Sessant'anni dal Concilio - V : Raffronto tra lo schema sulla Chiesa illegalmente scartato e la costituzione LG sulla Chiesa, di Paolo Pasqualucci

  

 Sessant’anni dal Concilio - V

di Paolo  Pasqualucci.

 

V - Raffronto tra lo schema sulla Chiesa illegalmente scartato e la costituzione ‘Lumen Gentium’ sulla Chiesa, che lo ha rielaborato, in realtà alterandolo alquanto.

 

[Nota previa.   Dopo la settimana di Ferragosto, riprendo la pubblicazione di alcune parti del mio libro Unam Sanctam. Studio sulle deviazioni dottrinali nella Chiesa del XXI secolo, Solfanelli, 2013, pp. 437.  Questa volta il testo è più lungo, avendovi io dovuto accorpare diversi capitoli, nessuno dei quali troppo lungo.  Si tratta di sessantaquattro pagine formato Bodoni MT 14.  I capitoli riuniti sono sei, occorre pertanto un inquadramento generale.  Si tratta di capitoli tra loro connessi perché concentrati su un unico tema: un accurato raffronto tra il primo capitolo dello schema sulla Chiesa scartato e il primo capitolo della costituzione dogmatica (senza dogmi) Lumen Gentium sulla Chiesa (=LG):  entrambi questi capitoli eleborano il concetto della Chiesa.  Dovrebbe trattarsi del medesimo concetto, ma sarebbe arduo e persino azzardato l’affermarlo.

I capitoli riuniti sono dunque  s e i , dal cap. III al cap. VIII.  Ricordo ancora  che lo schema lasciato cadere si intitolava Aeternus Unigeniti Pater, abbreviato in Aeternus Unigeniti (AeU).

Il cap. III delinea un parallelo generale tra AeU parr. 1-7 e LG parr. 1-8.  Il cap. IV espone la struttura generale di AeU parr. 3 -7 contrapposta a LG parr. 4-8. 

Il cap. V si chiede:  la Chiesa di LG parr. 4-8 è una Chiesa dello Spirito e dell’Amore, ossia una Chiesa non gerarchica e non militante, sempre imperfetta, sempre in cerca della pienezza della verità?  In sostanza, come si è poi visto, una Chiesa che non insegna più verità morali e religiose rivelate da Dio e quindi obbligatorie per la salvezza di ciascuno ma all’opposto “si pone in ascolto del mondo” animata da uno spirito di grande misericordia e comprensione delle esigenze del mondo, desiderosa di collaborare con esso per realizzare l’unità del genere umano e la pace universale? 

Il cap. VI si interroga sulle “immagini della Chiesa” secondo LG par. 6, chiedendosi se esse mostrino continuità con AeU.  Un argomento in apparenza secondario ma che ha la sua importanza.

Il cap. VII pone un’ulteriore domanda, scaturente dall’ambiguità del testo conciliare:  Un corpo mistico (la Chiesa) incentrato sul Cristo, che ha già redento l’uomo con la sua incarnazione, morte e resurrezione? 

Il cap. VIII, infine, si intitola:  Bilancio del raffronto tra AeU 1-7 e LG 1-8.  Questo capitoletto finale l’ho già proposto ai lettori.  Poiché repetita iuvant, lo ripropongo, sicuro che potrà esser meglio compreso dopo l’analisi articolata dei due testi in questione.

Per favorire la lettura ricordo anche i due autori sui quali mi sono principalmente basato (in senso opposto) in questo lavoro:  mons. Brunero Gherardini e il suo critico, il sacerdote prof. Pietro Cantoni, a mio avviso rappresentativo della mentalità dei difensori del Concilio Vaticano II, trincerata a priori dietro il principio d’autorità, come se, per l’appunto, il Vaticano II fosse stato un Concilio dogmatico – il che non è – e pertanto infallibile ed intoccabile.  Lo studio del prof. Cantoni, da me confutato più volte nel testo, si intitola:  Riforma nella continuità.  Riflessioni sul Vaticano II e sull’anti-conciliarismo, SugarCo, Milano, 2011. Il testo è citato spesso con la sola lettera C maiuscola. L’anticonciliarismo sarebbe l’atteggiamento di chi critica (osa criticare) il Vaticano II.  Della produzione assai vasta di mons. Gherardini mi sono avvalso soprattutto del suo magistrale testo sulla Tradizione e del suo primo, ampio saggio critico sul Concilio:   Brunero Gherardini, Quod et tradidi vobis.  La tradizione vita e giovinezza della Chiesa, in “Divinitas”, nn. 1-2-3, Città del Vaticano, Roma, 2010.  L’opera fu poi ristampata sempre nel 2010 da Casa Mariana Editrice, Frigento, 2010:  ID., Concilio Ecumenico Vaticano II.  Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice, Frigento, 2009.

La lettura di due testi in parallelo non è mai troppo agevole.  Tuttavia, se vogliamo afferrare ciò che è veramente accaduto al Vaticano II, in tutta la sua straordinaria gravità, dobbiamo sobbarcarci pazientemente a letture di questo tipo, le sole capaci di svelare l’alchimia perversa che ha distillato i testi alla fine ufficiali del Concilio.  L’analisi comparata dei due nostri testi dimostra che, in quello venuto alla fine a far parte della costituzione conciliare Lumen Gentium sulla Chiesa, prescindendo da gravi omissioni ed ambiguità, rispetto allo schema scartato sono stati eliminati i seguenti fondamentali  concetti teologici:  che solo la Chiesa cattolica è l’Israele dello spirito;  che solo la Chiesa cattolica è l’unica e vera Chiesa di Cristo; che il Papa esercita un primato di giurisdizione su tutta la Chiesa di Cristo].     

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 III.  PARALLELO TRA “AETERNUS UNIGENITI” 1-7, SCHEMA SCARTATO, E “LUMEN GENTIUM” 1-8 CHE LO HA RIELABORATO   

 

1. Uno schema contestato

Ho ricordato prima come la Commissione Teologica Mista avesse rifuso nel nuovo lo schema  iniziale sulla Chiesa, finito tra quelli “scartati” e sottoposto a rifacimento pur trattandosi di uno schema di costituzione dogmatica elaborato secondo la dottrina tradizionale della Chiesa, che si rifaceva ad un San Bellarmino, riletto dalla Mystici Corporis, e che ovviamente riprovava una concezione della Chiesa “pneumatica” o dello Spirito, dell’Amore, propagandata dalla Nouvelle théologie e in particolare dal domenicano Yves Congar[1].  Nella fase preparatoria lo schema era stato attaccato a fondo dai cardinali dell’indirizzo ammodernante (Liénart e Bea in particolare) che lo accusavano di scarso spirito ecumenico e di proporre un concetto ristretto di Chiesa, limitato alla sola Chiesa Cattolica Romana!  L’art. 7 dello schema, che ribadiva con estrema chiarezza come solo la Chiesa Cattolica Romana avesse il diritto di considerarsi il vero e unico Corpo Mistico di Cristo, fu duramente contestato dal cardinale Bea, che lo accusava di non essere “ecumenico”. Egli rimproverò  con acrimonia Ottaviani per non aver tenuto conto dei suggerimenti del suo Segretariato al fine di modificarlo nel senso, appunto, dell’apertura “ecumenica” voluta da Giovanni XXIII[2].   Queste accuse furono ripetute a più voci durante la breve discussione in Aula (nel dicembre 1962) in seguito alla quale fu deciso di rifondere lo schema con quello proposto dal Segretariato.  Particolarmente teatrali furono gli accenti del vescovo belga Émile De Smedt, un mastino dell’antiromanesimo, già distintosi negli attacchi allo schema sulle due Fonti della Rivelazione. Egli bollò lo schema di “trionfalismo, clericalismo, legalismo”[3]. Nonostante questi precedenti, il rifacimento viene presentato sempre come uno sviluppo nella continuità.  Osserviamo attentamente.  

 

2. Chiesa “militante” o semplicemente “terrena”?

    Il cap. I dello schema rigettato (AeU) constava di sette articoli che illustravano la “natura della Chiesa militante”, titolo assolutamente tradizionale, ben diverso da quello del cap. I di LG, vertente sul “mistero della Chiesa”[4].  Dal Vaticano II in poi la nozione di “Chiesa militante” è caduta in disuso e un motivo ci dovrà pur essere.  Che cos’è la Chiesa militante?  È la Chiesa visibile in questo mondo, fondata da Nostro Signore a partire da Pietro e dai Dodici, organizzata gerarchicamente, costituita dalla Gerarchia vera e propria in tutte le sue componenti e dai fedeli, dal “popolo di Dio”, che è sempre stato considerato solamente una parte della Chiesa visibile. “Militante” questa Chiesa perché essa è una milizia impegnata nella lotta quotidiana contro Satana che è “il principe di questo mondo” (Gv 12, 31).  Essendo  “omicida sin dall’inizio e padre della menzogna” (Gv 8,44), lo Spirito  Maligno opera innanzitutto nella nostra mente con tentazioni di ogni tipo per farci peccare e trascinarci nell’eterna dannazione.  Il cattolico è quindi un “miles Christi”, egli combatte come soldato di Cristo innanzitutto contro sé stesso per resistere alle tentazioni e all’odio del mondo (Gv 15, 18-25) con l’aiuto indispensabile della Grazia, dei Sacramenti e dei Sacerdoti. E senza dimenticare, ovviamente, quello non meno importante, anche se indiretto, delle Suore e Religiose:  pensiamo al grande e fondamentale esempio di vita santa, autenticamente cristiana che esse ci hanno sempre offerto. 

Lo scopo di questa lotta è realizzare la propria santificazione in questo mondo, senza la quale non è possibile accedere alla vita eterna, e contribuire alla conversione delle anime con l’esempio di una vita veramente cristiana, improntata all’ideale della carità, che esige la nostra massima generosità nel rispondere alla volontà di Dio, che ci chiede di amare il Prossimo per amor di Dio, cioè tenendo presente innanzitutto la salvezza della sua anima.  Accanto alla Chiesa militante esiste la Chiesa “purgante”, delle anime sante nel Purgatorio, e quella “trionfante”, delle anime degli Eletti, che sono già in Paradiso. Di contro vi è la Gehenna, l’Inferno, nel quale soffriranno in eterno coloro che Nostro Signore avrà dannato, nel giudizio individuale dell’anima subito dopo la morte, confermato in quello Universale, pubblico, alla fine dei tempi (Mt 25, 31-45).  I tre aspetti della Chiesa di Cristo costituiscono un’unità nel “Corpo mistico di Cristo”, del quale il capo è Cristo in cielo mentre il Papa, successore di Pietro nella continuità apostolica, ne è il suo Vicario in terra.  La Chiesa “militante” gode perciò di una connessione sovrannaturale permanente, in quanto parte visibile del Corpo  Mistico di Cristo, con il quale coincide perfettamente in questo mondo (come insegnato dalla Mystici Corporis).

Ho dovuto ripetere (per quanto sta alle mie capacit­à) queste elementari nozioni tradizionali perché a partire dal Vaticano II sembra non vengano più insegnate.  Il lettore pertanto resterebbe perplesso di fronte al concetto di Chiesa “militante”. Non è forse vero che oggi viene insegnato un concetto diverso di Chiesa, intesa solo come “popolo di Dio” inglobante anche la Gerarchia e di taglio sostanzialmente intramondano?  E il cattolico è ancora visto come “miles Christi”, come “soldato di Cristo”?  E si insegna ancora che la vita in questo mondo è una milizia perché è l’ardua prova mediante la quale veniamo vagliati per esser giudicati degni di entrare alla fine dei tempi nel Regno di Dio, che dura in eterno, così come è stato vagliato Nostro Signore durante la sua vita e soprattutto durante la sua Passione?  

 

3.  La Chiesa “nuovo Israele”, unico vero “Israele di Dio” secondo AeU 

 La struttura generale del capitolo di AeU in questione è più o meno la stessa del posteriore capitolo iniziale di LG.  Anche in AeU il discorso muove dal disegno del Padre, che ha voluto redimere il mondo con il suo Figlio Incarnato e ha voluto che “i redenti” costituissero anche “un nuovo genere (genus), un regale sacerdozio, una gente santa, ossia il nuovo Israele, sotto un unico Capo Gesù Cristo” (AeU 1).  Qui la Chiesa di Cristo appare subito come ”il nuovo Israele” concepito ab aeterno dal Padre.  Nell’art. 1 della LG si dice che “la Santa Chiesa” è stata “annunciata in figura sin dal principio del mondo” e “mirabilmente preparata nella storia del popolo d’Israele e nell’antica Alleanza”:  non si dice però che la Chiesa di Cristo è “il nuovo Israele”. Si lascia nell’ombra la cesura intervenuta tra noi Cristiani e l’Ebraismo, provocata dal fatto che la Chiesa, possedendo essa sola la vera Rivelazione, si è sempre considerata, sin dall’inizio, il nuovo Israele.  Dell’Israele della carne la LG parla all’art. 9, primo articolo del cap. II dedicato a Il popolo di Dio, che illustra il concetto della “nuova alleanza”, ma in modo che sembra suggerire l’idea di un’analogia e di una continuità senza rotture:  “Come già l’Israele secondo la carne peregrinante nel deserto viene chiamato Chiesa di Dio, così il nuovo Israele dell’èra presente (ita novus Israel, qui in praesenti saeculo incedens), che cammina alla ricerca della città futura e permanente, si chiama pure Chiesa di Cristo; è il Cristo infatti che l’ha acquistata col suo sangue, riempita del suo Spirito e fornita di mezzi adatti per l’unione visibile e sociale”.  La frase contenente il paragone proviene da AeU 3 ma appare mutila (come vedremo) ed inquadrata in un contesto diverso, di tipo sostanzialmente descrittivo, dal momento che non si è precisato esser la Chiesa di Cristo il vero Israele di Dio al di fuori del quale non c’è salvezza (come pur fa AeU 2).   

L’art. 2 di AeU, infatti, tratta dell’”esecuzione del disegno del Padre da parte del Figlio Unigenito”, termine, quest’ultimo, che ribadisce la natura divina di Cristo (viene dal Credo)  e che il Vaticano II, se non vado errato, non usa. Di sicuro non compare in questo capitolo di LG che tratta del “mistero della Chiesa” fondata da Cristo.  L’art. 2 AeU mette subito in evidenza che Nostro Signore ha posto dei capi scelti da Lui (per electos a se praepositos) per guidare “il popolo di Dio” alla vita eterna.  A queste guide o pastori ha conferito numerosi càrismi (che in greco vuol dire semplicemente doni, anche se viene in genere inteso nel senso di doni particolari, grazie speciali), da esercitarsi sotto la guida di Pietro (sub Petro exercendis), come risulta da Mt 28, 18-20 e Mc 16, 15-16.  Il testo riporta interamente i due passi di Matteo e di Marco. In quest’ultimo, nell’ultima perìcope, c’è l’ammonimento terribile, già incontrato:  “ Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, chi in verità non crederà sarà condannato”. 

Questo nuovo popolo, che è “l’Israele di Dio” (Gal 6,16) non procede come una massa sparpagliata ma in formazione  serrata come un esercito (non tanquam effusa turba, sed ut confertum agmen procedit).  Così inquadrata dalla Gerarchia e dalla dottrina resisterà alle insidie di Satana; nutrita del cibo spirituale, questa milizia durerà sino alla fine del mondo ”nell’unità di fede, nella comunione dei sacramenti e sotto il governo apostolico”.  Nel rappresentare “l’esecuzione” del disegno del Padre da parte del Figlio Unigenito, l’articolo già richiama il Primato di Pietro; il dogma della dannazione eterna per chi non avrà voluto credere; e di nuovo la teologia della sostituzione, essendo ora la Chiesa (il popolo di Dio guidato come una milizia dalla Gerarchia sub Petro) il vero Israël Dei.  L’attuazione del disegno del Padre si ha perciò nella Chiesa di Cristo, che ha sostituito completamente “l’Israele della carne”, e fuori di essa non c’è salvezza, come si evince chiaramente da Mc 16,16 già ricordato.

 

4. La teologia della sostituzione appare in ombra nella LG

Tutto ciò manca completamente in LG 3, l’articolo che si occupa della “missione del Figlio”. Qui la Chiesa, si è visto, è “il regno di Dio già presente in mistero”, nei “predestinati”, che “cresce visibilmente nel mondo per la potenza di Dio”.  La Chiesa non è più una “milizia”; è soprattutto un “mistero”, il mistero della nostra redenzione.  E se si accentua troppo la nota del “mistero” (la cui esistenza nessuno ha mai negato) non si finisce con il privilegiare la natura invisibile (detta anche spirituale o pneumatica) della Chiesa a scapito di quella visibile, uscendo in tal modo dal seminato?  In molti se lo sono chiesto, tra quelli che non si sono lasciati abbagliare da tutta questa profusione di “mistero”.  Inizio e crescita del mistero vengono significati simbolicamente dal sangue e dall’acqua che uscirono dal costato del Signore e dalle sue parole, in Gv 12, 32:  “quando sarò levato in alto da terra [in Croce], tutti attirerò a me”(ivi).  Nel sacrificio dell’altare “si rinnova l’opera della nostra redenzione e si rappresenta l’unità dei fedeli, che sono un solo corpo in Cristo” e “tutti gli uomini sono chiamati a questa unione con Cristo” (LG 3).  Il significato del “mistero” che è la Chiesa viene dunque colto mediante questi simboli di unità, che coinvolgono l’intero genere umano; non si chiarifica nell’esistenza, natura, missione concreta della Chiesa Cattolica Romana, sotto il governo del Vicario di Cristo.

 

5. La missione della Chiesa è forse quella di realizzare l’unità del genere umano?

 Qual è dunque la “missione” del Figlio, secondo LG 3?  La redenzione di tutti gli uomini mediante l’unione con Cristo, già rappresentata dall’unità dei fedeli nell’Eucaristia.  Sembra pertanto che l’unità di tutti in Cristo non dipenda tanto dalla conversione (e quindi dall’ingresso nella Chiesa Cattolica) quanto dalla partecipazione all’Eucarestia (che poi il Concilio rappresenterà  con un nuovo termine, ignoto ai Padri della Chiesa, a tutta la Tradizione, ricorrendo sempre alla nozione del mistero:  “il mistero pasquale”).  Linguaggio e simboli scelti da LG 3 non coincidono con quelli di AeU.  Manca del tutto il riferimento ai testi citati dal secondo, sopra riportati, che mostrano la netta separazione tra la Chiesa di Cristo e il mondo “regno del principe di questo mondo”, “regno” che alla fine dei tempi sarà condannato senza appello.  Le immagini usate da LG sono sempre tradizionali, ricavate da ben noti passi evangelici e dai Padri della Chiesa.  E tuttavia ciò non elimina l’impressione di un’impostazione diversa, anche a causa delle omissioni; l’impressione di trovarsi di fronte ad un concetto di Chiesa di Cristo – voglio dire – che sembra miri a sviluppare soprattutto la componente misterica della Chiesa, esaltata pertanto soprattutto come realtà salvifica invisibile, spirituale.  Ciò significa, come recita l’art. 1 della LG, attribuire alla Chiesa soprattutto la missione di realizzare in questo mondo l’unità di tutto il genere umano, dato che quest’ultimo sarebbe di per sé già “in intima unione con Dio”, unione invisibile, pneumatica. L’idea di questa “intima unione” non è del tutto chiara, per il comune credente.  Che significa, esattamente?  E come si giustifica alla luce del dogma del peccato originale?  Dobbiamo ritenere che dopo la Caduta il genere umano sia rimasto “in intima unione con Dio”?  E come ha fatto, se, come ha ribadito il dogmatico Concilio di Trento, esso, a causa del peccato, ha perduto l’originaria somiglianza con Dio?[5]

Ora, una “missione” così concepita non appare staccata dal corpo concreto di Cristo, costituito dal “popolo di Dio” inteso come Chiesa militante sub Petro e gli Apostoli?  Cristo, afferma LG, chiama tutti gli uomini all’unione con Lui, esemplificata dall’unione dei fedeli nell’Eucaristia.  Si è sempre attribuito all’Eucarestia il significato simbolico (e quindi secondario) di rappresentare l’unione dei fedeli tra di loro e loro con Cristo. Il significato primario (non simbolico ma reale) è quello di essere il rinnovamento incruento del Sacrificio sulla Croce, che soddisfa l’ira divina e ci procura misericordia per i nostri peccati.  L’Eucaristia come simbolo di unione dei cattolici è ribadito  anche dalla Mystici Corporis:  “Giacché Gesù Cristo volle che questa mirabile unione, mai abbastanza lodata, per la quale veniamo congiunti tra di noi e col divino nostro Capo, si manifestasse ai credenti in modo speciale per mezzo del sacrificio eucaristico…”[6].  Ma come è utilizzato il simbolo da LG?  Con il presentare l’unione con Cristo non solo dei fedeli ma di tutti gli uomini, senza che  per “tutti gli uomini” si affermi la necessità di entrare preliminarmente nella Chiesa cattolica, di pentirsi, convertirsi e mutar vita.

 

6.  Unione senza conversione a Cristo 

In questa “unione” lo strumento essenziale sembra esser l’Eucaristia non la Chiesa visibile, militante appunto.  E non deve quest’ultima (la cui Gerarchia amministra i Sacramenti) considerarsi lo strumento essenziale della “missione” di Cristo?  La “missione” consisterebbe allora soprattutto nel realizzare l’unità del genere umano e senza dire apertamente che quest’unità (da un punto di vista cattolico) si può conseguire solo con la  previa conversione a Cristo.  Un’idea di unità separata da quella di conversione non resta ambigua, per non dire falsa?  Ma, direbbe qualcuno, “esser chiamati a questa unione con Cristo” non significa forse, in modo indiretto o implicito, “esser chiamati a convertirsi a Cristo”?  La frase si può certo leggere in questo modo, se si vuole.  Vi ostano, comunque, a mio avviso due osservazioni: 1) perché usare un linguaggio così indiretto? Che motivo c’era di sostituire “unione” a “conversione”?  2) “l’unione con Cristo” non è invocata sul presupposto che essa sia l’unica possibilità di salvezza concessa all’uomo.   L’Eucarestia, adesso, in quanto simbolo, oltre che dell’unità dei cattolici, ci deve anche dare l’immagine dell’unità del genere umano, in quanto tale?  Non ne risulta uno stravolgimento del vero significato del simbolo?

 

7. Unità dei credenti nella Chiesa, non del genere umano 

 Se questo significato di “unione” senza “conversione” si può ricavare da LG 3, bisogna dire allora che esso non si accorda con la Tradizione della Chiesa, dato che essa ha sempre visto come scopo della “missione” del Signore (per ciò che riguarda l’idea dell’unità) l’unità di coloro che credono in Cristo, l’unità di fede, che sola rende testimonianza al Padre (Gv 17, 7-9; 20-21), non di tutto il genere umano in quanto tale, mai proposta in passato ed anzi considerata alla stregua di una pericolosa chimera.  I credenti in Cristo vengono da tutto il genere umano perché gli uomini sono tutti uguali, in quanto creati da Dio, che non ha “preferenze di persone”:  in questo senso solamente, la conversione può realizzare l’unità complessiva del genere umano.  Se si obietta che, nel comandare ai Discepoli la loro missione, Cristo risorto ha detto : “rendete miei [discepoli] tutti i popoli” (Mt 28,19), bisogna rispondere che Egli non voleva additar loro l’unità del genere umano come scopo.  Voleva dire che essi dovevano predicare a tutti i popoli (superando l’esclusivismo dell’Israele della carne, nel quale era storicamente prevalsa la componente particolaristica, nazionalistica e millenaristica dell’Ebraismo) per farli entrare nella Chiesa universale, che non realizza l’unità di tutto il genere umano (cosa irrealistica, chimerica) ma di tutti i credenti, quale che sia la loro razza o nazione.  E tutti i credenti non coincidono mai con tutti gli uomini.  Del resto, che tale unità non costituisse lo scopo della sua “missione”, Nostro Signore non lo dimostra forse quando ci rivela che il Giorno del Giudizio una parte dell’umanità (non sappiamo ovviamente quanto grande ma sicuramente non piccola – Mt 7, 13-14) sarà dannata per sempre, per sua propria colpa? E se una parte consistente dell’umanità se ne andrà in perdizione, ciò significa che solo una parte si salverà e che nella vita eterna non si avrà affatto l’unità di tutto il genere umano bensì la sua divisione perenne in Eletti e Reprobi.

 

8.  La critica di Mons. Gherardini a LG 1, le sconcertanti repliche del prof. Cantoni  

Suscitando le ire del prof. Cantoni, Mons. Gherardini critica la dottrina proposta da LG 1 sulla Chiesa come sacramento ossia “segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità del genere umano”.  Ecco il passo, come riportato dal prof. Cantoni:

“Che la Chiesa, in quanto sacramento di Cristo e sua presenza misterica nella storia dell’uomo, sia per questo segno e strumento della grazia che salva, è una grande e consolante verità.  Che tra gli effetti della sua azione sacramentale s’annoveri anche l’unità del genere umano starà scritto tra le nuvole, ma è lontano dalla più accreditata e consolidata dottrina ecclesiologica, la quale prevede, sì, un’azione di causalità esemplare della “Chiesa una” sull’”unità” di tutt’i popoli, ma non una causalità sacramentale.  L’aver sostenuto il contrario non è, tuttavia, senza significato:  apre alla Chiesa una prospettiva sociologica e perfino socio-politica […]  Con enorme sorpresa, LG 1 introduce qui due inesplicabili novità:  l’una relativa alla causa finale e l’altra alla fonte dell’asserto.  Allarga la causa finale dalla salvezza eterna all’”unità dell’intero genere umano” e collega il tutto, anche lo stupefacente allargamento, ai “precedenti Concili” dei quali intende continuare lo svolgimento tematico”[7].

Una prima critica del prof. Cantoni si concentra su quanto Mons. Gherardini scriveva circa trent’anni fa, quando era meno severo nei confronti del Concilio, e non mette conto occuparsene, come ho spiegato sopra.  In senso specifico, egli ribatte nel seguente modo: 

“In realtà l’”intima unione con Dio” e “l’unità di tutto il genere umano” di cui parla LG 1 si devono intendere alla luce di una lettura teologica e quindi unitaria della Sacra Scrittura, in cui i due episodi di Babele (Gn 11) e della Pentecoste (Atti 2) si richiamano e si illuminano a vicenda.  La divisione che minaccia e impedisce l’unione con Dio e l’unità dell’uomo con se stesso e con gli altri è dunque il peccato, a cui si contrappone, come unica forza unicamente proporzionata (anzi sovrabbondante), l’efficacia salvifica che promana dai sacramenti da cui la Chiesa è fatta e che essa stessa fa”.  Giovanni Paolo II, precisa l’Autore, ha illustrato questo aspetto nel 1984, nell’esortazione apostolica Reconciliatio et Paenitentia.  Ma questo è solo il primo punto.  Continua infatti il Nostro:

“Non riesco poi proprio a capire che cosa ci sia di scandaloso nell’affermare che il Verbo incarnato causi, mediante la Chiesa che è in qualche modo (quodammodo…) la continuazione dell’incarnazione stessa, l’unità del genere umano.  Mi parrebbe scandaloso affermare il contrario!  Che questa unità non sia primariamente di carattere sociologico è evidente (che cosa c’entrerebbe allora “l’intima unione con Dio”?), ma è altrettanto evidente che là dove si produce per davvero non può non avere anche, a lungo andare, degli effetti sociologici e politici: la fede cristiana ha fatto l’Europa”.  Come sappiamo, quest’unità non comprenderà tutti, né in questo mondo né nell’altro.  “Non tutti gli uomini, singolarmente presi, partecipano e parteciperanno di questa “unità di tutto il genere umano”, come non tutti gli uomini partecipano e parteciperanno (anche se non sappiamo quali e quanti) della salvezza di Cristo.  Questa consapevolezza però non ha mai impedito ai cristiani di scrivere, ricamare e scolpire in tanti modi e luoghi “JHS” (Jesus Hominum Salvator)”[8].

L’accenno alla “fede cristiana che ha fatto l’Europa” mi sembra fuori luogo, per il semplice motivo che (lo capiscono tutti) “la prospettiva socio-politica” cui allude Mons. Gherardini, dischiusa da questa nuova missione di unificare tutto il genere umano, è in realtà quella della “teologia della liberazione” dei popoli nelle sue varie forme. Essa ha provocato lo stravolgimento dell’attività missionaria in un’attività rivoluzionaria o a sfondo rivoluzionario che, al posto della conversione delle anime e della costruzione equilibrata di una società cristiana, mette le lotte per “la dignità dell’uomo”, per “i diritti umani”, ivi compresi quelli “delle donne” concepiti in modo simile a certi assunti del femminismo, lotte da condursi ovviamente assieme a tutte le forze laiche “progressiste”, anticristiane per definizione. È la prospettiva politicizzata con la quale le Conferenze episcopali guardano al mondo, passando parte notevole del loro tempo ad occuparsi di economia, politica, finanza in ponderosi e velleitari documenti, auspicanti, alla fin fine, la soluzione di tutti i problemi della terra ad opera di un’istituenda “Autorità mondiale” che elimini la povertà ed unifichi il mondo!

Si noti come manchi, nella replica del prof. Cantoni, qualsiasi accenno alla conversione al Cattolicesimo, per realizzare (l’auspicata) unità del genere umano.  La “divisione”, che è anche quella dell’uomo “con sé stesso”, sarebbe superata dalla “efficacia salvifica” dei Sacramenti. Ma ci si deve battezzare o no?  Si deve o no entrare nella Chiesa Cattolica (Apostolica, Romana) per conseguire questa “efficacia salvifica”?  Dal testo non lo si capisce.  Mancando un chiaro riferimento in questo senso, tutto il discorso resta astratto e nello stesso tempo ambiguo poiché fa apparire un’unità del genere umano che la Chiesa dovrebbe realizzare senza però convertire nessuno.  Ma bastano i Sacramenti da soli a vincere “il peccato” che divide, senza l’appartenenza alla Chiesa di chi deve fruirne?  Forse oggi si è convinti che bastino e anche siffatta convinzione spiegherebbe il perdurare del grande scandalo delle cosiddette “liturgie ecumeniche”, con invenzione di riti e partecipazione di Acattolici di ogni tipo.

In passato le idee erano nettamente più chiare.  Si osservi quanto scriveva a commento dell’episodio della Torre di Babele l’edizione della Bibbia della CEI, anteriore al Vaticano II:  “Allora Dio, per separare, confuse le lingue; nella Pentecoste, invece, per unire tutti i popoli in una sola Chiesa, dette agli Apostoli il dono di parlare le lingue.  Oggi la Chiesa continua il fatto iniziato nella Pentecoste e parla tutte le lingue, perché si è estesa ad ogni nazione della terra.  Sicché tutti i Cattolici, anche se di rito diverso, credono le stesse verità, recitano il medesimo Credo, obbediscono al medesimo Papa e appartengono al medesimo regno di Dio.  Il loro punto d’incontro è duplice:  nelle chiese, ai piedi dell’altare dov’è Cristo nell’Eucarestia; e nei suoi ministri, in Vaticano ove dimora il suo Vicario, faro di luce per tutte le genti”[9].  Qui è esposto chiaramente il tradizionale modo di intendere la missione della Chiesa:  unire tutti i popoli, per quanto possibile, in una sola Chiesa, nella Chiesa Cattolica Romana, che realizza l’unità di tutti i suoi credenti, non del genere umano.  

 

 

 

9.  Un fine “scandaloso”, preso a prestito dal pensiero profano

Che quest’unità del genere umano possa apparire “scandalosa” se riferita al Cristianesimo, come fa capire Mons. Gherardini, ciò risulta a mio avviso già da questa semplice riflessione:  l’ideale che essa rappresenta attribuisce al “genere umano” un valore autonomo e indipendente, ragion per cui la supposta sua unità verrebbe a costituire un fine del tutto terreno e fatalmente “sociologico” ossia “politico”, che  metterebbe la Chiesa in contraddizione con la propria vocazione sovrannaturale, che rimane sempre quella di condurre il maggior numero possibile di anime (una per una) alla vita eterna, senza preoccuparsi dell’unità o meno del genere umano. 

È noto, del resto, che tale ideale non proviene dalla Tradizione della Chiesa ma rappresenta un’aspirazione ed un mito del pensiero laico.  Se vogliamo, una delle sue peggiori utopie.  Per il Cattolicesimo,  si tratta di un prodotto d’importazione.  L’unità del genere umano, quale prodotto della ragione resasi autonoma rispetto alla Rivelazione, è stato ed ancora è uno degli obiettivi vorrei dire classici del pensiero moderno e contemporaneo. Compare nella filosofia della storia di taglio illuministico: dei Condorcet, dei Kant.

Kant concepisce la storia come un progresso costante del genere umano “verso il meglio”, rappresentato dall’affermarsi graduale di un’etica fondata solamente sulla ragione dell’uomo e di un “diritto cosmopolitico” capace di realizzare, alla fine, l’unità del genere umano nella “pace perpetua”. Infatti, le tesi 8 e 9 della sua Idea della storia universale da un punto di vista cosmopolitico (1784), sostengono che la storia non è altro che l’esecuzione “di un piano occulto della natura per realizzare una costituzione politica perfetta”, in modo da realizzare altresì “la perfetta unione civile del genere umano”. 

 Nel pensiero di Mazzini, apostolo dell’idea di Patria ma rivoluzionario visionario e  panteista in religione, troviamo ripetuta applicazione di un’idea tipica del socialismo utopistico, quella del Cristianesimo come religione dell’Umanità che, in nome della Fratellanza Universale, deve realizzare l’unità del genere umano; rappresentazione del Cristianesimo che ne falsa completamente il significato, mutandolo in quello di una religione secolare, politica[10].  

     E circa la verità a noi rivelata, secondo la quale una parte dell’umanità non si salverà, quale posizione assume il prof. Cantoni?  Replica con un’immagine, quella di Jesus Hominum Salvator, che a ben vedere va contro la sua tesi.  Infatti, essa ci dice che il sensus fidei del popolo ha sempre ritenuto Gesù “salvatore degli uomini” non di tutti gli uomini, in quanto tali, come se potesse salvarsi anche chi si rifiuta coscientemente alla fede in Cristo e alla Grazia.

 

10.  Quante “salvezze” esistono, per il prof. Cantoni? 

Il lettore avrà notato un’altra stranezza nell’esposizione del Nostro. Egli scrive infatti: “[…] non tutti gli uomini partecipano e parteciperanno […] della salvezza di Cristo”.  Mi chiedo:  c’è forse bisogno di precisare che la salvezza è la “salvezza di Cristo”?  Esiste forse un’altra “salvezza”, per un cattolico?  Una salvezza che non viene da Nostro Signore?  Chi scrive “salvezza di Cristo” potrebbe credere che esistono altre forme di salvezza, non di Cristo.   Ma questo sospetto, che il nostro Autore – sacerdote cattolico – ammetta altri tipi di salvezza, su che cosa si fonda?  Su un altro passo del suo lavoro, nel quale egli sembra presentare il Corano come portatore di una verità rivelata, allo stesso modo dei Vangeli!

Polemizzando con le critiche di Mons. Gherardini alla costituzione conciliare Dei Verbum  sulla divina Rivelazione perché essa non parla mai di “Fonti della Rivelazione”, il Nostro afferma che la critica non ha motivo di essere perché, scrive, il concilio ha voluto identificare “la parola di Dio annunciata dalla Chiesa […] con Cristo stesso, essendo lui il culmine e la pienezza della rivelazione.  Così facendo si voleva evitare una comprensione troppo “concettualista” del sacro deposito, facendo capire che esso non è un insieme di proposizioni, ma coincide ultimamente con Cristo stesso”[11].  Confesso che, come semplice credente, non riesco a comprendere il significato di queste affermazioni.  Il “sacro deposito” non consta di articoli di fede che possano esser spiegati razionalmente, secondo concetti  comprensibili, anche se vertono su verità rivelate che restano inaccessibili all’intelletto umano?  Sembra di no.  Esso “non è un insieme di proposizioni”, esso “coincide con Cristo”.  Che significa?  Ma arrivo al punto che mi preme.  Il fatto che “il sacro deposito” coincida con Cristo stesso, “dà provvidenzialmente un sapore realistico alla rivelazione cristiana e contribuisce a distinguerla in modo più netto da altri modelli di rivelazione, come per esempio quella coranica.  Il cristianesimo non è una “religione del libro””[12].

Dunque, il Corano costituirebbe “un altro modello di rivelazione”?  E che significa affermare “il sapore realistico della rivelazione cristiana”?  È vera o non è vera?  Il prof. Cantoni crede alla storicità dei Vangeli?  Se ci crede, perché usa un termine così ambiguo come “sapore realistico”?  Ma torniamo al Corano.  Esso costituisce dunque, per il Nostro, un “altro modello di rivelazione”.  Una rivelazione concorrente, per così dire!  Il prof. Cantoni ritiene dunque vi siano più “modelli di rivelazione” e quindi più “salvezze”.  Si comprende allora perché egli senta il bisogno di scrivere:  “salvezza di Cristo”.  C’è anche la “salvezza di Maometto”, a quanto pare. E sicuramente anche quella offerta da tutte le altre religioni, comprese quelle che adorano i feticci e le forze della natura. Di fronte a tanta confusione, che sembra proprio il risultato  dall’ecumenismo attuale, figlio del Vaticano II, bisogna ribadire il vero ossia che per noi Cattolici il Corano non può ritenersi verità rivelata.  Primo, perché è verità di fede che la Rivelazione (quella autentica) è finita con la morte dell’ultimo Apostolo, più di cinque secoli prima dell’avvento di Maometto.  Secondo, perché il Corano è un libro che nega tutti gli elementi essenziali del Cristianesimo, sia quelli religiosi in senso stretto (l’autenticità dei Vangeli, la S.ma Trinità, la nascita miracolosa e la divinità di Cristo, la sua morte in croce, la Resurrezione) sia quelli che costituiscono il fondamento della morale cristiana.  Il secondo punto conferma nel merito il primo.  

 

11. Vietato mettere in dubbio la “continuità” del Vaticano II 

E come osa Mons. Gherardini – continua il prof. Cantoni – mettere in dubbio la “continuità” dell’insegnamento del Vaticano II a proposito della nuova dottrina che “allarga” la causa finale dell’azione della Chiesa “dalla salvezza eterna all’unità del genere umano”?

“Non riesco neppure a capire in che cosa consista la novità dell’affermazione di un concilio non materialmente contenuta in quelli precedenti:  quello che dichiara, decreta e definisce il concilio di Trento non è certamente contenuto nei documenti del concilio di Nicea, ma non siamo perciò autorizzati a concludere che non ne sia la “continuazione”.  Tutto il magistero della Chiesa è un unico discorso e tutte le volte che riprende a parlare è come se dicesse:  dicebamus heri[13].

Non siamo autorizzati a concludere che il Tridentino non sia la continuazione del Niceno I perché, dal punto di vista del Deposito della Fede, ciò che il Tridentino insegna è già contenuto nel Niceno e non vi contraddice in alcun modo.  Ma il Vaticano II ha voluto trarre “nuovi elementi [nova congruentia] dalla dottrina sacra e dalla tradizione della Chiesa”, dichiarando naturalmente che essi sono “in costante armonia con quelli già posseduti”(Dichiarazione Dignitatis humanae, sulla libertà religiosa, 1).  Poiché l’ossequio che Nostro Signore richiede al credente è sempre un “ossequio razionale”  (Rm 12,1), noi fedeli, affidandoci ai princ­ìpi della recta ratio, abbiamo tutto il diritto di confrontare questi “nuovi elementi”, non presentati come dogmi di fede ma come princìpi di una nuova pastorale, con quelli della Tradizione della Chiesa per verificare se sono effettivamente “in costante armonia” con essi.  Il disastro che si è abbattuto sulla Chiesa dopo il Vaticano II, disastro tuttora perdurante, rende doppiamente legittimo questo confronto.  Certamente, “tutto il magistero della Chiesa è un unico discorso”.  Ma sempre sul presupposto che in ogni sua parte questo discorso sia fedele al Deposito della Fede  (1 Tm 6,2).  Ora, la “novità” non consiste qui solo nel non esser “materialmente contenuta” la nuova dottrina nei Concili precedenti:  dal punto di vista della sua qualità, di ciò che essa dice, la novità consiste nell’apparire essa ambigua e contorta e persino non conforme al Deposito per alcuni aspetti.  La questione non è di forma ma di sostanza, riguarda il merito di ciò che viene proposto.  All’analisi imparziale, queste nuove dottrine, già a causa della forma ambigua, obliqua nella quale vengono esposte, non sembrano affatto costituire un approfondimento e un chiarimento del Dogma.  Al contrario, esse fanno addirittura scorgere la presenza di errori già condannati dalla Chiesa, come per esempio il “pancristismo” precorritore del “neoecumenismo” attuale. 

Torniamo ora al nostro esame parallelo di AeU 1-7 e LG 1-8.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IV.  STRUTTURA GENERALE DI “AETERNUS UNIGENITI” 3-7   

 

1. Sintesi di “Aeternus Unigeniti” 3-7  nel confronto con “Lumen Gentium” 4-8

Dopo aver illustrato nei suoi primi due articoli l’intenzione (consilium) del Padre e la sua esecuzione da parte del Figlio Unigenito, lo schema AeU espone l’indole (indoles) o natura dello “Israele di Dio”, della Chiesa, in sé (art. 3.1) e come risulta dalle varie “figure” nelle quali è rappresentata (expressa) (art. 3.2).  Tra queste figure (regno, casa, tempio di Dio, gregge, ovile, sposa di Cristo, colonna e fondamento della verità), la più importante è quella della Chiesa come “Corpo di Cristo”, perché – si scrive  - rende  al meglio l’unità della Chiesa con il suo fondatore e l’unità dell’elemento “sociale” con quello “mistico”, continuamente presente (art. 4).  Si “enuclea” pertanto la figura del corpo nelle sue componenti (art. 5), per dimostrare alla fine come la “societas” che è la Chiesa visibile sia “il mistico Corpo di Cristo” ad opera dello Spirito Santo, condannando, sulla scia della Mystici Corporis, l’errore (neomodernista) di chi sosteneva una concezione della Chiesa cosiddetta “carismatica o fondata sull’amore”, del tutto separata dalla Chiesa visibile e gerarchica (art. 6).  Perciò lo schema, dopo aver delineato la Chiesa come il vero Israele di Dio, Corpo Mistico di Cristo, termina con l’art. 7 che afferma in modo perentorio e definitivo esser l’unica e vera Chiesa di Cristo la Chiesa Cattolica Romana.  Per ciò che riguarda l’Ebraismo, lo schema riafferma in modo netto il principio a fondamento della teologia della sostituzione, secondo il quale, come dice il nome stesso, dopo il ripudio del Messia (Nostro Signore Gesù Cristo) da parte dell’ Israele della carne, la Chiesa, da Cristo stesso fondata, si è inevitabilmente sostituita ad esso nel disegno salvifico del Padre:  essa è ora l’Israele di Dio, l’unica porta della salvezza.

