si dovrebbe capire dai verbali del
Concilio che sull’analisi letterale dei documenti conciliari alla fine
approvati (sul punto, vedi infra, cap. X). Conta poco, poiché l’analisi accurata dei
testi fa vedere, come credo risulti dal presente lavoro, che la “sussistenza”
della Chiesa di Cristo anche nelle “Chiese e comunità” degli Acattolici in
quanto tali, costituisce la premessa “teologica” che la mens progressista del
Concilio si è voluta dare al fine di aprire il “dialogo ecumenico” con gli
Acattolici stessi. Sembra essersi di
fatto instaurato un regime della doppia verità, della quale nessuno
sembra accorgersi, nel senso che vengono ritenuti veri ed applicati nella
prassi entrambi questi asserti, tra loro inconciliabili alla luce non solo del
Deposito della Fede ma anche della logica più elementare: 1) la Chiesa di Cristo
sussiste nella Chiesa Cattolica Romana, necessaria alla salvezza, unica Chiesa
di Cristo; 2) la Chiesa di Cristo
sussiste anche nelle Chiese e Comunità che si trovano al di fuori della
Chiesa Cattolica Romana, nonostante le loro “carenze”. E queste “carenze” (non si può dimenticarlo)
sono il risultato di eresie e scismi!
Tutto ciò non è come dire che la Chiesa Cattolica Romana è l’unica
Chiesa di Cristo e nello stesso tempo non lo è?
Si può forse negare
che ci sia stato un mutamento semantico profondo? Il lemma “Chiesa”, in bocca a preti e fedeli,
non ha più il significato di una volta.
È la Chiesa “aperta” e “in ascolto dello Spirito”, cosiddetta
“dell’Amore”, “allargata” a tutti gli Acattolici, “solidale” con tutti ed anzi
con tutta l’umanità. Essa non vuole
apparire come qualcosa di separato dal mondo, come “segno di contraddizione”,
vuole immergersi nell’umanità del mondo, non per convertirla a Cristo ma per
collaborare con essa alla costruzione di un mondo che si vuole “migliore”,
sposandone per quanto possibile i “valori”.
Per questo è stata abolita la talare, l’abito delle suore è stato reso
simile a quello delle crocerossine, e comunque molti preti e suore hanno
abolito qualsiasi segno esteriore
dell’appartenenza alla Chiesa Cattolica Romana, quasi ne provassero vergogna.
Per questo si è voluto che i seminaristi non studiassero più in un collegio
separato, in un ambiente lontano dalle seduzioni del mondo, favorevole al
raccoglimento e alla preghiera, ai difficili studi, allo spirito di disciplina
e di corpo, all’esercizio dell’autorità.
E si comprende come una Gerarchia che vede la Chiesa di Cristo anche in
tutti gli Acattolici in quanto tali senta la necessità di ancorare i Sacramenti
al Cristo glorioso; in particolare l’Eucaristia, perché così piace ai
Protestanti ed evita l’’incomodo di innalzare la Santa Croce di fronte alle
altre religioni, che tutte la avversano.
O di dichiarare sempre “imperfetta” la sua santità. Come può, del resto, essere perfetta se ora “la Chiesa di Cristo” sussiste
anche in chi professa il “pecca fortemente ma credi ancor più fortemente”? Come può essere la stessa Chiesa di AeU e in
somma la medesima Chiesa Cattolica Romana di sempre, se ora la sua Gerarchia
desiste dal convertire chicchesia, negligendo quindi esplicitamente il
comandamento dato da Nostro Signore agli Apostoli e ai loro successori: “Rendete miei discepoli tutti i popoli”? E che conto fa essa del grave ammonimento: “ma colui che mi rinnegherà davanti agli
uomini, sarà rinnegato dinanzi agli Angeli di Dio” (Lc 12, 9)?
Come ha egregiamente
messo in rilievo Mons. Gherardini, attirandosi le ire dei difensori del
presente stato di cose, l’idea di Chiesa proposta dal Vaticano II, assai più
che dal Magistero precedente, deriva dal nuovo intreccio costituito da
“ecumenismo” e “libertà religiosa”.
Improntando l’idea di Chiesa a questi due “ideali”, entrambi presi a
prestito dalla filosofia moderna e dalle utopie di Protestanti e Teosofi, si è
giunti addirittura a costruire e a vivere un “esser Chiesa” (come dicono oggi)
che esclude in quanto tale la conversione!