Lo schema ribadisce in modo nettissimo l’identità assoluta dell’unica e vera Chiesa di Cristo con la Chiesa Cattolica Romana, che è pertanto il Corpo Mistico di Cristo.

La struttura di AeU è ripresa da LG 3-8 ma con consistenti modifiche, provocate sia da aggiunte di parti nuove che da  rilevanti omissioni.  Di LG 3, dedicato alla “Missione del Figlio”, ho già detto ampiamente.  Colpisce poi l’ampio articolo dedicato allo Spirito Santo (LG 4).  Si tratta di un approfondimento specifico del Vaticano II.  In AeU, come vedremo, l’opera dello Spirito Santo era menzionata in modo più sobrio, rigorosamente inquadrata nell’ambito del Corpo Mistico, del quale lo Spirito Santo è considerato per l’appunto “l’anima”.  L’approfondimento apportato dal Vaticano II è stato salutato con entusiasmo da molti.  In effetti, quest’articolo sullo “Spirito santificatore della Chiesa” è una vera e propria palinodia dell’azione dello Spirito Santo, costruita utilizzando tutta una serie di ineccepibili passi neotestamentari e dei Padri della Chiesa.  Tuttavia sembrano esserci due sfumature che, a mio avviso, intorbidano l’atmosfera.  Su di esse mi soffermerò in seguito.

   Proseguo ora nella sintesi generale.  Dopo il grande rilievo dato all’azione dello Spirito Santo, LG 5 illustra il mistero della Chiesa esponendo il concetto del “Regno di Dio”.  Anche questa parte è nuova rispetto allo schema AeU.  Com’è rappresentato qui il Regno di Dio?  Nella persona, nelle parole, nelle opere di Nostro Signore (che ha per l’appunto annunciato l’avvento del Regno di Dio) attraverso la consueta, nutrita serie di riferimenti a passi evangelici. La “Chiesa”, in relazione al Regno,  appare alla fine dell’articolo per ricordarci che essa deve annunciare ed instaurare in tutte le genti il Regno mentre costituisce di questo Regno “il germe e l’inizio su questa terra”.  Essa poi “anela al regno perfetto”, che ancora non possiede.  Ma questo “regno perfetto” si trova in questo mondo o nell’altro?  Il testo mantiene la dovuta distinzione tra la natura e il sovrannaturale?  Né si afferma chiaramente la tesi tradizionale: che la Chiesa cattolica sub Petro, fondata da Gesù, è già l’attuazione del Regno di Dio in terra[14].   

L’art. 6 LG riprende il tema delle immagini della Chiesa.  AeU, come si è visto, si era soffermato soprattutto sulla figura del “Corpo di Cristo”, che risale a S. Paolo, considerata la più efficace per capire effettivamente la natura della Chiesa.  LG 6 amplia enormemente l’analisi di queste immagini della Chiesa, preoccupandosi tra l’altro di stabilire un rapporto tra di esse e l’Antico Testamento, in quanto immagini già annunziate dai Profeti.  Da tutta questa analisi, come già per l’art. 5, emerge soprattutto una visione spirituale ed escatologica della Chiesa, ma di un’escatologia un po’ particolare poiché il Sovrannaturale non vi si distingue nettamente.

Né mi sembra che si cambi impostazione nell’art. 7, che tratta della Chiesa “Corpo Mistico di Cristo”.  Non abbiamo qui una ripetizione di quanto detto nello schema AeU.  L’articolo, come vedremo, sembra voler accentuare l’aspetto per così dire “mistico” del Corpo Mistico di Cristo e tutto il discorso sembra vertere più su Cristo che sul “Corpo di Cristo”, rappresentato dalla Chiesa Cattolica Romana nella sua realtà storica concreta.

Dopo questa sintetica presentazione, vediamo ora in che modo AeU delinei la “figura” del Corpo Mistico di Cristo, scelta tra tutte quelle che rappresentano tradizionalmente l’immagine della Chiesa. 

 

 

 

 

2.  L’“Israele di Dio” denominato “Chiesa di Dio”, “Corpo di Cristo” e “Corpo Mistico di Cristo” coincide unicamente con la Chiesa Cattolica Romana, unica vera Chiesa di Cristo, secondo AeU

L’art. 3.1 di AeU tratta della natura (indoles) dell’Israele di Dio, manifestata in varie figure, a cominciare da quella espressa dal termine ecclèsia, Chiesa, che in greco (ecclesìa) vuol dire originariamente “assemblea”, “assemblea popolare”, “adunanza” (da ek-kaléo: chiamo fuori) ma che si traduce anche con “comunità” o “popolo”.  All’inizio dell’articolo si trova il passo cui ho già accennato, contenente il paragone con l’Antico Testamento, ripreso poi da LG 9 (vedi supra, cap. III, § 3). 

“Pertanto come Mosè chiamò Chiesa di Dio [Dei Ecclesiam] l’Israele secondo la carne che peregrinava nel deserto, così Cristo si riferì all’Israele di Dio che avanzando nell’era presente aspira ad una città futura ed eterna, come alla sua Chiesa, non solo perché l’acquistò con il suo sangue ma anche perché, dopo averla preparata al suo fine con i mezzi opportuni, l’edificò su Pietro (Mt 16,18) e sui suoi successori [i Pontefici], nei quali rimanesse in perpetuo il medesimo Pietro con la sua autorità”(AeU 3.1).   E perché gli uomini capissero meglio la natura della Chiesa, prosegue l’articolo, lui stesso o per mezzo degli Apostoli la rappresentò con diverse figure e nomi:  “regno, casa di Dio, tempio di Dio, gregge, ovile, sposa di Cristo, colonna e fondamento della verità”.

 Ho messo la parte finale della citazione iniziale in corsivo sottolineato per metter in evidenza la parte della frase che è stata lasciata cadere da LG 9, che riporta invece il resto, come ho ricordato sopra.  La parte lasciata cadere è proprio quella che identifica sin dall’inizio l’Israele di Dio con la “roccia” costituita per volere di Cristo da S. Pietro; che identifica perciò la Chiesa di Cristo con la Chiesa Cattolica Romana, i cui Pontefici sono i successori legittimi di S. Pietro, avendo essi soli mantenuto la continuità apostolica e dottrinale, come ho già ricordato.

 

3. Il senso del parallelo con l’Antico Testamento 

Il testo di AeU rinvia in nota a due passi dell’Antico Testamento per documentare l’appellativo Dei Ecclesia conferito al popolo ebraico:  Num 20,4 e Deut 23,2.  Nel primo si narra di un principio di ribellione del “popolo del Signore” (Ecclesia Dei) ovvero del popolo ebraico contro Mosè ed Aronne durante la traversata del deserto, allorché si era trovato momentaneamente senz’acqua.  Nel secondo, si enunciano le categorie degli esclusi dalla “assemblea di Israele”, ordinando:  “Il bastardo nato da meretricio, non entrerà nella comunità del Signore [Ecclesia Dei] sino alla decima generazione”.

Il riferimento ai Libri di Mosè permette di stabilire la giusta analogia tra Antico e Nuovo Testamento, che non è tra cose uguali.  La Ecclesia mosaica è quella limitata e ristretta all’Israele della carne e riguarda le sue vicende e leggi particolari, anche se inquadrate  nell’economia della salvezza.  Invece la Ecclesia di Cristo è stata concepita dal Signore e dichiarata “sua”, non solo perché acquisita con il sacrificio della Croce, perché provvista da Lui dei mezzi necessari al suo fine sovrannaturale, ma anche perché edificata “su Pietro e i suoi successori”, cioè sui Romani Pontefici, la cui autorità si fonda direttamente su Cristo non su quella del collegio apostolico né sulla “carne” di un’istituzione e di una tradizione meramente nazionali.  La Chiesa, pertanto, non si incorpora in un determinato popolo:  il suo “corpo” è quello di Cristo, che ne è il capo.

Stabilita in modo netto da AeU 3.1 la differenza tra l’Ecclesia Dei mosaica e l’Ecclesia Dei fondata da Nostro Signore, AeU 4 inizia l’analisi della Chiesa come “figura del corpo di Cristo”: nozione fondamentale, che ribadisce l’origine e la natura sovrannaturale della Chiesa militante, senza attenuarne il carattere appunto “militante”, terreno e visibile, gerarchico, sociale.

 

4. La Chiesa come “Corpo di Cristo” in AeU 4 

Di tutte le figure della Chiesa, prosegue il testo, quella del “corpo” occupa il posto principale “perché esprime in modo più chiaro l’unione dell’elemento sociale [della Chiesa come societas terrena] con quello mistico”.  Il concetto compare in S. Paolo, “ispirato da Cristo”, in due noti passi:  Col 1,18 ed Ef 1,23:  “Ed egli [Cristo] è il capo del corpo che è la Chiesa”;  “…[Egli] è il capo supremo della Chiesa, che è il corpo di Lui e complemento di Colui che tutto completa in tutti”. 

L’immagine del corpo implica quella dell’unità del corpo con il Capo, Nostro Signore, e dei membri del corpo tra di loro.  “Perciò – continua Aeu 4 – tutti coloro che sono entrati nella Chiesa col battesimo e si sono rivestiti di Cristo nella comunione dei santi [Gal 3, 27], allorché partecipano dell’unico pane eucaristico, raggiungono il compimento nell’unità dell’unico Corpo [di Cristo], “perché unico pane ed unico corpo formiamo noi pur essendo molti, poiché tutti partecipiamo dell’unico pane”” [1 Cr 10,17].  Quest’immagine tradizionale che connette l’unità del Corpo di Cristo all’unità che simbolicamente si realizza nell’Eucaristia, è ripresa, come si è visto, da LG 3 (vedi supra, cap. III, § 5).  Ma in AeU 4 l’unità, conformemente alla dottrina tradizionale, è rigorosamente circoscritta ai soli battezzati che professino la vera fede in parole e opere (nel modo di esprimersi di S. Paolo:  che si siano rivestiti di Cristo nella comunione dei Santi) senza accenni ad allargamenti ed estensioni che giungano a ricomprendere tutti gli uomini, anche i non convertiti (unità di tutto il genere umano)!  Gli accenni all’estensione dell’unità del Corpo di Cristo a tutti gli uomini, nel senso appena indicato, sono una caratteristica del Vaticano II.

Stabilito in che senso l’immagine del “Corpo di Cristo” faccia intendere l’unità dell’elemento “sociale” con quello “mistico” nella Chiesa, l’art. 5 di AeU procede ad “enucleare la figura del corpo” nei suoi elementi costitutivi.

Il corpo che è la Chiesa è innanzitutto “visibile” (oculis cernitur:  si scorge con gli occhi, come soleva dire Leone XIII) ed è composto da molti membri di diversa natura (“chierici e laici, governanti e sudditi, maestri e discepoli”) che danno luogo a diversi ordini (status) nella Chiesa stessa, ai quali presiede Cristo, che fornisce le grazie necessarie per mantenerli nel giusto equilibrio. I vari ordini della Chiesa sono analizzati nei capitoli successivi dello schema.  Ma nella “compagine dei membri del corpo” c’è un’altra connexio che opera a mantenere l’unità del tutto; connexio soprannaturale, che risale anch’essa al Signore, da lui illustrata quando ha detto:  “Io sono la vite, voi i tralci.  Colui che rimane in Me e Io in lui, porta abbondanti frutti; perché senza di Me non potete far nulla” (Gv 15,5).  La connessione profonda che mantiene l’unità della Chiesa visibile, l’unità di un vero e proprio Corpo, è quindi sempre sovrannaturale ed è prodotta dallo Spirito Santo.  La seconda e la terza Persona della Santissima Trinità concorrono quindi a costituire e a mantenere la Chiesa visibile come unità, unità dei soli credenti non di tutto il genere umano.

“Così come infatti Cristo è il Capo del Corpo, allo stesso modo lo Spirito Santo, che inabita nel Capo e nelle membra, è la sua Anima;  essendo uno, costituisce e tiene tutto il corpo in unità e a tutti i membri, secondo la misura del dono di Cristo, amministra la grazia e i doni, e conferisce i carismi.  Per tal motivo la Chiesa è detta essere una persona veramente mistica in Cristo Gesù:  “Infatti voi tutti siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3, 28).

Qual è il rapporto tra lo Spirito Santo e la Chiesa corpo di Cristo?  Lo Spirito Santo è “l’anima” della Chiesa ma senza esser mai indipendente dal Capo, cioè da Cristo.  Non può esistere un dualismo tra il Capo del corpo e l’Anima dello stesso.  Quest’immagine agostiniana è ripresa da Leone XIII e successivamente dalla Mystici Corporis.  Fuor di metafora:  lo Spirito Santo “amministra” (administrat) e “conferisce” (confert) la grazia, i doni, i “carismi” (nel senso di doni particolari, eccezionali) ma sempre “secondo la misura del dono di Cristo”.  Questo principio fu ribadito con estrema chiarezza nella Mystici Corporis[15].  Esso è verità rivelata da S. Paolo. Proviene da Ef 4,7, da un capitolo nel quale S. Paolo sta spiegando le virtù fondamentali della vita cristiana:  “A ciascuno poi di noi fu data la grazia secondo la misura del dono di Cristo” [data est gratia secundum mensuram donationis Christi].  Il “dono”  è molteplice:  “Ed egli diede gli uni apostoli, gli altri profeti, gli altri evangelisti, gli altri pastori e maestri, per il perfezionamento dei santi [dei credenti fra i Gentili], in vista dell’opera del ministero, che è l’edificazione del corpo di Cristo…”(Ef 4,11-12).  Naturalmente, come mostra il prosieguo dell’epistola paolina, “i doni di Cristo” non sono riservati al solo corpo docente della Chiesa nascente, essi sono attribuiti a tutti i membri della Chiesa, come appunto ribadito da AeU 5. Senza un’illustrazione precisa dell’opera dello Spirito Santo non si potrebbe definire la Chiesa come “corpo mistico di Cristo”.  E quest’illustrazione riflette la dottrina ortodossa, il dogma secondo il quale “la terza Persona della Santissima Trinità procede per spirazione dalla prima e dalla seconda, come da un solo principio”[16].

 

5. Il peccato dei suoi membri non lede la santità della Chiesa 

 L’ultimo paragrafo di AeU 5 tratta della santità della Chiesa nonostante i peccati commessi dai “membri malati” che ne fanno parte. 

“Tuttavia i peccati di costoro offendono in verità la Chiesa ma non ne ledono la santità essenziale; infatti, la Chiesa è santa soprattutto perché, come sposa di Cristo è costituita nella santità, genera i suoi membri nella santità e non manca mai di membri che eccellono nella santità.  Inoltre, non si limita a reprimere i peccati dei suoi membri ma si adopera affinché questi stessi membri malati siano ricondotti nella pristina condizione di santità, a volte persino più elevata”.

Avendo definito la Chiesa come “Corpo Mistico di Cristo”, bisogna spiegare il rapporto che con esso hanno quei membri che cadano nel peccato.  E chi è, anche tra i cristiani, che non sia peccatore?  Il fatto di appartenere alla Chiesa non li salva dall’eterna dannazione, se induriscono nel peccato.  In nota, AeU 5 cita S. Agostino, il quale insegnava che “anche nel Corpo di Cristo l’amore per la meretrice manda all’Inferno” (Serm. 349, 2:  PL 39, 1530), ove con “meretricis amorem” si devono evidentemente intendere i peccati della carne in tutti i loro vari aspetti, per maschi e femmine.

Ma perché la Chiesa può sanare il membro malato del suo corpo, grazie all’uso dei Sacramenti, istituiti da Cristo come strumenti, se così posso dire, della santità della Chiesa?  Proprio perché è sempre santa in quanto Sposa di Cristo, il quale, tramite lo Spirito Santo, non abbandona la sua Chiesa:  il peccato del cristiano “offende” il Corpo Mistico ma senza “lederlo”.  Infatti, una cosa è “l’offesa”, un’altra la “lesione”:  i nostri peccati offendono Dio ma non possono certo lederlo, ferirlo nella sua divinità, ulcerandola o diminuendola! Idem per la Santa Chiesa, fondata da Nostro Signore.  Da sé stessa, proprio perché assistita sovrannaturalmente dal Signore e dallo Spirito Santo, essa può sempre trovare le forze per sanare il male al suo interno sia punendo sia  esercitando il ministero della misericordia, che mira al pentimento e alla conversione del peccatore.  Inoltre, osservo, se la Chiesa dovesse ritenersi in quanto tale peccatrice, e quindi esserlo nella sua totalità, lo status di peccato non dovrebbe coinvolgere, oltre a tutte le membra, anche il Capo, ossia Nostro Signore?  Se la Chiesa è il “corpo mistico di Cristo” e tale corpo è immerso nel peccato, come fa a non considerarsi “peccatore” anche il Capo del Corpo?  A tali conseguenze aberranti conduce, dunque, la logica intrinseca all’idea assurda di una Chiesa “peccatrice”.

 

6. LG 8 sembra attribuire il peccato anche alla Chiesa come tale  

Questo stesso concetto è ripreso nel penultimo paragrafo di Lumen gentium 8, ma in modo che a molti è parso ambiguo.  Recita infatti il testo:  “Ma mentre Cristo, “santo, innocente, immacolato” non conobbe il peccato e venne solo allo scopo di espiare i peccati del popolo, la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento [Ecclesia in proprio sinu peccatores complectentes, sancta simul et semper purificanda, poenitentiam et renovationem continuo prosequitur]” (LG 8.3).  Si vede subito che qui non è stata ripresa la distinzione di AeU tra “offesa” e “lesione”.  Dobbiamo allora ritenere che il peccato dei Cattolici incida sulla santità della Chiesa?  In effetti, il testo potrebbe legittimare un’interpretazione di questo genere perché afferma che, in conseguenza del peccato dei suoi membri, è la Chiesa in quanto tale ad aver bisogno di “purificazione” e ad avanzare continuamente  “per il cammino della penitenza”.  Ora, chi, se non il peccatore, ha bisogno di “purificazione” e di avanzare senza posa “per il cammino della penitenza”?   L’idea di una peccaminosità della Chiesa (notoriamente sostenuta da Karl Rahner) verrebbe dunque insinuata nell’argomentare obliquo tipico per l’appunto di certi testi del Vaticano II.  Ulteriori riferimenti conciliari mantengono l’ambiguità e forse l’aggravano (LG 11:  coloro che si confessano si riconciliano con la Chiesa alla quale “hanno inflitto una ferita col peccato”; LG 39: “La Chiesa […] è agli occhi della fede indefettibilmente santa [indefectibiliter sancta creditur]”: in sé stessa o agli occhi della fede solamente?  LG 48:  la Chiesa già sulla terra “è adornata di santità anche se imperfetta”:  ma esiste una “santità imperfetta”?  Che significa?). 

Secondo AeU 5, invece, era solo il peccatore ad aver bisogno di “purificazione” e poteva ottenerla proprio perché la santità della Chiesa non era venuta meno, grazie all’assistenza divina.  È giusto dire che la santità della Chiesa può essere offesa dal peccato ma non può esserne “ferita”, perché il peccato non può colpire la Chiesa ontologicamente, nella sua essenza, che è divina e non umana, e gode sempre dell’assistenza divina.  È la santità permanente della Chiesa a garantirle quei mezzi (i Sacramenti) mediante i quali essa ci purifica dai nostri peccati, inducendoci a cambiar vita e a correre verso Cristo come il Figliol Prodigo verso il Padre.  L’ambiguità di LG 8.3  rafforza la sensazione di trovarsi in presenza di un diverso e contraddittorio concetto di Chiesa, visto che ora la si potrebbe intendere contemporaneamente come santa e peccatrice.  Bisogna, inoltre aggiungere che, se la Chiesa, la Sposa di Cristo, fosse essa stessa “peccatrice” e quindi sempre “imperfetta” nella sua santità, non potrebbe trovare in sé stessa i mezzi necessari per purificare i suoi membri peccatori[17].     

 

7. L’errore di chi concepisce una Chiesa solo “carismatica o dell’amore” 

Stabiliti gli elementi essenziali della Chiesa come “Corpo Mistico di Cristo”, il penultimo articolo dello schema rigettato, AeU 6, prende posizione contro l’errore al tempo diffuso ad opera della Nouvelle Théologie, e già ricordato da me, secondo il quale la natura della Chiesa era soprattutto quella di essere un ente carismatico o spirituale, del tutto separato dalla Chiesa gerarchica e militante, sentita anzi come un impaccio, un peso morto.  È quasi superfluo rilevare che di questa precisazione e condanna non v’è traccia nella Lumen Gentium. E come avrebbe potuto, visto che i profeti della “Chiesa carismatica” come P. Congar OP, grazie al “buon cuore” di Roncalli, facevano ora parte della Commissione Teologica? 

In ogni caso, nella Allocuzione di apertura del Vaticano II, l’11 ottobre 1962, Giovanni XXIII non aveva forse detto che non bisognava più condannare gli errori ma usare la medicina della misericordia (come se condannare gli errori non fosse già opera di misericordia nei confronti dell’errante e dei fedeli messi così sull’avviso - Amerio), dato che gli uomini del Secolo presente erano talmente progrediti da condannare ormai da sé stessi certi errori?  E che dire, allora, del fatto che nel 1961 era entrata in commercio negli Stati Uniti la pillola anticoncezionale, che avrebbe potentemente contribuito alla cosiddetta “emancipazione” delle donne, consegnandole in pratica alla corruzione del Secolo?  La diffusione degli anticoncezionali, che si è dimostrata letale per l’Occidente, dimostrava forse che l’umanità ormai condannava da sé stessa certi errori?  Tanto poco li condannava, che questi errori penetrarono ampiamente nella Cattolicità, come dimostrò la vasta ribellione, guidata da interi settori dell’episcopato, che scoppiò quando Paolo VI, pur liberale di temperamento, dovette finalmente dichiarare illecito l’uso degli anticoncezionali, nell’enciclica Humanae vitae, del 25.7.1968.  Come si sa, questa proibizione è rimasta a tutt’oggi lettera morta per molti cattolici.

Ma torniamo ad AeU 6.  L’argomento dell’articolo è:  “La Chiesa in quanto società è il Corpo mistico di Cristo”.  Ossia:  il Corpo Mistico non è solo “spirituale” o “pneumatico” (dal greco pneuma, soffio, spirito), comprende anche la Chiesa società, visibile, gerarchica, militante.

“Dato dunque che lo Spirito Santo elargisce molti carismi alla Chiesa, che corrispondono alla sua indole sociale e alla sua missione divina, in vari offici e ministeri, affinché coloro che li ricevono, operino unitariamente quali cooperatori di Dio [Dei adiutores]  all’edificazione del corpo di Cristo, è falso sostenere che la Chiesa gerarchica o giuridica differisca  nei fatti [re] dalla Chiesa carismatica o dell’amore, come dicono.  Per il semplice fatto che la Chiesa in quanto società [Ecclesia societas] e il Corpo Mistico di Cristo non sono affatto due cose diverse [haud binae res sunt], ma la medesima cosa, che si palesa nel suo aspetto umano e divino; sì da venir assimilata al Mistero del Verbo Incarnato, con analogia di non piccola importanza”.

In cosa consiste, dunque, l’errore degli Ammodernanti?  Nel voler ritenere che l’azione dello Spirito Santo si svolga fornendo di doni  o càrismi solo la componente invisibile della Chiesa, agendo quindi  principalmente sul cuore e sul sentimento, che verrebbero così elevati a componenti di una Chiesa “dell’amore” (per l’umanità) del tutto indipendente dalla Chiesa gerarchica, ossia dalla Chiesa-società, istituzione.  Quest’ultima si troverebbe allora istituzionalmente (re) fuori dell’azione dello Spirito Santo, non godrebbe dei suoi doni.  Ma ciò è impossibile, obietta giustamente AeU 6, per il semplice motivo che la Ecclesia societas, con tutti i suoi ordini, non è stata fondata dagli uomini ma da Cristo stesso, che l’ha costruita a partire dai Dodici, ossia cominciando dall’alto, dai quadri, dalla gerarchia, non dal basso, dal popolo dei fedeli, che doveva ancora esser formato.  In quanto fondata da Cristo, la Chiesa gerarchica e militante gode pertanto dei doni dello Spirito Santo che, come si è visto, sono sempre, ci rivela S. Paolo, “secondo la misura dei doni di Cristo”.

Non ha perciò senso ipotizzare l’esistenza di una Chiesa dello Spirito, del tutto invisibile, che operi con i suoi doni nei cuori degli uomini ed addirittura si contrapponga a quella gerarchica.  Ed ancor meno ne ha, pretendere di “riformare” la Chiesa gerarchica in modo da renderla “carismatica o dell’amore”, come volevano Congar e i suoi amici; cosa che renderebbe – osservo – il Cattolicesimo una sorta di pappa del cuore.  Una concezione del genere riflette le eresie dei Protestanti, per i quali la vera Chiesa è appunto solo quella invisibile, costruita dal cuore, dal sentimento, dalla coscienza di ciascuno, e di essa ogni credente sarebbe il sacerdote, con lo Spirito Santo che lo assisterebbe nella lettura individuale della Bibbia, qualsiasi cosa creda egli poi di trovarvi!  Inoltre, quell’erronea concezione non tiene conto del dato storico offerto dai Vangeli, che mostrano appunto come Nostro Signore abbia fondato nei particolari la Chiesa come realtà gerarchica e sociale visibile, alla quale ha promesso l’aiuto dello Spirito Santo, poi inviato in forma sensibile con il miracolo del giorno della Pentecoste.  E come abbia insegnato a santificarci nella rinuncia a noi stessi e nella lotta contro noi stessi, ricercando il Regno di Dio e la sua giustizia, non la nostra; a non abbandonarci alle ingannevoli lusinghe del cuore o del sentimento, sempre pronti a lasciarsi sedurre dal peccato.

I sostenitori dell’idea di una Chiesa “pneumatica” proponevano un’ecclesiologia nella quale si riaffacciavano le eresie dei Modernisti.  Ciò apparve in modo evidente quando si aprì la discussione sullo schema De Ecclesia rielaborato dalla Commissione Mista, nella 37 Congregazione generale del Concilio.  “I due primi interventi, quelli del cardinale Frings e Siri confermarono la profonda divergenza di vedute esistente all’interno dell’assemblea.  Da una parte vi era la concezione della Nouvelle Théologie, in particolare di Congar, che contrapponeva alla “Chiesa del Diritto” quella pneumatica dell’Amore; dall’altra la visione tradizionale, che si rifaceva alla dottrina di san Roberto Bellarmino, letta alla luce della Mystici Corporis”.  Il giorno successivo un altro esponente dei Novatori, il cardinale cileno Raul Silva Henríquez sostenne che “la Chiesa deve esser considerata come una comunione di chiese locali, nello stesso senso in cui san Paolo si rivolgeva alla ‘Chiesa di Corinto’ e alla ‘Chiesa di Efeso’[una “comunione” retta dallo “Spirito”, più che dal Vicario di Cristo].  Ruffini, in polemica anche con Frings, criticò il concetto di Chiesa-sacramento [utilizzato in LG 1] già usato dall’eretico Tyrrell [gesuita irlandese, uno dei capi del Modernismo, scomunicato da S. Pio X] e contestò la base scritturistica della collegialità, ricordando che Cristo disse solo a Pietro:  “Tu sei Pietro e su questa pietra costruirò la mia Chiesa”[18].

La visione di una Chiesa “pneumatica” o “dello Spirito” separava l’azione dello Spirito Santo da quella di Nostro Signore, rendendola incontrollata e pencolando verso una “Chiesa” costituita da “movimenti” di spiritati e invasati dallo “Spirito”, sul tipo dei c.d. “carismatici” protestanti. Oggi “movimenti” di questo tipo, che bisognerebbe definire pseudocattolici, hanno invaso la Chiesa Cattolica, tollerati dall’autorità ecclesiastica.  Ma era proprio questo il modello, c.d. “profetico”, verso il quale tendeva l’ecclesiologia del “popolo di Dio” propugnata con particolare intensità dal  cardinale belga Suenens[19].

Mi sembra utile ricordare, a questo punto, che nell’importante enciclica Mediator Dei sulla sacra Liturgia, del 20.11.1947, Pio XII condannava l’errore di “autori moderni” i quali, a proposito della liturgia:

“ingannati da una pretesa più alta disciplina mistica, osano affermare che non ci si deve concentrare sul Cristo storico, ma sul Cristo “pneumatico e glorificato”; e non dubitano di asserire che nella pietà dei fedeli si sarebbe verificato un mutamento, per cui il Cristo è stato quasi detronizzato, con l’occultamento del Cristo glorificato che vive e regna nei secoli dei secoli e siede alla destra del Padre, mentre al suo posto è subentrato il Cristo della vita terrena.  Alcuni perciò arrivano fino al punto di voler rimuovere dalle chiese le immagini del Divino Redentore che soffre in Croce [sic].

Ma queste false opinioni sono del tutto contrarie alla sacra dottrina tradizionale.  “Credi nel Cristo nato in carne – così Sant’Agostino – e arriverai al Cristo nato da Dio, Dio presso Dio”.  La sacra Liturgia, poi, ci propone tutto il Cristo, nei vari aspetti della sua vita [sino alla sua Passione, Morte e Resurrezione, continua il Papa, dopo la quale egli ci invia lo Spirito Santo].  E inoltre non ce lo presenta soltanto come un esempio da imitare, ma anche come maestro da ascoltare, un pastore da seguire, come mediatore della nostra salvezza, principio della nostra santità, e Mistico Capo di cui siamo membra, viventi della sua stessa vita.  E siccome i suoi acerbi dolori costituiscono il mistero principale da cui proviene la nostra salvezza, è secondo le esigenze della fede cattolica porre ciò nella sua massima luce, poiché esso è come il centro del culto divino, essendone il Sacrificio Eucaristico la quotidiana rappresentazione e rinnovazione, ed essendo tutti i Sacramenti congiunti con strettissimo vincolo alla Croce”[20].

Ho voluto ricordare la riprovazione pacelliana delle false dottrine sul Cristo “pneumatico e glorificato” che avrebbe dovuto occupare il centro della liturgia cattolica perché esse sono certamente da connettere alla falsa idea di una Chiesa “carismatica e dell’amore” alternativa alla Chiesa gerarchica e militante, condannata da AeU 6.  Sembrano costituirne l’applicazione nell’ambito della riforma liturgica auspicata dagli elementi deviati del Movimento Liturgico, attivo soprattutto fra le due guerre mondiali.  E la riforma liturgica posta in essere su impulso del Vaticano II, ha portato o no, di fatto, a vedere nella Resurrezione – in quanto momento di gaudio e gioia – il momento essenziale della S. Messa?  Tanto per fare un esempio, la Conferenza Episcopale dell’Emilia Romagna, in un opuscolo dedicato al confronto-dialogo tra Cristianesimo e Islam, in che modo presenta sinteticamente la S. Messa agli occhi dei Mussulmani?  In questo modo:  “La Chiesa fa memoria del Signore Risorto mettendo in una comunione viva e reale i suoi figli con Dio uno e trino”[21].  In questa definizione, che sembra addirittura inclinare alla S. Messa intesa come semplice “memoriale” e “sacrificio di lode”, alla maniera dei Protestanti eretici, non vi è più nessuna traccia dell’idea della S. Messa come Sacrificio propiziatorio, che ci ottiene misericordia (propitiatio) per i nostri peccati.  Qui la S. Croce non sembra pertanto esser più il centro del culto divino, il che rappresenterebbe una deviazione terrificante dalla retta dottrina e liturgia, un vero e proprio tradimento. 

 

8. L’analogia con il Verbo Incarnato 

Il secondo e ultimo paragrafo di AeU 6 spiega l’analogia tra la Chiesa e il Verbo Incarnato.

“Infatti, come nel Verbo Incarnato la natura umana, quale strumento vivo della sua stessa natura divina, si dedica alla salute nostra e di tutto il mondo e continua nei cieli a dedicarvisi [è l’umanità trasfigurata del Corpo Glorioso del Signore, che è nostro Patrono in Cielo – Eb 7,25], così la Chiesa in quanto società [Ecclesia societas] riceve i doni [charismatibus] della predicazione, del sacerdozio, della regalità [di Nostro Signore] affinché essa serva lo Spirito di Cristo nell’edificazione del Corpo di Cristo.  Infatti, questi doni, non altrimenti che gli altri ricevuti dallo Spirito Santo, devono esser messi a frutto come servizio e ministero di verità e carità, affinché la salvezza originata da Cristo e contemporaneamente tutti i benefici che ne scaturiscono, si propaghino a tutti gli uomini e a tutte le età”[22].

Il senso della non facile ma tuttavia evidente analogia sembra essere il seguente:  il rapporto tra la Ecclesia societas e il Corpo Mistico è simile a quello tra la natura umana e la natura divina del Verbo Incarnato, le quali non si confondono mai pur costituendo un’unità inscindibile nella Persona stessa del Verbo.  La Ecclesia societas, gerarchica e militante, ha ricevuto da Cristo suo fondatore determinati doni per edificare il Corpo di Cristo, in un’azione sempre obbediente allo “Spirito di Cristo”, che è altro modo tradizionale di designare lo Spirito Santo[23].  La Ecclesia societas ha ricevuto i doni dal suo divino fondatore e li mantiene con l’aiuto dello Spirito Santo proprio perché unita in terra al Corpo Mistico di Cristo ma senza confondersi in esso, così come la natura umana è unita, senza confondervisi, a quella divina del Verbo. La Chiesa gerarchica e militante svolge, pertanto, la stessa funzione di “strumento” della natura divina espletato dalla natura umana del Verbo.  Separarla dallo Spirito Santo equivarrebbe a separarla dal Verbo, suo fondatore, il che sarebbe assurdo oltre che eretico perché equivarrebbe a negare la storicità dei Vangeli. 

 

9.  L’unica e vera Chiesa di Cristo è la Chiesa Cattolica Romana 

Tutto ciò considerato, lo schema si conclude con l’art. 7, che dichiara senza mezzi termini esser la Chiesa cattolica romana l’unica e vera Chiesa di Cristo:  questa è la vera natura della Chiesa militante.  Il titolo dell’articolo recita:  “La Chiesa cattolica romana è il Corpo Mistico di Cristo”.

“Insegna pertanto il Sacro Sinodo e professa solennemente che non vi è se non un’unica vera Chiesa di Cristo, e cioè quella che nel Simbolo celebriamo una, santa, cattolica e apostolica, vale a dire quella che il Salvatore si acquistò sulla Croce e congiunse a sé come il corpo alla testa e la sposa allo sposo, e dopo la sua resurrezione diede a S. Pietro e Successori, che sono i Romani Pontefici, affinché la governassero; e che pertanto è la sola che di diritto viene chiamata Chiesa Cattolica Romana”.

Ho messo in corsivo e sottolineato le parti di questa definizione lasciate cadere dalla rielaborazione che ne avrebbe fatto la Commissione Mista, sopra richiamata, inserendo i resti in LG 8.2.  La presente definizione, chiara, semplice e lineare, rappresenta la conclusione logica di tutto il discorso che la precede, che a sua volta viene condotto in perfetta continuità con la dottrina tradizionale della Chiesa.  Anche in AeU vengono usate le varie denominazioni tradizionali della Chiesa.  Non c’è però nessuna confusione.  I termini tradizionali usati esprimono tutti una medesima realtà.  Il nuovo “Israele di Dio” o “Chiesa di Dio” è la “Chiesa di Cristo” da lui fondata, che è nello stesso tempo il “Corpo Mistico di Cristo”, il quale coincide perfettamente in questo mondo con la Chiesa Cattolica Apostolica Romana, governata dal Vicario di Cristo in terra, il Sommo Pontefice, Vescovo di Roma, Primate d’Italia.

Ma, durante la fase preparatoria, proprio contro questo articolo 7 si scatenò l’ira degli Ammodernanti, come si è detto, in particolare del cardinale Liénart (l’uomo del 13 ottobre) e del cardinale Bea.  Due cardinali di S. Romana Chiesa, e non erano i soli, non accettavano più una definizione della Chiesa conforme all’insegnamento di sempre, che identificava la Chiesa Cattolica Romana con l’unica vera Chiesa di Cristo e quindi con il Corpo Mistico di Cristo! E non l’accettavano in nome delle esigenze ecumeniche indicate da Giovanni XXIII, grazie alle quali l’idea e il concetto della vera Chiesa di Cristo si dovevano poter applicare anche ai “fratelli separati”, i quali erano (e restano) scismatici ed eretici?  Nel corpo della Gerarchia, agli alti livelli, c’era evidentemente qualcosa che non quadrava, dal punto di vista teologico.

    Ma vediamo la critica all’articolo avanzata dal cardinale Liénart.  Dopo aver detto che lo schema non gli piaceva perché trascurava l’aspirazione all’unità dei “cristiani separati”, sferrò il suo attacco in questo modo.   “Mi sembra, disse, che non possiamo “confessare solennemente”, come propone il testo all’art. 7, che la Chiesa romana e il Corpo Mistico siano l’identica realtà, come se il Corpo Mistico fosse interamente ricompreso nei limiti della Chiesa romana. Difatti il Corpo Mistico di Cristo è molto pi­ù ampio della Chiesa cattolica militante.  Abbraccia la Chiesa sofferente al Purgatorio e la Chiesa trionfante in cielo.  Dal che si conclude che la nostra Chiesa, per quanto sia l’aspetto visibile del Corpo Mistico di Cristo, non possa assolutamente identificarsi con esso”[24].  Il cardinale Liénart ne faceva una questione di quantità!  Poiché l’intero Corpo Mistico è senz’altro più esteso della Chiesa militante, allora i due non si identificano.  Non diceva nemmeno:  bisogna dire che si identificano in parte, solo in questo mondo:  non si identificano e basta.  Come se si trattasse di due realtà diverse.  E in nome di questa maggior estensione del Corpo Mistico rispetto alla Chiesa militante il cardinale rifiutava il concetto tradizionale di Chiesa per ricercarne uno che si estendesse anche ai “fratelli separati”?  La Chiesa Cattolica “militante” non si identificava con il Corpo Mistico mentre vi si sarebbe identificata una Chiesa aperta  ai “fratelli separati”?  Forse che questa nuova “Chiesa” avrebbe potuto estendersi al Purgatorio e al Paradiso?    Ma quando S. Paolo insegnava che la Chiesa era il Corpo il cui Capo era il Cristo, non includeva quella che poi si è chiamata Chiesa militante nel Corpo di Cristo ossia nel Corpo Mistico di Cristo?  E la includeva come un qualcosa di estraneo o come qualcosa che si identificava perfettamente con il Corpo Mistico di Cristo? Dal punto di vista qualitativo, della sua specifica natura, la Chiesa visibile fondata in terra da Nostro Signore non si distingue in alcun modo dalla “pienezza” del Corpo Mistico di cui il Cristo è il Capo in cielo. È dunque corretto esprimere questa identità assoluta usando il verbo essere, e dire che la Chiesa militante è il Corpo Mistico di Cristo.  E che lo sia in terra è ovvio, risulta già dall’aggettivo “militante”, che designa da sempre la Chiesa visibile, in questo mondo.  Nell’attaccare lo schema, Liénart non attaccava solo Ottaviani e la Curia.  Attaccava in realtà l’insegnamento della Mystici Corporis, che a sua volta (come si è detto) si basava su quello di Leone XIII e risaliva sino a S. Bellarmino, morto nel 1621; insomma attaccava la dottrina sempre insegnata dalla Chiesa sulla natura della Chiesa stessa. E gli argomenti che usava non avrebbero potuto essere sostenuti senza problemi anche da un Protestante?

 Con il togliere dall’art. 7 le parti più significative:  dall’aggettivo “vera” al riferimento alla Croce e ai suoi meriti (sgraditissimo evidentemente ai Protestanti oltre che a tutte le altre religioni della terra), al Primato di Pietro e dei suoi successori, la Commissione Mista dimostrava di procedere nello spirito del cardinale Liénart e dei suoi sodali in Nouvelle Théologie.  Ma vediamo ora cosa resta di AeU 3-7 in Lumen Gentium 4-8. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

V.  LA CHIESA DI LG 4-8 É UNA CHIESA DELLO SPIRITO E DELL’AMORE, OSSIA UNA CHIESA NON GERARCHICA E NON MILITANTE, SEMPRE IMPERFETTA, SEMPRE IN CERCA DELLA PIENEZZA DELLA VERITÀ?

Cominciamo dunque con l’esaminare LG 4, dedicato allo “Spirito santificatore della Chiesa”, uno degli articoli interamente nuovi rispetto allo schema Aeterni Unigenitus.  In quest’articolo si riafferma la tradizionale molteplicità dei doni dello Spirito Santo.  Qual è il fine dello Spirito Santo?  Il giorno di Pentecoste esso fu inviato “per santificare continuamente la Chiesa”. Ma anche affinché “i credenti avessero così attraverso Cristo accesso al Padre in un solo Spirito (Ef 2, 18)”.  Nella sua opera di “santificazione”, che cosa propriamente fa lo Spirito Santo?  Esso “dà la vita”, si intende la vita dell’anima; è infatti “una sorgente di acqua zampillante fino alla vita eterna (Gv 4, 14-17; 7, 38-39)”, che ci procura la rigenerazione spirituale:  “per mezzo suo il Padre ridà la vita agli uomini, morti per il peccato, finché un giorno risusciterà in Cristo i loro corpi mortali (Rm 8, 10-11)”.  Dove “abita” (habitat) lo Spirito Santo?  “Nella Chiesa, nei cuori dei fedeli come in un tempio e in essi prega e rende testimonianza della loro condizione di figli di Dio per adozione (Gal 4, 6 etc.) ”.  Ma lo Spirito Santo non contribuisce anche al nostro retto intendimento, al giusto discernimento?  La sua azione non incide anche sulla sfera razionale dell’individuo?  E difatti, lo Spirito Santo “introduce la Chiesa in tutta la pienezza della verità”[Ecclesiam quam in omnem veritatem inducit..](Gv 16, 13).  Inoltre, esso “la unifica nella comunione e nel ministero, la provvede e dirige con diversi doni gerarchici e carismatici, la abbellisce dei suoi frutti.  Con la forza del Vangelo la fa ringiovanire, continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione col suo Sposo”.  In conclusione:  “la Chiesa universale si presenta come “un popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (S. Cipriano; S. Agostino)”.

 In questa ampia rappresentazione, intessuta di immagini tradizionali, ci sono però, come ho già detto, alcuni aspetti che non solo non sembrano affatto coincidere con l’impostazione di AeU ma che fanno anche scorgere una concezione singolare dell’azione dello Spirito Santo. 

1)  In AeU lo Spirito Santo contribuisce all’edificazione del Corpo Mistico di Cristo sempre “secondo la misura dei doni di Cristo”.  In LG 5 questa verità non viene enunciata in modo così chiaro; essa resta come implicita, per non dire addirittura sepolta nel riferimento ad Ef 2,18, che in realtà tratta “dell’unico Spirito” di Cristo che avrebbe affratellato pagani ed ebrei, una volta diventati tutti cristiani (sull’ulteriore uso conciliare di questo passo di Ef 2, vedi infra).  

2) Secondo la dottrina tradizionale, lo Spirito Santo non è solo “grazia carismatica”, che cioè conferisce i necessari doni o carismi spirituali alla Chiesa e ai singoli fedeli. In quanto Persona della Santissima Trinità, la sua azione (e proprio in base alle dichiarazioni di Nostro Signore) viene percepita anche come quella di una persona, di un Soggetto che mostra una personalità, che opera con discernimento e volontà.  La funzione docente  dello Spirito Santo è appunto una di quelle che lo caratterizza come Persona e non come semplice spirito impersonale[25].  LG 4 ricorda la funzione docente dello Spirito Santo, ma in che modo?

 

1.  Uno Spirito Santo che solamente “ci introduce” a “tutta la verità”?

Risulta chiaramente dal Vangelo che lo Spirito Santo “insegnerà [docebit] alla Chiesa tutta la verità” della Rivelazione ed insegnerà ai singoli fedeli cosa rispondere ai persecutori, una volta tradotti nei loro tribunali (“lo Spirito Santo vi insegnerà [docebit] in quel momento stesso ciò che dovrete dire” – Lc 12,10).  In LG 4, invece, lo Spirito “introduce la Chiesa in tutta la verità” o “nella pienezza della verità”, secondo il volgare italiano. Il francese dice, ugualmente: “Cette ­Église qu’il introduit dans la vérité toute entière..”.  Tra l’insegnare tout court tutta la verità e l’introdurre ad essa, c’è o no una sensibile differenza?  A me sembra di sì.  Un conto è dire che lo Spirito Santo “vi insegnerà tutta la verità” (docebit vos omnem veritatem, Gv 16,13), espressione forte, senza sfumature, sia dal lato dell’azione docente sia da quello della materia insegnata, che è tutta la verità.  Il concetto lo si è reso  anche traducendo dal greco in modo più letterale, scrivendo:  “vi guiderà a tutta la verità”, come nelle edizioni della S. Bibbia della CEI di prima e dopo il Concilio ma anche in quelle popolari della Pia Società di S. Girolamo, regnante S. Pio X (“vi guiderà ad ogni vero”).  Il significato è esattamente il medesimo:  l’insegnamento dello Spirito Santo è appunto la preannunciata, sicura guida sovrannaturale a tutta la verità, già predicata e spiegata da Cristo ma non ancora afferrata compiutamente dai Discepoli. 

Altro, invece, è dire che lo Spirito Santo “ci introduce a tutta la verità” (Ecclesiam, quam in omnem veritatem inducit..), variando la traduzione latina consolidata del medesimo passo evangelico sì da conferire all’insegnamento dello Spirito Santo il valore di una semplice “introduzione”.   Un’introduzione alla verità ha in sé stessa, proprio come concetto, qualcosa di parziale, l’idea di un vero che si inizia a conoscere ma resta ancora incompiuto, quanto al suo definitivo possesso.  E crea una certa difficoltà pensare ad una “introduzione a tutta la verità”, proprio perché l’introdurre è sempre atto che resta parziale e quindi non può riguardare “tutta” la verità.

Ma perché si è voluto variare il latino della citazione?  E quali le possibili conseguenze di questo mutamento?  Può incidere esso sul concetto  di verità rivelata oltre che sul modo di intendere lo Spirito Santo?  Il passo giovanneo è di fondamentale importanza per comprendere in modo esatto la rivelazione di Nostro Signore a proposito dello Spirito Santo.  Esso va inteso nel suo contesto proprio.  “Ho ancora molte cose da dirvi, ma per ora non potete sostenerle”.  Si trattava di verità ancora troppo profonde.  “Quando sarà venuto lo Spirito di verità, egli v’insegnerà tutta la verità; giacché non parlerà da sé stesso, ma vi dirà quanto udrà, e vi annunzierà le cose che dovranno succedere.  Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve lo annunzierà.  Tutto ciò che ha il Padre, è mio; perciò ho detto che prenderà dal mio e ve lo annunzierà” (Gv 16, 12-15). 

Quindi:  lo Spirito Santo completerà l’insegnamento di Cristo, senza tralasciare nulla (“tutta la verità”, rivelata, ovviamente).  E potrà farlo perché insegnerà “quanto udrà”.  Da chi?  Da Cristo stesso e dal Padre.  Prenderà “del mio” da Nostro Signore, ma “il mio” di Nostro Signore è sempre “il mio” del Padre, ab aeterno, perché è “tutto ciò che ha il Padre”.  L’insegnamento dello Spirito Santo agli Apostoli, ivi comprese le profezie, riguardando “tutta la verità” da approfondire rispetto a quanto già insegnato da Nostro Signore, avrebbe pertanto concluso la Rivelazione.  E correttamente si è sempre ritenuta come verità di fede la proposizione secondo la quale la Rivelazione si è conclusa con la morte dell’ultimo Apostolo.  L’insegnamento di “tutta la verità” da parte dello Spirito Santo porta perciò a compimento il Deposito della Fede. 

Bisogna comunque tener sempre presente, sottolinea Mons. Gherardini, che da parte dello Spirito Santo si ha solo una “assistenza conservativa alla verità rivelata, non un’integrazione in essa di verità altre o diverse da quelle rivelate, o presunte come tali”.  Alla Pentecoste “non ci saranno ulteriori rivelazioni.  L’unica si chiude con coloro ai quali Gesù sta ora parlando [ai Discepoli, nel Vangelo di Giovanni citato].  Le sue parole si presentano con un significato univoco, riguardante l’insegnamento da Lui impartito e soltanto codest’insegnamento.  Un linguaggio, questo, non criptato o cifrato, ma limpido come il sole.  Si potrebbe sollevar un’obiezione sulla prospettiva d’apparente novità in relazione a quello che, ora taciuto da Gesù, verrà annunziato dallo Spirito Santo; ma la delimitazione della sua assistenza ad un’azione di guida verso il possesso di tutta la verità rivelata da Cristo esclude novità sostanziali.  Se novità emergeranno, si tratterà di significati nuovi, non di verità nuove; donde il giustissimo “eodem sensu eademque sententia” del Lerinense.  Insomma, la pretesa d’agganciar all’assistenza dello Spirito Santo ogni stormir di fronda, voglio dire ogni novità e segnatamente quelle che commisurano la Chiesa sulle dimensioni della cultura imperante e della c.d. dignità della persona umana, non solo è un capovolgimento strutturale della Chiesa stessa, ma è pure un gran segno di croce sui due testi sopra indicati [Gv 14,16-26 e 16, 13-14]”[26].  

Ma se questo insegnamento diventa una semplice “introduzione” a “tutta la verità”, non lo si accorcia arbitrariamente, aprendo la via all’idea che esso avrebbe semplicemente “introdotto” ad una verità che deve ancora completarsi?  Un’introduzione, infatti, rinvia di per sé ad un ulteriore sviluppo.  E dove si ferma questo sviluppo?  Il concetto che lo Spirito Santo “ci introduce” alla verità rivelata, è ripetuto dal Concilio nella costituzione Dei Verbum sulla divina Rivelazione, all’art. 8, ove si dice, alla fine:  “e lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce dell’Evangelo risuona nella Chiesa e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti alla verità intera [credentes in omnem veritatem inducit] e in essi fa risiedere la parola di Cristo in tutta la sua ricchezza (cfr. Col 3, 16)”, dove il riferimento paolino va riferito solo al risiedere della parola di Cristo in noi, in tutta la sua ricchezza. La traduzione francese è uguale:  “introduit les croyants dans la vérité tout entière”. Del resto, in questo stesso articolo della DV, non si scrive forse che: ”la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina [ad plenitudinem divinae veritatis iugiter tendit], finché in essa vengano a compimento le parole di Dio”?  Come se la Chiesa non avesse già il possesso della “pienezza” della verità divina nel Deposito della Fede, conclusosi con la morte dell’ultimo Apostolo!  Altro è dire che la Chiesa deve sempre tendere alla migliore realizzazione del mandato divino e delle verità di fede, migliorandosi costantemente nei suoi membri, ecclesiastici e laici, nell’opera instancabile della santificazione quotidiana.  Ma in DV 8 si parla proprio di un “tendere incessantemente alla pienezza della verità”, come se la verità (rivelata) tutt’intera la Chiesa non la possedesse ancora; la verità in quanto tale, non la sua attuazione! 

Mi chiedo se l’inducere in di LG 4 non svolga una funzione analoga al subsistere in di LG 8:  quella di introdurre l’idea di movimento, sviluppo, ampliamento e nello stesso tempo parzialità in ciò che dovrebbe essere di per sé completo ed immutabile: la verità rivelata una volta per tutte, verità che comprende la Chiesa di Cristo costruita sulla roccia rappresentata da Pietro e che può esser oggetto solamente di approfondimenti e chiarimenti “eodemque sensu eodemque sententia”[27].

 

2. Un Regno di Dio che si accetta sola fide e cui si partecipa senza il Giudizio? 

Il Vaticano II non ha mai impiegato in modo esplicito il concetto del sovrannaturale (meritandosi per questo un famoso elogio di de Lubac) e ciò lo ha esposto all’accusa di non aver riproposto la distinzione tra natura e sovrannaturale, Natura e Grazia, favorendo anzi, di fatto, la confusione tra i due regni.  Tuttavia, esso ha voluto dedicare un intero articolo al “Regno di Dio”, che rappresenta per l’appunto il Sovrannaturale per eccellenza.  LG 5 è dedicato appunto al Regno di Dio in connessione con il “mistero della Chiesa”.  Anche quest’articolo è del tutto nuovo rispetto allo schema AeU.  L’articolo non dice che cosa sia il Regno di Dio, non ne dà una definizione:  sembra presupporne la nozione, come se fosse cosa nota.  Né sembra in alcun modo riproporre l’immagine tradizionale del Regno di Dio come simbolo della Chiesa in quanto tale (come in AeU) né la qualità sovrannaturale in senso proprio del Regno, che coinciderà alla fine dei tempi con la Chiesa trionfante nella gloria indicibile della Visione Beatifica:  “O isplendor di Dio, per cu’io vidi/l’alto trionfo del Regno verace,/dammi virtù a dir com’io il vidi!” (Par., XXX, 97-100).

Come veniamo a sapere del Regno di Dio?  È Cristo che  lo annuncia  e lo manifesta nelle sue parole e opere, con la sua stessa “presenza”, dimostrando che esso “è arrivato sulla terra”.  La “parola del Signore” è appunto “paragonata al seme che viene seminato nel campo”, secondo la nota parabola del Seminatore (Mc 4,14).  Quelli che la ascoltano “con fede e appartengono al piccolo gregge di Cristo hanno accolto il regno stesso di Dio (Lc 12,32), poi il seme per virtù propria germoglia e cresce fino al tempo del raccolto (Mc 4, 26-29)”.  Non si tratta solo della parola:  “anche i miracoli di Gesù provano che il regno è arrivato sulla terra” poiché Egli ha detto:  “Se con il dito di Dio io scaccio i demoni, allora è già pervenuto tra voi il regno di Dio” (Lc 11,20; Mt 12,28)”.  Ma più ancora che nelle sue parole e opere, precisa il testo, il Regno si manifesta nella persona stessa del Cristo, “figlio di Dio e figlio dell’uomo, il quale è venuto “a servire e a dare la sua vita in riscatto per i molti”(Mc 10,45)”(LG 5.1).

Che significa dire che il Regno di Dio si manifesta soprattutto nella persona stessa di Cristo?  Si noti innanzitutto che si scrive “Figlio di Dio e Figlio dell’uomo”, senza voler usare termini come Unigenito o Consustanziale al Padre, che esprimono in modo  dogmaticamente ineccepibile la natura divina del Signore.  E si noti, nel volgare italiano, come il senso del testo di Mc 10,45 sia stato modificato poiché la “redemptio pro multis (antì pollôn)” è sempre stata resa con “riscatto per molti”, non “per i molti”, versione che sembra introdurre una certa ambiguità.  La versione francese recita:  “..et donner sa vie en rançon d’une multitude”.

Dunque:  il Regno si manifesta nella persona di Cristo, che è venuto a dare la sua vita in riscatto “per i molti”.  Ma “i molti” come entrano nel Regno di Dio?  Semplicemente attraverso la “persona di Cristo”, accogliendo il suo insegnamento salvifico e lasciandolo fruttificare, fino a che è maturo “per il raccolto”?  In questo modo possiamo indubbiamente esporre sinteticamente il rapporto tra la Parola di Cristo e il suo produr frutti in noi, sino al “raccolto” finale (della vita eterna). Tuttavia, LG 5 non illustra il concetto dell’”entrare nel Regno di Dio”.  Si limita alla sua manifestazione per opera di Cristo e al suo accoglimento da parte nostra, con l’atto di fede di chi appartiene al “piccolo gregge”.  E non manca qualcosa, a siffatta rappresentazione del Regno, per esser completa?  Nostro Signore non ha detto qualcos’altro sul suo Regno, “che non è di questo mondo”?   Si può entrare nel Regno di Dio senza esser battezzati e senza esser giudicati da Nostro Signore alla fine della nostra vita?  E la Chiesa, come viene nominata da LG 5?

La Chiesa, lo sappiamo, è il Regno di Dio che comincia per noi già qui in terra, nell’appartenenza alla Chiesa militante.  Ma questa è la dottrina tradizionale, riproposta da AeU.  Per LG 5 la Chiesa è “germe e inizio” del Regno come Chiesa universale santificata dallo Spirito nei modi illustrati da LG 4, appena richiamato.

“La Chiesa perciò, fornita dei doni del suo fondatore e osservando fedelmente i suoi precetti di carità, umiltà e abnegazione, riceve la missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il regno di Cristo e di Dio, e di questo regno costituisce in terra il germe e l’inizio.  Intanto, mentre va lentamente crescendo, anela al regno perfetto [Regnum consummatum] e con tutte le sue forze spera e brama di unirsi col suo re nella gloria”(LG 5.2). 

È vero che “la Chiesa” (che qui non è ancora la Chiesa Cattolica) ha ricevuto dal suo fondatore la missione di “annunziare ed instaurare in tutte le genti il Regno di Dio”, del quale costituisce quindi “in terra il germe e l’inizio”.  Ma vedere solo in questo – in sostanza nella predicazione della Buona Novella – il nesso tra la Chiesa e il Regno di Dio non è alquanto riduttivo?  A  S. Pietro, ossia alla Gerarchia della Chiesa cattolica, ai sacerdoti, Nostro Signore non ha forse dato “le Chiavi del Regno”?  Nell’unico scarno riferimento ai nomi della Chiesa contenuto in AeU 3.2, si è visto che tra di essi c’è anche il “regnum Dei”.  In nota, si rimanda a Mt 16,19, alla celebre frase rivolta da Nostro Signore a S. Pietro, che, per divina ispirazione, l’aveva riconosciuto come il Messia: “E ti darò le chiavi del Regno dei Cieli”.  Il “Regno dei Cieli”, lo sappiamo, non è cosa diversa dal “Regno di Dio”.  E AeU 3.2  rimanda nella stessa nota all’enciclica Satis cognitum di Leone XIII, del 5.9.1896 sull’unità della Chiesa, ove si legge: 

“E per verità al solo Pietro furono consegnate le chiavi del regno celeste, e a lui, unitamente agli apostoli, fu dato, per testimonianza della sacra Scrittura, il potere di legare e di sciogliere”[28].

Come mai in LG 5 manca del tutto questo fondamentale aspetto del rapporto tra la Chiesa cattolica e il Regno di Dio, pur accennato in AeU?  E lo sappiamo bene che l’attribuzione di tale potere a Pietro da parte di Nostro Signore non è mai stata intesa in senso meramente simbolico.  Per mandato divino la Chiesa Cattolica (la Chiesa governata da Pietro e dai vescovi) è la custode del Regno di Dio.  E il custode lascia entrare solo chi ha i giusti titoli.  Se il sacerdote non ti assolve in confessione, tu resti nei tuoi peccati e se morirai nei tuoi peccati non entrerai mai nel Regno di Dio.  La dottrina tradizionale ha sempre posto nel dovuto rilievo la natura sovrannaturale del Regno, ribadendo che, con l’insegnamento e i Sacramenti, la Chiesa “rinnova le anime, disponendole alla fase ultima del Regno di Dio, che è la vita eterna”[29]

 

3. Le ambiguità del “Regno” di LG 5 

Il rapporto tra la Chiesa e il regno sembra per la verità impostato da LG 5 in una prospettiva soprattutto escatologica, ma si tratta di un’escatologia sui generis poiché la natura  sovrannaturale del Regno di Dio non sembra mai emergere chiaramente.  Il “regno perfetto” cui la Chiesa “anela”, come sua meta finale, è il Regno dei Cieli nel quale entreranno gli Eletti dopo il Giudizio universale?  Che lo sia, risulterebbe dal senso tradizionale dell’espressione utilizzata: “Regnum consummatum”, con la quale, se non erro, si intende il Regno nel quale si rivela la Visione Beatifica.  Ma dire che la Chiesa, dopo aver costituito in terra “il germe e l’inizio” del Regno, “spera e brama con tutte le sue forze” di giungere alla Visione Beatifica, è sufficiente per esporre in modo completo il giusto rapporto tra il Regno di Dio e la Chiesa?  È sufficiente, in assenza di qualsiasi riferimento al Giudizio e alla divisione finale in Eletti e Reprobi e al potere delle Sante Chiavi di aprire e chiudere le porte del Regno di Dio?    La “Chiesa” appare inoltre lontana dal “Regno perfetto” perché vi anela solamente, e “spera e brama” di “unirsi al suo Re nella gloria”.  Non dice nemmeno, il testo, che spera di entrare nel Regno, alla fine dei tempi, affermazione che indicherebbe la natura sovrannaturale dello stesso.  La Chiesa di LG 5 appare sempre imperfetta perché sempre in ricerca.  Ma l’anelare, lo sperare e il bramare possono applicarsi ai singoli membri della “Chiesa” ma non alla Chiesa in quanto tale, depositaria della verità rivelata, che già costituisce il Regno di Dio, in terra e nei cieli (nelle anime di quei Cristiani che già sono in Paradiso e siedono alla destra del Padre, con Nostro Signore). 

Noi sappiamo dai Vangeli che il Regno è sia esteriore che interiore.  Rispondendo polemicamente ai Farisei, che pensavano sempre al dominio temporale di Israele, Gesù rispose che il Regno “è dentro di voi”(Lc, 17,21).  Se poi l’espressione deve esser intesa nel senso di “tra di voi” e non dentro ciascuno di voi (“tra di voi” nell’Ecclesia Dei che stava nascendo con la predicazione del Signore), ciò non toglie che noi siamo chiamati a “cercare” il Regno, nel quale entrano solo coloro “che fanno violenza a sé stessi”(Mt 11,12; Lc 16,16) ossia coloro che combattono vittoriosamente contro sé stessi, obbedendo così in tutto ai precetti di Cristo e della sua Chiesa.  Ma il rapporto tra ciascuno di noi credenti e il Regno, come risulta da LG 5?  Quelli che ascoltano la parola del Signore “con fede e appartengono al piccolo gregge di Cristo”, costoro “hanno accolto il regno stesso di Dio [Regnum ipsum susceperunt]”, che poi germina e cresce “per virtù propria”, come il seme nel campo, sino al tempo del raccolto. E cosa succederà al momento del “raccolto”?  LG 5 non ce lo vuol rammentare. Esso si limita a questo:  poiché la parola del Signore annunzia il Regno, chi la accoglie con fede, accoglie il Regno stesso di Dio  e questa parola cresce in lui per forza intrinseca.  Ciò risulta da tutte le parabole del Regno che lo paragonano ad un seme che cresce lentamente e per forza propria:  è la forza della parola di Cristo che germoglia lentamente nella nostra anima. Ma poi viene il momento del “raccolto”, che si fa con la falce del Giudizio divino.

Infatti, “accogliere” il Regno mediante la fede nella predicazione di Cristo, non è sufficiente per entrarvi alla fine dei tempi.  Non basta, come risulta dalla stessa parabola del Seminatore (Mc 4, 3-20).  In questa parabola, Nostro Signore ci rivela che molti tra quelli che accolgono la parola che annuncia il Regno di Dio non perseverano nella fede e quindi non entrano nel Regno, perdendosi nelle vie del peccato.  Nel Regno che si attua in questo mondo (ovvero nella Chiesa) accanto ai buoni ci sono anche i cattivi e la parabola della zizzania ci rivela che nel giorno del Giudizio il loglio sarà separato dal buon grano e gettato nella “fornace ardente”.  Ma questi fondamentali approfondimenti sono forse ripresi da LG 5?  Non lo sono. E mi sembra manchino anche negli altri passi conciliari nei quali riappare la visione del Regno.  Dal tenore di LG 5 sembra che coloro che ascoltano inizialmente con fede la parola di Cristo, per ciò stesso “accolgono” il Regno, che poi matura in loro ex opere operato, sino al “raccolto”, nel quale evidentemente non succede nulla di particolare.  Ridotto a quest’unica e mutila proposizione, il rapporto tra ciascuno di noi e il Regno non risulta privo delle necessarie sfumature e non sembra esser risolto a nostro favore dalla semplice fede nella Parola di Cristo? 

Ora, Nostro Signore ci ha fatto chiaramente capire che il possesso del Regno non è affatto sicuro da parte nostra senza l’opera della nostra santificazione quotidiana.  Non basta la fede, occorrono anche le opere, a cominciare da quell’opera fondamentale che è la nostra preghiera quotidiana, nella quale Egli stesso ci ha insegnato ad invocare l’avvento del Regno di Dio, nel Padre Nostro.  Nel Discorso della Montagna, quando ci esorta a non angustiarci per i nostri problemi quotidiani perché Dio sa di che cosa abbiamo bisogno e veglia sempre su di noi, ha detto:  “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutto il resto vi sarà dato per giunta.  Non preoccupatevi dunque per il domani, poiché il domani sarà sollecito di sé stesso”(Mt 6, 33-34).   Qui, il “cercare” indica evidentemente quale deve essere il corretto atteggiamento dell’anima nostra, che in ogni cosa della vita deve far prevalere la “giustizia del Regno di Dio” ossia i princìpi dell’etica cristiana, fondata sulla Rivelazione di Nostro Signore, senza lasciarsi travolgere dai bisogni del presente, per i quali dobbiamo sempre rimetterci alla Provvidenza.

Nel Regno non si entra poi collettivamente, vale a dire grazie ad un accoglimento collettivo della Parola di Cristo, come qualcuno potrebbe credere in base al dettato ambiguo di LG 5.  I testi sacri sono piuttosto chiari in proposito.

Per abbassare l’orgoglio mal posto dei Discepoli che litigavano per stabilire chi tra di essi dovesse essere considerato “il maggiore”, Nostro Signore fece loro una bella lezione d’umiltà, ricordando il principio: “chi governa sia come colui che serve”.  Lui stesso era rispetto a  loro come uno che governa e tuttavia stava “in mezzo a loro come uno che serve”.  Ed ecco il punto essenziale.  Perché affannarsi stoltamente per vane ambizioni terrene quando Egli stesso  aveva preparato per ciascuno di loro un posto nel suo Regno, dal quale avrebbe addirittura giudicato le tribù di Israele?  “Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; io vi preparo un regno, come il Padre mio l’ha preparato per me; affinché mangiate e beviate alla mia mensa [del tutto spirituale] nel mio regno e sediate in trono a giudicare le dodici tribù di Israele” (Lc 22, 24-30).  Il “trono” è singolo, ci si siede sopra individualmente.  Il Regno che è giunto in questa terra, testimoniato con la predicazione ed i miracoli di Cristo, è la realtà sovrannaturale ed eterna che Cristo stesso prepara per ognuno di quelli che avranno creduto in lui e perseverato sino alla fine.  Questo Regno è lo stesso che il Padre ha preparato per Lui.  Questa verità è ripetuta in Gv 14,1-4.  Durante l’Ultima Cena con il tradimento e la persecuzione incipienti, nell’incoraggiare i Discepoli, Gesù ripete che i suoi fedeli si riuniranno con lui nella “Casa del Padre”, che è un altro modo di chiamare il Regno di Dio.  “Il vostro cuore non si turbi.  Credete in Dio e credete anche in me.  Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore; se fosse diversamente ve lo avrei detto, perché io vado a preparare un posto per voi.  E quando sarò andato e avrò preparato il vostro posto, tornerò e vi prenderò con me, affinché dove sono io siate anche voi.  Voi sapete dove io vada e ne conoscete la via”.  Anche per ognuno di noi, di noi credenti che con l’aiuto della Grazia (e quindi della Chiesa Cattolica Romana) avremo perseverato sino alla fine nella fede e nelle buone opere (“Sii fedele sino alla morte e ti darò la corona della Vita”, Ap 2,10), Nostro Signore ha preparato “un posto” nella Casa del Padre, al quale accederemo dopo il Giudizio e dopo le opportune purificazioni nel Purgatorio. 

 

4. Una vena “millenaristica” nella visione conciliare del ‘Regno’?

 Ho ricordato prima che de Lubac elogiò il Concilio per non aver voluto proporre il concetto del Sovrannaturale.  Il termine si trova solo qualche volta come aggettivo, per esempio in frasi come la seguente, nella quale si coniuga ambiguamente il concetto profano della “solidarietà” con la Verità rivelata:  “Egli, infatti, assumendo la natura umana, ha legato a sé come sua famiglia tutto il genere umano in una solidarietà soprannaturale…” (Decreto Apostolicam Actuositatem sull’apostolato dei laici, 8).  Ma cosa disse de Lubac?  “Il Concilio giudicò più giusto e più saggio non usare una tale parola in certi contesti per non perpetuare degli equivoci né ravvivare delle polemiche dando l’impressione di canonizzare o almeno di favorire una teoria di scuola (detta della ‘natura pura’ nel senso preciso che essa sosteneva due finalità ultime dell’uomo)”[30].  La cosiddetta “teoria di scuola” è quella che, da ultimo nella cosiddetta “scuola romana”, ha espresso ed esprime l’insegnamento costante della Chiesa, sino al Vaticano II, concernente la gratuità dell’ordine sovrannaturale per l’uomo, il quale gli contrappone spesso e volentieri la propria natura umana ferita dal peccato originale, capace quindi, come “pura natura” non illuminata dalla Grazia ma decaduta, di rifiutare la Grazia stessa e la Salvezza.  È noto che  de Lubac, ispirandosi a Blondel, e Rahner, ispirandosi a Heidegger, cercavano entrambi di dimostrare che la Grazia deve considerarsi immanente alla natura.  In tal modo dissolvevano la Grazia in quanto dono gratuito di Dio, come insegnato da S. Paolo e da tutta la Chiesa nei secoli, aprendo appunto la strada ad una concezione cosiddetta “millenaristica” del Regno dei Cieli, ovvero all’errore secondo il quale (nell’ultima sua formulazione) il Regno di Dio si realizzerebbe già in terra alla fine dell’era cristiana, nell’unione pacifica di tutto il genere umano in una sorta di nuova ed indefinita Età dello Spirito.

Al di là delle fumose dichiarazioni di teologi neomodernisti come de Lubac e Rahner, il fatto importante, ai fini della nostra analisi del Concilio, è costituito dall’entusiasmo dei Protestanti per la chiusura conciliare al Sovrannaturale.  Essi dichiararono che l’antropologia delineata dalla costituzione Gaudium et spes, che riguarda la Chiesa e il mondo contemporaneo, si segnalava “per la scomparsa della distinzione tra natura e soprannaturale”, risultando quindi più affine alla concezione dell’uomo del Protestantesimo[31].  Questa dichiarazione dei Protestanti è o non è un bel siluro a chi sostiene che la “riforma” dottrinale apportata dal Concilio è in piena continuità con tutta la Tradizione della Chiesa?

Il Concilio si è in realtà occupato del Sovrannaturale, anche se non direttamente.  Se ne è occupato tutte le volte che ha preso in considerazione il “Regno di Dio”.   Non molte, ma sufficienti a far vedere la presenza di una corrente dottrinale più vicina alle concezioni di de Lubac e Rahner che alla dottrina ortodossa della Chiesa.  Così gli spunti in tal senso presenti in LG 13 e 35, nei quali si esamina il rapporto tra il bonum temporale dei popoli e il Regno alla luce del contributo che i cristiani devono dare all’incremento di tale bonum temporale “nel progresso universale nella libertà umana e cristiana” (LG 35.2); questi spunti trovano la loro elaborazione finale nella dottrina che espone addirittura “l’attività umana nell’universo [De humana navitate in universo mundo]”, agli articoli 33-39 della costituzione conciliare Gaudium et spes.  In particolare, l’art. 39, intitolato:  Terra nuova e cielo nuovo, mostra l’impronta delle visioni di tipo millenaristico di de Lubac, abbozzate in Catholicisme, che è del 1937[32].

 

 

VI.  LE IMMAGINI DELLA CHIESA, SECONDO LG 6

 

Come ho già ricordato, LG sviluppa alquanto il tema delle “immagini della Chiesa”, dedicandogli un apposito, non breve articolo, il n. 6.  Esso riprende e amplia tutte quelle già presenti in AeU 3.2, con l’eccezione di due:  la Chiesa “colonna e fondamento della verità” (spostata in LG 8.2) e il Regno di Dio.  Si è appena visto che il Regno di Dio è stato considerato a parte, senza mai dire che esso è da sempre immagine della Chiesa ed anzi che è la Chiesa stessa, Cattolica, Apostolica e Romana, in quanto Corpo Mistico di Cristo.

Perché tanto interesse nei confronti delle “immagini” della Chiesa?  La cosa è forse importante?  Lo è sicuramente per una teologia che vuole affidarsi al “mistero” in maniera sovrabbondante, dato che l’esplorazione del “mistero” avviene in genere attraverso quel tipo di conoscenza che si suol definire “simbolica”.  Conoscenza forse affascinante, soprattutto per chi si è nutrito delle labili categorie del pensiero contemporaneo, ma che facilmente pencola verso l’irrazionale e quindi da prendersi con le molle.  Essa tende a sostituire l’immagine al concetto, il sentimento al ragionamento, la sensibilità alla morale.

Quali sono le immagini della Chiesa e cosa si deve dedurre da esse in ordine alla comprensione della natura della Chiesa?  Queste immagini ci fanno vedere “l’intima natura della Chiesa” e sono in gran parte abbozzate “nei libri dei profeti” (LG 6.1).  Nell’ordine esse sono: l’ovile; il gregge; il podere o campo di Dio; la vigna scelta della quale Cristo è la vera vite; l’edificio di Dio, chiamato anche casa di Dio, dimora di Dio, “e soprattutto tempio santo, il quale, rappresentato dai santuari di pietra, è l’oggetto della lode dei santi Padri ed è paragonato a giusto titolo dalla liturgia alla Città santa, la nuova Gerusalemme” (LG 6.4).  Pertanto la Chiesa viene anche chiamata Gerusalemme celeste e madre nostra; immacolata sposa dell’Agnello immacolato (LG 6.4).

Sull’immagine della Chiesa “sposa dell’Agnello”,  LG 6 si dilunga.  È la sposa che Cristo ha amato, per la quale ha dato sé stesso per santificarla, che si è associata con patto indissolubile, che nutre e cura, che, dopo averla purificata, volle a sé congiunta e soggetta nell’amore e nella fedeltà; che ha, infine, riempito di grazie celesti, “onde potessimo capire la carità di Dio e di Cristo verso di noi, carità che sorpassa ogni conoscenza” (LG 6.5).  Si tratta di immagini tratte in gran parte da S. Paolo.  Messe insieme in poche righe sembrano voler celebrare le massime virtù della Chiesa, sposa immacolata di Cristo.  

 

1. Una Chiesa sempre imperfetta per definizione 

 E tuttavia il capitolo si chiude con una notazione che sembra richiamare di nuovo l’idea di un’imperfezione della Chiesa. Nell’immagine di una Chiesa peregrinante su questa terra e lontana dal Signore, riappare di nuovo la Chiesa che anela ad una perfezione che non possiede, nonostante essa sia la sposa immacolata dell’Agnello.  “Ma mentre la Chiesa compie su questa terra il suo pellegrinaggio lontana dal Signore (cfr. 2 Cor 5,6), è come un esule, e cerca e pensa alle cose di lassù, dove Cristo siede alla destra di Dio, dove la vita della Chiesa è nascosta con Cristo in Dio, fino a che col suo Sposo comparirà rivestita di gloria (cfr. Col 3, 1-4)” (LG 6.5).     

 Una Chiesa, dunque, che “cerca e pensa alle cose di lassù”, come se non possedesse la verità rivelata nel Deposito della Fede, del quale è custode.  Il riferimento a 2 Cor 5,6 mi sembra fuori posto.  Infatti, S. Paolo scrive che noi credenti, in quanto individui costretti ancora a quest’esistenza mortale, “viviamo nel corpo, siamo pellegrini lungi dal Signore”, ma ci tiene in vita la fede, grazie alla quale sappiamo di poter accedere alla “dimora eterna” (2 Cr 5, 1-6).  Non è “pellegrina” la Chiesa, sono “pellegrini” e lontani da Dio i singoli credenti, compresi gli uomini di Chiesa, finché si trovano a lottare in questo corpo mortale.  LG sembra confondere ancora una volta la Chiesa con i suoi membri, attribuire alla prima i limiti che appartengono solo ai secondi.  Siamo noi i “pellegrini” nel pensiero di S. Paolo, non la Chiesa in quanto tale.  Ugualmente male usato mi sembra il passo di Col 3, 1-4, che concerne noi credenti, uti singuli, non la Chiesa, non il Corpo Mistico.  È un passo famoso, nel quale S. Paolo incita i cristiani a vivere per il cielo in ogni momento della loro vita.

“Se dunque siete risuscitati con Cristo, cercate le cose del Cielo, dov’è Cristo, assiso alla destra del Padre:  aspirate alle cose di lassù e non a quelle che son sulla terra.  Voi, infatti, siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio.  Ma quando comparirà Cristo, che è la vostra vita, allora anche voi apparirete con lui nella gloria”(Col 3,1-4).  Commenta l’edizione della CEI del 1963:  “Vedi Rm 6,11.  Il Battesimo ci fa morire al mondo del peccato, dà una vita nuova partecipata a noi dal nostro capo glorioso, Cristo”.  E quella del 1974: ”La nuova vita cristiana nasce dalla mistica unione del battezzato  con Cristo e, per lui, con Dio”.  Da questi commentari risulta che il passo si riferisce al singolo credente non alla Chiesa.  Il passo che può creare difficoltà è quello in cui si dice che il cristiano “è morto e la sua vita è nascosta con Cristo in Dio”.  Grazie al Battesimo siamo morti al peccato.  Se viviamo da buoni cristiani possiamo dire di esser comunque morti al peccato e che in noi è nato l’uomo nuovo.  Ma la vita di quest’uomo nuovo è ancora “nascosta con Cristo in Dio”. Solo Cristo e Dio la conoscono per ciò che essa effettivamente è; diventerà di pubblico dominio nel giorno del Giudizio universale, quando i Giusti appariranno con Cristo nella sua Gloria.  I cristiani non devono dunque scoraggiarsi, se la ricompensa eterna appare lontana, mentre sono ancora qui, a lottare sulla terra:  devono comunque avere il pensiero fisso “alle cose di lassù”, alla vita eterna, l’unica cosa che conti.

  L’immagine dell’esilio da Dio si può forse applicare alla Chiesa di Cristo?  Si potrà applicare ai singoli credenti, “in esilio” rispetto alla Patria celeste finché vivono in questo mondo, non alla Chiesa, se essa è il Corpo Mistico di Cristo.  Se Cristo ne è il Capo, il Corpo non può essere “in esilio” da Lui.  Finché la Chiesa conserva la purezza del Deposito della Fede essa gode dell’assistenza dello Spirito Santo e allora come può peregrinare “lontana dal Signore” come se fosse “esule”? 

L’immagine di una Chiesa dalla santità imperfetta [!] è ripresa negli ultimi due paragrafi di LG 8.  Sembra che il Concilio (la fazione progressista che vi si è imposta) tenesse in modo particolare a sottolineare questo singolare concetto.  Il soggetto del quale si sta parlando qui, non dobbiamo dimenticarlo, è sempre la Chiesa di Cristo che sussiste nella Chiesa cattolica e negli “elementi” acattolici al di fuori di essa.

LG 8.3 ricorda giustamente come Nostro Signore abbia “compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni” ragion per cui la Chiesa (di Cristo) “non è costituita per cercare la gloria terrena bensì per diffondere, anche col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione” (LG 8.3).  Perciò, come Cristo è venuto “ad annunciare la buona novella ai poveri, a guarire quei che hanno il cuore contrito” (Lc 4,18), “a cercare e salvare ciò che era perduto”(Lc 19,10), allo stesso modo “la Chiesa circonda d’affettuosa cura quanti sono afflitti dall’umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di sollevarne l’indigenza e in loro cerca di servire il Cristo”(ivi).

Nel riferimento ai “poveri”, senza ulteriori determinazioni, qualcuno ha voluto scorgere uno scivolone verso la c.d. “teologia della liberazione” dal momento che il testo, non menzionando i “poveri nello spirito” cioè coloro che avranno “il Regno dei Cieli” (Mt 5,1) perché vivono in spirito di povertà, che è spirito di mitezza, di giustizia, di misericordia (Mt, 5 passim), sembra ridurre la missione di Cristo ad una sorta di apostolato sociale cui la Chiesa deve ispirarsi, privilegiando appunto i “poveri” e i “sofferenti” (in pauperibus et patientibus). Soprattutto in loro si rifletterebbe l’immagine di Nostro Signore “povero e sofferente” (pauper et patiens).  Ora, si è sempre vista l’immagine di Cristo anche nel “povero”, in senso materiale, come sembra sia il caso qui, e nel “sofferente” per la povertà stessa, in colui che la subisce.  Ma si è sempre saputo che Nostro Signore è venuto a “guarire” tutti gli uomini dal peccato, più che ad alleviare le sofferenze dei poveri, che pur vanno alleviate, per quanto possibile.  Lo ricorda il Concilio stesso, citando Lc 4,18:  “[sono venuto] a guarire [sanare] quei che hannno il cuore contrito”.  E chi sono quelli che “hanno il cuore contrito”?  I poveri, gli indigenti? No.  Sono i peccatori in generale, che già soffrono interiormente per i loro peccati: e i peccatori sono presenti in tutti gli strati della società (“Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori”- Mc 2,18).

Non ci sono peccatori anche tra i poveri, gli indigenti?  Ci sono di certo anche tra di loro e sarebbe un grave errore trasformare i poveri in giusti per il solo fatto di essere poveri.  “Va offerto pertanto conforto a chi arde nel forno della miseria; mentre è salutare il timore incusso a quelli che il conforto della gloria terrena rende superbi [con citazione di Lc 6,24: “Guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione”].  È vero, infatti, che i  poveri posseggono ricchezze invisibili e i ricchi non possono conservare le ricchezze che posseggono.  Tuttavia, la varietà dei caratteri riesce persino a trasformare la categoria delle persone, tal che è possibile trovare un ricco umile e un povero superbo.  Il discorso va, pertanto, rapportato alla condotta di chi ascolta.  Sarà duro nel colpire la superbia del povero, non giustificata dalla povertà.  Sarà, invece, dolcissimo nel lodare l’umiltà dei ricchi, se non li inorgoglisce l’esaltante abbondanza”[33].

Non mi sembra si possa dire che LG 8.3 adotti una prospettiva simile a quella della teologia della liberazione.  Tuttavia, sembra privilegiare “i poveri e sofferenti” come oggetto dell’attività della Chiesa, con la conseguente (implicita) elevazione dell’attività di assistenza sociale e umanitaria della Chiesa a scopo essenziale della Chiesa stessa.  Il che non può essere perché l’assistenza materiale ai poveri (e ai malati), per quanto di grande importanza per gli assistiti e per la società, non costituisce lo scopo fondamentale della Chiesa, che resta sempre quello di “guarire quelli che hanno il cuore contrito”, di curare le anime non i corpi, cioè di convertire i peccatori, ricchi o poveri che siano, strappandoli al “Principe di questo mondo”.