“Dal vincolo che
stringe insieme ecumenismo e libertà religiosa […] sarebbe poi
scaturita la rinuncia al proselitismo, alla missione evangelicamente attiva,
alla conversione. Teresa di Calcutta
poté per questo dichiarare di non aver mai invitato nessuno dei diseredati da
lei accuditi a convertirsi; ed un prestigioso cardinale, arcivescovo d’una
grande diocesi, raccontò d’aver diassuaso alla conversione l’ebreo che gli
aveva confidato questo desiderio.
Ambedue, evidentemente, s’eran collocati sulla lunghezza d’onda del
messaggio conciliare che, a base della moralità pubblica e privata oltre che
della c.d. nuova evangelizzazione, poneva l’elefantiasi dei diritti
della persona umana, non l’indiscutibilità dei diritti di Dio e della sua
Parola. Come se questa Parola non avesse
stabilito la dipendenza della libertà dalla verità (Gv 8,32), la coincidenza
della fede e della conversione (cf. Mc 1,15), l’obbligo dell’annuncio salvifico
a tutte le genti (Mt 28, 18-20). Un
capovolgimento radicale era stato operato…”[40]. Ad opera di quale “Spirito”, dobbiamo
chiederci noi semplici credenti, e trarne le dovute conclusioni.
[1] DE
MATTEI, op. cit., p. 311.
[2] Abbé
LOVEY, op. cit., p. 122.
[3]
WILTGEN, op. cit., pp. 56-8; LOVEY, op.
cit., p. 121-3, con le puntuali repliche del cardinale Ottaviani. Le invettive del vescovo De Smedt ricordavano
quelle dei Modernisti d’antan.
[4]
Per l’originale latino dello schema rimando all’indicazione che ne dà il
cardinale Becker nel suo articolo, sopra citato: Schema Constitutionis dogmaticae de
Ecclesia Christi Patrum examini propositum:
Mansi 51, 539-553.
[5] DS
788/1511.
[6]
PIO XII, Enciclica Mystici Corporis, tr. it. cit., p. 65.
[7] C,
37-8.
[8] C,
39-40.
[9] La
Sacra Bibbia, Edizioni Paoline, Roma, 1960, p. 24, in nota.
[10]
Su questo tema, per maggiori approfondimenti, mi sia consentito rinviare ad un
mio intervento: PAOLO PASQUALUCCI, La
notion de l’unité du genre humain: une
intrusion de la pensée laïque
dans Vatican II, in La tentation de l’oecuménisme, Actes du IIIᵉ Congrès Théologique de
sì sì no no, Albano Laziale - Avril 1998, Versailles 1998, pp. 130-144.
[11]
C, 52.
[12]
Ivi.
[13]
C, 40.
[14]
Vedi DB, voce Regno di Dio.
[15]
“[…] questo Spirito ci fu meritato da Cristo sulla croce, spargendo il proprio
sangue; questo, egli lo donò alla Chiesa per rimettere i peccati, alitandolo
sopra gli Apostoli; e mentre soltanto Cristo ricevette questo Spirito senza
misura [Gv 3, 34], alle membra del Corpo mistico vien distribuito dalla
pienezza dello stesso Cristo secondo la misura del dono di Cristo [Ef 1, 8; 4,
7]”(Mystici Corporis, tr. it. cit., p. 45 [DS 2288/3807]).
[16]
BERNARD BARTMANN, Précis de théologie dogmatique (1924), tr. fr.
dell’Abbé Marcel Gauthier, Salvator,
Mulhouse, 1951, I, p. 230 ss. (§ 54).
[17]
Nel già citato articolo su “Il peccato nella Chiesa”, Karl Rahner si lamentava
del fatto che la LG, pur avendola ammessa, non fosse riuscita a fornire una
nota teologica checchesia alla nozione di “Chiesa peccatrice”. E come avrebbe potuto, mi chiedo? L’articolo di Rahner cerca di conferire
significato teologico a tale bislacca nozione, con un’esposizione a mio avviso ripetitiva, elusiva e
confusa. Mi sembra che egli cerchi di
applicare alla Chiesa, e nemmeno tanto velatamente, la nozione luterana di
“simul iustus et peccator”, intrinsecamente contraddittoria. Allora, perché la Chiesa, pur
“peccatrice”, sarebbe anche santa? Per la possibilità che le è concessa, di
ricorrere sempre alla misericordia di Dio, nonostante il suo stato di
peccato: questo solo la renderebbe
“santa”. La santità della Chiesa
peccatrice viene solo dalla Grazia, come quella del singolo peccatore (op.
cit., p. 431-4; 434). Siamo in pieno
Luteranesimo. Le elucubrazioni di Rahner
erano verosimilmente anche pro domo sua:
dopo la sua morte, una donna tedesca ha dimostrato con inappuntabile
documentazione di esser stata per vent’anni la sua compagna segreta.