La “povertà” e la “sofferenza” di Nostro Signore sono poi le stesse dei poveri?  Il paragone è tradizionale ma va inteso nei suoi giusti termini.  Gesù di Nazareth, secondo la Tradizione, aiutava il padre putativo, S. Giuseppe, nella sua bottega di falegname: un mestiere valido, dignitoso, sufficiente a far vivere decorosamente la famiglia.  La povertà fu scelta da Gesù quando cominciò la sua missione, che comportava una vita da predicatore itinerante, con il suo piccolo seguito, affidati entrambi al buon cuore di seguaci, amici e parenti.  La scelta della povertà era un portato necessario della sua missione, impossibile senza il pieno distacco – anche esteriore – dai beni di questo mondo, rimessi all’aiuto della Provvidenza per le esigenze giornaliere dell’esistenza.  In tal modo Nostro Signore ha rivalutato il significato della povertà, togliendola dallo stolto disprezzo con il quale era considerata, senza per questo farne un oggetto privilegiato della sua predicazione.  Tant’è vero che né Lui né gli Apostoli incitano alle riforme sociali o, peggio, alla rivoluzione in nome dei “diritti” dei poveri (dei loro “diritti umani” si direbbe oggi).  La condizione dei poveri e degli schiavi deve piuttosto esser alleviata convertendo i ricchi alla carità cristiana e quindi a forme sociali via via più giuste (Ef 6, 5-9). 

In LG 8.3 ritorna il tema della “santità imperfetta” della Chiesa, agganciato inaspettatamente all’attività della Chiesa che vuole alleviare l’indigenza dei poveri, cercando così di “servire Cristo”.  Ho già citato il passo. Mentre Cristo “santo, innocente, immacolato” non conobbe il peccato e venne solo allo scopo di espiare i peccati del popolo, “la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamente” (LG 8.3).  Il “servire Cristo” della Chiesa è dunque sempre imperfetto.  Per le inevitabili carenze dei singoli?  No.  Perché è la Chiesa stessa ad aver sempre bisogno di “purificazione”, mediante una “penitenza” ed un “rinnovamento” continui.  La Chiesa è dunque “santa” ma in modo imperfetto.  Ma può esistere una santità “imperfetta”, mi chiedo di nuovo?  Che significa? 

Nell’ultimo paragrafo, LG 8.4,  l’argomento si chiude ripresentando due temi peculiari al Concilio: la virtù salvifica del Cristo glorioso (vedi infra, cap. VII, § 2) e (di nuovo) l’imperfezione della Chiesa.  Si scrive che è “dalla virtù del Signore risuscitato” (non dalla virtù della Croce) che la Chiesa (di Cristo) trae la forza per superare tutte le difficoltà che le vengono dall’esterno e dall’interno, e “per svelare in mezzo al mondo, con fedeltà, anche se non perfettamente [licet sub umbris], il mistero di lui, fino a che alla fine dei tempi esso sarà manifestato nella pienezza della luce”.

Ma su questa raccolta di immagini della Chiesa mi sembra doveroso fare altre due  osservazioni.

 

2. L’inserimento equivoco delle immagini di Israele nelle immagini della Chiesa

La prima riguarda l’inserimento dell’immagine di Israele nelle immagini della Chiesa.  Dopo aver ricordato che per S. Paolo la Chiesa è come il podere o campo di Dio, il testo così prosegue:  “In quel campo cresce l’antico olivo, la cui santa radice sono stati i patriarchi e nel quale è avvenuta e avverrà la riconciliazione [reconciliatio facta est et fiet] dei Giudei e delle Genti (cfr. Rm 11,13-26)”.  L’antico olivo, ci insegna S. Paolo nell’epistola citata, è Israele, dal quale sono stati però tagliati i rami secchi (i Giudei increduli, persecutori di Cristo) e nel quale sono stati inseriti quelli nuovi, rappresentati dai pagani che si sono convertiti a Cristo.  Ma un giorno, che solo Dio conosce, quando sarà entrata “la totalità dei Gentili” anche “tutto Israele si salverà” (ivi, 25-26), profezia che finora non si è avverata e che è stata sempre intesa nel senso di una conversione in massa degli Ebrei alla fine dei tempi, poco prima della Parusìa o ritorno di Cristo nella Gloria, come Giudice dell’intero genere umano.

La Chiesa è dunque cresciuta sulle “radici” dell’antico olivo rappresentato dalla fede degli Ebrei (ivi, 11,17).  Non è chiaro, tuttavia, come “l’antico olivo” possa crescere “nel campo” ossia nella Chiesa, restando “antico olivo”.  Né come sia possibile che “la riconciliazione” dei Giudei coi Gentili, profetizzata da S. Paolo, sia anche (già) “avvenuta”.  È corretto dire che “avverrà”, secondo quanto ci annuncia S. Paolo (e non con il c.d. “dialogo” ma con la “conversione” spontanea dell’intero Israele).  Ma appare del tutto incomprensibile affermare che essa sarebbe anche “avvenuta”.  Quando sarebbe avvenuta?  Se i Cristiani, per restare sempre a S. Paolo, sono i rami nuovi innestati dallo Spirito Santo al posto dei vecchi tagliati via, ciò non può certamente considerarsi una “reconciliatio”.  La sostituzione della Chiesa di Cristo all’Israele della carne non rappresenta di sicuro una “riconciliazione” con l’Ebraismo.  L’antitesi è radicale perché solo la Chiesa è ora il vero “Israele di Dio”.  La riconciliazione avverrà solo con la conversione di “tutto Israele”, alla vigilia della fine dei tempi.  E che ci debba essere questa conversione finale, quando gli Ebrei si renderanno conto del loro errore nei confronti di Cristo allorché Dio avrà fatto cadere “il velo” che ancora oscura loro la vista (2 Cr 3,16) – ciò è perfettamente logico, ci spiega S. Paolo, dal momento che Dio “non ha rigettato il suo popolo”, che gli è rimasto caro, per le promesse fatte ai Padri. Non avendolo rigettato, concederà che un giorno il suo “accecamento” finisca (Rm, 11, 1 ss., 28-29, et passim).  Finché Israele non si convertirà, riconoscendo in Cristo il Messia, il mondo non finirà.  Il concetto espresso da S. Paolo è chiaro: il fatto che Dio abbia mantenuto “l’elezione” di Israele significa che gli concederà la conversione, non significa che l’attesa messianica dell’Israele della carne possa considerarsi ancora valida, in contraddizione con la teologia della sostituzione.

Ma l’inserimento dell’immagine dell’antico olivo nelle immagini della Chiesa, come fatto da LG 6, è coerente con il senso evidente e tradizionale dell’insegnamento di S. Paolo o non sembra produrre una discreta confusione?  Confusione perché si parla di una riconciliazione che sarebbe già “avvenuta” quando l’Ebraismo resta sempre ostile a Cristo mentre si evita di specificare che la riconciliazione può avvenire solo in seguito alla conversione degli Ebrei.  Nella dichiarazione conciliare Nostra Aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, come si è visto nell’Introduzione di questo lavoro, viene ripetuto questo concetto di una riconciliazione tra Ebrei e Gentili che sarebbe già avvenuta per mezzo della Croce, grazie alla quale Cristo ha fatto dei due una sola cosa in sé stesso (NAet 4.3).  Ma il testo di S. Paolo che si cita (Ef 2, 14-16) ancora una volta, ribadisce che la “riconciliazione” ha luogo solo con la conversione di entrambi al Cristianesimo.  Dice infatti l’Apostolo delle Genti ai pagani convertiti:  un tempo voi eravate “all’infuori di Cristo” cioè ancora pagani nonché “esclusi dalla cittadinanza d’Israele ed estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo”.  Si intende: esclusi dalla cittadinanza divina d’Israele, popolo eletto con “i patti della promessa”.  Ma grazie a Cristo, al quale vi siete convertiti, “voi che eravate lontani siete diventati vicini nel sangue di Cristo”.  “Vicini”, a chi?  Agli Ebrei che hanno rifiutato Cristo e perseguitano i suoi seguaci?  Non può essere.  “Vicini” a Cristo ossia agli Ebrei convertiti. L’ebreo che ha riconciliato i Gentili con gli Ebrei è Cristo stesso, il Messia nel quale l’Ebraismo trova il suo compimento finale.  Cristo “è la nostra pace” perché “ha fatto delle due cose [Ebrei e Gentili] una sola, togliendo di mezzo il muro che li separava, cioè l’inimicizia”; infatti, “nella sua carne annullò co’ suoi precetti la Legge delle prescrizioni [giudaiche], al fine di ridurre in sé stesso, artefice di pace, i due in unico uomo nuovo [il Cristiano], e riconciliarli entrambi in un corpo unico a Dio [la Chiesa di Cristo] per mezzo della croce, uccidendo in sé ogni inimicizia”[34].  Le “due cose” diventano una sola nell’”uomo nuovo” rappresentato dal Cristiano, verità che, a mio avviso, non compare affatto nei passi del Concilio analizzati, che utilizzano S. Paolo in un modo che mi sembra alquanto ambiguo.  La “riconciliazione” paolina è unilaterale, va in una direzione sola ossia può aver luogo solo nella vera Ecclesia Dei, alla quale verranno un giorno tutti gli Ebrei.

Nell’inserimento equivoco dell’immagine dell’antico olivo tra le “immagini della Chiesa” appare quella che a me sembra una sopravvalutazione dell’Antico Testamento da parte dei Novatori.  Mi sembra presente in Dei Verbum 16, articolo nel quale si parla di “unità dei due Testamenti”, scrivendo: “[…] i libri del Vecchio Testamento, integralmente assunti nella predicazione evangelica, acquistano e manifestano il loro pieno significato nel Nuovo Testamento (cfr. Mt 5, 17 etc.), che essi a loro volta illuminano e spiegano [illudque vicissim illuminant et explicant]”. È vero che da certi passi dell’Antico si possono comprendere meglio alcuni del Nuovo Testamento (vedi infra, cap. XVII, § 5).  Ma non è azzardato affermare come principio generale e assoluto che i libri dell’Antico Testamento, in quanto tali, “a loro volta illuminano e spiegano” quelli del Nuovo? E per di più in blocco?  E questo della totale reciproca “illuminazione e spiegazione” dei due Testamenti è diventato una sorta di dogma ermeneutico!  Non si sente qui l’infiltrazione  della “falsa esegesi” (dei Nuovi Teologi) condannata da Pio XII nella Humani generis?  Esegesi “chiamata simbolica e spirituale”, secondo la quale “i libri del Vecchio Testamento, che oggi nella Chiesa sono una fonte chiusa e nascosta, verrebbero finalmente aperti a tutti” risolvendo una volta per tutte [!] le difficoltà di chi si attiene al senso letterale delle Scritture?[35]

L’apertura dell’Antico Testamento al popolo l’ha fatta la montiniana Messa del Novus Ordo, che ne offre regolari estratti nella domenicale Liturgia della Parola.  Come dimenticare l’autentico martirio che subiscono quei Sacri Testi, affidati alla lettura di laici più o meno volonterosi, maschi e femmine che quasi mai danno l’impressione di capire quello che stanno leggendo?  Non che la lettura dei contigui passi del Nuovo Testamento migliori di molto la situazione, ovviamente, peggiorata poi ulteriormente dal pistolotto a sfondo social-umanitario nel quale si rifugia in genere la predica dell’officiante, smarrito di fronte alla mole di Vecchio e Nuovo Testamento che gli viene propinata, per esser da lui trasfusa in qualche modo nel sermone.

 

3. La scelta delle immagini mostra continuità con AeU?  

La seconda osservazione è di carattere più generale.  Da tutto questo florilegio emerge un’immagine della Chiesa che sia in armonia con quella proposta dallo schema Aeterni Unigenitus?  In quest’ultimo, l’immagine prevalente era sempre quella della Chiesa militante, inquadrata nel Corpo Mistico di Cristo.  Ora il carattere militante della Chiesa non viene più ricordato, con conseguente scomparsa delle immagini connesse, ricavate da S. Paolo e dal Vangelo di Giovanni:  la milizia, il cristiano come soldato di Cristo, la lotta contro sé stessi e il mondo, il combattimento, anche come competizione dell’atleta (il Cristiano atleta di Cristo).  Tutto questo lo si considera ormai anticaglia: la Chiesa non ha nemici e non ne hanno nemmeno i Cristiani.  Si vuole evidentemente rinnegare ogni immagine che implichi l’idea di lotta, combattimento, nemico da affrontare (anche dentro di sé), contrapposizione radicale con il mondo “regno del principe di questo mondo”:  insomma, ogni immagine che individui la Chiesa come “segno di contraddizione” nei confronti del mondo, esponendola all’odio e alla persecuzione. 

Inoltre, AeU precisa che le “immagini” della Chiesa realizzano sempre una sintesi tra l’elemento “mistico” e quello “sociale”.  La sintesi tra i due aspetti (Chiesa visibile ed invisibile) sembra essersi persa in LG, dal momento che sembra prevalervi l’elemento “mistico”, nel senso però di misterico; o, in modo affine, spirituale nel senso di uno “Spirito” dai tratti tendenzialmente indefiniti.  Un’ulteriore differenza con lo schema rigettato è data dal fatto che attraverso una certa lettura delle immagini della Chiesa si insinua una ambigua rappresentazione dell’Ebraismo da un lato e del Sovrannaturale dall’altro.

L’immagine resta nel campo puramente simbolico solo per modo di dire, dato che vi compare sempre il modo nel quale si intende la cosa concreta, vale a dire il concetto di Chiesa che dette immagini vogliono rappresentare.  Tale concetto, come inteso da LG, si precisa ulteriormente nell’analisi del concetto di Corpo Mistico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VII.  UN “CORPO MISTICO” (LA CHIESA) INCENTRATO SUL CRISTO, CHE HA GIÀ REDENTO L’UOMO CON LA SUA INCARNAZIONE, MORTE E RESURREZIONE? 

 

 

Vengo pertanto all’ultimo articolo della Lumen gentium, tra quelli che precedono il famoso n. 8.  Qui viene riproposto il concetto del Corpo Mistico che, come si è visto, costituiva il cuore dell’argomentazione di Aeternus Unigeniti.

Il testo di LG 7, che si intitola : La Chiesa, corpo mistico di Cristo, è molto più ampio.   Dell’impostazione di AeU sembra esser rimasto poco o nulla.  In apertura, si connette l’unione mistica del Corpo di Cristo nello Spirito Santo con la redenzione dell’uomo.  Quest’ultima, però, è presentata come se fosse avvenuta direttamente con l’Incarnazione, Morte e Resurrezione di Nostro Signore.  Già avvenuta, sembrerebbe, come la “riconciliazione” tra Ebrei e Cristiani.

“Il Figlio di Dio, unendo a sé la natura umana e vincendo la morte con la sua morte e resurrezione, ha redento l’uomo e l’ha trasformato in una nuova creatura (Gal 6,15; 2 Cr 5,17).  Comunicando infatti il suo Spirito, costituisce misticamente come suo corpo i suoi fratelli, che raccoglie da tutte le genti”(LG 7.1). 

 

1. La redenzione direttamente da Cristo, indipendentemente dalla Chiesa? 

Di questo periodo non sono riuscito a trovare un aggancio nello schema Aeternus Unigeniti, in particolare della sua prima frase.  La seconda ripropone in generale la “comunicazione” dello Spirito Santo, in quanto costitutiva del Corpo Mistico.  Le due frasi sono collegate dallo “infatti” (enim).  Se si guarda bene, tuttativa, il loro nesso non è così lineare come potrebbe sembrare a prima vista.  Si afferma perentoriamente e senza sfumature che il Figlio di Dio con l’Incarnazione, la sua Morte e la sua Resurrezione “ha redento l’uomo e l’ha trasformato in una nuova creatura”.  E ciò risulta dal fatto (“infatti”) che ha comunicato il suo Spirito ai “suoi fratelli” ovvero agli uomini (Eb 2,11-18), in tutte le genti, costituendoli “misticamente come suo corpo”.

      Il Cristo costituisce dunque gli uomini “suoi fratelli” in un corpo mistico, inviando lo Spirito Santo.  La redenzione, noi sappiamo, può aver luogo solo nel Corpo Mistico che è la Chiesa. E la Chiesa è nata con la Pentecoste, con l’invio dello Spirito Santo.  Anteriormente, essa era già cominciata con la predicazione di Nostro Signore e l’invio delle prime “missioni” degli Apostoli.  Ma solo con l’effusione dello Spirito Santo si ha la compiuta formazione della Chiesa, come Corpo Mistico di Cristo.  Ma se si dice che Cristo con l’Incarnazione, Morte e Resurrezione ha redento l’uomo, ciò non significa dire che la redenzione, che trasforma l’uomo in una nuova creatura, ha avuto luogo prima dell’invio dello Spirito Santo, cioè prima della nascita della Chiesa?  E se le cose stanno così, allora non si spiega l’”infatti” della seconda frase, che sembra invece attribuire la redenzione all’azione dello Spirito Santo che costituisce il Corpo Mistico, quindi posteriormente all’Incarnazione, Morte e Resurrezione del Signore.

Ma andiamo a vedere i riferimenti scritturali paolini della prima frase:  Gal 6,15 e 2 Cr 5,17. La perìcope della Lettera ai Galati si trova nella chiusura della lettera.  Polemizzando con i Giudaizzanti, che volevano far circoncidere i Galati convertitisi al Cristianesimo perché a loro erroneo giudizio i Cristiani dovevano continuare ad osservare le pratiche giudaiche, S. Paolo ribadisce che l’unica cosa che conta è l’essere “una creatura nuova” ossia convertito a Cristo nella fede e nelle opere.  “Quanto a me sia lungi il gloriarmi d’altro che della croce del Signor nostro Gesù Cristo, per la quale il mondo è stato per me crocifisso, e io pel mondo.  Né la circoncisione ha valore, né l’essere incirconciso; ma l’essere una creatura nuova” (Gal 6,14-15).  Non contano le pratiche formali, quali che siano, giudaiche o altre:  conta l’esser un vero seguace di Cristo, vivere effettivamente come “l’uomo nuovo” che il Battesimo fa nascere in noi.  E questo è possibile solo nella Chiesa ovvero mettendo in pratica gli insegnamenti (nella fattispecie) di S. Paolo, attraverso il quale parla il Signore.   L’altro testo è tratto da 2 Cr 5,17.  Esso recita:  “Sicché, se uno è in Cristo, è una creatura nuova, quel ch’era vecchio è sparito, ecco è sorto il nuovo”.  Solo se uno “è in Cristo” può essere “la creatura nuova”, richiesta dallo stesso Cristo (Gv 3,5).  Che vuol dire “se uno è in Cristo” (óste ei tís en Christô)?  Se uno si è convertito, si è fatto cristiano, entrando nella Chiesa o Corpo Mistico.  Solo a questa condizione può diventare un “uomo nuovo”.  Nuovo, si intende, sempre nel senso voluto da Nostro Signore. 

Ora, da questi due testi dell’Apostolo delle Genti si ricava forse l’impressione che l’uomo sia stato redento e trasformato “in una nuova creatura” direttamente dall’Incarnazione, Morte e Resurrezione di Nostro Signore?  Secondo me, no.  S. Paolo si limita a dire che ognuno di noi può essere la “creatura nuova” desiderata da Cristo, solo “se è in Cristo”, cioè se vive da buon cristiano, in pensieri, parole e opere, obbedendo ai precetti della Chiesa.  E questo non è possibile se non si fa parte della Chiesa o Corpo Mistico di Cristo. 

L’apertura di LG 7 presenta dunque un tratto decisamente nuovo rispetto ad AeU, un tratto che fa difficoltà perché sembra suggerire l’idea di una redenzione attuata direttamente dal Cristo con l’Incarnazione, Morte e Resurrezione, prima ancora della nascita della Chiesa da Lui fondata ad opera dello Spirito Santo.  Fa difficoltà, questo tratto, perché  richiama alla mente il “pancristismo” di blondeliana memoria (ripreso da de Lubac e Teilhard de Chardin) secondo il quale il Cristo con l’Incarnazione, Morte e Resurrezione avrebbe già salvato il mondo, senza bisogno della Chiesa[36].

Ma vediamo ora rapidamente gli elementi essenziali del Corpo Mistico secondo LG 7.  Lo stile dell’argomentazione è simile a quello di LG 6 sulle immagini della Chiesa.  Anche qui le immagini abbondano e abbondano anche le ripetizioni (una costante nel prolisso argomentare del Vaticano II).  Le immagini sono ovviamente tradizionali come pure i concetti che ad esse si ricollegano, le une e gli altri ricavati in genere da S. Paolo.  Bisogna però vedere come vengono utilizzati, per affermare quale concetto di Corpo Mistico.

La “vita di Cristo” si diffonde nel Corpo di Cristo ai credenti attraverso i Sacramenti, mediante i quali i credenti “si uniscono in modo arcano e reale a lui sofferente e glorioso” (LG 7.2).  Quest’affermazione sulla presenza del Cristo glorioso nei Sacramenti si appoggia su una citazione di S. Tommaso, della quale parlerò tra breve.  Il Battesimo ci rende conformi a Cristo, tramite il Battesimo siamo simbolicamente uniti a Lui nella Morte e Resurrezione (Rm 6, 4-5).  Nell’Eucaristia “siamo elevati alla comunione con lui e tra di noi”; l’Eucaristia è simbolo di unità, essa crea un solo corpo (concetto già visto in LG 3).

Nel Corpo Mistico di Cristo “vige una diversità di membri e di offici” (LG 7.3).  Ma “uno è lo Spirito”, che “distribuisce la varietà dei suoi doni con magnificenza proporzionata alla sua ricchezza e alla necessità dei ministeri. Tra i doni “eccelle quello degli apostoli” cioè le grazie loro conferite.  Lo Spirito “produce e stimola la carità tra i fedeli” (ivi).  Nel penultimo paragrafo (LG 7.7), si riprende il discorso sullo “Spirito”, utilizzando l’immagine agostiniana dello Spirito Santo come “anima” del Corpo Mistico, già presente nel Magistero precedente e da ultimo in AeU, come si è visto.  E nell’ultimo paragrafo (LG 7.8) si ripete l’immagine della Chiesa come “sposa di Cristo”.

Dopo essersi soffermato sullo Spirito Santo, il testo si concentra sulla figura di Cristo stesso, “capo” del Corpo Mistico, “che è la Chiesa”.  Sono elencati molti degli attributi del Cristo che si desumono dalle lettere di S. Paolo.  Egli “è l’immagine dell’invisibile Dio e in lui tutto è stato creato.  Egli è anteriore a tutti, e tutte le cose sussistono in lui.  È il capo del corpo, che è la Chiesa.  È il principio, il primo nato di tra i morti, affinché abbia il primato in tutto”(Col 1,15-18)”(LG 7.4).  Il testo omette dalla citazione della Lettera ai Colossesi la pericope nella quale si afferma che “tutto per mezzo di lui e in vista di lui fu creato [omnia per ipsum, et in ipso creata sunt]” (ivi, 1,16):  omette il passo dal quale appare con chiarezza che il Verbo ha creato il mondo, dal quale risulta con maggior forza la sua natura divina.

Cristo “domina sulle cose celesti e terrestri” e “riempie delle ricchezze della sua gloria tutto il suo corpo”.  Perciò “tutti i membri devono conformarsi a lui, finché Cristo non sia in essi formato”.  Siamo pertanto “collegati ai misteri della sua vita” finché con Lui regneremo.  Nella nostra peregrinazione terrena, veniamo associati alle sue sofferenze e “soffriamo con lui per essere con Lui glorificati”(Rm 8,17)”(LG 7.5).  Nel suo corpo, “che è la Chiesa”, Egli dispensa continuamente “i doni dei ministeri”.  Grazie ad essi, “ci aiutiamo vicendevolmente a salvarci” e andiamo “crescendo verso colui che è il nostro capo”(LG 7.6).  Segue infine il richiamo all’azione “del suo Spirito”, del quale ci ha resi “partecipi”, che è “l’anima” della Chiesa, ed il paragrafo finale, dedicato alla Chiesa.  La Chiesa, sposa di Cristo, gli è soggetta come al suo Capo.  Cristo riempie la Chiesa dei suoi doni – essa che è il suo Corpo e la sua pienezza (Ef 1,22-23) – affinché essa sia protesa e pervenga alla pienezza totale di Dio [omnem plenitudinem Dei] (Ef 3,19).  Pienezza totale che, evidentemente, la Chiesa ancora non possiede.  Tuttavia, sono costretto a ricordare che anche in quest’ultima perìcope, S. Paolo si riferisce ai singoli fedeli non alla Chiesa:  egli prega Dio perché conceda loro la grazia della fede, in modo che essi possano comprendere tutta la portata dell’amore di Cristo, “che sorpassa ogni scienza, affinché siate ripieni di tutta la pienezza di Dio” (Ef 3, 14-19).

 Della frase di apertura di LG 7 e delle difficoltà che essa comporta, ho già detto.  Voglio sottolineare un uso a mio avviso non convincente dell’autorità di S. Tommaso al fine di far dipendere l’azione salvifica dei Sacramenti anche dal Cristo glorioso. 

 

2. Uso improprio di un passo di S. Tommaso  

Vengo quindi a LG 7.2, nel quale si nominano i Sacramenti citando a sostegno S. Tommaso in nota, in modo da dar l’impressione  che l’opinione espressa nel testo sia fondata sul pensiero dell’Angelico.  Di cosa si tratta?  Del fatto che, nel ricordare la funzione dei Sacramenti nel “Corpo di Cristo”, si ribadisce che i credenti mediante i Sacramenti “si uniscono in modo arcano e reale a Lui sofferente e glorioso”.  Dov’è il problema, si chiederà il lettore.  La frase non è forse corretta, dal punto di vista dogmatico?  Lo è, ma l’aggettivo “glorioso” aggiunto a “sofferente”, sulla supposta autorità di S.Tommaso, non introduce una nota ambigua?  Il “glorioso” vorrebbe dire che nei Sacramenti, quali ad esempio la S. Comunione, noi celebriamo, oltre al Cristo sofferente, anche il Cristo nella Gloria e quindi che la S. Comunione ricava il suo significato non solo dal Sacrificio della Croce ma anche e in pari modo dalla Resurrezione.  Il che non è, perché tra le due c’è un rapporto di causa ed effetto[37].  E non lo è nemmeno per S. Tommaso, così come non lo è nella Messa cattolica di sempre.  La Resurrezione è sì nominata nella S. Messa di Rito Romano Antico (detta impropriamente Tridentina), ma solo nell’Anàmnesi, ossia nella preghiera che, immediatamente dopo la Consacrazione, dichiara espressamente che il S. Sacrificio della Messa ricorda e rappresenta quello della Croce:  ”..ricordando la beata passione del medesimo Cristo tuo Figliolo, nostro Signore, la sua resurrezione dai morti, e la sua gloriosa ascensione in cielo, offriamo all’eccelsa tua maestà, delle cose che ci hai donate e date, l’Ostia pura, l’Ostia santa, l’Ostia immacolata, il Pane santo della vita eterna e il Calice della perpetua salute”. 

Questa preghiera viene ancora letta nella Messa del Novus Ordo, subito dopo la Consacrazione del vino.  Tuttavia, la formula della consacrazione è stata cambiata.  Ora essa recita:  “Prendetene e bevetene tutti:  questo è il calice del mio sangue per la Nuova ed eterna Alleanza, versato per voi e per molti in remissione dei peccati.  Fate questo in memoria di Me”.  Sono state tolte le parole: “mistero della fede”, che ora vengono pronunciate subito dopo dal celebrante e alle quali il popolo risponde:  “Annunziamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua resurrezione, nell’attesa della tua venuta”.  Il “mistero della fede” graviterebbe ora nel senso della Resurrezione e dell’attesa per la venuta (finale) di Nostro Signore nella Gloria.  Prospettiva gloriosa ed escatologica, che tende a prevalere su quella del significato satisfattorio e propiziatorio della Messa, come dimostrato dall’interpretazione largamente diffusa della Messa come “far memoria del Signore Risorto” (vedi supra) e anche dal fatto che il “molti” della Consacrazione è stato sostituito arbitrariamente da “tutti” in quasi tutti i vernacoli e solo parzialmente restaurato dopo l’intervento ad hoc di Benedetto XVI, alcuni anni fa.  Nel canone dell’Ordo romano antico, che secondo la Tradizione risale ai tempi apostolici, il senso del “mistero della fede” è connesso, invece, esclusivamente alla “remissione dei peccati” ossia al significato satisfattorio e propiziatorio del Sacrificio della Messa, che rinnova in modo incruento quello della Croce :  “Poiché questo è il calice del Sangue mio, della nuova ed eterna alleanza – mistero della fede – il quale sarà sparso per voi e per molti in remissione dei peccati”.     

 Andando a leggere il capitolo della Summa citato dal Concilio, si vede che per l’Angelico è la Passione del Signore a conferire ai Sacramenti il loro autentico significato salvifico, non la sua Resurrezione.

Si tratta di Summa theologiae III, q. 62, a. 5, ad 1.  L’art. 5 della questione 62 si occupa del seguente problema:  “Se i sacramenti della nuova legge ricavino la loro virtù dalla passione di Cristo”. 

Elencate tre opinioni contrarie ed una favorevole (desunta da Rm 5 col commento della Glossa ordinaria), S. Tommaso prende nettamente posizione per quella favorevole.  Il Sacramento, scrive, “opera per causare la grazia alla maniera di uno strumento”.  Uno “strumento” va inteso in modo duplice:  “come realtà separata, p.e. un bastone (baculus), o come realtà collegata ad un’altra, p.e. la mano.  Lo strumento “separato” è mosso da quello “collegato”(coniunctum), come nel caso del bastone impugnato dalla mano.  “Ora, Dio stesso è la causa efficiente principale della grazia.  L’umanità di Cristo è paragonata a Dio come uno strumento che gli è congiunto, mentre il sacramento è inteso come strumento separato.   Ne consegue pertanto che la “vis salutifera” deriva dalla divinità di Cristo operante grazie alla sua umanità nei sacramenti stessi [Et ideo oportet quod virtus salutifera derivetur a divinitate Christi per eius humanitatem in ipsa sacramenta].  La grazia sacramentale mira essenzialmente a due cose: ad eliminare i guasti [defectus] del peccato e a perfezionare l’anima nelle cose che riguardano il culto di Dio.  Ma è indubbio che Cristo ci ha liberati dai nostri peccati soprattutto [praecipue] con la sua passione”. E non solo efficaciter, ossia con l’efficacia di un’azione effettivamente causale, in quanto “strumento della divinità” le cui azioni operano tutte per la salvezza dell’uomo; non solo meritorie, cioè meritando la salvezza per noi in quanto membra della Chiesa di cui è il Capo;  ma anche riparando all’offesa fatta a Dio dal peccato degli uomini (satisfactorie).  Questa soddisfazione in quanto sovrabbondante ci ottiene misericordia da Dio (propitiatio)[38].  Ugualmente, con la sua passione Egli ha iniziato il culto della religione Cristiana, “dando sé stesso [come] oblazione e sacrificio a Dio” [Ef 5,2].  Da tutto ciò risulta in modo evidente che “i sacramenti della Chiesa ricavano in modo particolare la loro virtù dalla passione di Cristo, la cui virtù ci si comunica in qualche modo [proprio] mediante il ricevimento dei sacramenti”: la “virtus remissiva” dei nostri peccati “appartiene in un certo special modo alla sua passione”[39].  

Nella Passione di Nostro Signore, unica sorgente della “virtù” dei sacramenti, vediamo il Cristo “sofferente” non quello “glorioso”, anche se quello “glorioso” è sempre presente perché la Divinità non può esser intaccata dalle sofferenze dell’umanità del Verbo (così come è presente nell’Ostia consacrata, che rinnova però la Passione non la Resurrezione).   Ora, come può il Concilio attribuire a S. Tommaso il concetto che attraverso i Sacramenti i fedeli “si uniscono in modo arcano e reale a lui sofferente e glorioso”, come se per S. Tommaso Passione e Gloria contribuissero in modo uguale al valore salvifico dei Sacramenti?  LG 7.2  richiama una delle tre repliche finali dell’Angelico ai tre argomenti contrari da lui esposti all’inizio dell’articolo 5.  L’argomento contrario, che è il primo dei tre, specula su di una frase di S. Agostino:  “La virtù dei sacramenti consiste nel causare la grazia nell’anima, facendola vivere spiritualmente.  Ma, come dice Agostino nel Commento al Vangelo di Giovanni:  ‘Il Verbo in quanto era in principio presso Dio, vivifica le anime; ma una volta divenuto carne, vivifica i corpi’.  Poiché la passione di Cristo riguarda il Verbo in quanto incarnato [quod est caro factum], se ne conclude che non possa causare la virtù [propria] dei sacramenti”.

Poiché la Passione concerne il Verbo nella carne che aveva assunto, ossia nel corpo, come può essa causare la virtù dei Sacramenti, che consiste nel vivificare l’anima?  Gli effetti salvifici della Passione, mi chiedo, dovrebbero allora restare limitati al corpo di Cristo?  La tesi appare manifestamente assurda. La replica di S.Tommaso (ad 1, contro il n. 1) costituisce il passo cui rinvia il Concilio.

“Contro il primo argomento bisogna dire che il Verbo, in quanto era in principio presso Dio, vivifica le anime come agente principale [sicut agens principale]; tuttavia la sua carne e i misteri che in essa hanno avuto luogo [in ea perpetrata], operano strumentalmente [instrumentaliter] alla vita dell’anima.  Alla vita del corpo, invece, non solo strumentalmente, ma anche con una certa esemplarità, come ho detto sopra”. 

Non si possono separare e contrapporre il corpo e l’anima, come sembrano fare i sostenitori della tesi criticata.  Il Verbo “vivifica” le anime.  Ma in quest’azione concorre anche l’Incarnazione ovvero il corpo assunto dal Verbo, con tutti i misteri che per noi esso presenta, come risultano in particolare dalle vicende della Passione.  L’Eucaristia è un sacramento fondamentale per la nostra salvezza.  Ma senza il “corpo” e il “sangue” di Cristo essa non sarebbe possibile.  Senza il “corpo” e il “sangue” reali del Signore, rinnovati ad ogni Messa in modo incruento dal sacerdote celebrante, nella Consacrazione.  Qui S. Tommaso fa una differenza tra “strumentale” ed “esemplare”.

Che significa “strumentale”?  Lo spiega nella questione n. 56, a. 1, nel replicare a coloro che negano esser la resurrezione di Cristo “causa” della resurrezione dei corpi. 

La “giustizia di Dio, scrive, è la causa prima della nostra resurrezione” mentre “la resurrezione di Cristo è la causa secondaria e come strumentale”.  Perché la “giustizia divina”?  Perché è necessario “che i corpi siano premiati o puniti assieme alle anime, per come reciprocamente presero parte ai meriti o ai peccati [come dissero Dionigi Areopagita e S. Giovanni Damasceno, precisa S.Tommaso nel testo]”.  La giustizia divina, in quanto “virtù dell’agente principale non ha bisogno di determinarsi in modo specifico in questo strumento [Licet autem virtus principalis agentis non determinetur ad hoc instrumentum determinate]”.  Tuttavia, “dato che opera mediante questo strumento, lo strumento stesso è causa di un effetto [instrumentum illud est causa effectus]”. Ora, la giustizia divina non era obbligata ad agire come ha agito, istituendo la nostra resurrezione sul modello di quella di Cristo: poteva “liberarci” (dal peccato) in modo diverso dalla Passione e Resurrezione del Signore.  “Ma poiché ha scelto di liberarci in questo modo, è chiaro che la resurrezione di Cristo è causa della nostra”.

Causa dunque “secondaria” (rispetto alla “giustizia divina”) e “come strumentale” perché è lo “strumento” mediante il quale opera la giustizia divina. Ne consegue che la Passione opera “strumentalmente” alla vita della nostra anima nel senso che è “causa strumentale” e quindi efficiente della sua rinascita, grazie ai Sacramenti che da essa scaturiscono.  “Strumentale” non va inteso come riferito ad una realtà subordinata e quindi ininfluente ma nel senso di ciò che produce il suo effetto pieno perché inserito in un rapporto causale (della causalità efficiente, che, per produrre un effetto, presuppone l’azione di un agente sorretta da uno scopo).  Pertanto S. Tommaso non sembra affatto mettere sullo stesso piano l’azione sulle anime del Verbo presso Dio (Cristo glorioso), che è l’azione di un “agente principale”, e quella “secondaria” e “strumentale” sulle anime da parte del Verbo Incarnato, la cui umanità ha accettato liberamente le terribili sofferenze della Passione (Cristo sofferente). Al contrario, sembra ribadire che l’azione “strumentale” del Cristo sofferente agisce di per sé sulle anime, nella sua propria autonomia di “strumento” della salvezza.

L’azione “esemplare” del Verbo Incarnato nei confronti della “vita del corpo”, riguarda invece il significato esemplare della Resurrezione di Cristo.  Essa è causa efficiente della nostra, per via della “virtù divina, il cui proprio è risuscitare i morti [mortuos vivificare]”; è anche causa “esemplare” perché costituisce il modello o esemplare della nostra individuale resurrezione (e in questo senso, pur risuscitando tutti gli uomini, si applica solo agli Eletti, non a coloro che vanno in perdizione).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VIII.  BILANCIO DEL RAFFRONTO TRA AeU 1-7 E LG 1-8 

 

 

Dalla comparazione dello schema Aeternus Unigeniti 1-7  con la costituzione Lumen Gentium 1-8, cosa concludere?  Abbiamo visto che LG 1-8 rielabora la struttura generale di AeU 1-7, accogliendone delle parti, che ripropongono concezioni tradizionali della Chiesa.  Ma non è certo questo tipo di rielaborazione a costituire i concetti essenziali della dottrina proposta da LG 1-8, che introduce a sua volta elementi nuovi concorrenti tutti ad una concezione della Chiesa che sembra alquanto diversa da quella di AeU 1-7:  non più militante ma misterica ossia aperta al soffio di uno Spirito di tipo (cosiddetto) carismatico, che investe anche le “comunità” degli acattolici, in quanto tali.  Possiamo dire, in coscienza, specchiandoci nella nostra fede di Cattolici, della quale Nostro Signore ci chiederà conto, accanto alle nostre opere, non appena moriremo, che la dottrina sulla Chiesa proposta da LG 1-8 si dimostri in perfetta continuità con quella della Chiesa di sempre, proposta da AeU 1-7?  

Guardiamo alle novità esistenti in LG 1-8, poiché sono esse a fare la differenza. 

1. Vengono accuratamente eliminati tutti i riferimenti di AeU al Primato di Pietro.  Non acquista rilievo il ruolo dei “praepositi” da Cristo sub Petro sin dall’inizio della Ecclesia Dei alla predicazione e al governo della Chiesa. Esso viene ricordato solo in LG 8.2 ma nella Chiesa cattolica dimidiata dal subsistit in. Si ha anche un accenno in LG 7.3, ove si dice che tra i doni dello Spirito “eccelle quello degli apostoli, alla cui autorità lo stesso Spirito sottomette anche i carismatici (1 Cr 14)”.  Si tratta di un riconoscimento generico.  Gli apostoli sono comunque presentati qui come collegio, senza un capo, una gerarchia. 

2. Il Corpo Mistico appare incentrato soprattutto su Cristo, che “ha redento l’uomo e l’ha trasformato in una nuova creatura” già prima della Pentecoste, con la sua Morte e Resurrezione, poste sullo stesso piano quanto al loro significato salvifico. 

3. Il rapporto tra Cristo e lo Spirito Santo nel Corpo Mistico non appare ben delineato come in AeU e risulta anche ambiguo.  Non si ripete che i doni dello Spirito Santo avvengono “secondo la misura di Cristo”. Inoltre, si indebolisce il nesso tra lo Spirito Santo e la Verità Rivelata, visto che lo Spirito Santo si limiterebbe ad introdurci a “tutta la verità”:  prospettiva che di fatto si presta a mettere tra parentesi il dogma del compimento della Rivelazione con la morte dell’ultimo Apostolo e ad aprire la strada all’ambiguo concetto di “tradizione vivente” di cui all’art. 8 della costituzione “dogmatica” Dei Verbum.  La forte enfasi posta sull’opera dello Spirito Santo, che viene però tendenzialmente intesa come l’avvento di un “carisma” che riposa su sé stesso, ha dato ad alcuni la sensazione della presenza di un certo “gioachimismo” negli articoli 2-4 della LG, come se in questi ultimi si riflettesse la ben nota, visionaria tripartizione delle epoche del mondo in età del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: quest’ultima, secondo l’abate calabrese, avrebbe inaugurato un’epoca ultima e definitiva di libertà spirituale, nella quale si sarebbe effusa maggiormente la Grazia. In quest’Età dello Spirito avremmo avuto “la perfetta intelligenza” delle cose, la “libertà”, la “contemplazione”, “l’amicizia”, il mondo sarebbe ringiovanito:  in pratica, la realizzazione (sia pure del tutto spirituale) del Regno di Dio in questo mondo.  Quest’impressione, dell’affermazione di una natura “trinitaria” della Chiesa intessuta alle visioni “trinitarie” del tutto personali di Gioacchino da Fiore, deriva anche dalla presentazione ed esaltazione del Vaticano II quale autentica “Nuova Pentecoste”, quasi il Concilio dovesse inaugurare una nuova Età dello Spirito, foriera di trionfi per la Chiesa ed apportatrice di pace al mondo intero.

4.  Nelle “immagini della Chiesa” si accentua il lato “mistico” o “spirituale” (“pneumatico”) a scapito di quello sociale (della Ecclesia societas, gerarchicamente ordinata) e a scapito dell’idea del carattere “militante” della Chiesa visibile, che scompare completamente, con tutte le sue immagini tradizionali della Chiesa e del credente, come se la Chiesa non avesse nel mondo – regno del Principe di questo mondo - un avversario formidabile contro il quale dover lottare, per strappargli le anime. 

5.  Non appare ben delineato il rapporto con il Sovrannaturale e la concezione del Regno di Dio appare ambigua; non è messo in rilievo l’insegnamento tradizionale secondo il quale si entra nel Regno solo dopo esser stati “pesati, contati, divisi” dal Cristo giudice subito dopo la morte e nemmeno che l’alternativa alla conversione a Cristo è solo la dannazione eterna. Quest’ultima verità di fede è ricordata in modo evidente da AeU quando riporta l’affermazione di Nostro Signore: “chi non sarà battezzato non si salverà”. 

6. LG fa intravedere un’immagine di tipo esistenziale della Chiesa, quale potrebbe concepirla la sensibilità decadente del Secolo ateo e miscredente:  la Chiesa come realtà sempre imperfetta, sempre alla ricerca della “pienezza” della verità, “esule” da Dio e che si piange addosso i propri peccati grazie all’arbitraria attribuzione dei peccati e delle imperfezioni dei membri della Chiesa alla Chiesa stessa.  L’immagine esistenziale della Chiesa non è in grado di distinguere tra l’immacolata Sposa di Cristo ed i suoi membri, tra il peccato nella Chiesa ed il peccato della Chiesa, che non può aver luogo.  E non sembra nemmeno in grado di concepire ancora la Chiesa cattolica come unica Arca della Salvezza. 

7.  Si ha una falsa rappresentazione del rapporto tra la Chiesa e l’Ebraismo, dando ad intendere che entrambi sarebbero già stati “riconciliati” dalla Croce di Cristo.  Cade l’immagine della Chiesa come unico “vero Israele dello spirito”, assai nitida in AeU, e viene di fatto oscurata la teologia della sostituzione.

8.  Giustificandosi con una lettura molto dubbia di S. Tommaso, si delinea il tentativo di ancorare i Sacramenti anche alla Resurrezione del Signore, di legittimarli cioè anche come manifestazione del Cristo glorioso, cui si vuole attribuire efficacia sacramentale uguale a quella della Passione, cosa che inclina in senso protestante il significato della S. Messa. 

 

 

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Nell’ambito di un’impostazione del genere, come stupirsi allora della definizione di Chiesa cattolica che appare nell’articolo 8 della LG, corroborato da UR 3 e UR 15.1?  Il “sussistere” in essa di una Chiesa di Cristo che “sussiste” anche negli “elementi”  rappresentati da “Chiese e comunità” acattoliche, appare il coronamento inevitabile della concezione  “aperta” e “spirituale” della Chiesa, “esistenziale”, incentrata sul Cristo il cui “mistero pasquale” avrebbe già redento gli uomini, che si delinea nei primi sette articoli di questa costituzione conciliare “dogmatica”.  Lo studio fin qui fatto ci permette anche di comprendere meglio, io credo, il significato che si tende a conferire oggi al termine “Chiesa” in ambito cattolico.  Quando si nomina “la Chiesa” i più intendono, in modo più o meno consapevole, la Chiesa di Cristo, nel senso di LG 8.2 e UR 3, della quale la Chiesa Cattolica in senso proprio è solo una parte, come si è visto.  I cattolici più anziani e legati al senso della Tradizione, quando sentono dire o leggono “Chiesa” nei documenti ecclesiastici ufficiali di oggi, credono istintivamente che ci si riferisca sempre alla Chiesa Cattolica Romana, unica vera Chiesa di Cristo.  Ma così non è.  La “Chiesa” dei documenti è in genere la “Chiesa di Cristo” come concepita dal Vaticano II.

E conta poco, a mio avviso, la replica secondo la quale è indubbio che per il Concilio la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa Cattolica onde quest’ultima è la sola Chiesa di Cristo, come si è sempre creduto.  Questa replica si basa più su ciò che si dovrebbe capire dai verbali del Concilio che sull’analisi letterale dei documenti conciliari alla fine approvati (sul punto, vedi infra, cap. X).  Conta poco, poiché l’analisi accurata dei testi fa vedere, come credo risulti dal presente lavoro, che la “sussistenza” della Chiesa di Cristo anche nelle “Chiese e comunità” degli Acattolici in quanto tali, costituisce la premessa “teologica” che la mens progressista del Concilio si è voluta dare al fine di aprire il “dialogo ecumenico” con gli Acattolici stessi.  Sembra essersi di fatto instaurato un regime della doppia verità, della quale nessuno sembra accorgersi, nel senso che vengono ritenuti veri ed applicati nella prassi entrambi questi asserti, tra loro inconciliabili alla luce non solo del Deposito della Fede ma anche della logica più elementare: 1) la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa Cattolica Romana, necessaria alla salvezza, unica Chiesa di Cristo;  2) la Chiesa di Cristo sussiste anche nelle Chiese e Comunità che si trovano al di fuori della Chiesa Cattolica Romana, nonostante le loro “carenze”.  E queste “carenze” (non si può dimenticarlo) sono il risultato di eresie e scismi!   Tutto ciò non è come dire che la Chiesa Cattolica Romana è l’unica Chiesa di Cristo e nello stesso tempo non lo è?

Si può forse negare che ci sia stato un mutamento semantico profondo?  Il lemma “Chiesa”, in bocca a preti e fedeli, non ha più il significato di una volta.  È la Chiesa “aperta” e “in ascolto dello Spirito”, cosiddetta “dell’Amore”, “allargata” a tutti gli Acattolici, “solidale” con tutti ed anzi con tutta l’umanità.  Essa non vuole apparire come qualcosa di separato dal mondo, come “segno di contraddizione”, vuole immergersi nell’umanità del mondo, non per convertirla a Cristo ma per collaborare con essa alla costruzione di un mondo che si vuole “migliore”, sposandone per quanto possibile i “valori”.  Per questo è stata abolita la talare, l’abito delle suore è stato reso simile a quello delle crocerossine, e comunque molti preti e suore hanno abolito  qualsiasi segno esteriore dell’appartenenza alla Chiesa Cattolica Romana, quasi ne provassero vergogna. Per questo si è voluto che i seminaristi non studiassero più in un collegio separato, in un ambiente lontano dalle seduzioni del mondo, favorevole al raccoglimento e alla preghiera, ai difficili studi, allo spirito di disciplina e di corpo, all’esercizio dell’autorità.  E si comprende come una Gerarchia che vede la Chiesa di Cristo anche in tutti gli Acattolici in quanto tali senta la necessità di ancorare i Sacramenti al Cristo glorioso; in particolare l’Eucaristia, perché così piace ai Protestanti ed evita l’’incomodo di innalzare la Santa Croce di fronte alle altre religioni, che tutte la avversano.  O di dichiarare sempre “imperfetta” la sua santità.  Come può, del resto,  essere perfetta se ora “la Chiesa di Cristo” sussiste anche in chi professa il “pecca fortemente ma credi ancor più fortemente”?  Come può essere la stessa Chiesa di AeU e in somma la medesima Chiesa Cattolica Romana di sempre, se ora la sua Gerarchia desiste dal convertire chicchesia, negligendo quindi esplicitamente il comandamento dato da Nostro Signore agli Apostoli e ai loro successori:  “Rendete miei discepoli tutti i popoli”?  E che conto fa essa del grave ammonimento:  “ma colui che mi rinnegherà davanti agli uomini, sarà rinnegato dinanzi agli Angeli di Dio” (Lc 12, 9)?

Come ha egregiamente messo in rilievo Mons. Gherardini, attirandosi le ire dei difensori del presente stato di cose, l’idea di Chiesa proposta dal Vaticano II, assai più che dal Magistero precedente, deriva dal nuovo intreccio costituito da “ecumenismo” e “libertà religiosa”.  Improntando l’idea di Chiesa a questi due “ideali”, entrambi presi a prestito dalla filosofia moderna e dalle utopie di Protestanti e Teosofi, si è giunti addirittura a costruire e a vivere un “esser Chiesa” (come dicono oggi) che esclude in quanto tale la conversione! 

“Dal vincolo che stringe insieme ecumenismo e libertà religiosa […] sarebbe poi scaturita la rinuncia al proselitismo, alla missione evangelicamente attiva, alla conversione.  Teresa di Calcutta poté per questo dichiarare di non aver mai invitato nessuno dei diseredati da lei accuditi a convertirsi; ed un prestigioso cardinale, arcivescovo d’una grande diocesi, raccontò d’aver diassuaso alla conversione l’ebreo che gli aveva confidato questo desiderio.  Ambedue, evidentemente, s’eran collocati sulla lunghezza d’onda del messaggio conciliare che, a base della moralità pubblica e privata oltre che della c.d. nuova evangelizzazione, poneva l’elefantiasi dei diritti della persona umana, non l’indiscutibilità dei diritti di Dio e della sua Parola.  Come se questa Parola non avesse stabilito la dipendenza della libertà dalla verità (Gv 8,32), la coincidenza della fede e della conversione (cf. Mc 1,15), l’obbligo dell’annuncio salvifico a tutte le genti (Mt 28, 18-20).  Un capovolgimento radicale era stato operato…”[40].  Ad opera di quale “Spirito”, dobbiamo chiederci noi semplici credenti, e trarne le dovute conclusioni. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] DE MATTEI, op. cit., p. 311.

[2] Abbé LOVEY, op. cit., p. 122.

[3] WILTGEN, op. cit., pp. 56-8;  LOVEY, op. cit., p. 121-3, con le puntuali repliche del cardinale Ottaviani.  Le invettive del vescovo De Smedt ricordavano quelle dei Modernisti d’antan.

[4] Per l’originale latino dello schema rimando all’indicazione che ne dà il cardinale Becker nel suo articolo, sopra citato:  Schema Constitutionis dogmaticae de Ecclesia Christi Patrum examini propositum:  Mansi 51, 539-553.

[5] DS 788/1511.

[6] PIO XII, Enciclica Mystici Corporis, tr. it. cit., p. 65.

[7] C, 37-8.

[8] C, 39-40.

[9] La Sacra Bibbia, Edizioni Paoline, Roma, 1960, p. 24,  in nota.

[10] Su questo tema, per maggiori approfondimenti, mi sia consentito rinviare ad un mio intervento: PAOLO PASQUALUCCI,  La notion de l’unité du genre humain:  une intrusion de la pensée laïque dans Vatican II, in La tentation de l’oecuménisme, Actes du III Congrès Théologique de sì sì no no, Albano Laziale - Avril 1998, Versailles 1998, pp. 130-144.

[11] C, 52.

[12] Ivi.

[13] C, 40.

[14] Vedi DB, voce Regno di Dio.

[15] “[…] questo Spirito ci fu meritato da Cristo sulla croce, spargendo il proprio sangue; questo, egli lo donò alla Chiesa per rimettere i peccati, alitandolo sopra gli Apostoli; e mentre soltanto Cristo ricevette questo Spirito senza misura [Gv 3, 34], alle membra del Corpo mistico vien distribuito dalla pienezza dello stesso Cristo secondo la misura del dono di Cristo [Ef 1, 8; 4, 7]”(Mystici Corporis, tr. it. cit., p. 45 [DS 2288/3807]).

[16] BERNARD BARTMANN, Précis de théologie dogmatique (1924), tr. fr. dell’Abbé  Marcel Gauthier, Salvator, Mulhouse, 1951, I, p. 230 ss. (§ 54).

[17] Nel già citato articolo su “Il peccato nella Chiesa”, Karl Rahner si lamentava del fatto che la LG, pur avendola ammessa, non fosse riuscita a fornire una nota teologica checchesia alla nozione di “Chiesa peccatrice”.  E come avrebbe potuto, mi chiedo?  L’articolo di Rahner cerca di conferire significato teologico a tale bislacca nozione, con un’esposizione  a mio avviso ripetitiva, elusiva e confusa.  Mi sembra che egli cerchi di applicare alla Chiesa, e nemmeno tanto velatamente, la nozione luterana di “simul iustus et peccator”, intrinsecamente contraddittoria.  Allora, perché la Chiesa, pur “peccatrice”,  sarebbe anche santa?  Per la possibilità che le è concessa, di ricorrere sempre alla misericordia di Dio, nonostante il suo stato di peccato:  questo solo la renderebbe “santa”.  La santità della Chiesa peccatrice viene solo dalla Grazia, come quella del singolo peccatore (op. cit., p. 431-4; 434).  Siamo in pieno Luteranesimo.  Le elucubrazioni di Rahner erano verosimilmente anche pro domo sua:  dopo la sua morte, una donna tedesca ha dimostrato con inappuntabile documentazione di esser stata per vent’anni la sua compagna segreta.

[18] DE MATTEI, op. cit., p. 311.

[19] Op. cit., pp. 341-2.  Suenens divenne poi noto per le sue “liturgie ecumeniche” aperte a tutti i soffi dello “Spirito” (vedi: JOHN VENNARI, Close-ups of the Charismatic Movement [Il movimento carismatico visto da vicino], Tradition in Action Inc., Los Angeles, 2002, pp. 155-162).

[20] PIO XII, Enciclica Mediator Dei sulla sacra Liturgia, tr. it. con testo lat. a fronte, Vita e Pensiero, Milano-Roma, 1956, pp. 126-8.

[21] CONFERENZA EPISCOPALE DELL’EMILIA E ROMAGNA, Islam e Cristianesimo, EDB, Bologna, 2000, p. 30.

[22] Nelle note relative, AeU 6.2 rimanda alla dottrina contenuta in documenti di Leone XIII, Pio IX, Pio XII, e in S. Tommaso.

[23] Si trova in S. PAOLO, Rm 8,9; Fil 1,19 etc.; vedi BARTMANN, op. cit., I, p. 231.

[24] Cit. in LOVEY, op. cit., p. 121-2.  Ho ritradotto dalla traduzione francese ivi presente.

[25] Bartmann, op. cit., I, p. 219 (§ 52).

[26] BRUNERO GHERARDINI, Chiesa-Tradizione-Magistero, articolo apparso sulla rivista elettronica Disputationes Theologicae  del 7 dicembre 2011, p. 3 di 4.

[27] Il significato tradizionale di Gv 16,13 è confermato anche dalle  edizioni dei Vangeli ispirate al metodo storico-critico, che sottopone i manoscritti ad un vaglio ipercritico, alla stregua di un qualsiasi testo letterario:  cfr. The Greek New Testament, cit.:  Gv 16,13 con le relative note; nonché: BRUCE M. METZGER & SOCII, A Textual Commentary on the Greek New Testament, German Bible Society, Stuttgart, 1994², p. 210.  Il verbo, riportato dalla quasi totalità dei manoscritti, è il futuro hodeghései en: guiderà verso, e in senso traslato insegnerà, istruirà (docebit, in latino).  Semanticamente contiene l’idea della guida, la guida di un capo, un maestro (hodós: sentiero, via; heghéomai: conduco come guida, capo).  Non c’è l’idea di un semplice introdurre; c’è l’idea di una guida in senso forte, di un capo o maestro fornito di piena autorità, di uno che è un leader, viae dux (Zorell, LGNT, sub voce). Se si fosse trattato di esprimere il concetto di “introdurre” alla verità, il greco non avrebbe dovuto usare un termine completamente diverso, come ad esempio:  eiságo?  Pochissimi manoscritti riportano :  “dieghésetai hymîn”: “vi esporrà”, più descrittivo, ma comunque lontano dall’idea dell’introduzione.  La filologia dimostra, dunque, che lo “inducit” di LG 4 non ha fondamento alcuno nel Testo Sacro.  Nel passo di Lc 12,10, il latino traduce ugualmente con docebit il greco, costituito invece da:  didáxei, insegnerà.  Il verbo è qui didásko, insegno, doceo.  Due verbi diversi, allora, tradotti allo stesso modo in latino.  Ma si tratta di due situazioni diverse, che le maggiori sfumature del greco permettono di esprimere.  Lo Spirito Santo guida con mano ferma di maestro gli Apostoli sulla via dell’approfondimento di tutta la Rivelazione, procedendo per spirazione da Nostro Signore e dal Padre come da un unico principio.  Nell’altro caso, non si tratta della Rivelazione ma di Ispirazione, al fine di vincere la paura del dolore fisico e della morte per testimoniare la fede nel caso singolo e supremo della persecuzione.  Qui le parole ci verranno alle labbra spontaneamente senza studio e preparazione specifica ma in realtà ci saranno state insegnate direttamente dallo Spirito Santo, come da Maestro a discepolo che deve solo ripeterle, per la Gloria di Dio e la salvezza della sua anima.

[28] DS 1961/3309.

[29] Enciclopedia Cattolica, voce Chiesa, col. 1450 (ed. anteriore al Concilio); DB, voce Regno di Dio, passim.

[30] HENRI DE LUBAC S.I., “Soprannaturale” al Vaticano II, tr. it., in ID., Spirito e libertà, Milano, 1980 (si tratta di una raccolta di saggi di de Lubac tradotti in italiano), pp. 343-50, p. 347, citato da GIOVANNI MORETTO, Destino dell’uomo e corpo mistico.  Blondel, de Lubac e il Concilio Vaticano II, Morcelliana, Brescia, 1994, pp. 117-8, nota n. 8.  Nel passo citato, de Lubac riassume la questione dal suo unilaterale punto di vista.

[31] MORETTO, op. cit., p. 118.

[32] Sull’influenza di de Lubac (e tramite lui di Blondel) sulla Gaudium et spes, cfr. MORETTO, op. cit., tutto il capitolo sesto, pp. 115-29.  Sul tema, mi sia permesso rinviare ad un altro mio contributo: PAOLO PASQUALUCCI, L’alterazione dell’idea del sovrannaturale nei testi del Vaticano II, in Bilancio e prospettive.  Per una vera restaurazione della Chiesa, Atti del IV Congresso teologico di “sì sì no no”, Roma 2000, Ed. Ichthys, Albano Laziale, 2003, pp. 195-236.

[33] S. GREGORIO MAGNO, La regola pastorale, presentata e interpretata da Armando Candelaresi, Edizioni Paoline, 1978², p. 198. 

[34] Ef 2, 14-16.  L’inciso: “[giudaiche]” è del traduttore dell’ Epistola paolina, nell’edizione della Bibbia curata dall’abate Ricciotti.

[35] PIO XII, Humani generis, tr. it. cit., p. 12.

[36] In una delle  lettere ricevute da Blondel, durante il suo polemico scambio epistolare sulla natura della Chiesa (1903), il Padre Wehrlé S.I. annotava a margine:  “Blondel ammette la salvezza fuori della Chiesa, direttamente ad opera del Cristo…La Chiesa non ha motivo di affannarsi con le preghiere…”.  Cosa aveva scritto Blondel?  Tra altre cose, che un primitivo (“un pauvre sauvage mourant”) che non conosce Cristo, se si salva l’anima, “ce n’est point en vertu de la Révélation en tant qu’elle est connue d’un grand nombre, c’est en vertu de la Rédemption en tant qu’elle a été acquise par Un seul et mystérieusement communiquée par les sollicitations anonymes de la grâce” (RENÉ MARLÉ  S.I.[a cura di], Au coeur de la crise moderniste.  Le dossier inédit d’une controverse. Lettres de Maurice Blondel, Henri Bremond etc., Aubier, Paris,1960, pp. 268-9).

[37] “Però quel Gesù, che è stato per breve tempo inferiore agli Angeli, noi lo vediamo ora coronato di gloria e di onore, a motivo della morte che ha sofferto, affinché per grazia di Dio, la morte da lui sopportata fosse di vantaggio a tutti” (Eb 2, 9).  Nel greco dell’originale, la frase “a motivo della morte che ha sofferto” è resa con la preposizione dià e l’accusativo (dià tò páthema toû thanátou etc.) che ha significato causale (cfr. The Greek New Testament, cit., p. 750).  Senza la Resurrezione vana è la nostra fede, ci insegna S.Paolo (1 Cr, 15); ma senza la Santa Croce non poteva esservi la Resurrezione.  “Perché dunque tanta paura di prenderti la croce che è la via del cielo?  Nella croce è la salvezza, nella croce la vita, nella croce il baluardo contro i nemici. Nella croce la sorgente delle soavità celesti, la forza dell’anima, la gioia dello spirito.  Nella croce la pienezza della virtù, nella croce la perfezione della santità. Nessuna possibilità di salvezza per l’anima, nessuna speranza di vita eterna fuorché nella croce” (Imitazione di Cristo, cap. XII del libro secondo: ‘La via regia della Santa Croce’, B.U.R., Milano, 1958, tr. it. di Carlo Vitali, p. 81).

[38] I concetti trattati nell’ultimo periodo li ho riassunti da ST, III, q. 48, a. 1 e 2, 6.

[39] ST, III, q. 62, a. 5 e ad 2.

[40] D, 187. 

 




Sessant’anni dal Concilio - V

di Paolo  Pasqualucci

V - Raffronto tra loa Chiesa illegalmente scartato e la costituzione ‘Lumen Gentium’ sulla Chiesa, che lo ha rielaborato, in realtà alterandolo alquanto.

 

[Nota previa.   Dopo la settimana di Ferragosto, riprendo la pubblicazione di alcune parti del mio libro Unam Sanctam. Studio sulle deviazioni dottrinali nella Chiesa del XXI secolo, Solfanelli, 2013, pp. 437.  Questa volta il testo è più lungo, avendovi io dovuto accorpare diversi capitoli, nessuno dei quali troppo lungo.  Si tratta di sessantaquattro pagine formato Bodoni MT 14.  I capitoli riuniti sono sei, occorre pertanto un inquadramento generale.  Si tratta di capitoli tra loro connessi perché concentrati su un unico tema: un accurato raffronto tra il primo capitolo dello schema sulla Chiesa scartato e il primo capitolo della costituzione dogmatica (senza dogmi) Lumen Gentium sulla Chiesa (=LG):  entrambi questi capitoli eleborano il concetto della Chiesa.  Dovrebbe trattarsi del medesimo concetto, ma sarebbe arduo e persino azzardato l’affermarlo.

I capitoli riuniti sono dunque  s e i , dal cap. III al cap. VIII.  Ricordo ancora  che lo schema lasciato cadere si intitolava Aeternus Unigeniti Pater, abbreviato in Aeternus Unigeniti (AeU).

Il cap. III delinea un parallelo generale tra AeU parr. 1-7 e LG parr. 1-8.  Il cap. IV espone la struttura generale di AeU parr. 3 -7 contrapposta a LG parr. 4-8. 

Il cap. V si chiede:  la Chiesa di LG parr. 4-8 è una Chiesa dello Spirito e dell’Amore, ossia una Chiesa non gerarchica e non militante, sempre imperfetta, sempre in cerca della pienezza della verità?  In sostanza, come si è poi visto, una Chiesa che non insegna più verità morali e religiose rivelate da Dio e quindi obbligatorie per la salvezza di ciascuno ma all’opposto “si pone in ascolto del mondo” animata da uno spirito di grande misericordia e comprensione delle esigenze del mondo, desiderosa di collaborare con esso per realizzare l’unità del genere umano e la pace universale? 

Il cap. VI si interroga sulle “immagini della Chiesa” secondo LG par. 6, chiedendosi se esse mostrino continuità con AeU.  Un argomento in apparenza secondario ma che ha la sua importanza.

Il cap. VII pone un’ulteriore domanda, scaturente dall’ambiguità del testo conciliare:  Un corpo mistico (la Chiesa) incentrato sul Cristo, che ha già redento l’uomo con la sua incarnazione, morte e resurrezione? 

Il cap. VIII, infine, si intitola:  Bilancio del raffronto tra AeU 1-7 e LG 1-8.  Questo capitoletto finale l’ho già proposto ai lettori.  Poiché repetita iuvant, lo ripropongo, sicuro che potrà esser meglio compreso dopo l’analisi articolata dei due testi in questione.

Per favorire la lettura ricordo anche i due autori sui quali mi sono principalmente basato (in senso opposto) in questo lavoro:  mons. Brunero Gherardini e il suo critico, il sacerdote prof. Pietro Cantoni, a mio avviso rappresentativo della mentalità dei difensori del Concilio Vaticano II, trincerata a priori dietro il principio d’autorità, come se, per l’appunto, il Vaticano II fosse stato un Concilio dogmatico – il che non è – e pertanto infallibile ed intoccabile.  Lo studio del prof. Cantoni, da me confutato più volte nel testo, si intitola:  Riforma nella continuità.  Riflessioni sul Vaticano II e sull’anti-conciliarismo, SugarCo, Milano, 2011. Il testo è citato spesso con la sola lettera C maiuscola. L’anticonciliarismo sarebbe l’atteggiamento di chi critica (osa criticare) il Vaticano II.  Della produzione assai vasta di mons. Gherardini mi sono avvalso soprattutto del suo magistrale testo sulla Tradizione e del suo primo, ampio saggio critico sul Concilio:   Brunero Gherardini, Quod et tradidi vobis.  La tradizione vita e giovinezza della Chiesa, in “Divinitas”, nn. 1-2-3, Città del Vaticano, Roma, 2010.  L’opera fu poi ristampata sempre nel 2010 da Casa Mariana Editrice, Frigento, 2010:  ID., Concilio Ecumenico Vaticano II.  Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice, Frigento, 2009.

La lettura di due testi in parallelo non è mai troppo agevole.  Tuttavia, se vogliamo afferrare ciò che è veramente accaduto al Vaticano II, in tutta la sua straordinaria gravità, dobbiamo sobbarcarci pazientemente a letture di questo tipo, le sole capaci di svelare l’alchimia perversa che ha distillato i testi alla fine ufficiali del Concilio.  L’analisi comparata dei due nostri testi dimostra che, in quello venuto alla fine a far parte della costituzione conciliare Lumen Gentium sulla Chiesa, pescindendo da gravi omissioni ed ambiguità, rispetto allo schema scartato sono stati eliminati i seguenti concetti:  che solo la Chiesa cattolica è l’Israele dello spirito;  che solo la Chiesa cattolica è l’unica e vera Chiesa di Cristo; che il Papa esercita un primato di giurisdizione su tutta la Chiesa di Cristo].     

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

III.  PARALLELO TRA “AETERNUS UNIGENITI” 1-7, SCHEMA SCARTATO, E “LUMEN GENTIUM” 1-8 CHE LO HA RIELABORATO   

 

1. Uno schema contestato

Ho ricordato prima come la Commissione Teologica Mista avesse rifuso nel nuovo lo schema  iniziale sulla Chiesa, finito tra quelli “scartati” e sottoposto a rifacimento pur trattandosi di uno schema di costituzione dogmatica elaborato secondo la dottrina tradizionale della Chiesa, che si rifaceva ad un San Bellarmino, riletto dalla Mystici Corporis, e che ovviamente riprovava una concezione della Chiesa “pneumatica” o dello Spirito, dell’Amore, propagandata dalla Nouvelle théologie e in particolare dal domenicano Yves Congar[1].  Nella fase preparatoria lo schema era stato attaccato a fondo dai cardinali dell’indirizzo ammodernante (Liénart e Bea in particolare) che lo accusavano di scarso spirito ecumenico e di proporre un concetto ristretto di Chiesa, limitato alla sola Chiesa Cattolica Romana!  L’art. 7 dello schema, che ribadiva con estrema chiarezza come solo la Chiesa Cattolica Romana avesse il diritto di considerarsi il vero e unico Corpo Mistico di Cristo, fu duramente contestato dal cardinale Bea, che lo accusava di non essere “ecumenico”. Egli rimproverò  con acrimonia Ottaviani per non aver tenuto conto dei suggerimenti del suo Segretariato al fine di modificarlo nel senso, appunto, dell’apertura “ecumenica” voluta da Giovanni XXIII[2].   Queste accuse furono ripetute a più voci durante la breve discussione in Aula (nel dicembre 1962) in seguito alla quale fu deciso di rifondere lo schema con quello proposto dal Segretariato.  Particolarmente teatrali furono gli accenti del vescovo belga Émile De Smedt, un mastino dell’antiromanesimo, già distintosi negli attacchi allo schema sulle due Fonti della Rivelazione. Egli bollò lo schema di “trionfalismo, clericalismo, legalismo”[3]. Nonostante questi precedenti, il rifacimento viene presentato sempre come uno sviluppo nella continuità.  Osserviamo attentamente.  

 

2. Chiesa “militante” o semplicemente “terrena”?

    Il cap. I dello schema rigettato (AeU) constava di sette articoli che illustravano la “natura della Chiesa militante”, titolo assolutamente tradizionale, ben diverso da quello del cap. I di LG, vertente sul “mistero della Chiesa”[4].  Dal Vaticano II in poi la nozione di “Chiesa militante” è caduta in disuso e un motivo ci dovrà pur essere.  Che cos’è la Chiesa militante?  È la Chiesa visibile in questo mondo, fondata da Nostro Signore a partire da Pietro e dai Dodici, organizzata gerarchicamente, costituita dalla Gerarchia vera e propria in tutte le sue componenti e dai fedeli, dal “popolo di Dio”, che è sempre stato considerato solamente una parte della Chiesa visibile. “Militante” questa Chiesa perché essa è una milizia impegnata nella lotta quotidiana contro Satana che è “il principe di questo mondo” (Gv 12, 31).  Essendo  “omicida sin dall’inizio e padre della menzogna” (Gv 8,44), lo Spirito  Maligno opera innanzitutto nella nostra mente con tentazioni di ogni tipo per farci peccare e trascinarci nell’eterna dannazione.  Il cattolico è quindi un “miles Christi”, egli combatte come soldato di Cristo innanzitutto contro sé stesso per resistere alle tentazioni e all’odio del mondo (Gv 15, 18-25) con l’aiuto indispensabile della Grazia, dei Sacramenti e dei Sacerdoti. E senza dimenticare, ovviamente, quello non meno importante, anche se indiretto, delle Suore e Religiose:  pensiamo al grande e fondamentale esempio di vita santa, autenticamente cristiana che esse ci hanno sempre offerto. 

Lo scopo di questa lotta è realizzare la propria santificazione in questo mondo, senza la quale non è possibile accedere alla vita eterna, e contribuire alla conversione delle anime con l’esempio di una vita veramente cristiana, improntata all’ideale della carità, che esige la nostra massima generosità nel rispondere alla volontà di Dio, che ci chiede di amare il Prossimo per amor di Dio, cioè tenendo presente innanzitutto la salvezza della sua anima.  Accanto alla Chiesa militante esiste la Chiesa “purgante”, delle anime sante nel Purgatorio, e quella “trionfante”, delle anime degli Eletti, che sono già in Paradiso. Di contro vi è la Gehenna, l’Inferno, nel quale soffriranno in eterno coloro che Nostro Signore avrà dannato, nel giudizio individuale dell’anima subito dopo la morte, confermato in quello Universale, pubblico, alla fine dei tempi (Mt 25, 31-45).  I tre aspetti della Chiesa di Cristo costituiscono un’unità nel “Corpo mistico di Cristo”, del quale il capo è Cristo in cielo mentre il Papa, successore di Pietro nella continuità apostolica, ne è il suo Vicario in terra.  La Chiesa “militante” gode perciò di una connessione sovrannaturale permanente, in quanto parte visibile del Corpo  Mistico di Cristo, con il quale coincide perfettamente in questo mondo (come insegnato dalla Mystici Corporis).

Ho dovuto ripetere (per quanto sta alle mie capacit­à) queste elementari nozioni tradizionali perché a partire dal Vaticano II sembra non vengano più insegnate.  Il lettore pertanto resterebbe perplesso di fronte al concetto di Chiesa “militante”. Non è forse vero che oggi viene insegnato un concetto diverso di Chiesa, intesa solo come “popolo di Dio” inglobante anche la Gerarchia e di taglio sostanzialmente intramondano?  E il cattolico è ancora visto come “miles Christi”, come “soldato di Cristo”?  E si insegna ancora che la vita in questo mondo è una milizia perché è l’ardua prova mediante la quale veniamo vagliati per esser giudicati degni di entrare alla fine dei tempi nel Regno di Dio, che dura in eterno, così come è stato vagliato Nostro Signore durante la sua vita e soprattutto durante la sua Passione?  

 

3.  La Chiesa “nuovo Israele”, unico vero “Israele di Dio” secondo AeU 

 La struttura generale del capitolo di AeU in questione è più o meno la stessa del posteriore capitolo iniziale di LG.  Anche in AeU il discorso muove dal disegno del Padre, che ha voluto redimere il mondo con il suo Figlio Incarnato e ha voluto che “i redenti” costituissero anche “un nuovo genere (genus), un regale sacerdozio, una gente santa, ossia il nuovo Israele, sotto un unico Capo Gesù Cristo” (AeU 1).  Qui la Chiesa di Cristo appare subito come ”il nuovo Israele” concepito ab aeterno dal Padre.  Nell’art. 1 della LG si dice che “la Santa Chiesa” è stata “annunciata in figura sin dal principio del mondo” e “mirabilmente preparata nella storia del popolo d’Israele e nell’antica Alleanza”:  non si dice però che la Chiesa di Cristo è “il nuovo Israele”. Si lascia nell’ombra la cesura intervenuta tra noi Cristiani e l’Ebraismo, provocata dal fatto che la Chiesa, possedendo essa sola la vera Rivelazione, si è sempre considerata, sin dall’inizio, il nuovo Israele.  Dell’Israele della carne la LG parla all’art. 9, primo articolo del cap. II dedicato a Il popolo di Dio, che illustra il concetto della “nuova alleanza”, ma in modo che sembra suggerire l’idea di un’analogia e di una continuità senza rotture:  “Come già l’Israele secondo la carne peregrinante nel deserto viene chiamato Chiesa di Dio, così il nuovo Israele dell’èra presente (ita novus Israel, qui in praesenti saeculo incedens), che cammina alla ricerca della città futura e permanente, si chiama pure Chiesa di Cristo; è il Cristo infatti che l’ha acquistata col suo sangue, riempita del suo Spirito e fornita di mezzi adatti per l’unione visibile e sociale”.  La frase contenente il paragone proviene da AeU 3 ma appare mutila (come vedremo) ed inquadrata in un contesto diverso, di tipo sostanzialmente descrittivo, dal momento che non si è precisato esser la Chiesa di Cristo il vero Israele di Dio al di fuori del quale non c’è salvezza (come pur fa AeU 2).   

L’art. 2 di AeU, infatti, tratta dell’”esecuzione del disegno del Padre da parte del Figlio Unigenito”, termine, quest’ultimo, che ribadisce la natura divina di Cristo (viene dal Credo)  e che il Vaticano II, se non vado errato, non usa. Di sicuro non compare in questo capitolo di LG che tratta del “mistero della Chiesa” fondata da Cristo.  L’art. 2 AeU mette subito in evidenza che Nostro Signore ha posto dei capi scelti da Lui (per electos a se praepositos) per guidare “il popolo di Dio” alla vita eterna.  A queste guide o pastori ha conferito numerosi càrismi (che in greco vuol dire semplicemente doni, anche se viene in genere inteso nel senso di doni particolari, grazie speciali), da esercitarsi sotto la guida di Pietro (sub Petro exercendis), come risulta da Mt 28, 18-20 e Mc 16, 15-16.  Il testo riporta interamente i due passi di Matteo e di Marco. In quest’ultimo, nell’ultima perìcope, c’è l’ammonimento terribile, già incontrato:  “ Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, chi in verità non crederà sarà condannato”. 

Questo nuovo popolo, che è “l’Israele di Dio” (Gal 6,16) non procede come una massa sparpagliata ma in formazione  serrata come un esercito (non tanquam effusa turba, sed ut confertum agmen procedit).  Così inquadrata dalla Gerarchia e dalla dottrina resisterà alle insidie di Satana; nutrita del cibo spirituale, questa milizia durerà sino alla fine del mondo ”nell’unità di fede, nella comunione dei sacramenti e sotto il governo apostolico”.  Nel rappresentare “l’esecuzione” del disegno del Padre da parte del Figlio Unigenito, l’articolo già richiama il Primato di Pietro; il dogma della dannazione eterna per chi non avrà voluto credere; e di nuovo la teologia della sostituzione, essendo ora la Chiesa (il popolo di Dio guidato come una milizia dalla Gerarchia sub Petro) il vero Israël Dei.  L’attuazione del disegno del Padre si ha perciò nella Chiesa di Cristo, che ha sostituito completamente “l’Israele della carne”, e fuori di essa non c’è salvezza, come si evince chiaramente da Mc 16,16 già ricordato.

 

4. La teologia della sostituzione appare in ombra nella LG

Tutto ciò manca completamente in LG 3, l’articolo che si occupa della “missione del Figlio”. Qui la Chiesa, si è visto, è “il regno di Dio già presente in mistero”, nei “predestinati”, che “cresce visibilmente nel mondo per la potenza di Dio”.  La Chiesa non è più una “milizia”; è soprattutto un “mistero”, il mistero della nostra redenzione.  E se si accentua troppo la nota del “mistero” (la cui esistenza nessuno ha mai negato) non si finisce con il privilegiare la natura invisibile (detta anche spirituale o pneumatica) della Chiesa a scapito di quella visibile, uscendo in tal modo dal seminato?  In molti se lo sono chiesto, tra quelli che non si sono lasciati abbagliare da tutta questa profusione di “mistero”.  Inizio e crescita del mistero vengono significati simbolicamente dal sangue e dall’acqua che uscirono dal costato del Signore e dalle sue parole, in Gv 12, 32:  “quando sarò levato in alto da terra [in Croce], tutti attirerò a me”(ivi).  Nel sacrificio dell’altare “si rinnova l’opera della nostra redenzione e si rappresenta l’unità dei fedeli, che sono un solo corpo in Cristo” e “tutti gli uomini sono chiamati a questa unione con Cristo” (LG 3).  Il significato del “mistero” che è la Chiesa viene dunque colto mediante questi simboli di unità, che coinvolgono l’intero genere umano; non si chiarifica nell’esistenza, natura, missione concreta della Chiesa Cattolica Romana, sotto il governo del Vicario di Cristo.

 

5. La missione della Chiesa è forse quella di realizzare l’unità del genere umano?

 Qual è dunque la “missione” del Figlio, secondo LG 3?  La redenzione di tutti gli uomini mediante l’unione con Cristo, già rappresentata dall’unità dei fedeli nell’Eucaristia.  Sembra pertanto che l’unità di tutti in Cristo non dipenda tanto dalla conversione (e quindi dall’ingresso nella Chiesa Cattolica) quanto dalla partecipazione all’Eucarestia (che poi il Concilio rappresenterà  con un nuovo termine, ignoto ai Padri della Chiesa, a tutta la Tradizione, ricorrendo sempre alla nozione del mistero:  “il mistero pasquale”).  Linguaggio e simboli scelti da LG 3 non coincidono con quelli di AeU.  Manca del tutto il riferimento ai testi citati dal secondo, sopra riportati, che mostrano la netta separazione tra la Chiesa di Cristo e il mondo “regno del principe di questo mondo”, “regno” che alla fine dei tempi sarà condannato senza appello.  Le immagini usate da LG sono sempre tradizionali, ricavate da ben noti passi evangelici e dai Padri della Chiesa.  E tuttavia ciò non elimina l’impressione di un’impostazione diversa, anche a causa delle omissioni; l’impressione di trovarsi di fronte ad un concetto di Chiesa di Cristo – voglio dire – che sembra miri a sviluppare soprattutto la componente misterica della Chiesa, esaltata pertanto soprattutto come realtà salvifica invisibile, spirituale.  Ciò significa, come recita l’art. 1 della LG, attribuire alla Chiesa soprattutto la missione di realizzare in questo mondo l’unità di tutto il genere umano, dato che quest’ultimo sarebbe di per sé già “in intima unione con Dio”, unione invisibile, pneumatica. L’idea di questa “intima unione” non è del tutto chiara, per il comune credente.  Che significa, esattamente?  E come si giustifica alla luce del dogma del peccato originale?  Dobbiamo ritenere che dopo la Caduta il genere umano sia rimasto “in intima unione con Dio”?  E come ha fatto, se, come ha ribadito il dogmatico Concilio di Trento, esso, a causa del peccato, ha perduto l’originaria somiglianza con Dio?[5]

Ora, una “missione” così concepita non appare staccata dal corpo concreto di Cristo, costituito dal “popolo di Dio” inteso come Chiesa militante sub Petro e gli Apostoli?  Cristo, afferma LG, chiama tutti gli uomini all’unione con Lui, esemplificata dall’unione dei fedeli nell’Eucaristia.  Si è sempre attribuito all’Eucarestia il significato simbolico (e quindi secondario) di rappresentare l’unione dei fedeli tra di loro e loro con Cristo. Il significato primario (non simbolico ma reale) è quello di essere il rinnovamento incruento del Sacrificio sulla Croce, che soddisfa l’ira divina e ci procura misericordia per i nostri peccati.  L’Eucaristia come simbolo di unione dei cattolici è ribadito  anche dalla Mystici Corporis:  “Giacché Gesù Cristo volle che questa mirabile unione, mai abbastanza lodata, per la quale veniamo congiunti tra di noi e col divino nostro Capo, si manifestasse ai credenti in modo speciale per mezzo del sacrificio eucaristico…”[6].  Ma come è utilizzato il simbolo da LG?  Con il presentare l’unione con Cristo non solo dei fedeli ma di tutti gli uomini, senza che  per “tutti gli uomini” si affermi la necessità di entrare preliminarmente nella Chiesa cattolica, di pentirsi, convertirsi e mutar vita.

 

6.  Unione senza conversione a Cristo 

In questa “unione” lo strumento essenziale sembra esser l’Eucaristia non la Chiesa visibile, militante appunto.  E non deve quest’ultima (la cui Gerarchia amministra i Sacramenti) considerarsi lo strumento essenziale della “missione” di Cristo?  La “missione” consisterebbe allora soprattutto nel realizzare l’unità del genere umano e senza dire apertamente che quest’unità (da un punto di vista cattolico) si può conseguire solo con la  previa conversione a Cristo.  Un’idea di unità separata da quella di conversione non resta ambigua, per non dire falsa?  Ma, direbbe qualcuno, “esser chiamati a questa unione con Cristo” non significa forse, in modo indiretto o implicito, “esser chiamati a convertirsi a Cristo”?  La frase si può certo leggere in questo modo, se si vuole.  Vi ostano, comunque, a mio avviso due osservazioni: 1) perché usare un linguaggio così indiretto? Che motivo c’era di sostituire “unione” a “conversione”?  2) “l’unione con Cristo” non è invocata sul presupposto che essa sia l’unica possibilità di salvezza concessa all’uomo.   L’Eucarestia, adesso, in quanto simbolo, oltre che dell’unità dei cattolici, ci deve anche dare l’immagine dell’unità del genere umano, in quanto tale?  Non ne risulta uno stravolgimento del vero significato del simbolo?