[18]
DE MATTEI, op. cit., p. 311.
[19]
Op. cit., pp. 341-2. Suenens divenne poi
noto per le sue “liturgie ecumeniche” aperte a tutti i soffi dello “Spirito”
(vedi: JOHN VENNARI, Close-ups of the Charismatic Movement [Il
movimento carismatico visto da vicino], Tradition in Action Inc., Los
Angeles, 2002, pp. 155-162).
[20]
PIO XII, Enciclica Mediator Dei sulla sacra Liturgia, tr. it. con testo
lat. a fronte, Vita e Pensiero, Milano-Roma, 1956, pp. 126-8.
[21]
CONFERENZA EPISCOPALE DELL’EMILIA E ROMAGNA, Islam e Cristianesimo, EDB,
Bologna, 2000, p. 30.
[22]
Nelle note relative, AeU 6.2 rimanda alla dottrina contenuta in documenti di
Leone XIII, Pio IX, Pio XII, e in S. Tommaso.
[23]
Si trova in S. PAOLO, Rm 8,9; Fil 1,19 etc.; vedi BARTMANN, op. cit., I, p.
231.
[24]
Cit. in LOVEY, op. cit., p. 121-2. Ho
ritradotto dalla traduzione francese ivi presente.
[25]
Bartmann, op. cit., I, p. 219 (§ 52).
[26]
BRUNERO GHERARDINI, Chiesa-Tradizione-Magistero, articolo apparso sulla
rivista elettronica Disputationes Theologicae del 7 dicembre 2011, p. 3 di 4.
[27]
Il significato tradizionale di Gv 16,13 è confermato anche dalle edizioni dei Vangeli ispirate al metodo
storico-critico, che sottopone i manoscritti ad un vaglio ipercritico, alla
stregua di un qualsiasi testo letterario:
cfr. The Greek New Testament, cit.: Gv 16,13 con le relative note; nonché: BRUCE
M. METZGER & SOCII, A Textual Commentary on the Greek New Testament,
German Bible Society, Stuttgart, 1994², p. 210.
Il verbo, riportato dalla quasi totalità dei manoscritti, è il futuro hodeghései
en: guiderà verso, e in senso traslato insegnerà, istruirà (docebit,
in latino). Semanticamente contiene
l’idea della guida, la guida di un capo, un maestro (hodós: sentiero,
via; heghéomai: conduco come guida, capo). Non c’è l’idea di un semplice introdurre; c’è
l’idea di una guida in senso forte, di un capo o maestro fornito di piena
autorità, di uno che è un leader, viae dux (Zorell, LGNT, sub voce). Se
si fosse trattato di esprimere il concetto di “introdurre” alla verità, il
greco non avrebbe dovuto usare un termine completamente diverso, come ad
esempio: eiságo? Pochissimi manoscritti riportano : “dieghésetai hymîn”: “vi esporrà”, più
descrittivo, ma comunque lontano dall’idea dell’introduzione. La filologia dimostra, dunque, che lo
“inducit” di LG 4 non ha fondamento alcuno nel Testo Sacro. Nel passo di Lc 12,10, il latino traduce
ugualmente con docebit il greco, costituito invece da: didáxei, insegnerà. Il verbo è qui didásko, insegno, doceo. Due verbi diversi, allora, tradotti allo
stesso modo in latino. Ma si tratta di
due situazioni diverse, che le maggiori sfumature del greco permettono di
esprimere. Lo Spirito Santo guida
con mano ferma di maestro gli Apostoli sulla via dell’approfondimento di tutta
la Rivelazione, procedendo per spirazione da Nostro Signore e dal Padre come da
un unico principio. Nell’altro caso, non
si tratta della Rivelazione ma di Ispirazione, al fine di vincere la paura del
dolore fisico e della morte per testimoniare la fede nel caso singolo e supremo
della persecuzione. Qui le parole ci
verranno alle labbra spontaneamente senza studio e preparazione specifica ma in
realtà ci saranno state insegnate direttamente dallo Spirito Santo, come
da Maestro a discepolo che deve solo ripeterle, per la Gloria di Dio e la
salvezza della sua anima.
[28]
DS 1961/3309.