 

7. Unità dei credenti nella Chiesa, non del genere umano 

 Se questo significato di “unione” senza “conversione” si può ricavare da LG 3, bisogna dire allora che esso non si accorda con la Tradizione della Chiesa, dato che essa ha sempre visto come scopo della “missione” del Signore (per ciò che riguarda l’idea dell’unità) l’unità di coloro che credono in Cristo, l’unità di fede, che sola rende testimonianza al Padre (Gv 17, 7-9; 20-21), non di tutto il genere umano in quanto tale, mai proposta in passato ed anzi considerata alla stregua di una pericolosa chimera.  I credenti in Cristo vengono da tutto il genere umano perché gli uomini sono tutti uguali, in quanto creati da Dio, che non ha “preferenze di persone”:  in questo senso solamente, la conversione può realizzare l’unità complessiva del genere umano.  Se si obietta che, nel comandare ai Discepoli la loro missione, Cristo risorto ha detto : “rendete miei [discepoli] tutti i popoli” (Mt 28,19), bisogna rispondere che Egli non voleva additar loro l’unità del genere umano come scopo.  Voleva dire che essi dovevano predicare a tutti i popoli (superando l’esclusivismo dell’Israele della carne, nel quale era storicamente prevalsa la componente particolaristica, nazionalistica e millenaristica dell’Ebraismo) per farli entrare nella Chiesa universale, che non realizza l’unità di tutto il genere umano (cosa irrealistica, chimerica) ma di tutti i credenti, quale che sia la loro razza o nazione.  E tutti i credenti non coincidono mai con tutti gli uomini.  Del resto, che tale unità non costituisse lo scopo della sua “missione”, Nostro Signore non lo dimostra forse quando ci rivela che il Giorno del Giudizio una parte dell’umanità (non sappiamo ovviamente quanto grande ma sicuramente non piccola – Mt 7, 13-14) sarà dannata per sempre, per sua propria colpa? E se una parte consistente dell’umanità se ne andrà in perdizione, ciò significa che solo una parte si salverà e che nella vita eterna non si avrà affatto l’unità di tutto il genere umano bensì la sua divisione perenne in Eletti e Reprobi.

 

8.  La critica di Mons. Gherardini a LG 1, le sconcertanti repliche del prof. Cantoni  

Suscitando le ire del prof. Cantoni, Mons. Gherardini critica la dottrina proposta da LG 1 sulla Chiesa come sacramento ossia “segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità del genere umano”.  Ecco il passo, come riportato dal prof. Cantoni:

“Che la Chiesa, in quanto sacramento di Cristo e sua presenza misterica nella storia dell’uomo, sia per questo segno e strumento della grazia che salva, è una grande e consolante verità.  Che tra gli effetti della sua azione sacramentale s’annoveri anche l’unità del genere umano starà scritto tra le nuvole, ma è lontano dalla più accreditata e consolidata dottrina ecclesiologica, la quale prevede, sì, un’azione di causalità esemplare della “Chiesa una” sull’”unità” di tutt’i popoli, ma non una causalità sacramentale.  L’aver sostenuto il contrario non è, tuttavia, senza significato:  apre alla Chiesa una prospettiva sociologica e perfino socio-politica […]  Con enorme sorpresa, LG 1 introduce qui due inesplicabili novità:  l’una relativa alla causa finale e l’altra alla fonte dell’asserto.  Allarga la causa finale dalla salvezza eterna all’”unità dell’intero genere umano” e collega il tutto, anche lo stupefacente allargamento, ai “precedenti Concili” dei quali intende continuare lo svolgimento tematico”[7].

Una prima critica del prof. Cantoni si concentra su quanto Mons. Gherardini scriveva circa trent’anni fa, quando era meno severo nei confronti del Concilio, e non mette conto occuparsene, come ho spiegato sopra.  In senso specifico, egli ribatte nel seguente modo: 

“In realtà l’”intima unione con Dio” e “l’unità di tutto il genere umano” di cui parla LG 1 si devono intendere alla luce di una lettura teologica e quindi unitaria della Sacra Scrittura, in cui i due episodi di Babele (Gn 11) e della Pentecoste (Atti 2) si richiamano e si illuminano a vicenda.  La divisione che minaccia e impedisce l’unione con Dio e l’unità dell’uomo con se stesso e con gli altri è dunque il peccato, a cui si contrappone, come unica forza unicamente proporzionata (anzi sovrabbondante), l’efficacia salvifica che promana dai sacramenti da cui la Chiesa è fatta e che essa stessa fa”.  Giovanni Paolo II, precisa l’Autore, ha illustrato questo aspetto nel 1984, nell’esortazione apostolica Reconciliatio et Paenitentia.  Ma questo è solo il primo punto.  Continua infatti il Nostro:

“Non riesco poi proprio a capire che cosa ci sia di scandaloso nell’affermare che il Verbo incarnato causi, mediante la Chiesa che è in qualche modo (quodammodo…) la continuazione dell’incarnazione stessa, l’unità del genere umano.  Mi parrebbe scandaloso affermare il contrario!  Che questa unità non sia primariamente di carattere sociologico è evidente (che cosa c’entrerebbe allora “l’intima unione con Dio”?), ma è altrettanto evidente che là dove si produce per davvero non può non avere anche, a lungo andare, degli effetti sociologici e politici: la fede cristiana ha fatto l’Europa”.  Come sappiamo, quest’unità non comprenderà tutti, né in questo mondo né nell’altro.  “Non tutti gli uomini, singolarmente presi, partecipano e parteciperanno di questa “unità di tutto il genere umano”, come non tutti gli uomini partecipano e parteciperanno (anche se non sappiamo quali e quanti) della salvezza di Cristo.  Questa consapevolezza però non ha mai impedito ai cristiani di scrivere, ricamare e scolpire in tanti modi e luoghi “JHS” (Jesus Hominum Salvator)”[8].

L’accenno alla “fede cristiana che ha fatto l’Europa” mi sembra fuori luogo, per il semplice motivo che (lo capiscono tutti) “la prospettiva socio-politica” cui allude Mons. Gherardini, dischiusa da questa nuova missione di unificare tutto il genere umano, è in realtà quella della “teologia della liberazione” dei popoli nelle sue varie forme. Essa ha provocato lo stravolgimento dell’attività missionaria in un’attività rivoluzionaria o a sfondo rivoluzionario che, al posto della conversione delle anime e della costruzione equilibrata di una società cristiana, mette le lotte per “la dignità dell’uomo”, per “i diritti umani”, ivi compresi quelli “delle donne” concepiti in modo simile a certi assunti del femminismo, lotte da condursi ovviamente assieme a tutte le forze laiche “progressiste”, anticristiane per definizione. È la prospettiva politicizzata con la quale le Conferenze episcopali guardano al mondo, passando parte notevole del loro tempo ad occuparsi di economia, politica, finanza in ponderosi e velleitari documenti, auspicanti, alla fin fine, la soluzione di tutti i problemi della terra ad opera di un’istituenda “Autorità mondiale” che elimini la povertà ed unifichi il mondo!

Si noti come manchi, nella replica del prof. Cantoni, qualsiasi accenno alla conversione al Cattolicesimo, per realizzare (l’auspicata) unità del genere umano.  La “divisione”, che è anche quella dell’uomo “con sé stesso”, sarebbe superata dalla “efficacia salvifica” dei Sacramenti. Ma ci si deve battezzare o no?  Si deve o no entrare nella Chiesa Cattolica (Apostolica, Romana) per conseguire questa “efficacia salvifica”?  Dal testo non lo si capisce.  Mancando un chiaro riferimento in questo senso, tutto il discorso resta astratto e nello stesso tempo ambiguo poiché fa apparire un’unità del genere umano che la Chiesa dovrebbe realizzare senza però convertire nessuno.  Ma bastano i Sacramenti da soli a vincere “il peccato” che divide, senza l’appartenenza alla Chiesa di chi deve fruirne?  Forse oggi si è convinti che bastino e anche siffatta convinzione spiegherebbe il perdurare del grande scandalo delle cosiddette “liturgie ecumeniche”, con invenzione di riti e partecipazione di Acattolici di ogni tipo.

In passato le idee erano nettamente più chiare.  Si osservi quanto scriveva a commento dell’episodio della Torre di Babele l’edizione della Bibbia della CEI, anteriore al Vaticano II:  “Allora Dio, per separare, confuse le lingue; nella Pentecoste, invece, per unire tutti i popoli in una sola Chiesa, dette agli Apostoli il dono di parlare le lingue.  Oggi la Chiesa continua il fatto iniziato nella Pentecoste e parla tutte le lingue, perché si è estesa ad ogni nazione della terra.  Sicché tutti i Cattolici, anche se di rito diverso, credono le stesse verità, recitano il medesimo Credo, obbediscono al medesimo Papa e appartengono al medesimo regno di Dio.  Il loro punto d’incontro è duplice:  nelle chiese, ai piedi dell’altare dov’è Cristo nell’Eucarestia; e nei suoi ministri, in Vaticano ove dimora il suo Vicario, faro di luce per tutte le genti”[9].  Qui è esposto chiaramente il tradizionale modo di intendere la missione della Chiesa:  unire tutti i popoli, per quanto possibile, in una sola Chiesa, nella Chiesa Cattolica Romana, che realizza l’unità di tutti i suoi credenti, non del genere umano.  

 

 

 

9.  Un fine “scandaloso”, preso a prestito dal pensiero profano

Che quest’unità del genere umano possa apparire “scandalosa” se riferita al Cristianesimo, come fa capire Mons. Gherardini, ciò risulta a mio avviso già da questa semplice riflessione:  l’ideale che essa rappresenta attribuisce al “genere umano” un valore autonomo e indipendente, ragion per cui la supposta sua unità verrebbe a costituire un fine del tutto terreno e fatalmente “sociologico” ossia “politico”, che  metterebbe la Chiesa in contraddizione con la propria vocazione sovrannaturale, che rimane sempre quella di condurre il maggior numero possibile di anime (una per una) alla vita eterna, senza preoccuparsi dell’unità o meno del genere umano. 

È noto, del resto, che tale ideale non proviene dalla Tradizione della Chiesa ma rappresenta un’aspirazione ed un mito del pensiero laico.  Se vogliamo, una delle sue peggiori utopie.  Per il Cattolicesimo,  si tratta di un prodotto d’importazione.  L’unità del genere umano, quale prodotto della ragione resasi autonoma rispetto alla Rivelazione, è stato ed ancora è uno degli obiettivi vorrei dire classici del pensiero moderno e contemporaneo. Compare nella filosofia della storia di taglio illuministico: dei Condorcet, dei Kant.

Kant concepisce la storia come un progresso costante del genere umano “verso il meglio”, rappresentato dall’affermarsi graduale di un’etica fondata solamente sulla ragione dell’uomo e di un “diritto cosmopolitico” capace di realizzare, alla fine, l’unità del genere umano nella “pace perpetua”. Infatti, le tesi 8 e 9 della sua Idea della storia universale da un punto di vista cosmopolitico (1784), sostengono che la storia non è altro che l’esecuzione “di un piano occulto della natura per realizzare una costituzione politica perfetta”, in modo da realizzare altresì “la perfetta unione civile del genere umano”. 

 Nel pensiero di Mazzini, apostolo dell’idea di Patria ma rivoluzionario visionario e  panteista in religione, troviamo ripetuta applicazione di un’idea tipica del socialismo utopistico, quella del Cristianesimo come religione dell’Umanità che, in nome della Fratellanza Universale, deve realizzare l’unità del genere umano; rappresentazione del Cristianesimo che ne falsa completamente il significato, mutandolo in quello di una religione secolare, politica[10].  

     E circa la verità a noi rivelata, secondo la quale una parte dell’umanità non si salverà, quale posizione assume il prof. Cantoni?  Replica con un’immagine, quella di Jesus Hominum Salvator, che a ben vedere va contro la sua tesi.  Infatti, essa ci dice che il sensus fidei del popolo ha sempre ritenuto Gesù “salvatore degli uomini” non di tutti gli uomini, in quanto tali, come se potesse salvarsi anche chi si rifiuta coscientemente alla fede in Cristo e alla Grazia.

 

10.  Quante “salvezze” esistono, per il prof. Cantoni? 

Il lettore avrà notato un’altra stranezza nell’esposizione del Nostro. Egli scrive infatti: “[…] non tutti gli uomini partecipano e parteciperanno […] della salvezza di Cristo”.  Mi chiedo:  c’è forse bisogno di precisare che la salvezza è la “salvezza di Cristo”?  Esiste forse un’altra “salvezza”, per un cattolico?  Una salvezza che non viene da Nostro Signore?  Chi scrive “salvezza di Cristo” potrebbe credere che esistono altre forme di salvezza, non di Cristo.   Ma questo sospetto, che il nostro Autore – sacerdote cattolico – ammetta altri tipi di salvezza, su che cosa si fonda?  Su un altro passo del suo lavoro, nel quale egli sembra presentare il Corano come portatore di una verità rivelata, allo stesso modo dei Vangeli!

Polemizzando con le critiche di Mons. Gherardini alla costituzione conciliare Dei Verbum  sulla divina Rivelazione perché essa non parla mai di “Fonti della Rivelazione”, il Nostro afferma che la critica non ha motivo di essere perché, scrive, il concilio ha voluto identificare “la parola di Dio annunciata dalla Chiesa […] con Cristo stesso, essendo lui il culmine e la pienezza della rivelazione.  Così facendo si voleva evitare una comprensione troppo “concettualista” del sacro deposito, facendo capire che esso non è un insieme di proposizioni, ma coincide ultimamente con Cristo stesso”[11].  Confesso che, come semplice credente, non riesco a comprendere il significato di queste affermazioni.  Il “sacro deposito” non consta di articoli di fede che possano esser spiegati razionalmente, secondo concetti  comprensibili, anche se vertono su verità rivelate che restano inaccessibili all’intelletto umano?  Sembra di no.  Esso “non è un insieme di proposizioni”, esso “coincide con Cristo”.  Che significa?  Ma arrivo al punto che mi preme.  Il fatto che “il sacro deposito” coincida con Cristo stesso, “dà provvidenzialmente un sapore realistico alla rivelazione cristiana e contribuisce a distinguerla in modo più netto da altri modelli di rivelazione, come per esempio quella coranica.  Il cristianesimo non è una “religione del libro””[12].

Dunque, il Corano costituirebbe “un altro modello di rivelazione”?  E che significa affermare “il sapore realistico della rivelazione cristiana”?  È vera o non è vera?  Il prof. Cantoni crede alla storicità dei Vangeli?  Se ci crede, perché usa un termine così ambiguo come “sapore realistico”?  Ma torniamo al Corano.  Esso costituisce dunque, per il Nostro, un “altro modello di rivelazione”.  Una rivelazione concorrente, per così dire!  Il prof. Cantoni ritiene dunque vi siano più “modelli di rivelazione” e quindi più “salvezze”.  Si comprende allora perché egli senta il bisogno di scrivere:  “salvezza di Cristo”.  C’è anche la “salvezza di Maometto”, a quanto pare. E sicuramente anche quella offerta da tutte le altre religioni, comprese quelle che adorano i feticci e le forze della natura. Di fronte a tanta confusione, che sembra proprio il risultato  dall’ecumenismo attuale, figlio del Vaticano II, bisogna ribadire il vero ossia che per noi Cattolici il Corano non può ritenersi verità rivelata.  Primo, perché è verità di fede che la Rivelazione (quella autentica) è finita con la morte dell’ultimo Apostolo, più di cinque secoli prima dell’avvento di Maometto.  Secondo, perché il Corano è un libro che nega tutti gli elementi essenziali del Cristianesimo, sia quelli religiosi in senso stretto (l’autenticità dei Vangeli, la S.ma Trinità, la nascita miracolosa e la divinità di Cristo, la sua morte in croce, la Resurrezione) sia quelli che costituiscono il fondamento della morale cristiana.  Il secondo punto conferma nel merito il primo.  

 

11. Vietato mettere in dubbio la “continuità” del Vaticano II 

E come osa Mons. Gherardini – continua il prof. Cantoni – mettere in dubbio la “continuità” dell’insegnamento del Vaticano II a proposito della nuova dottrina che “allarga” la causa finale dell’azione della Chiesa “dalla salvezza eterna all’unità del genere umano”?

“Non riesco neppure a capire in che cosa consista la novità dell’affermazione di un concilio non materialmente contenuta in quelli precedenti:  quello che dichiara, decreta e definisce il concilio di Trento non è certamente contenuto nei documenti del concilio di Nicea, ma non siamo perciò autorizzati a concludere che non ne sia la “continuazione”.  Tutto il magistero della Chiesa è un unico discorso e tutte le volte che riprende a parlare è come se dicesse:  dicebamus heri[13].

Non siamo autorizzati a concludere che il Tridentino non sia la continuazione del Niceno I perché, dal punto di vista del Deposito della Fede, ciò che il Tridentino insegna è già contenuto nel Niceno e non vi contraddice in alcun modo.  Ma il Vaticano II ha voluto trarre “nuovi elementi [nova congruentia] dalla dottrina sacra e dalla tradizione della Chiesa”, dichiarando naturalmente che essi sono “in costante armonia con quelli già posseduti”(Dichiarazione Dignitatis humanae, sulla libertà religiosa, 1).  Poiché l’ossequio che Nostro Signore richiede al credente è sempre un “ossequio razionale”  (Rm 12,1), noi fedeli, affidandoci ai princ­ìpi della recta ratio, abbiamo tutto il diritto di confrontare questi “nuovi elementi”, non presentati come dogmi di fede ma come princìpi di una nuova pastorale, con quelli della Tradizione della Chiesa per verificare se sono effettivamente “in costante armonia” con essi.  Il disastro che si è abbattuto sulla Chiesa dopo il Vaticano II, disastro tuttora perdurante, rende doppiamente legittimo questo confronto.  Certamente, “tutto il magistero della Chiesa è un unico discorso”.  Ma sempre sul presupposto che in ogni sua parte questo discorso sia fedele al Deposito della Fede  (1 Tm 6,2).  Ora, la “novità” non consiste qui solo nel non esser “materialmente contenuta” la nuova dottrina nei Concili precedenti:  dal punto di vista della sua qualità, di ciò che essa dice, la novità consiste nell’apparire essa ambigua e contorta e persino non conforme al Deposito per alcuni aspetti.  La questione non è di forma ma di sostanza, riguarda il merito di ciò che viene proposto.  All’analisi imparziale, queste nuove dottrine, già a causa della forma ambigua, obliqua nella quale vengono esposte, non sembrano affatto costituire un approfondimento e un chiarimento del Dogma.  Al contrario, esse fanno addirittura scorgere la presenza di errori già condannati dalla Chiesa, come per esempio il “pancristismo” precorritore del “neoecumenismo” attuale. 

Torniamo ora al nostro esame parallelo di AeU 1-7 e LG 1-8.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IV.  STRUTTURA GENERALE DI “AETERNUS UNIGENITI” 3-7   

 

1. Sintesi di “Aeternus Unigeniti” 3-7  nel confronto con “Lumen Gentium” 4-8

Dopo aver illustrato nei suoi primi due articoli l’intenzione (consilium) del Padre e la sua esecuzione da parte del Figlio Unigenito, lo schema AeU espone l’indole (indoles) o natura dello “Israele di Dio”, della Chiesa, in sé (art. 3.1) e come risulta dalle varie “figure” nelle quali è rappresentata (expressa) (art. 3.2).  Tra queste figure (regno, casa, tempio di Dio, gregge, ovile, sposa di Cristo, colonna e fondamento della verità), la più importante è quella della Chiesa come “Corpo di Cristo”, perché – si scrive  - rende  al meglio l’unità della Chiesa con il suo fondatore e l’unità dell’elemento “sociale” con quello “mistico”, continuamente presente (art. 4).  Si “enuclea” pertanto la figura del corpo nelle sue componenti (art. 5), per dimostrare alla fine come la “societas” che è la Chiesa visibile sia “il mistico Corpo di Cristo” ad opera dello Spirito Santo, condannando, sulla scia della Mystici Corporis, l’errore (neomodernista) di chi sosteneva una concezione della Chiesa cosiddetta “carismatica o fondata sull’amore”, del tutto separata dalla Chiesa visibile e gerarchica (art. 6).  Perciò lo schema, dopo aver delineato la Chiesa come il vero Israele di Dio, Corpo Mistico di Cristo, termina con l’art. 7 che afferma in modo perentorio e definitivo esser l’unica e vera Chiesa di Cristo la Chiesa Cattolica Romana.  Per ciò che riguarda l’Ebraismo, lo schema riafferma in modo netto il principio a fondamento della teologia della sostituzione, secondo il quale, come dice il nome stesso, dopo il ripudio del Messia (Nostro Signore Gesù Cristo) da parte dell’ Israele della carne, la Chiesa, da Cristo stesso fondata, si è inevitabilmente sostituita ad esso nel disegno salvifico del Padre:  essa è ora l’Israele di Dio, l’unica porta della salvezza.

Lo schema ribadisce in modo nettissimo l’identità assoluta dell’unica e vera Chiesa di Cristo con la Chiesa Cattolica Romana, che è pertanto il Corpo Mistico di Cristo.

La struttura di AeU è ripresa da LG 3-8 ma con consistenti modifiche, provocate sia da aggiunte di parti nuove che da  rilevanti omissioni.  Di LG 3, dedicato alla “Missione del Figlio”, ho già detto ampiamente.  Colpisce poi l’ampio articolo dedicato allo Spirito Santo (LG 4).  Si tratta di un approfondimento specifico del Vaticano II.  In AeU, come vedremo, l’opera dello Spirito Santo era menzionata in modo più sobrio, rigorosamente inquadrata nell’ambito del Corpo Mistico, del quale lo Spirito Santo è considerato per l’appunto “l’anima”.  L’approfondimento apportato dal Vaticano II è stato salutato con entusiasmo da molti.  In effetti, quest’articolo sullo “Spirito santificatore della Chiesa” è una vera e propria palinodia dell’azione dello Spirito Santo, costruita utilizzando tutta una serie di ineccepibili passi neotestamentari e dei Padri della Chiesa.  Tuttavia sembrano esserci due sfumature che, a mio avviso, intorbidano l’atmosfera.  Su di esse mi soffermerò in seguito.

   Proseguo ora nella sintesi generale.  Dopo il grande rilievo dato all’azione dello Spirito Santo, LG 5 illustra il mistero della Chiesa esponendo il concetto del “Regno di Dio”.  Anche questa parte è nuova rispetto allo schema AeU.  Com’è rappresentato qui il Regno di Dio?  Nella persona, nelle parole, nelle opere di Nostro Signore (che ha per l’appunto annunciato l’avvento del Regno di Dio) attraverso la consueta, nutrita serie di riferimenti a passi evangelici. La “Chiesa”, in relazione al Regno,  appare alla fine dell’articolo per ricordarci che essa deve annunciare ed instaurare in tutte le genti il Regno mentre costituisce di questo Regno “il germe e l’inizio su questa terra”.  Essa poi “anela al regno perfetto”, che ancora non possiede.  Ma questo “regno perfetto” si trova in questo mondo o nell’altro?  Il testo mantiene la dovuta distinzione tra la natura e il sovrannaturale?  Né si afferma chiaramente la tesi tradizionale: che la Chiesa cattolica sub Petro, fondata da Gesù, è già l’attuazione del Regno di Dio in terra[14].   

L’art. 6 LG riprende il tema delle immagini della Chiesa.  AeU, come si è visto, si era soffermato soprattutto sulla figura del “Corpo di Cristo”, che risale a S. Paolo, considerata la più efficace per capire effettivamente la natura della Chiesa.  LG 6 amplia enormemente l’analisi di queste immagini della Chiesa, preoccupandosi tra l’altro di stabilire un rapporto tra di esse e l’Antico Testamento, in quanto immagini già annunziate dai Profeti.  Da tutta questa analisi, come già per l’art. 5, emerge soprattutto una visione spirituale ed escatologica della Chiesa, ma di un’escatologia un po’ particolare poiché il Sovrannaturale non vi si distingue nettamente.

Né mi sembra che si cambi impostazione nell’art. 7, che tratta della Chiesa “Corpo Mistico di Cristo”.  Non abbiamo qui una ripetizione di quanto detto nello schema AeU.  L’articolo, come vedremo, sembra voler accentuare l’aspetto per così dire “mistico” del Corpo Mistico di Cristo e tutto il discorso sembra vertere più su Cristo che sul “Corpo di Cristo”, rappresentato dalla Chiesa Cattolica Romana nella sua realtà storica concreta.

Dopo questa sintetica presentazione, vediamo ora in che modo AeU delinei la “figura” del Corpo Mistico di Cristo, scelta tra tutte quelle che rappresentano tradizionalmente l’immagine della Chiesa. 

 

 

 

 

2.  L’“Israele di Dio” denominato “Chiesa di Dio”, “Corpo di Cristo” e “Corpo Mistico di Cristo” coincide unicamente con la Chiesa Cattolica Romana, unica vera Chiesa di Cristo, secondo AeU

L’art. 3.1 di AeU tratta della natura (indoles) dell’Israele di Dio, manifestata in varie figure, a cominciare da quella espressa dal termine ecclèsia, Chiesa, che in greco (ecclesìa) vuol dire originariamente “assemblea”, “assemblea popolare”, “adunanza” (da ek-kaléo: chiamo fuori) ma che si traduce anche con “comunità” o “popolo”.  All’inizio dell’articolo si trova il passo cui ho già accennato, contenente il paragone con l’Antico Testamento, ripreso poi da LG 9 (vedi supra, cap. III, § 3). 

“Pertanto come Mosè chiamò Chiesa di Dio [Dei Ecclesiam] l’Israele secondo la carne che peregrinava nel deserto, così Cristo si riferì all’Israele di Dio che avanzando nell’era presente aspira ad una città futura ed eterna, come alla sua Chiesa, non solo perché l’acquistò con il suo sangue ma anche perché, dopo averla preparata al suo fine con i mezzi opportuni, l’edificò su Pietro (Mt 16,18) e sui suoi successori [i Pontefici], nei quali rimanesse in perpetuo il medesimo Pietro con la sua autorità”(AeU 3.1).   E perché gli uomini capissero meglio la natura della Chiesa, prosegue l’articolo, lui stesso o per mezzo degli Apostoli la rappresentò con diverse figure e nomi:  “regno, casa di Dio, tempio di Dio, gregge, ovile, sposa di Cristo, colonna e fondamento della verità”.

 Ho messo la parte finale della citazione iniziale in corsivo sottolineato per metter in evidenza la parte della frase che è stata lasciata cadere da LG 9, che riporta invece il resto, come ho ricordato sopra.  La parte lasciata cadere è proprio quella che identifica sin dall’inizio l’Israele di Dio con la “roccia” costituita per volere di Cristo da S. Pietro; che identifica perciò la Chiesa di Cristo con la Chiesa Cattolica Romana, i cui Pontefici sono i successori legittimi di S. Pietro, avendo essi soli mantenuto la continuità apostolica e dottrinale, come ho già ricordato.

 

3. Il senso del parallelo con l’Antico Testamento 

Il testo di AeU rinvia in nota a due passi dell’Antico Testamento per documentare l’appellativo Dei Ecclesia conferito al popolo ebraico:  Num 20,4 e Deut 23,2.  Nel primo si narra di un principio di ribellione del “popolo del Signore” (Ecclesia Dei) ovvero del popolo ebraico contro Mosè ed Aronne durante la traversata del deserto, allorché si era trovato momentaneamente senz’acqua.  Nel secondo, si enunciano le categorie degli esclusi dalla “assemblea di Israele”, ordinando:  “Il bastardo nato da meretricio, non entrerà nella comunità del Signore [Ecclesia Dei] sino alla decima generazione”.

Il riferimento ai Libri di Mosè permette di stabilire la giusta analogia tra Antico e Nuovo Testamento, che non è tra cose uguali.  La Ecclesia mosaica è quella limitata e ristretta all’Israele della carne e riguarda le sue vicende e leggi particolari, anche se inquadrate  nell’economia della salvezza.  Invece la Ecclesia di Cristo è stata concepita dal Signore e dichiarata “sua”, non solo perché acquisita con il sacrificio della Croce, perché provvista da Lui dei mezzi necessari al suo fine sovrannaturale, ma anche perché edificata “su Pietro e i suoi successori”, cioè sui Romani Pontefici, la cui autorità si fonda direttamente su Cristo non su quella del collegio apostolico né sulla “carne” di un’istituzione e di una tradizione meramente nazionali.  La Chiesa, pertanto, non si incorpora in un determinato popolo:  il suo “corpo” è quello di Cristo, che ne è il capo.

Stabilita in modo netto da AeU 3.1 la differenza tra l’Ecclesia Dei mosaica e l’Ecclesia Dei fondata da Nostro Signore, AeU 4 inizia l’analisi della Chiesa come “figura del corpo di Cristo”: nozione fondamentale, che ribadisce l’origine e la natura sovrannaturale della Chiesa militante, senza attenuarne il carattere appunto “militante”, terreno e visibile, gerarchico, sociale.

 

4. La Chiesa come “Corpo di Cristo” in AeU 4 

Di tutte le figure della Chiesa, prosegue il testo, quella del “corpo” occupa il posto principale “perché esprime in modo più chiaro l’unione dell’elemento sociale [della Chiesa come societas terrena] con quello mistico”.  Il concetto compare in S. Paolo, “ispirato da Cristo”, in due noti passi:  Col 1,18 ed Ef 1,23:  “Ed egli [Cristo] è il capo del corpo che è la Chiesa”;  “…[Egli] è il capo supremo della Chiesa, che è il corpo di Lui e complemento di Colui che tutto completa in tutti”. 

L’immagine del corpo implica quella dell’unità del corpo con il Capo, Nostro Signore, e dei membri del corpo tra di loro.  “Perciò – continua Aeu 4 – tutti coloro che sono entrati nella Chiesa col battesimo e si sono rivestiti di Cristo nella comunione dei santi [Gal 3, 27], allorché partecipano dell’unico pane eucaristico, raggiungono il compimento nell’unità dell’unico Corpo [di Cristo], “perché unico pane ed unico corpo formiamo noi pur essendo molti, poiché tutti partecipiamo dell’unico pane”” [1 Cr 10,17].  Quest’immagine tradizionale che connette l’unità del Corpo di Cristo all’unità che simbolicamente si realizza nell’Eucaristia, è ripresa, come si è visto, da LG 3 (vedi supra, cap. III, § 5).  Ma in AeU 4 l’unità, conformemente alla dottrina tradizionale, è rigorosamente circoscritta ai soli battezzati che professino la vera fede in parole e opere (nel modo di esprimersi di S. Paolo:  che si siano rivestiti di Cristo nella comunione dei Santi) senza accenni ad allargamenti ed estensioni che giungano a ricomprendere tutti gli uomini, anche i non convertiti (unità di tutto il genere umano)!  Gli accenni all’estensione dell’unità del Corpo di Cristo a tutti gli uomini, nel senso appena indicato, sono una caratteristica del Vaticano II.

Stabilito in che senso l’immagine del “Corpo di Cristo” faccia intendere l’unità dell’elemento “sociale” con quello “mistico” nella Chiesa, l’art. 5 di AeU procede ad “enucleare la figura del corpo” nei suoi elementi costitutivi.

Il corpo che è la Chiesa è innanzitutto “visibile” (oculis cernitur:  si scorge con gli occhi, come soleva dire Leone XIII) ed è composto da molti membri di diversa natura (“chierici e laici, governanti e sudditi, maestri e discepoli”) che danno luogo a diversi ordini (status) nella Chiesa stessa, ai quali presiede Cristo, che fornisce le grazie necessarie per mantenerli nel giusto equilibrio. I vari ordini della Chiesa sono analizzati nei capitoli successivi dello schema.  Ma nella “compagine dei membri del corpo” c’è un’altra connexio che opera a mantenere l’unità del tutto; connexio soprannaturale, che risale anch’essa al Signore, da lui illustrata quando ha detto:  “Io sono la vite, voi i tralci.  Colui che rimane in Me e Io in lui, porta abbondanti frutti; perché senza di Me non potete far nulla” (Gv 15,5).  La connessione profonda che mantiene l’unità della Chiesa visibile, l’unità di un vero e proprio Corpo, è quindi sempre sovrannaturale ed è prodotta dallo Spirito Santo.  La seconda e la terza Persona della Santissima Trinità concorrono quindi a costituire e a mantenere la Chiesa visibile come unità, unità dei soli credenti non di tutto il genere umano.

“Così come infatti Cristo è il Capo del Corpo, allo stesso modo lo Spirito Santo, che inabita nel Capo e nelle membra, è la sua Anima;  essendo uno, costituisce e tiene tutto il corpo in unità e a tutti i membri, secondo la misura del dono di Cristo, amministra la grazia e i doni, e conferisce i carismi.  Per tal motivo la Chiesa è detta essere una persona veramente mistica in Cristo Gesù:  “Infatti voi tutti siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3, 28).

Qual è il rapporto tra lo Spirito Santo e la Chiesa corpo di Cristo?  Lo Spirito Santo è “l’anima” della Chiesa ma senza esser mai indipendente dal Capo, cioè da Cristo.  Non può esistere un dualismo tra il Capo del corpo e l’Anima dello stesso.  Quest’immagine agostiniana è ripresa da Leone XIII e successivamente dalla Mystici Corporis.  Fuor di metafora:  lo Spirito Santo “amministra” (administrat) e “conferisce” (confert) la grazia, i doni, i “carismi” (nel senso di doni particolari, eccezionali) ma sempre “secondo la misura del dono di Cristo”.  Questo principio fu ribadito con estrema chiarezza nella Mystici Corporis[15].  Esso è verità rivelata da S. Paolo. Proviene da Ef 4,7, da un capitolo nel quale S. Paolo sta spiegando le virtù fondamentali della vita cristiana:  “A ciascuno poi di noi fu data la grazia secondo la misura del dono di Cristo” [data est gratia secundum mensuram donationis Christi].  Il “dono”  è molteplice:  “Ed egli diede gli uni apostoli, gli altri profeti, gli altri evangelisti, gli altri pastori e maestri, per il perfezionamento dei santi [dei credenti fra i Gentili], in vista dell’opera del ministero, che è l’edificazione del corpo di Cristo…”(Ef 4,11-12).  Naturalmente, come mostra il prosieguo dell’epistola paolina, “i doni di Cristo” non sono riservati al solo corpo docente della Chiesa nascente, essi sono attribuiti a tutti i membri della Chiesa, come appunto ribadito da AeU 5. Senza un’illustrazione precisa dell’opera dello Spirito Santo non si potrebbe definire la Chiesa come “corpo mistico di Cristo”.  E quest’illustrazione riflette la dottrina ortodossa, il dogma secondo il quale “la terza Persona della Santissima Trinità procede per spirazione dalla prima e dalla seconda, come da un solo principio”[16].

 

5. Il peccato dei suoi membri non lede la santità della Chiesa 

 L’ultimo paragrafo di AeU 5 tratta della santità della Chiesa nonostante i peccati commessi dai “membri malati” che ne fanno parte. 

“Tuttavia i peccati di costoro offendono in verità la Chiesa ma non ne ledono la santità essenziale; infatti, la Chiesa è santa soprattutto perché, come sposa di Cristo è costituita nella santità, genera i suoi membri nella santità e non manca mai di membri che eccellono nella santità.  Inoltre, non si limita a reprimere i peccati dei suoi membri ma si adopera affinché questi stessi membri malati siano ricondotti nella pristina condizione di santità, a volte persino più elevata”.

Avendo definito la Chiesa come “Corpo Mistico di Cristo”, bisogna spiegare il rapporto che con esso hanno quei membri che cadano nel peccato.  E chi è, anche tra i cristiani, che non sia peccatore?  Il fatto di appartenere alla Chiesa non li salva dall’eterna dannazione, se induriscono nel peccato.  In nota, AeU 5 cita S. Agostino, il quale insegnava che “anche nel Corpo di Cristo l’amore per la meretrice manda all’Inferno” (Serm. 349, 2:  PL 39, 1530), ove con “meretricis amorem” si devono evidentemente intendere i peccati della carne in tutti i loro vari aspetti, per maschi e femmine.

Ma perché la Chiesa può sanare il membro malato del suo corpo, grazie all’uso dei Sacramenti, istituiti da Cristo come strumenti, se così posso dire, della santità della Chiesa?  Proprio perché è sempre santa in quanto Sposa di Cristo, il quale, tramite lo Spirito Santo, non abbandona la sua Chiesa:  il peccato del cristiano “offende” il Corpo Mistico ma senza “lederlo”.  Infatti, una cosa è “l’offesa”, un’altra la “lesione”:  i nostri peccati offendono Dio ma non possono certo lederlo, ferirlo nella sua divinità, ulcerandola o diminuendola! Idem per la Santa Chiesa, fondata da Nostro Signore.  Da sé stessa, proprio perché assistita sovrannaturalmente dal Signore e dallo Spirito Santo, essa può sempre trovare le forze per sanare il male al suo interno sia punendo sia  esercitando il ministero della misericordia, che mira al pentimento e alla conversione del peccatore.  Inoltre, osservo, se la Chiesa dovesse ritenersi in quanto tale peccatrice, e quindi esserlo nella sua totalità, lo status di peccato non dovrebbe coinvolgere, oltre a tutte le membra, anche il Capo, ossia Nostro Signore?  Se la Chiesa è il “corpo mistico di Cristo” e tale corpo è immerso nel peccato, come fa a non considerarsi “peccatore” anche il Capo del Corpo?  A tali conseguenze aberranti conduce, dunque, la logica intrinseca all’idea assurda di una Chiesa “peccatrice”.

 

6. LG 8 sembra attribuire il peccato anche alla Chiesa come tale  

Questo stesso concetto è ripreso nel penultimo paragrafo di Lumen gentium 8, ma in modo che a molti è parso ambiguo.  Recita infatti il testo:  “Ma mentre Cristo, “santo, innocente, immacolato” non conobbe il peccato e venne solo allo scopo di espiare i peccati del popolo, la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento [Ecclesia in proprio sinu peccatores complectentes, sancta simul et semper purificanda, poenitentiam et renovationem continuo prosequitur]” (LG 8.3).  Si vede subito che qui non è stata ripresa la distinzione di AeU tra “offesa” e “lesione”.  Dobbiamo allora ritenere che il peccato dei Cattolici incida sulla santità della Chiesa?  In effetti, il testo potrebbe legittimare un’interpretazione di questo genere perché afferma che, in conseguenza del peccato dei suoi membri, è la Chiesa in quanto tale ad aver bisogno di “purificazione” e ad avanzare continuamente  “per il cammino della penitenza”.  Ora, chi, se non il peccatore, ha bisogno di “purificazione” e di avanzare senza posa “per il cammino della penitenza”?   L’idea di una peccaminosità della Chiesa (notoriamente sostenuta da Karl Rahner) verrebbe dunque insinuata nell’argomentare obliquo tipico per l’appunto di certi testi del Vaticano II.  Ulteriori riferimenti conciliari mantengono l’ambiguità e forse l’aggravano (LG 11:  coloro che si confessano si riconciliano con la Chiesa alla quale “hanno inflitto una ferita col peccato”; LG 39: “La Chiesa […] è agli occhi della fede indefettibilmente santa [indefectibiliter sancta creditur]”: in sé stessa o agli occhi della fede solamente?  LG 48:  la Chiesa già sulla terra “è adornata di santità anche se imperfetta”:  ma esiste una “santità imperfetta”?  Che significa?). 

Secondo AeU 5, invece, era solo il peccatore ad aver bisogno di “purificazione” e poteva ottenerla proprio perché la santità della Chiesa non era venuta meno, grazie all’assistenza divina.  È giusto dire che la santità della Chiesa può essere offesa dal peccato ma non può esserne “ferita”, perché il peccato non può colpire la Chiesa ontologicamente, nella sua essenza, che è divina e non umana, e gode sempre dell’assistenza divina.  È la santità permanente della Chiesa a garantirle quei mezzi (i Sacramenti) mediante i quali essa ci purifica dai nostri peccati, inducendoci a cambiar vita e a correre verso Cristo come il Figliol Prodigo verso il Padre.  L’ambiguità di LG 8.3  rafforza la sensazione di trovarsi in presenza di un diverso e contraddittorio concetto di Chiesa, visto che ora la si potrebbe intendere contemporaneamente come santa e peccatrice.  Bisogna, inoltre aggiungere che, se la Chiesa, la Sposa di Cristo, fosse essa stessa “peccatrice” e quindi sempre “imperfetta” nella sua santità, non potrebbe trovare in sé stessa i mezzi necessari per purificare i suoi membri peccatori[17].     

 

7. L’errore di chi concepisce una Chiesa solo “carismatica o dell’amore” 

Stabiliti gli elementi essenziali della Chiesa come “Corpo Mistico di Cristo”, il penultimo articolo dello schema rigettato, AeU 6, prende posizione contro l’errore al tempo diffuso ad opera della Nouvelle Théologie, e già ricordato da me, secondo il quale la natura della Chiesa era soprattutto quella di essere un ente carismatico o spirituale, del tutto separato dalla Chiesa gerarchica e militante, sentita anzi come un impaccio, un peso morto.  È quasi superfluo rilevare che di questa precisazione e condanna non v’è traccia nella Lumen Gentium. E come avrebbe potuto, visto che i profeti della “Chiesa carismatica” come P. Congar OP, grazie al “buon cuore” di Roncalli, facevano ora parte della Commissione Teologica? 

In ogni caso, nella Allocuzione di apertura del Vaticano II, l’11 ottobre 1962, Giovanni XXIII non aveva forse detto che non bisognava più condannare gli errori ma usare la medicina della misericordia (come se condannare gli errori non fosse già opera di misericordia nei confronti dell’errante e dei fedeli messi così sull’avviso - Amerio), dato che gli uomini del Secolo presente erano talmente progrediti da condannare ormai da sé stessi certi errori?  E che dire, allora, del fatto che nel 1961 era entrata in commercio negli Stati Uniti la pillola anticoncezionale, che avrebbe potentemente contribuito alla cosiddetta “emancipazione” delle donne, consegnandole in pratica alla corruzione del Secolo?  La diffusione degli anticoncezionali, che si è dimostrata letale per l’Occidente, dimostrava forse che l’umanità ormai condannava da sé stessa certi errori?  Tanto poco li condannava, che questi errori penetrarono ampiamente nella Cattolicità, come dimostrò la vasta ribellione, guidata da interi settori dell’episcopato, che scoppiò quando Paolo VI, pur liberale di temperamento, dovette finalmente dichiarare illecito l’uso degli anticoncezionali, nell’enciclica Humanae vitae, del 25.7.1968.  Come si sa, questa proibizione è rimasta a tutt’oggi lettera morta per molti cattolici.

Ma torniamo ad AeU 6.  L’argomento dell’articolo è:  “La Chiesa in quanto società è il Corpo mistico di Cristo”.  Ossia:  il Corpo Mistico non è solo “spirituale” o “pneumatico” (dal greco pneuma, soffio, spirito), comprende anche la Chiesa società, visibile, gerarchica, militante.

“Dato dunque che lo Spirito Santo elargisce molti carismi alla Chiesa, che corrispondono alla sua indole sociale e alla sua missione divina, in vari offici e ministeri, affinché coloro che li ricevono, operino unitariamente quali cooperatori di Dio [Dei adiutores]  all’edificazione del corpo di Cristo, è falso sostenere che la Chiesa gerarchica o giuridica differisca  nei fatti [re] dalla Chiesa carismatica o dell’amore, come dicono.  Per il semplice fatto che la Chiesa in quanto società [Ecclesia societas] e il Corpo Mistico di Cristo non sono affatto due cose diverse [haud binae res sunt], ma la medesima cosa, che si palesa nel suo aspetto umano e divino; sì da venir assimilata al Mistero del Verbo Incarnato, con analogia di non piccola importanza”.

In cosa consiste, dunque, l’errore degli Ammodernanti?  Nel voler ritenere che l’azione dello Spirito Santo si svolga fornendo di doni  o càrismi solo la componente invisibile della Chiesa, agendo quindi  principalmente sul cuore e sul sentimento, che verrebbero così elevati a componenti di una Chiesa “dell’amore” (per l’umanità) del tutto indipendente dalla Chiesa gerarchica, ossia dalla Chiesa-società, istituzione.  Quest’ultima si troverebbe allora istituzionalmente (re) fuori dell’azione dello Spirito Santo, non godrebbe dei suoi doni.  Ma ciò è impossibile, obietta giustamente AeU 6, per il semplice motivo che la Ecclesia societas, con tutti i suoi ordini, non è stata fondata dagli uomini ma da Cristo stesso, che l’ha costruita a partire dai Dodici, ossia cominciando dall’alto, dai quadri, dalla gerarchia, non dal basso, dal popolo dei fedeli, che doveva ancora esser formato.  In quanto fondata da Cristo, la Chiesa gerarchica e militante gode pertanto dei doni dello Spirito Santo che, come si è visto, sono sempre, ci rivela S. Paolo, “secondo la misura dei doni di Cristo”.

Non ha perciò senso ipotizzare l’esistenza di una Chiesa dello Spirito, del tutto invisibile, che operi con i suoi doni nei cuori degli uomini ed addirittura si contrapponga a quella gerarchica.  Ed ancor meno ne ha, pretendere di “riformare” la Chiesa gerarchica in modo da renderla “carismatica o dell’amore”, come volevano Congar e i suoi amici; cosa che renderebbe – osservo – il Cattolicesimo una sorta di pappa del cuore.  Una concezione del genere riflette le eresie dei Protestanti, per i quali la vera Chiesa è appunto solo quella invisibile, costruita dal cuore, dal sentimento, dalla coscienza di ciascuno, e di essa ogni credente sarebbe il sacerdote, con lo Spirito Santo che lo assisterebbe nella lettura individuale della Bibbia, qualsiasi cosa creda egli poi di trovarvi!  Inoltre, quell’erronea concezione non tiene conto del dato storico offerto dai Vangeli, che mostrano appunto come Nostro Signore abbia fondato nei particolari la Chiesa come realtà gerarchica e sociale visibile, alla quale ha promesso l’aiuto dello Spirito Santo, poi inviato in forma sensibile con il miracolo del giorno della Pentecoste.  E come abbia insegnato a santificarci nella rinuncia a noi stessi e nella lotta contro noi stessi, ricercando il Regno di Dio e la sua giustizia, non la nostra; a non abbandonarci alle ingannevoli lusinghe del cuore o del sentimento, sempre pronti a lasciarsi sedurre dal peccato.

I sostenitori dell’idea di una Chiesa “pneumatica” proponevano un’ecclesiologia nella quale si riaffacciavano le eresie dei Modernisti.  Ciò apparve in modo evidente quando si aprì la discussione sullo schema De Ecclesia rielaborato dalla Commissione Mista, nella 37 Congregazione generale del Concilio.  “I due primi interventi, quelli del cardinale Frings e Siri confermarono la profonda divergenza di vedute esistente all’interno dell’assemblea.  Da una parte vi era la concezione della Nouvelle Théologie, in particolare di Congar, che contrapponeva alla “Chiesa del Diritto” quella pneumatica dell’Amore; dall’altra la visione tradizionale, che si rifaceva alla dottrina di san Roberto Bellarmino, letta alla luce della Mystici Corporis”.  Il giorno successivo un altro esponente dei Novatori, il cardinale cileno Raul Silva Henríquez sostenne che “la Chiesa deve esser considerata come una comunione di chiese locali, nello stesso senso in cui san Paolo si rivolgeva alla ‘Chiesa di Corinto’ e alla ‘Chiesa di Efeso’[una “comunione” retta dallo “Spirito”, più che dal Vicario di Cristo].  Ruffini, in polemica anche con Frings, criticò il concetto di Chiesa-sacramento [utilizzato in LG 1] già usato dall’eretico Tyrrell [gesuita irlandese, uno dei capi del Modernismo, scomunicato da S. Pio X] e contestò la base scritturistica della collegialità, ricordando che Cristo disse solo a Pietro:  “Tu sei Pietro e su questa pietra costruirò la mia Chiesa”[18].

La visione di una Chiesa “pneumatica” o “dello Spirito” separava l’azione dello Spirito Santo da quella di Nostro Signore, rendendola incontrollata e pencolando verso una “Chiesa” costituita da “movimenti” di spiritati e invasati dallo “Spirito”, sul tipo dei c.d. “carismatici” protestanti. Oggi “movimenti” di questo tipo, che bisognerebbe definire pseudocattolici, hanno invaso la Chiesa Cattolica, tollerati dall’autorità ecclesiastica.  Ma era proprio questo il modello, c.d. “profetico”, verso il quale tendeva l’ecclesiologia del “popolo di Dio” propugnata con particolare intensità dal  cardinale belga Suenens[19].

Mi sembra utile ricordare, a questo punto, che nell’importante enciclica Mediator Dei sulla sacra Liturgia, del 20.11.1947, Pio XII condannava l’errore di “autori moderni” i quali, a proposito della liturgia:

“ingannati da una pretesa più alta disciplina mistica, osano affermare che non ci si deve concentrare sul Cristo storico, ma sul Cristo “pneumatico e glorificato”; e non dubitano di asserire che nella pietà dei fedeli si sarebbe verificato un mutamento, per cui il Cristo è stato quasi detronizzato, con l’occultamento del Cristo glorificato che vive e regna nei secoli dei secoli e siede alla destra del Padre, mentre al suo posto è subentrato il Cristo della vita terrena.  Alcuni perciò arrivano fino al punto di voler rimuovere dalle chiese le immagini del Divino Redentore che soffre in Croce [sic].

Ma queste false opinioni sono del tutto contrarie alla sacra dottrina tradizionale.  “Credi nel Cristo nato in carne – così Sant’Agostino – e arriverai al Cristo nato da Dio, Dio presso Dio”.  La sacra Liturgia, poi, ci propone tutto il Cristo, nei vari aspetti della sua vita [sino alla sua Passione, Morte e Resurrezione, continua il Papa, dopo la quale egli ci invia lo Spirito Santo].  E inoltre non ce lo presenta soltanto come un esempio da imitare, ma anche come maestro da ascoltare, un pastore da seguire, come mediatore della nostra salvezza, principio della nostra santità, e Mistico Capo di cui siamo membra, viventi della sua stessa vita.  E siccome i suoi acerbi dolori costituiscono il mistero principale da cui proviene la nostra salvezza, è secondo le esigenze della fede cattolica porre ciò nella sua massima luce, poiché esso è come il centro del culto divino, essendone il Sacrificio Eucaristico la quotidiana rappresentazione e rinnovazione, ed essendo tutti i Sacramenti congiunti con strettissimo vincolo alla Croce”[20].

Ho voluto ricordare la riprovazione pacelliana delle false dottrine sul Cristo “pneumatico e glorificato” che avrebbe dovuto occupare il centro della liturgia cattolica perché esse sono certamente da connettere alla falsa idea di una Chiesa “carismatica e dell’amore” alternativa alla Chiesa gerarchica e militante, condannata da AeU 6.  Sembrano costituirne l’applicazione nell’ambito della riforma liturgica auspicata dagli elementi deviati del Movimento Liturgico, attivo soprattutto fra le due guerre mondiali.  E la riforma liturgica posta in essere su impulso del Vaticano II, ha portato o no, di fatto, a vedere nella Resurrezione – in quanto momento di gaudio e gioia – il momento essenziale della S. Messa?  Tanto per fare un esempio, la Conferenza Episcopale dell’Emilia Romagna, in un opuscolo dedicato al confronto-dialogo tra Cristianesimo e Islam, in che modo presenta sinteticamente la S. Messa agli occhi dei Mussulmani?  In questo modo:  “La Chiesa fa memoria del Signore Risorto mettendo in una comunione viva e reale i suoi figli con Dio uno e trino”[21].  In questa definizione, che sembra addirittura inclinare alla S. Messa intesa come semplice “memoriale” e “sacrificio di lode”, alla maniera dei Protestanti eretici, non vi è più nessuna traccia dell’idea della S. Messa come Sacrificio propiziatorio, che ci ottiene misericordia (propitiatio) per i nostri peccati.  Qui la S. Croce non sembra pertanto esser più il centro del culto divino, il che rappresenterebbe una deviazione terrificante dalla retta dottrina e liturgia, un vero e proprio tradimento. 

 

8. L’analogia con il Verbo Incarnato 

Il secondo e ultimo paragrafo di AeU 6 spiega l’analogia tra la Chiesa e il Verbo Incarnato.

“Infatti, come nel Verbo Incarnato la natura umana, quale strumento vivo della sua stessa natura divina, si dedica alla salute nostra e di tutto il mondo e continua nei cieli a dedicarvisi [è l’umanità trasfigurata del Corpo Glorioso del Signore, che è nostro Patrono in Cielo – Eb 7,25], così la Chiesa in quanto società [Ecclesia societas] riceve i doni [charismatibus] della predicazione, del sacerdozio, della regalità [di Nostro Signore] affinché essa serva lo Spirito di Cristo nell’edificazione del Corpo di Cristo.  Infatti, questi doni, non altrimenti che gli altri ricevuti dallo Spirito Santo, devono esser messi a frutto come servizio e ministero di verità e carità, affinché la salvezza originata da Cristo e contemporaneamente tutti i benefici che ne scaturiscono, si propaghino a tutti gli uomini e a tutte le età”[22].

Il senso della non facile ma tuttavia evidente analogia sembra essere il seguente:  il rapporto tra la Ecclesia societas e il Corpo Mistico è simile a quello tra la natura umana e la natura divina del Verbo Incarnato, le quali non si confondono mai pur costituendo un’unità inscindibile nella Persona stessa del Verbo.  La Ecclesia societas, gerarchica e militante, ha ricevuto da Cristo suo fondatore determinati doni per edificare il Corpo di Cristo, in un’azione sempre obbediente allo “Spirito di Cristo”, che è altro modo tradizionale di designare lo Spirito Santo[23].  La Ecclesia societas ha ricevuto i doni dal suo divino fondatore e li mantiene con l’aiuto dello Spirito Santo proprio perché unita in terra al Corpo Mistico di Cristo ma senza confondersi in esso, così come la natura umana è unita, senza confondervisi, a quella divina del Verbo. La Chiesa gerarchica e militante svolge, pertanto, la stessa funzione di “strumento” della natura divina espletato dalla natura umana del Verbo.  Separarla dallo Spirito Santo equivarrebbe a separarla dal Verbo, suo fondatore, il che sarebbe assurdo oltre che eretico perché equivarrebbe a negare la storicità dei Vangeli. 

 

9.  L’unica e vera Chiesa di Cristo è la Chiesa Cattolica Romana 

Tutto ciò considerato, lo schema si conclude con l’art. 7, che dichiara senza mezzi termini esser la Chiesa cattolica romana l’unica e vera Chiesa di Cristo:  questa è la vera natura della Chiesa militante.  Il titolo dell’articolo recita:  “La Chiesa cattolica romana è il Corpo Mistico di Cristo”.

“Insegna pertanto il Sacro Sinodo e professa solennemente che non vi è se non un’unica vera Chiesa di Cristo, e cioè quella che nel Simbolo celebriamo una, santa, cattolica e apostolica, vale a dire quella che il Salvatore si acquistò sulla Croce e congiunse a sé come il corpo alla testa e la sposa allo sposo, e dopo la sua resurrezione diede a S. Pietro e Successori, che sono i Romani Pontefici, affinché la governassero; e che pertanto è la sola che di diritto viene chiamata Chiesa Cattolica Romana”.

Ho messo in corsivo e sottolineato le parti di questa definizione lasciate cadere dalla rielaborazione che ne avrebbe fatto la Commissione Mista, sopra richiamata, inserendo i resti in LG 8.2.  La presente definizione, chiara, semplice e lineare, rappresenta la conclusione logica di tutto il discorso che la precede, che a sua volta viene condotto in perfetta continuità con la dottrina tradizionale della Chiesa.  Anche in AeU vengono usate le varie denominazioni tradizionali della Chiesa.  Non c’è però nessuna confusione.  I termini tradizionali usati esprimono tutti una medesima realtà.  Il nuovo “Israele di Dio” o “Chiesa di Dio” è la “Chiesa di Cristo” da lui fondata, che è nello stesso tempo il “Corpo Mistico di Cristo”, il quale coincide perfettamente in questo mondo con la Chiesa Cattolica Apostolica Romana, governata dal Vicario di Cristo in terra, il Sommo Pontefice, Vescovo di Roma, Primate d’Italia.

Ma, durante la fase preparatoria, proprio contro questo articolo 7 si scatenò l’ira degli Ammodernanti, come si è detto, in particolare del cardinale Liénart (l’uomo del 13 ottobre) e del cardinale Bea.  Due cardinali di S. Romana Chiesa, e non erano i soli, non accettavano più una definizione della Chiesa conforme all’insegnamento di sempre, che identificava la Chiesa Cattolica Romana con l’unica vera Chiesa di Cristo e quindi con il Corpo Mistico di Cristo! E non l’accettavano in nome delle esigenze ecumeniche indicate da Giovanni XXIII, grazie alle quali l’idea e il concetto della vera Chiesa di Cristo si dovevano poter applicare anche ai “fratelli separati”, i quali erano (e restano) scismatici ed eretici?  Nel corpo della Gerarchia, agli alti livelli, c’era evidentemente qualcosa che non quadrava, dal punto di vista teologico.

    Ma vediamo la critica all’articolo avanzata dal cardinale Liénart.  Dopo aver detto che lo schema non gli piaceva perché trascurava l’aspirazione all’unità dei “cristiani separati”, sferrò il suo attacco in questo modo.   “Mi sembra, disse, che non possiamo “confessare solennemente”, come propone il testo all’art. 7, che la Chiesa romana e il Corpo Mistico siano l’identica realtà, come se il Corpo Mistico fosse interamente ricompreso nei limiti della Chiesa romana. Difatti il Corpo Mistico di Cristo è molto pi­ù ampio della Chiesa cattolica militante.  Abbraccia la Chiesa sofferente al Purgatorio e la Chiesa trionfante in cielo.  Dal che si conclude che la nostra Chiesa, per quanto sia l’aspetto visibile del Corpo Mistico di Cristo, non possa assolutamente identificarsi con esso”[24].  Il cardinale Liénart ne faceva una questione di quantità!  Poiché l’intero Corpo Mistico è senz’altro più esteso della Chiesa militante, allora i due non si identificano.  Non diceva nemmeno:  bisogna dire che si identificano in parte, solo in questo mondo:  non si identificano e basta.  Come se si trattasse di due realtà diverse.  E in nome di questa maggior estensione del Corpo Mistico rispetto alla Chiesa militante il cardinale rifiutava il concetto tradizionale di Chiesa per ricercarne uno che si estendesse anche ai “fratelli separati”?  La Chiesa Cattolica “militante” non si identificava con il Corpo Mistico mentre vi si sarebbe identificata una Chiesa aperta  ai “fratelli separati”?  Forse che questa nuova “Chiesa” avrebbe potuto estendersi al Purgatorio e al Paradiso?    Ma quando S. Paolo insegnava che la Chiesa era il Corpo il cui Capo era il Cristo, non includeva quella che poi si è chiamata Chiesa militante nel Corpo di Cristo ossia nel Corpo Mistico di Cristo?  E la includeva come un qualcosa di estraneo o come qualcosa che si identificava perfettamente con il Corpo Mistico di Cristo? Dal punto di vista qualitativo, della sua specifica natura, la Chiesa visibile fondata in terra da Nostro Signore non si distingue in alcun modo dalla “pienezza” del Corpo Mistico di cui il Cristo è il Capo in cielo. È dunque corretto esprimere questa identità assoluta usando il verbo essere, e dire che la Chiesa militante è il Corpo Mistico di Cristo.  E che lo sia in terra è ovvio, risulta già dall’aggettivo “militante”, che designa da sempre la Chiesa visibile, in questo mondo.  Nell’attaccare lo schema, Liénart non attaccava solo Ottaviani e la Curia.  Attaccava in realtà l’insegnamento della Mystici Corporis, che a sua volta (come si è detto) si basava su quello di Leone XIII e risaliva sino a S. Bellarmino, morto nel 1621; insomma attaccava la dottrina sempre insegnata dalla Chiesa sulla natura della Chiesa stessa. E gli argomenti che usava non avrebbero potuto essere sostenuti senza problemi anche da un Protestante?

 Con il togliere dall’art. 7 le parti più significative:  dall’aggettivo “vera” al riferimento alla Croce e ai suoi meriti (sgraditissimo evidentemente ai Protestanti oltre che a tutte le altre religioni della terra), al Primato di Pietro e dei suoi successori, la Commissione Mista dimostrava di procedere nello spirito del cardinale Liénart e dei suoi sodali in Nouvelle Théologie.  Ma vediamo ora cosa resta di AeU 3-7 in Lumen Gentium 4-8. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

V.  LA CHIESA DI LG 4-8 É UNA CHIESA DELLO SPIRITO E DELL’AMORE, OSSIA UNA CHIESA NON GERARCHICA E NON MILITANTE, SEMPRE IMPERFETTA, SEMPRE IN CERCA DELLA PIENEZZA DELLA VERITÀ?

Cominciamo dunque con l’esaminare LG 4, dedicato allo “Spirito santificatore della Chiesa”, uno degli articoli interamente nuovi rispetto allo schema Aeterni Unigenitus.  In quest’articolo si riafferma la tradizionale molteplicità dei doni dello Spirito Santo.  Qual è il fine dello Spirito Santo?  Il giorno di Pentecoste esso fu inviato “per santificare continuamente la Chiesa”. Ma anche affinché “i credenti avessero così attraverso Cristo accesso al Padre in un solo Spirito (Ef 2, 18)”.  Nella sua opera di “santificazione”, che cosa propriamente fa lo Spirito Santo?  Esso “dà la vita”, si intende la vita dell’anima; è infatti “una sorgente di acqua zampillante fino alla vita eterna (Gv 4, 14-17; 7, 38-39)”, che ci procura la rigenerazione spirituale:  “per mezzo suo il Padre ridà la vita agli uomini, morti per il peccato, finché un giorno risusciterà in Cristo i loro corpi mortali (Rm 8, 10-11)”.  Dove “abita” (habitat) lo Spirito Santo?  “Nella Chiesa, nei cuori dei fedeli come in un tempio e in essi prega e rende testimonianza della loro condizione di figli di Dio per adozione (Gal 4, 6 etc.) ”.  Ma lo Spirito Santo non contribuisce anche al nostro retto intendimento, al giusto discernimento?  La sua azione non incide anche sulla sfera razionale dell’individuo?  E difatti, lo Spirito Santo “introduce la Chiesa in tutta la pienezza della verità”[Ecclesiam quam in omnem veritatem inducit..](Gv 16, 13).  Inoltre, esso “la unifica nella comunione e nel ministero, la provvede e dirige con diversi doni gerarchici e carismatici, la abbellisce dei suoi frutti.  Con la forza del Vangelo la fa ringiovanire, continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione col suo Sposo”.  In conclusione:  “la Chiesa universale si presenta come “un popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (S. Cipriano; S. Agostino)”.

 In questa ampia rappresentazione, intessuta di immagini tradizionali, ci sono però, come ho già detto, alcuni aspetti che non solo non sembrano affatto coincidere con l’impostazione di AeU ma che fanno anche scorgere una concezione singolare dell’azione dello Spirito Santo. 

1)  In AeU lo Spirito Santo contribuisce all’edificazione del Corpo Mistico di Cristo sempre “secondo la misura dei doni di Cristo”.  In LG 5 questa verità non viene enunciata in modo così chiaro; essa resta come implicita, per non dire addirittura sepolta nel riferimento ad Ef 2,18, che in realtà tratta “dell’unico Spirito” di Cristo che avrebbe affratellato pagani ed ebrei, una volta diventati tutti cristiani (sull’ulteriore uso conciliare di questo passo di Ef 2, vedi infra).  

2) Secondo la dottrina tradizionale, lo Spirito Santo non è solo “grazia carismatica”, che cioè conferisce i necessari doni o carismi spirituali alla Chiesa e ai singoli fedeli. In quanto Persona della Santissima Trinità, la sua azione (e proprio in base alle dichiarazioni di Nostro Signore) viene percepita anche come quella di una persona, di un Soggetto che mostra una personalità, che opera con discernimento e volontà.  La funzione docente  dello Spirito Santo è appunto una di quelle che lo caratterizza come Persona e non come semplice spirito impersonale[25].  LG 4 ricorda la funzione docente dello Spirito Santo, ma in che modo?

 

1.  Uno Spirito Santo che solamente “ci introduce” a “tutta la verità”?

Risulta chiaramente dal Vangelo che lo Spirito Santo “insegnerà [docebit] alla Chiesa tutta la verità” della Rivelazione ed insegnerà ai singoli fedeli cosa rispondere ai persecutori, una volta tradotti nei loro tribunali (“lo Spirito Santo vi insegnerà [docebit] in quel momento stesso ciò che dovrete dire” – Lc 12,10).  In LG 4, invece, lo Spirito “introduce la Chiesa in tutta la verità” o “nella pienezza della verità”, secondo il volgare italiano. Il francese dice, ugualmente: “Cette ­Église qu’il introduit dans la vérité toute entière..”.  Tra l’insegnare tout court tutta la verità e l’introdurre ad essa, c’è o no una sensibile differenza?  A me sembra di sì.  Un conto è dire che lo Spirito Santo “vi insegnerà tutta la verità” (docebit vos omnem veritatem, Gv 16,13), espressione forte, senza sfumature, sia dal lato dell’azione docente sia da quello della materia insegnata, che è tutta la verità.  Il concetto lo si è reso  anche traducendo dal greco in modo più letterale, scrivendo:  “vi guiderà a tutta la verità”, come nelle edizioni della S. Bibbia della CEI di prima e dopo il Concilio ma anche in quelle popolari della Pia Società di S. Girolamo, regnante S. Pio X (“vi guiderà ad ogni vero”).  Il significato è esattamente il medesimo:  l’insegnamento dello Spirito Santo è appunto la preannunciata, sicura guida sovrannaturale a tutta la verità, già predicata e spiegata da Cristo ma non ancora afferrata compiutamente dai Discepoli. 

Altro, invece, è dire che lo Spirito Santo “ci introduce a tutta la verità” (Ecclesiam, quam in omnem veritatem inducit..), variando la traduzione latina consolidata del medesimo passo evangelico sì da conferire all’insegnamento dello Spirito Santo il valore di una semplice “introduzione”.   Un’introduzione alla verità ha in sé stessa, proprio come concetto, qualcosa di parziale, l’idea di un vero che si inizia a conoscere ma resta ancora incompiuto, quanto al suo definitivo possesso.  E crea una certa difficoltà pensare ad una “introduzione a tutta la verità”, proprio perché l’introdurre è sempre atto che resta parziale e quindi non può riguardare “tutta” la verità.

Ma perché si è voluto variare il latino della citazione?  E quali le possibili conseguenze di questo mutamento?  Può incidere esso sul concetto  di verità rivelata oltre che sul modo di intendere lo Spirito Santo?  Il passo giovanneo è di fondamentale importanza per comprendere in modo esatto la rivelazione di Nostro Signore a proposito dello Spirito Santo.  Esso va inteso nel suo contesto proprio.  “Ho ancora molte cose da dirvi, ma per ora non potete sostenerle”.  Si trattava di verità ancora troppo profonde.  “Quando sarà venuto lo Spirito di verità, egli v’insegnerà tutta la verità; giacché non parlerà da sé stesso, ma vi dirà quanto udrà, e vi annunzierà le cose che dovranno succedere.  Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve lo annunzierà.  Tutto ciò che ha il Padre, è mio; perciò ho detto che prenderà dal mio e ve lo annunzierà” (Gv 16, 12-15). 

Quindi:  lo Spirito Santo completerà l’insegnamento di Cristo, senza tralasciare nulla (“tutta la verità”, rivelata, ovviamente).  E potrà farlo perché insegnerà “quanto udrà”.  Da chi?  Da Cristo stesso e dal Padre.  Prenderà “del mio” da Nostro Signore, ma “il mio” di Nostro Signore è sempre “il mio” del Padre, ab aeterno, perché è “tutto ciò che ha il Padre”.  L’insegnamento dello Spirito Santo agli Apostoli, ivi comprese le profezie, riguardando “tutta la verità” da approfondire rispetto a quanto già insegnato da Nostro Signore, avrebbe pertanto concluso la Rivelazione.  E correttamente si è sempre ritenuta come verità di fede la proposizione secondo la quale la Rivelazione si è conclusa con la morte dell’ultimo Apostolo.  L’insegnamento di “tutta la verità” da parte dello Spirito Santo porta perciò a compimento il Deposito della Fede. 

Bisogna comunque tener sempre presente, sottolinea Mons. Gherardini, che da parte dello Spirito Santo si ha solo una “assistenza conservativa alla verità rivelata, non un’integrazione in essa di verità altre o diverse da quelle rivelate, o presunte come tali”.  Alla Pentecoste “non ci saranno ulteriori rivelazioni.  L’unica si chiude con coloro ai quali Gesù sta ora parlando [ai Discepoli, nel Vangelo di Giovanni citato].  Le sue parole si presentano con un significato univoco, riguardante l’insegnamento da Lui impartito e soltanto codest’insegnamento.  Un linguaggio, questo, non criptato o cifrato, ma limpido come il sole.  Si potrebbe sollevar un’obiezione sulla prospettiva d’apparente novità in relazione a quello che, ora taciuto da Gesù, verrà annunziato dallo Spirito Santo; ma la delimitazione della sua assistenza ad un’azione di guida verso il possesso di tutta la verità rivelata da Cristo esclude novità sostanziali.  Se novità emergeranno, si tratterà di significati nuovi, non di verità nuove; donde il giustissimo “eodem sensu eademque sententia” del Lerinense.  Insomma, la pretesa d’agganciar all’assistenza dello Spirito Santo ogni stormir di fronda, voglio dire ogni novità e segnatamente quelle che commisurano la Chiesa sulle dimensioni della cultura imperante e della c.d. dignità della persona umana, non solo è un capovolgimento strutturale della Chiesa stessa, ma è pure un gran segno di croce sui due testi sopra indicati [Gv 14,16-26 e 16, 13-14]”[26].  

Ma se questo insegnamento diventa una semplice “introduzione” a “tutta la verità”, non lo si accorcia arbitrariamente, aprendo la via all’idea che esso avrebbe semplicemente “introdotto” ad una verità che deve ancora completarsi?  Un’introduzione, infatti, rinvia di per sé ad un ulteriore sviluppo.  E dove si ferma questo sviluppo?  Il concetto che lo Spirito Santo “ci introduce” alla verità rivelata, è ripetuto dal Concilio nella costituzione Dei Verbum sulla divina Rivelazione, all’art. 8, ove si dice, alla fine:  “e lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce dell’Evangelo risuona nella Chiesa e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti alla verità intera [credentes in omnem veritatem inducit] e in essi fa risiedere la parola di Cristo in tutta la sua ricchezza (cfr. Col 3, 16)”, dove il riferimento paolino va riferito solo al risiedere della parola di Cristo in noi, in tutta la sua ricchezza. La traduzione francese è uguale:  “introduit les croyants dans la vérité tout entière”. Del resto, in questo stesso articolo della DV, non si scrive forse che: ”la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina [ad plenitudinem divinae veritatis iugiter tendit], finché in essa vengano a compimento le parole di Dio”?  Come se la Chiesa non avesse già il possesso della “pienezza” della verità divina nel Deposito della Fede, conclusosi con la morte dell’ultimo Apostolo!  Altro è dire che la Chiesa deve sempre tendere alla migliore realizzazione del mandato divino e delle verità di fede, migliorandosi costantemente nei suoi membri, ecclesiastici e laici, nell’opera instancabile della santificazione quotidiana.  Ma in DV 8 si parla proprio di un “tendere incessantemente alla pienezza della verità”, come se la verità (rivelata) tutt’intera la Chiesa non la possedesse ancora; la verità in quanto tale, non la sua attuazione! 

Mi chiedo se l’inducere in di LG 4 non svolga una funzione analoga al subsistere in di LG 8:  quella di introdurre l’idea di movimento, sviluppo, ampliamento e nello stesso tempo parzialità in ciò che dovrebbe essere di per sé completo ed immutabile: la verità rivelata una volta per tutte, verità che comprende la Chiesa di Cristo costruita sulla roccia rappresentata da Pietro e che può esser oggetto solamente di approfondimenti e chiarimenti “eodemque sensu eodemque sententia”[27].

 

2. Un Regno di Dio che si accetta sola fide e cui si partecipa senza il Giudizio? 

Il Vaticano II non ha mai impiegato in modo esplicito il concetto del sovrannaturale (meritandosi per questo un famoso elogio di de Lubac) e ciò lo ha esposto all’accusa di non aver riproposto la distinzione tra natura e sovrannaturale, Natura e Grazia, favorendo anzi, di fatto, la confusione tra i due regni.  Tuttavia, esso ha voluto dedicare un intero articolo al “Regno di Dio”, che rappresenta per l’appunto il Sovrannaturale per eccellenza.  LG 5 è dedicato appunto al Regno di Dio in connessione con il “mistero della Chiesa”.  Anche quest’articolo è del tutto nuovo rispetto allo schema AeU.  L’articolo non dice che cosa sia il Regno di Dio, non ne dà una definizione:  sembra presupporne la nozione, come se fosse cosa nota.  Né sembra in alcun modo riproporre l’immagine tradizionale del Regno di Dio come simbolo della Chiesa in quanto tale (come in AeU) né la qualità sovrannaturale in senso proprio del Regno, che coinciderà alla fine dei tempi con la Chiesa trionfante nella gloria indicibile della Visione Beatifica:  “O isplendor di Dio, per cu’io vidi/l’alto trionfo del Regno verace,/dammi virtù a dir com’io il vidi!” (Par., XXX, 97-100).

Come veniamo a sapere del Regno di Dio?  È Cristo che  lo annuncia  e lo manifesta nelle sue parole e opere, con la sua stessa “presenza”, dimostrando che esso “è arrivato sulla terra”.  La “parola del Signore” è appunto “paragonata al seme che viene seminato nel campo”, secondo la nota parabola del Seminatore (Mc 4,14).  Quelli che la ascoltano “con fede e appartengono al piccolo gregge di Cristo hanno accolto il regno stesso di Dio (Lc 12,32), poi il seme per virtù propria germoglia e cresce fino al tempo del raccolto (Mc 4, 26-29)”.  Non si tratta solo della parola:  “anche i miracoli di Gesù provano che il regno è arrivato sulla terra” poiché Egli ha detto:  “Se con il dito di Dio io scaccio i demoni, allora è già pervenuto tra voi il regno di Dio” (Lc 11,20; Mt 12,28)”.  Ma più ancora che nelle sue parole e opere, precisa il testo, il Regno si manifesta nella persona stessa del Cristo, “figlio di Dio e figlio dell’uomo, il quale è venuto “a servire e a dare la sua vita in riscatto per i molti”(Mc 10,45)”(LG 5.1).

Che significa dire che il Regno di Dio si manifesta soprattutto nella persona stessa di Cristo?  Si noti innanzitutto che si scrive “Figlio di Dio e Figlio dell’uomo”, senza voler usare termini come Unigenito o Consustanziale al Padre, che esprimono in modo  dogmaticamente ineccepibile la natura divina del Signore.  E si noti, nel volgare italiano, come il senso del testo di Mc 10,45 sia stato modificato poiché la “redemptio pro multis (antì pollôn)” è sempre stata resa con “riscatto per molti”, non “per i molti”, versione che sembra introdurre una certa ambiguità.  La versione francese recita:  “..et donner sa vie en rançon d’une multitude”.

Dunque:  il Regno si manifesta nella persona di Cristo, che è venuto a dare la sua vita in riscatto “per i molti”.  Ma “i molti” come entrano nel Regno di Dio?  Semplicemente attraverso la “persona di Cristo”, accogliendo il suo insegnamento salvifico e lasciandolo fruttificare, fino a che è maturo “per il raccolto”?  In questo modo possiamo indubbiamente esporre sinteticamente il rapporto tra la Parola di Cristo e il suo produr frutti in noi, sino al “raccolto” finale (della vita eterna). Tuttavia, LG 5 non illustra il concetto dell’”entrare nel Regno di Dio”.  Si limita alla sua manifestazione per opera di Cristo e al suo accoglimento da parte nostra, con l’atto di fede di chi appartiene al “piccolo gregge”.  E non manca qualcosa, a siffatta rappresentazione del Regno, per esser completa?  Nostro Signore non ha detto qualcos’altro sul suo Regno, “che non è di questo mondo”?   Si può entrare nel Regno di Dio senza esser battezzati e senza esser giudicati da Nostro Signore alla fine della nostra vita?  E la Chiesa, come viene nominata da LG 5?

La Chiesa, lo sappiamo, è il Regno di Dio che comincia per noi già qui in terra, nell’appartenenza alla Chiesa militante.  Ma questa è la dottrina tradizionale, riproposta da AeU.  Per LG 5 la Chiesa è “germe e inizio” del Regno come Chiesa universale santificata dallo Spirito nei modi illustrati da LG 4, appena richiamato.

“La Chiesa perciò, fornita dei doni del suo fondatore e osservando fedelmente i suoi precetti di carità, umiltà e abnegazione, riceve la missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il regno di Cristo e di Dio, e di questo regno costituisce in terra il germe e l’inizio.  Intanto, mentre va lentamente crescendo, anela al regno perfetto [Regnum consummatum] e con tutte le sue forze spera e brama di unirsi col suo re nella gloria”(LG 5.2). 

È vero che “la Chiesa” (che qui non è ancora la Chiesa Cattolica) ha ricevuto dal suo fondatore la missione di “annunziare ed instaurare in tutte le genti il Regno di Dio”, del quale costituisce quindi “in terra il germe e l’inizio”.  Ma vedere solo in questo – in sostanza nella predicazione della Buona Novella – il nesso tra la Chiesa e il Regno di Dio non è alquanto riduttivo?  A  S. Pietro, ossia alla Gerarchia della Chiesa cattolica, ai sacerdoti, Nostro Signore non ha forse dato “le Chiavi del Regno”?  Nell’unico scarno riferimento ai nomi della Chiesa contenuto in AeU 3.2, si è visto che tra di essi c’è anche il “regnum Dei”.  In nota, si rimanda a Mt 16,19, alla celebre frase rivolta da Nostro Signore a S. Pietro, che, per divina ispirazione, l’aveva riconosciuto come il Messia: “E ti darò le chiavi del Regno dei Cieli”.  Il “Regno dei Cieli”, lo sappiamo, non è cosa diversa dal “Regno di Dio”.  E AeU 3.2  rimanda nella stessa nota all’enciclica Satis cognitum di Leone XIII, del 5.9.1896 sull’unità della Chiesa, ove si legge: 

“E per verità al solo Pietro furono consegnate le chiavi del regno celeste, e a lui, unitamente agli apostoli, fu dato, per testimonianza della sacra Scrittura, il potere di legare e di sciogliere”[28].

Come mai in LG 5 manca del tutto questo fondamentale aspetto del rapporto tra la Chiesa cattolica e il Regno di Dio, pur accennato in AeU?  E lo sappiamo bene che l’attribuzione di tale potere a Pietro da parte di Nostro Signore non è mai stata intesa in senso meramente simbolico.  Per mandato divino la Chiesa Cattolica (la Chiesa governata da Pietro e dai vescovi) è la custode del Regno di Dio.  E il custode lascia entrare solo chi ha i giusti titoli.  Se il sacerdote non ti assolve in confessione, tu resti nei tuoi peccati e se morirai nei tuoi peccati non entrerai mai nel Regno di Dio.  La dottrina tradizionale ha sempre posto nel dovuto rilievo la natura sovrannaturale del Regno, ribadendo che, con l’insegnamento e i Sacramenti, la Chiesa “rinnova le anime, disponendole alla fase ultima del Regno di Dio, che è la vita eterna”[29]

 

3. Le ambiguità del “Regno” di LG 5 

Il rapporto tra la Chiesa e il regno sembra per la verità impostato da LG 5 in una prospettiva soprattutto escatologica, ma si tratta di un’escatologia sui generis poiché la natura  sovrannaturale del Regno di Dio non sembra mai emergere chiaramente.  Il “regno perfetto” cui la Chiesa “anela”, come sua meta finale, è il Regno dei Cieli nel quale entreranno gli Eletti dopo il Giudizio universale?  Che lo sia, risulterebbe dal senso tradizionale dell’espressione utilizzata: “Regnum consummatum”, con la quale, se non erro, si intende il Regno nel quale si rivela la Visione Beatifica.  Ma dire che la Chiesa, dopo aver costituito in terra “il germe e l’inizio” del Regno, “spera e brama con tutte le sue forze” di giungere alla Visione Beatifica, è sufficiente per esporre in modo completo il giusto rapporto tra il Regno di Dio e la Chiesa?  È sufficiente, in assenza di qualsiasi riferimento al Giudizio e alla divisione finale in Eletti e Reprobi e al potere delle Sante Chiavi di aprire e chiudere le porte del Regno di Dio?    La “Chiesa” appare inoltre lontana dal “Regno perfetto” perché vi anela solamente, e “spera e brama” di “unirsi al suo Re nella gloria”.  Non dice nemmeno, il testo, che spera di entrare nel Regno, alla fine dei tempi, affermazione che indicherebbe la natura sovrannaturale dello stesso.  La Chiesa di LG 5 appare sempre imperfetta perché sempre in ricerca.  Ma l’anelare, lo sperare e il bramare possono applicarsi ai singoli membri della “Chiesa” ma non alla Chiesa in quanto tale, depositaria della verità rivelata, che già costituisce il Regno di Dio, in terra e nei cieli (nelle anime di quei Cristiani che già sono in Paradiso e siedono alla destra del Padre, con Nostro Signore). 

Noi sappiamo dai Vangeli che il Regno è sia esteriore che interiore.  Rispondendo polemicamente ai Farisei, che pensavano sempre al dominio temporale di Israele, Gesù rispose che il Regno “è dentro di voi”(Lc, 17,21).  Se poi l’espressione deve esser intesa nel senso di “tra di voi” e non dentro ciascuno di voi (“tra di voi” nell’Ecclesia Dei che stava nascendo con la predicazione del Signore), ciò non toglie che noi siamo chiamati a “cercare” il Regno, nel quale entrano solo coloro “che fanno violenza a sé stessi”(Mt 11,12; Lc 16,16) ossia coloro che combattono vittoriosamente contro sé stessi, obbedendo così in tutto ai precetti di Cristo e della sua Chiesa.  Ma il rapporto tra ciascuno di noi credenti e il Regno, come risulta da LG 5?  Quelli che ascoltano la parola del Signore “con fede e appartengono al piccolo gregge di Cristo”, costoro “hanno accolto il regno stesso di Dio [Regnum ipsum susceperunt]”, che poi germina e cresce “per virtù propria”, come il seme nel campo, sino al tempo del raccolto. E cosa succederà al momento del “raccolto”?  LG 5 non ce lo vuol rammentare. Esso si limita a questo:  poiché la parola del Signore annunzia il Regno, chi la accoglie con fede, accoglie il Regno stesso di Dio  e questa parola cresce in lui per forza intrinseca.  Ciò risulta da tutte le parabole del Regno che lo paragonano ad un seme che cresce lentamente e per forza propria:  è la forza della parola di Cristo che germoglia lentamente nella nostra anima. Ma poi viene il momento del “raccolto”, che si fa con la falce del Giudizio divino.

Infatti, “accogliere” il Regno mediante la fede nella predicazione di Cristo, non è sufficiente per entrarvi alla fine dei tempi.  Non basta, come risulta dalla stessa parabola del Seminatore (Mc 4, 3-20).  In questa parabola, Nostro Signore ci rivela che molti tra quelli che accolgono la parola che annuncia il Regno di Dio non perseverano nella fede e quindi non entrano nel Regno, perdendosi nelle vie del peccato.  Nel Regno che si attua in questo mondo (ovvero nella Chiesa) accanto ai buoni ci sono anche i cattivi e la parabola della zizzania ci rivela che nel giorno del Giudizio il loglio sarà separato dal buon grano e gettato nella “fornace ardente”.  Ma questi fondamentali approfondimenti sono forse ripresi da LG 5?  Non lo sono. E mi sembra manchino anche negli altri passi conciliari nei quali riappare la visione del Regno.  Dal tenore di LG 5 sembra che coloro che ascoltano inizialmente con fede la parola di Cristo, per ciò stesso “accolgono” il Regno, che poi matura in loro ex opere operato, sino al “raccolto”, nel quale evidentemente non succede nulla di particolare.  Ridotto a quest’unica e mutila proposizione, il rapporto tra ciascuno di noi e il Regno non risulta privo delle necessarie sfumature e non sembra esser risolto a nostro favore dalla semplice fede nella Parola di Cristo? 