[29]
Enciclopedia Cattolica, voce Chiesa, col. 1450 (ed. anteriore al
Concilio); DB, voce Regno di Dio, passim.
[30]
HENRI DE LUBAC S.I., “Soprannaturale” al Vaticano II, tr.
it., in ID., Spirito e libertà, Milano, 1980 (si tratta di una raccolta
di saggi di de Lubac tradotti in italiano), pp. 343-50, p. 347, citato da
GIOVANNI MORETTO, Destino dell’uomo e corpo mistico. Blondel, de Lubac e il Concilio Vaticano II,
Morcelliana, Brescia, 1994, pp. 117-8, nota n. 8. Nel passo citato, de Lubac riassume la
questione dal suo unilaterale punto di vista.
[31]
MORETTO, op. cit., p. 118.
[32]
Sull’influenza di de Lubac (e tramite lui di Blondel) sulla Gaudium et spes,
cfr. MORETTO, op. cit., tutto il capitolo sesto, pp. 115-29. Sul tema, mi sia permesso rinviare ad un
altro mio contributo: PAOLO PASQUALUCCI, L’alterazione dell’idea del
sovrannaturale nei testi del Vaticano II, in Bilancio e
prospettive. Per una vera restaurazione
della Chiesa, Atti del IV Congresso teologico di “sì sì no no”, Roma 2000,
Ed. Ichthys, Albano Laziale, 2003, pp. 195-236.
[33]
S. GREGORIO MAGNO, La regola pastorale, presentata e interpretata da Armando
Candelaresi, Edizioni Paoline, 1978², p. 198.
[34]
Ef 2, 14-16. L’inciso: “[giudaiche]” è
del traduttore dell’ Epistola paolina, nell’edizione della Bibbia curata
dall’abate Ricciotti.
[35]
PIO XII, Humani generis, tr. it. cit., p. 12.
[36]
In una delle lettere ricevute da
Blondel, durante il suo polemico scambio epistolare sulla natura della Chiesa
(1903), il Padre Wehrlé S.I. annotava a margine: “Blondel ammette la salvezza fuori della
Chiesa, direttamente ad opera del Cristo…La Chiesa non ha motivo di affannarsi
con le preghiere…”. Cosa aveva scritto
Blondel? Tra altre cose, che un
primitivo (“un pauvre sauvage mourant”) che non conosce Cristo, se si salva
l’anima, “ce n’est point en vertu de la Révélation en tant qu’elle est connue
d’un grand nombre, c’est en vertu de la Rédemption en tant qu’elle a été
acquise par Un seul et mystérieusement communiquée par les sollicitations
anonymes de la grâce” (RENÉ MARLÉ S.I.[a
cura di], Au coeur de la crise moderniste.
Le dossier inédit d’une controverse. Lettres de Maurice Blondel, Henri
Bremond etc., Aubier, Paris,1960, pp. 268-9).
[37]
“Però quel Gesù, che è stato per breve tempo inferiore agli Angeli, noi lo
vediamo ora coronato di gloria e di onore, a motivo della morte che ha
sofferto, affinché per grazia di Dio, la morte da lui sopportata fosse di
vantaggio a tutti” (Eb 2, 9). Nel greco
dell’originale, la frase “a motivo della morte che ha sofferto” è resa con la
preposizione dià e l’accusativo (dià tò páthema toû thanátou etc.)
che ha significato causale (cfr. The Greek New Testament, cit., p.
750). Senza la Resurrezione vana è la
nostra fede, ci insegna S.Paolo (1 Cr, 15); ma senza la Santa Croce non poteva
esservi la Resurrezione. “Perché dunque
tanta paura di prenderti la croce che è la via del cielo? Nella croce è la salvezza, nella croce la
vita, nella croce il baluardo contro i nemici. Nella croce la sorgente delle
soavità celesti, la forza dell’anima, la gioia dello spirito. Nella croce la pienezza della virtù, nella
croce la perfezione della santità. Nessuna possibilità di salvezza per l’anima,
nessuna speranza di vita eterna fuorché nella croce” (Imitazione di Cristo, cap.
XII del libro secondo: ‘La via regia della Santa Croce’, B.U.R., Milano,
1958, tr. it. di Carlo Vitali, p. 81).
[38] I
concetti trattati nell’ultimo periodo li ho riassunti da ST, III, q. 48, a. 1 e
2, 6.
[39] ST,
III, q. 62, a. 5 e ad 2.
[40]
D, 187.
Comments
Post a Comment