Ora, Nostro Signore ci ha fatto chiaramente capire che il possesso del Regno non è affatto sicuro da parte nostra senza l’opera della nostra santificazione quotidiana.  Non basta la fede, occorrono anche le opere, a cominciare da quell’opera fondamentale che è la nostra preghiera quotidiana, nella quale Egli stesso ci ha insegnato ad invocare l’avvento del Regno di Dio, nel Padre Nostro.  Nel Discorso della Montagna, quando ci esorta a non angustiarci per i nostri problemi quotidiani perché Dio sa di che cosa abbiamo bisogno e veglia sempre su di noi, ha detto:  “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutto il resto vi sarà dato per giunta.  Non preoccupatevi dunque per il domani, poiché il domani sarà sollecito di sé stesso”(Mt 6, 33-34).   Qui, il “cercare” indica evidentemente quale deve essere il corretto atteggiamento dell’anima nostra, che in ogni cosa della vita deve far prevalere la “giustizia del Regno di Dio” ossia i princìpi dell’etica cristiana, fondata sulla Rivelazione di Nostro Signore, senza lasciarsi travolgere dai bisogni del presente, per i quali dobbiamo sempre rimetterci alla Provvidenza.

Nel Regno non si entra poi collettivamente, vale a dire grazie ad un accoglimento collettivo della Parola di Cristo, come qualcuno potrebbe credere in base al dettato ambiguo di LG 5.  I testi sacri sono piuttosto chiari in proposito.

Per abbassare l’orgoglio mal posto dei Discepoli che litigavano per stabilire chi tra di essi dovesse essere considerato “il maggiore”, Nostro Signore fece loro una bella lezione d’umiltà, ricordando il principio: “chi governa sia come colui che serve”.  Lui stesso era rispetto a  loro come uno che governa e tuttavia stava “in mezzo a loro come uno che serve”.  Ed ecco il punto essenziale.  Perché affannarsi stoltamente per vane ambizioni terrene quando Egli stesso  aveva preparato per ciascuno di loro un posto nel suo Regno, dal quale avrebbe addirittura giudicato le tribù di Israele?  “Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; io vi preparo un regno, come il Padre mio l’ha preparato per me; affinché mangiate e beviate alla mia mensa [del tutto spirituale] nel mio regno e sediate in trono a giudicare le dodici tribù di Israele” (Lc 22, 24-30).  Il “trono” è singolo, ci si siede sopra individualmente.  Il Regno che è giunto in questa terra, testimoniato con la predicazione ed i miracoli di Cristo, è la realtà sovrannaturale ed eterna che Cristo stesso prepara per ognuno di quelli che avranno creduto in lui e perseverato sino alla fine.  Questo Regno è lo stesso che il Padre ha preparato per Lui.  Questa verità è ripetuta in Gv 14,1-4.  Durante l’Ultima Cena con il tradimento e la persecuzione incipienti, nell’incoraggiare i Discepoli, Gesù ripete che i suoi fedeli si riuniranno con lui nella “Casa del Padre”, che è un altro modo di chiamare il Regno di Dio.  “Il vostro cuore non si turbi.  Credete in Dio e credete anche in me.  Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore; se fosse diversamente ve lo avrei detto, perché io vado a preparare un posto per voi.  E quando sarò andato e avrò preparato il vostro posto, tornerò e vi prenderò con me, affinché dove sono io siate anche voi.  Voi sapete dove io vada e ne conoscete la via”.  Anche per ognuno di noi, di noi credenti che con l’aiuto della Grazia (e quindi della Chiesa Cattolica Romana) avremo perseverato sino alla fine nella fede e nelle buone opere (“Sii fedele sino alla morte e ti darò la corona della Vita”, Ap 2,10), Nostro Signore ha preparato “un posto” nella Casa del Padre, al quale accederemo dopo il Giudizio e dopo le opportune purificazioni nel Purgatorio. 

 

4. Una vena “millenaristica” nella visione conciliare del ‘Regno’?

 Ho ricordato prima che de Lubac elogiò il Concilio per non aver voluto proporre il concetto del Sovrannaturale.  Il termine si trova solo qualche volta come aggettivo, per esempio in frasi come la seguente, nella quale si coniuga ambiguamente il concetto profano della “solidarietà” con la Verità rivelata:  “Egli, infatti, assumendo la natura umana, ha legato a sé come sua famiglia tutto il genere umano in una solidarietà soprannaturale…” (Decreto Apostolicam Actuositatem sull’apostolato dei laici, 8).  Ma cosa disse de Lubac?  “Il Concilio giudicò più giusto e più saggio non usare una tale parola in certi contesti per non perpetuare degli equivoci né ravvivare delle polemiche dando l’impressione di canonizzare o almeno di favorire una teoria di scuola (detta della ‘natura pura’ nel senso preciso che essa sosteneva due finalità ultime dell’uomo)”[30].  La cosiddetta “teoria di scuola” è quella che, da ultimo nella cosiddetta “scuola romana”, ha espresso ed esprime l’insegnamento costante della Chiesa, sino al Vaticano II, concernente la gratuità dell’ordine sovrannaturale per l’uomo, il quale gli contrappone spesso e volentieri la propria natura umana ferita dal peccato originale, capace quindi, come “pura natura” non illuminata dalla Grazia ma decaduta, di rifiutare la Grazia stessa e la Salvezza.  È noto che  de Lubac, ispirandosi a Blondel, e Rahner, ispirandosi a Heidegger, cercavano entrambi di dimostrare che la Grazia deve considerarsi immanente alla natura.  In tal modo dissolvevano la Grazia in quanto dono gratuito di Dio, come insegnato da S. Paolo e da tutta la Chiesa nei secoli, aprendo appunto la strada ad una concezione cosiddetta “millenaristica” del Regno dei Cieli, ovvero all’errore secondo il quale (nell’ultima sua formulazione) il Regno di Dio si realizzerebbe già in terra alla fine dell’era cristiana, nell’unione pacifica di tutto il genere umano in una sorta di nuova ed indefinita Età dello Spirito.

Al di là delle fumose dichiarazioni di teologi neomodernisti come de Lubac e Rahner, il fatto importante, ai fini della nostra analisi del Concilio, è costituito dall’entusiasmo dei Protestanti per la chiusura conciliare al Sovrannaturale.  Essi dichiararono che l’antropologia delineata dalla costituzione Gaudium et spes, che riguarda la Chiesa e il mondo contemporaneo, si segnalava “per la scomparsa della distinzione tra natura e soprannaturale”, risultando quindi più affine alla concezione dell’uomo del Protestantesimo[31].  Questa dichiarazione dei Protestanti è o non è un bel siluro a chi sostiene che la “riforma” dottrinale apportata dal Concilio è in piena continuità con tutta la Tradizione della Chiesa?

Il Concilio si è in realtà occupato del Sovrannaturale, anche se non direttamente.  Se ne è occupato tutte le volte che ha preso in considerazione il “Regno di Dio”.   Non molte, ma sufficienti a far vedere la presenza di una corrente dottrinale più vicina alle concezioni di de Lubac e Rahner che alla dottrina ortodossa della Chiesa.  Così gli spunti in tal senso presenti in LG 13 e 35, nei quali si esamina il rapporto tra il bonum temporale dei popoli e il Regno alla luce del contributo che i cristiani devono dare all’incremento di tale bonum temporale “nel progresso universale nella libertà umana e cristiana” (LG 35.2); questi spunti trovano la loro elaborazione finale nella dottrina che espone addirittura “l’attività umana nell’universo [De humana navitate in universo mundo]”, agli articoli 33-39 della costituzione conciliare Gaudium et spes.  In particolare, l’art. 39, intitolato:  Terra nuova e cielo nuovo, mostra l’impronta delle visioni di tipo millenaristico di de Lubac, abbozzate in Catholicisme, che è del 1937[32].

 

 

VI.  LE IMMAGINI DELLA CHIESA, SECONDO LG 6

 

Come ho già ricordato, LG sviluppa alquanto il tema delle “immagini della Chiesa”, dedicandogli un apposito, non breve articolo, il n. 6.  Esso riprende e amplia tutte quelle già presenti in AeU 3.2, con l’eccezione di due:  la Chiesa “colonna e fondamento della verità” (spostata in LG 8.2) e il Regno di Dio.  Si è appena visto che il Regno di Dio è stato considerato a parte, senza mai dire che esso è da sempre immagine della Chiesa ed anzi che è la Chiesa stessa, Cattolica, Apostolica e Romana, in quanto Corpo Mistico di Cristo.

Perché tanto interesse nei confronti delle “immagini” della Chiesa?  La cosa è forse importante?  Lo è sicuramente per una teologia che vuole affidarsi al “mistero” in maniera sovrabbondante, dato che l’esplorazione del “mistero” avviene in genere attraverso quel tipo di conoscenza che si suol definire “simbolica”.  Conoscenza forse affascinante, soprattutto per chi si è nutrito delle labili categorie del pensiero contemporaneo, ma che facilmente pencola verso l’irrazionale e quindi da prendersi con le molle.  Essa tende a sostituire l’immagine al concetto, il sentimento al ragionamento, la sensibilità alla morale.

Quali sono le immagini della Chiesa e cosa si deve dedurre da esse in ordine alla comprensione della natura della Chiesa?  Queste immagini ci fanno vedere “l’intima natura della Chiesa” e sono in gran parte abbozzate “nei libri dei profeti” (LG 6.1).  Nell’ordine esse sono: l’ovile; il gregge; il podere o campo di Dio; la vigna scelta della quale Cristo è la vera vite; l’edificio di Dio, chiamato anche casa di Dio, dimora di Dio, “e soprattutto tempio santo, il quale, rappresentato dai santuari di pietra, è l’oggetto della lode dei santi Padri ed è paragonato a giusto titolo dalla liturgia alla Città santa, la nuova Gerusalemme” (LG 6.4).  Pertanto la Chiesa viene anche chiamata Gerusalemme celeste e madre nostra; immacolata sposa dell’Agnello immacolato (LG 6.4).

Sull’immagine della Chiesa “sposa dell’Agnello”,  LG 6 si dilunga.  È la sposa che Cristo ha amato, per la quale ha dato sé stesso per santificarla, che si è associata con patto indissolubile, che nutre e cura, che, dopo averla purificata, volle a sé congiunta e soggetta nell’amore e nella fedeltà; che ha, infine, riempito di grazie celesti, “onde potessimo capire la carità di Dio e di Cristo verso di noi, carità che sorpassa ogni conoscenza” (LG 6.5).  Si tratta di immagini tratte in gran parte da S. Paolo.  Messe insieme in poche righe sembrano voler celebrare le massime virtù della Chiesa, sposa immacolata di Cristo.  

 

1. Una Chiesa sempre imperfetta per definizione 

 E tuttavia il capitolo si chiude con una notazione che sembra richiamare di nuovo l’idea di un’imperfezione della Chiesa. Nell’immagine di una Chiesa peregrinante su questa terra e lontana dal Signore, riappare di nuovo la Chiesa che anela ad una perfezione che non possiede, nonostante essa sia la sposa immacolata dell’Agnello.  “Ma mentre la Chiesa compie su questa terra il suo pellegrinaggio lontana dal Signore (cfr. 2 Cor 5,6), è come un esule, e cerca e pensa alle cose di lassù, dove Cristo siede alla destra di Dio, dove la vita della Chiesa è nascosta con Cristo in Dio, fino a che col suo Sposo comparirà rivestita di gloria (cfr. Col 3, 1-4)” (LG 6.5).     

 Una Chiesa, dunque, che “cerca e pensa alle cose di lassù”, come se non possedesse la verità rivelata nel Deposito della Fede, del quale è custode.  Il riferimento a 2 Cor 5,6 mi sembra fuori posto.  Infatti, S. Paolo scrive che noi credenti, in quanto individui costretti ancora a quest’esistenza mortale, “viviamo nel corpo, siamo pellegrini lungi dal Signore”, ma ci tiene in vita la fede, grazie alla quale sappiamo di poter accedere alla “dimora eterna” (2 Cr 5, 1-6).  Non è “pellegrina” la Chiesa, sono “pellegrini” e lontani da Dio i singoli credenti, compresi gli uomini di Chiesa, finché si trovano a lottare in questo corpo mortale.  LG sembra confondere ancora una volta la Chiesa con i suoi membri, attribuire alla prima i limiti che appartengono solo ai secondi.  Siamo noi i “pellegrini” nel pensiero di S. Paolo, non la Chiesa in quanto tale.  Ugualmente male usato mi sembra il passo di Col 3, 1-4, che concerne noi credenti, uti singuli, non la Chiesa, non il Corpo Mistico.  È un passo famoso, nel quale S. Paolo incita i cristiani a vivere per il cielo in ogni momento della loro vita.

“Se dunque siete risuscitati con Cristo, cercate le cose del Cielo, dov’è Cristo, assiso alla destra del Padre:  aspirate alle cose di lassù e non a quelle che son sulla terra.  Voi, infatti, siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio.  Ma quando comparirà Cristo, che è la vostra vita, allora anche voi apparirete con lui nella gloria”(Col 3,1-4).  Commenta l’edizione della CEI del 1963:  “Vedi Rm 6,11.  Il Battesimo ci fa morire al mondo del peccato, dà una vita nuova partecipata a noi dal nostro capo glorioso, Cristo”.  E quella del 1974: ”La nuova vita cristiana nasce dalla mistica unione del battezzato  con Cristo e, per lui, con Dio”.  Da questi commentari risulta che il passo si riferisce al singolo credente non alla Chiesa.  Il passo che può creare difficoltà è quello in cui si dice che il cristiano “è morto e la sua vita è nascosta con Cristo in Dio”.  Grazie al Battesimo siamo morti al peccato.  Se viviamo da buoni cristiani possiamo dire di esser comunque morti al peccato e che in noi è nato l’uomo nuovo.  Ma la vita di quest’uomo nuovo è ancora “nascosta con Cristo in Dio”. Solo Cristo e Dio la conoscono per ciò che essa effettivamente è; diventerà di pubblico dominio nel giorno del Giudizio universale, quando i Giusti appariranno con Cristo nella sua Gloria.  I cristiani non devono dunque scoraggiarsi, se la ricompensa eterna appare lontana, mentre sono ancora qui, a lottare sulla terra:  devono comunque avere il pensiero fisso “alle cose di lassù”, alla vita eterna, l’unica cosa che conti.

  L’immagine dell’esilio da Dio si può forse applicare alla Chiesa di Cristo?  Si potrà applicare ai singoli credenti, “in esilio” rispetto alla Patria celeste finché vivono in questo mondo, non alla Chiesa, se essa è il Corpo Mistico di Cristo.  Se Cristo ne è il Capo, il Corpo non può essere “in esilio” da Lui.  Finché la Chiesa conserva la purezza del Deposito della Fede essa gode dell’assistenza dello Spirito Santo e allora come può peregrinare “lontana dal Signore” come se fosse “esule”? 

L’immagine di una Chiesa dalla santità imperfetta [!] è ripresa negli ultimi due paragrafi di LG 8.  Sembra che il Concilio (la fazione progressista che vi si è imposta) tenesse in modo particolare a sottolineare questo singolare concetto.  Il soggetto del quale si sta parlando qui, non dobbiamo dimenticarlo, è sempre la Chiesa di Cristo che sussiste nella Chiesa cattolica e negli “elementi” acattolici al di fuori di essa.

LG 8.3 ricorda giustamente come Nostro Signore abbia “compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni” ragion per cui la Chiesa (di Cristo) “non è costituita per cercare la gloria terrena bensì per diffondere, anche col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione” (LG 8.3).  Perciò, come Cristo è venuto “ad annunciare la buona novella ai poveri, a guarire quei che hanno il cuore contrito” (Lc 4,18), “a cercare e salvare ciò che era perduto”(Lc 19,10), allo stesso modo “la Chiesa circonda d’affettuosa cura quanti sono afflitti dall’umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di sollevarne l’indigenza e in loro cerca di servire il Cristo”(ivi).

Nel riferimento ai “poveri”, senza ulteriori determinazioni, qualcuno ha voluto scorgere uno scivolone verso la c.d. “teologia della liberazione” dal momento che il testo, non menzionando i “poveri nello spirito” cioè coloro che avranno “il Regno dei Cieli” (Mt 5,1) perché vivono in spirito di povertà, che è spirito di mitezza, di giustizia, di misericordia (Mt, 5 passim), sembra ridurre la missione di Cristo ad una sorta di apostolato sociale cui la Chiesa deve ispirarsi, privilegiando appunto i “poveri” e i “sofferenti” (in pauperibus et patientibus). Soprattutto in loro si rifletterebbe l’immagine di Nostro Signore “povero e sofferente” (pauper et patiens).  Ora, si è sempre vista l’immagine di Cristo anche nel “povero”, in senso materiale, come sembra sia il caso qui, e nel “sofferente” per la povertà stessa, in colui che la subisce.  Ma si è sempre saputo che Nostro Signore è venuto a “guarire” tutti gli uomini dal peccato, più che ad alleviare le sofferenze dei poveri, che pur vanno alleviate, per quanto possibile.  Lo ricorda il Concilio stesso, citando Lc 4,18:  “[sono venuto] a guarire [sanare] quei che hannno il cuore contrito”.  E chi sono quelli che “hanno il cuore contrito”?  I poveri, gli indigenti? No.  Sono i peccatori in generale, che già soffrono interiormente per i loro peccati: e i peccatori sono presenti in tutti gli strati della società (“Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori”- Mc 2,18).

Non ci sono peccatori anche tra i poveri, gli indigenti?  Ci sono di certo anche tra di loro e sarebbe un grave errore trasformare i poveri in giusti per il solo fatto di essere poveri.  “Va offerto pertanto conforto a chi arde nel forno della miseria; mentre è salutare il timore incusso a quelli che il conforto della gloria terrena rende superbi [con citazione di Lc 6,24: “Guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione”].  È vero, infatti, che i  poveri posseggono ricchezze invisibili e i ricchi non possono conservare le ricchezze che posseggono.  Tuttavia, la varietà dei caratteri riesce persino a trasformare la categoria delle persone, tal che è possibile trovare un ricco umile e un povero superbo.  Il discorso va, pertanto, rapportato alla condotta di chi ascolta.  Sarà duro nel colpire la superbia del povero, non giustificata dalla povertà.  Sarà, invece, dolcissimo nel lodare l’umiltà dei ricchi, se non li inorgoglisce l’esaltante abbondanza”[33].

Non mi sembra si possa dire che LG 8.3 adotti una prospettiva simile a quella della teologia della liberazione.  Tuttavia, sembra privilegiare “i poveri e sofferenti” come oggetto dell’attività della Chiesa, con la conseguente (implicita) elevazione dell’attività di assistenza sociale e umanitaria della Chiesa a scopo essenziale della Chiesa stessa.  Il che non può essere perché l’assistenza materiale ai poveri (e ai malati), per quanto di grande importanza per gli assistiti e per la società, non costituisce lo scopo fondamentale della Chiesa, che resta sempre quello di “guarire quelli che hanno il cuore contrito”, di curare le anime non i corpi, cioè di convertire i peccatori, ricchi o poveri che siano, strappandoli al “Principe di questo mondo”.

La “povertà” e la “sofferenza” di Nostro Signore sono poi le stesse dei poveri?  Il paragone è tradizionale ma va inteso nei suoi giusti termini.  Gesù di Nazareth, secondo la Tradizione, aiutava il padre putativo, S. Giuseppe, nella sua bottega di falegname: un mestiere valido, dignitoso, sufficiente a far vivere decorosamente la famiglia.  La povertà fu scelta da Gesù quando cominciò la sua missione, che comportava una vita da predicatore itinerante, con il suo piccolo seguito, affidati entrambi al buon cuore di seguaci, amici e parenti.  La scelta della povertà era un portato necessario della sua missione, impossibile senza il pieno distacco – anche esteriore – dai beni di questo mondo, rimessi all’aiuto della Provvidenza per le esigenze giornaliere dell’esistenza.  In tal modo Nostro Signore ha rivalutato il significato della povertà, togliendola dallo stolto disprezzo con il quale era considerata, senza per questo farne un oggetto privilegiato della sua predicazione.  Tant’è vero che né Lui né gli Apostoli incitano alle riforme sociali o, peggio, alla rivoluzione in nome dei “diritti” dei poveri (dei loro “diritti umani” si direbbe oggi).  La condizione dei poveri e degli schiavi deve piuttosto esser alleviata convertendo i ricchi alla carità cristiana e quindi a forme sociali via via più giuste (Ef 6, 5-9). 

In LG 8.3 ritorna il tema della “santità imperfetta” della Chiesa, agganciato inaspettatamente all’attività della Chiesa che vuole alleviare l’indigenza dei poveri, cercando così di “servire Cristo”.  Ho già citato il passo. Mentre Cristo “santo, innocente, immacolato” non conobbe il peccato e venne solo allo scopo di espiare i peccati del popolo, “la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamente” (LG 8.3).  Il “servire Cristo” della Chiesa è dunque sempre imperfetto.  Per le inevitabili carenze dei singoli?  No.  Perché è la Chiesa stessa ad aver sempre bisogno di “purificazione”, mediante una “penitenza” ed un “rinnovamento” continui.  La Chiesa è dunque “santa” ma in modo imperfetto.  Ma può esistere una santità “imperfetta”, mi chiedo di nuovo?  Che significa? 

Nell’ultimo paragrafo, LG 8.4,  l’argomento si chiude ripresentando due temi peculiari al Concilio: la virtù salvifica del Cristo glorioso (vedi infra, cap. VII, § 2) e (di nuovo) l’imperfezione della Chiesa.  Si scrive che è “dalla virtù del Signore risuscitato” (non dalla virtù della Croce) che la Chiesa (di Cristo) trae la forza per superare tutte le difficoltà che le vengono dall’esterno e dall’interno, e “per svelare in mezzo al mondo, con fedeltà, anche se non perfettamente [licet sub umbris], il mistero di lui, fino a che alla fine dei tempi esso sarà manifestato nella pienezza della luce”.

Ma su questa raccolta di immagini della Chiesa mi sembra doveroso fare altre due  osservazioni.

 

2. L’inserimento equivoco delle immagini di Israele nelle immagini della Chiesa

La prima riguarda l’inserimento dell’immagine di Israele nelle immagini della Chiesa.  Dopo aver ricordato che per S. Paolo la Chiesa è come il podere o campo di Dio, il testo così prosegue:  “In quel campo cresce l’antico olivo, la cui santa radice sono stati i patriarchi e nel quale è avvenuta e avverrà la riconciliazione [reconciliatio facta est et fiet] dei Giudei e delle Genti (cfr. Rm 11,13-26)”.  L’antico olivo, ci insegna S. Paolo nell’epistola citata, è Israele, dal quale sono stati però tagliati i rami secchi (i Giudei increduli, persecutori di Cristo) e nel quale sono stati inseriti quelli nuovi, rappresentati dai pagani che si sono convertiti a Cristo.  Ma un giorno, che solo Dio conosce, quando sarà entrata “la totalità dei Gentili” anche “tutto Israele si salverà” (ivi, 25-26), profezia che finora non si è avverata e che è stata sempre intesa nel senso di una conversione in massa degli Ebrei alla fine dei tempi, poco prima della Parusìa o ritorno di Cristo nella Gloria, come Giudice dell’intero genere umano.

La Chiesa è dunque cresciuta sulle “radici” dell’antico olivo rappresentato dalla fede degli Ebrei (ivi, 11,17).  Non è chiaro, tuttavia, come “l’antico olivo” possa crescere “nel campo” ossia nella Chiesa, restando “antico olivo”.  Né come sia possibile che “la riconciliazione” dei Giudei coi Gentili, profetizzata da S. Paolo, sia anche (già) “avvenuta”.  È corretto dire che “avverrà”, secondo quanto ci annuncia S. Paolo (e non con il c.d. “dialogo” ma con la “conversione” spontanea dell’intero Israele).  Ma appare del tutto incomprensibile affermare che essa sarebbe anche “avvenuta”.  Quando sarebbe avvenuta?  Se i Cristiani, per restare sempre a S. Paolo, sono i rami nuovi innestati dallo Spirito Santo al posto dei vecchi tagliati via, ciò non può certamente considerarsi una “reconciliatio”.  La sostituzione della Chiesa di Cristo all’Israele della carne non rappresenta di sicuro una “riconciliazione” con l’Ebraismo.  L’antitesi è radicale perché solo la Chiesa è ora il vero “Israele di Dio”.  La riconciliazione avverrà solo con la conversione di “tutto Israele”, alla vigilia della fine dei tempi.  E che ci debba essere questa conversione finale, quando gli Ebrei si renderanno conto del loro errore nei confronti di Cristo allorché Dio avrà fatto cadere “il velo” che ancora oscura loro la vista (2 Cr 3,16) – ciò è perfettamente logico, ci spiega S. Paolo, dal momento che Dio “non ha rigettato il suo popolo”, che gli è rimasto caro, per le promesse fatte ai Padri. Non avendolo rigettato, concederà che un giorno il suo “accecamento” finisca (Rm, 11, 1 ss., 28-29, et passim).  Finché Israele non si convertirà, riconoscendo in Cristo il Messia, il mondo non finirà.  Il concetto espresso da S. Paolo è chiaro: il fatto che Dio abbia mantenuto “l’elezione” di Israele significa che gli concederà la conversione, non significa che l’attesa messianica dell’Israele della carne possa considerarsi ancora valida, in contraddizione con la teologia della sostituzione.

Ma l’inserimento dell’immagine dell’antico olivo nelle immagini della Chiesa, come fatto da LG 6, è coerente con il senso evidente e tradizionale dell’insegnamento di S. Paolo o non sembra produrre una discreta confusione?  Confusione perché si parla di una riconciliazione che sarebbe già “avvenuta” quando l’Ebraismo resta sempre ostile a Cristo mentre si evita di specificare che la riconciliazione può avvenire solo in seguito alla conversione degli Ebrei.  Nella dichiarazione conciliare Nostra Aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, come si è visto nell’Introduzione di questo lavoro, viene ripetuto questo concetto di una riconciliazione tra Ebrei e Gentili che sarebbe già avvenuta per mezzo della Croce, grazie alla quale Cristo ha fatto dei due una sola cosa in sé stesso (NAet 4.3).  Ma il testo di S. Paolo che si cita (Ef 2, 14-16) ancora una volta, ribadisce che la “riconciliazione” ha luogo solo con la conversione di entrambi al Cristianesimo.  Dice infatti l’Apostolo delle Genti ai pagani convertiti:  un tempo voi eravate “all’infuori di Cristo” cioè ancora pagani nonché “esclusi dalla cittadinanza d’Israele ed estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo”.  Si intende: esclusi dalla cittadinanza divina d’Israele, popolo eletto con “i patti della promessa”.  Ma grazie a Cristo, al quale vi siete convertiti, “voi che eravate lontani siete diventati vicini nel sangue di Cristo”.  “Vicini”, a chi?  Agli Ebrei che hanno rifiutato Cristo e perseguitano i suoi seguaci?  Non può essere.  “Vicini” a Cristo ossia agli Ebrei convertiti. L’ebreo che ha riconciliato i Gentili con gli Ebrei è Cristo stesso, il Messia nel quale l’Ebraismo trova il suo compimento finale.  Cristo “è la nostra pace” perché “ha fatto delle due cose [Ebrei e Gentili] una sola, togliendo di mezzo il muro che li separava, cioè l’inimicizia”; infatti, “nella sua carne annullò co’ suoi precetti la Legge delle prescrizioni [giudaiche], al fine di ridurre in sé stesso, artefice di pace, i due in unico uomo nuovo [il Cristiano], e riconciliarli entrambi in un corpo unico a Dio [la Chiesa di Cristo] per mezzo della croce, uccidendo in sé ogni inimicizia”[34].  Le “due cose” diventano una sola nell’”uomo nuovo” rappresentato dal Cristiano, verità che, a mio avviso, non compare affatto nei passi del Concilio analizzati, che utilizzano S. Paolo in un modo che mi sembra alquanto ambiguo.  La “riconciliazione” paolina è unilaterale, va in una direzione sola ossia può aver luogo solo nella vera Ecclesia Dei, alla quale verranno un giorno tutti gli Ebrei.

Nell’inserimento equivoco dell’immagine dell’antico olivo tra le “immagini della Chiesa” appare quella che a me sembra una sopravvalutazione dell’Antico Testamento da parte dei Novatori.  Mi sembra presente in Dei Verbum 16, articolo nel quale si parla di “unità dei due Testamenti”, scrivendo: “[…] i libri del Vecchio Testamento, integralmente assunti nella predicazione evangelica, acquistano e manifestano il loro pieno significato nel Nuovo Testamento (cfr. Mt 5, 17 etc.), che essi a loro volta illuminano e spiegano [illudque vicissim illuminant et explicant]”. È vero che da certi passi dell’Antico si possono comprendere meglio alcuni del Nuovo Testamento (vedi infra, cap. XVII, § 5).  Ma non è azzardato affermare come principio generale e assoluto che i libri dell’Antico Testamento, in quanto tali, “a loro volta illuminano e spiegano” quelli del Nuovo? E per di più in blocco?  E questo della totale reciproca “illuminazione e spiegazione” dei due Testamenti è diventato una sorta di dogma ermeneutico!  Non si sente qui l’infiltrazione  della “falsa esegesi” (dei Nuovi Teologi) condannata da Pio XII nella Humani generis?  Esegesi “chiamata simbolica e spirituale”, secondo la quale “i libri del Vecchio Testamento, che oggi nella Chiesa sono una fonte chiusa e nascosta, verrebbero finalmente aperti a tutti” risolvendo una volta per tutte [!] le difficoltà di chi si attiene al senso letterale delle Scritture?[35]

L’apertura dell’Antico Testamento al popolo l’ha fatta la montiniana Messa del Novus Ordo, che ne offre regolari estratti nella domenicale Liturgia della Parola.  Come dimenticare l’autentico martirio che subiscono quei Sacri Testi, affidati alla lettura di laici più o meno volonterosi, maschi e femmine che quasi mai danno l’impressione di capire quello che stanno leggendo?  Non che la lettura dei contigui passi del Nuovo Testamento migliori di molto la situazione, ovviamente, peggiorata poi ulteriormente dal pistolotto a sfondo social-umanitario nel quale si rifugia in genere la predica dell’officiante, smarrito di fronte alla mole di Vecchio e Nuovo Testamento che gli viene propinata, per esser da lui trasfusa in qualche modo nel sermone.

 

3. La scelta delle immagini mostra continuità con AeU?  

La seconda osservazione è di carattere più generale.  Da tutto questo florilegio emerge un’immagine della Chiesa che sia in armonia con quella proposta dallo schema Aeterni Unigenitus?  In quest’ultimo, l’immagine prevalente era sempre quella della Chiesa militante, inquadrata nel Corpo Mistico di Cristo.  Ora il carattere militante della Chiesa non viene più ricordato, con conseguente scomparsa delle immagini connesse, ricavate da S. Paolo e dal Vangelo di Giovanni:  la milizia, il cristiano come soldato di Cristo, la lotta contro sé stessi e il mondo, il combattimento, anche come competizione dell’atleta (il Cristiano atleta di Cristo).  Tutto questo lo si considera ormai anticaglia: la Chiesa non ha nemici e non ne hanno nemmeno i Cristiani.  Si vuole evidentemente rinnegare ogni immagine che implichi l’idea di lotta, combattimento, nemico da affrontare (anche dentro di sé), contrapposizione radicale con il mondo “regno del principe di questo mondo”:  insomma, ogni immagine che individui la Chiesa come “segno di contraddizione” nei confronti del mondo, esponendola all’odio e alla persecuzione. 

Inoltre, AeU precisa che le “immagini” della Chiesa realizzano sempre una sintesi tra l’elemento “mistico” e quello “sociale”.  La sintesi tra i due aspetti (Chiesa visibile ed invisibile) sembra essersi persa in LG, dal momento che sembra prevalervi l’elemento “mistico”, nel senso però di misterico; o, in modo affine, spirituale nel senso di uno “Spirito” dai tratti tendenzialmente indefiniti.  Un’ulteriore differenza con lo schema rigettato è data dal fatto che attraverso una certa lettura delle immagini della Chiesa si insinua una ambigua rappresentazione dell’Ebraismo da un lato e del Sovrannaturale dall’altro.

L’immagine resta nel campo puramente simbolico solo per modo di dire, dato che vi compare sempre il modo nel quale si intende la cosa concreta, vale a dire il concetto di Chiesa che dette immagini vogliono rappresentare.  Tale concetto, come inteso da LG, si precisa ulteriormente nell’analisi del concetto di Corpo Mistico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VII.  UN “CORPO MISTICO” (LA CHIESA) INCENTRATO SUL CRISTO, CHE HA GIÀ REDENTO L’UOMO CON LA SUA INCARNAZIONE, MORTE E RESURREZIONE? 

 

 

Vengo pertanto all’ultimo articolo della Lumen gentium, tra quelli che precedono il famoso n. 8.  Qui viene riproposto il concetto del Corpo Mistico che, come si è visto, costituiva il cuore dell’argomentazione di Aeternus Unigeniti.

Il testo di LG 7, che si intitola : La Chiesa, corpo mistico di Cristo, è molto più ampio.   Dell’impostazione di AeU sembra esser rimasto poco o nulla.  In apertura, si connette l’unione mistica del Corpo di Cristo nello Spirito Santo con la redenzione dell’uomo.  Quest’ultima, però, è presentata come se fosse avvenuta direttamente con l’Incarnazione, Morte e Resurrezione di Nostro Signore.  Già avvenuta, sembrerebbe, come la “riconciliazione” tra Ebrei e Cristiani.

“Il Figlio di Dio, unendo a sé la natura umana e vincendo la morte con la sua morte e resurrezione, ha redento l’uomo e l’ha trasformato in una nuova creatura (Gal 6,15; 2 Cr 5,17).  Comunicando infatti il suo Spirito, costituisce misticamente come suo corpo i suoi fratelli, che raccoglie da tutte le genti”(LG 7.1). 

 

1. La redenzione direttamente da Cristo, indipendentemente dalla Chiesa? 

Di questo periodo non sono riuscito a trovare un aggancio nello schema Aeternus Unigeniti, in particolare della sua prima frase.  La seconda ripropone in generale la “comunicazione” dello Spirito Santo, in quanto costitutiva del Corpo Mistico.  Le due frasi sono collegate dallo “infatti” (enim).  Se si guarda bene, tuttativa, il loro nesso non è così lineare come potrebbe sembrare a prima vista.  Si afferma perentoriamente e senza sfumature che il Figlio di Dio con l’Incarnazione, la sua Morte e la sua Resurrezione “ha redento l’uomo e l’ha trasformato in una nuova creatura”.  E ciò risulta dal fatto (“infatti”) che ha comunicato il suo Spirito ai “suoi fratelli” ovvero agli uomini (Eb 2,11-18), in tutte le genti, costituendoli “misticamente come suo corpo”.

      Il Cristo costituisce dunque gli uomini “suoi fratelli” in un corpo mistico, inviando lo Spirito Santo.  La redenzione, noi sappiamo, può aver luogo solo nel Corpo Mistico che è la Chiesa. E la Chiesa è nata con la Pentecoste, con l’invio dello Spirito Santo.  Anteriormente, essa era già cominciata con la predicazione di Nostro Signore e l’invio delle prime “missioni” degli Apostoli.  Ma solo con l’effusione dello Spirito Santo si ha la compiuta formazione della Chiesa, come Corpo Mistico di Cristo.  Ma se si dice che Cristo con l’Incarnazione, Morte e Resurrezione ha redento l’uomo, ciò non significa dire che la redenzione, che trasforma l’uomo in una nuova creatura, ha avuto luogo prima dell’invio dello Spirito Santo, cioè prima della nascita della Chiesa?  E se le cose stanno così, allora non si spiega l’”infatti” della seconda frase, che sembra invece attribuire la redenzione all’azione dello Spirito Santo che costituisce il Corpo Mistico, quindi posteriormente all’Incarnazione, Morte e Resurrezione del Signore.

Ma andiamo a vedere i riferimenti scritturali paolini della prima frase:  Gal 6,15 e 2 Cr 5,17. La perìcope della Lettera ai Galati si trova nella chiusura della lettera.  Polemizzando con i Giudaizzanti, che volevano far circoncidere i Galati convertitisi al Cristianesimo perché a loro erroneo giudizio i Cristiani dovevano continuare ad osservare le pratiche giudaiche, S. Paolo ribadisce che l’unica cosa che conta è l’essere “una creatura nuova” ossia convertito a Cristo nella fede e nelle opere.  “Quanto a me sia lungi il gloriarmi d’altro che della croce del Signor nostro Gesù Cristo, per la quale il mondo è stato per me crocifisso, e io pel mondo.  Né la circoncisione ha valore, né l’essere incirconciso; ma l’essere una creatura nuova” (Gal 6,14-15).  Non contano le pratiche formali, quali che siano, giudaiche o altre:  conta l’esser un vero seguace di Cristo, vivere effettivamente come “l’uomo nuovo” che il Battesimo fa nascere in noi.  E questo è possibile solo nella Chiesa ovvero mettendo in pratica gli insegnamenti (nella fattispecie) di S. Paolo, attraverso il quale parla il Signore.   L’altro testo è tratto da 2 Cr 5,17.  Esso recita:  “Sicché, se uno è in Cristo, è una creatura nuova, quel ch’era vecchio è sparito, ecco è sorto il nuovo”.  Solo se uno “è in Cristo” può essere “la creatura nuova”, richiesta dallo stesso Cristo (Gv 3,5).  Che vuol dire “se uno è in Cristo” (óste ei tís en Christô)?  Se uno si è convertito, si è fatto cristiano, entrando nella Chiesa o Corpo Mistico.  Solo a questa condizione può diventare un “uomo nuovo”.  Nuovo, si intende, sempre nel senso voluto da Nostro Signore. 

Ora, da questi due testi dell’Apostolo delle Genti si ricava forse l’impressione che l’uomo sia stato redento e trasformato “in una nuova creatura” direttamente dall’Incarnazione, Morte e Resurrezione di Nostro Signore?  Secondo me, no.  S. Paolo si limita a dire che ognuno di noi può essere la “creatura nuova” desiderata da Cristo, solo “se è in Cristo”, cioè se vive da buon cristiano, in pensieri, parole e opere, obbedendo ai precetti della Chiesa.  E questo non è possibile se non si fa parte della Chiesa o Corpo Mistico di Cristo. 

L’apertura di LG 7 presenta dunque un tratto decisamente nuovo rispetto ad AeU, un tratto che fa difficoltà perché sembra suggerire l’idea di una redenzione attuata direttamente dal Cristo con l’Incarnazione, Morte e Resurrezione, prima ancora della nascita della Chiesa da Lui fondata ad opera dello Spirito Santo.  Fa difficoltà, questo tratto, perché  richiama alla mente il “pancristismo” di blondeliana memoria (ripreso da de Lubac e Teilhard de Chardin) secondo il quale il Cristo con l’Incarnazione, Morte e Resurrezione avrebbe già salvato il mondo, senza bisogno della Chiesa[36].

Ma vediamo ora rapidamente gli elementi essenziali del Corpo Mistico secondo LG 7.  Lo stile dell’argomentazione è simile a quello di LG 6 sulle immagini della Chiesa.  Anche qui le immagini abbondano e abbondano anche le ripetizioni (una costante nel prolisso argomentare del Vaticano II).  Le immagini sono ovviamente tradizionali come pure i concetti che ad esse si ricollegano, le une e gli altri ricavati in genere da S. Paolo.  Bisogna però vedere come vengono utilizzati, per affermare quale concetto di Corpo Mistico.

La “vita di Cristo” si diffonde nel Corpo di Cristo ai credenti attraverso i Sacramenti, mediante i quali i credenti “si uniscono in modo arcano e reale a lui sofferente e glorioso” (LG 7.2).  Quest’affermazione sulla presenza del Cristo glorioso nei Sacramenti si appoggia su una citazione di S. Tommaso, della quale parlerò tra breve.  Il Battesimo ci rende conformi a Cristo, tramite il Battesimo siamo simbolicamente uniti a Lui nella Morte e Resurrezione (Rm 6, 4-5).  Nell’Eucaristia “siamo elevati alla comunione con lui e tra di noi”; l’Eucaristia è simbolo di unità, essa crea un solo corpo (concetto già visto in LG 3).

Nel Corpo Mistico di Cristo “vige una diversità di membri e di offici” (LG 7.3).  Ma “uno è lo Spirito”, che “distribuisce la varietà dei suoi doni con magnificenza proporzionata alla sua ricchezza e alla necessità dei ministeri. Tra i doni “eccelle quello degli apostoli” cioè le grazie loro conferite.  Lo Spirito “produce e stimola la carità tra i fedeli” (ivi).  Nel penultimo paragrafo (LG 7.7), si riprende il discorso sullo “Spirito”, utilizzando l’immagine agostiniana dello Spirito Santo come “anima” del Corpo Mistico, già presente nel Magistero precedente e da ultimo in AeU, come si è visto.  E nell’ultimo paragrafo (LG 7.8) si ripete l’immagine della Chiesa come “sposa di Cristo”.

Dopo essersi soffermato sullo Spirito Santo, il testo si concentra sulla figura di Cristo stesso, “capo” del Corpo Mistico, “che è la Chiesa”.  Sono elencati molti degli attributi del Cristo che si desumono dalle lettere di S. Paolo.  Egli “è l’immagine dell’invisibile Dio e in lui tutto è stato creato.  Egli è anteriore a tutti, e tutte le cose sussistono in lui.  È il capo del corpo, che è la Chiesa.  È il principio, il primo nato di tra i morti, affinché abbia il primato in tutto”(Col 1,15-18)”(LG 7.4).  Il testo omette dalla citazione della Lettera ai Colossesi la pericope nella quale si afferma che “tutto per mezzo di lui e in vista di lui fu creato [omnia per ipsum, et in ipso creata sunt]” (ivi, 1,16):  omette il passo dal quale appare con chiarezza che il Verbo ha creato il mondo, dal quale risulta con maggior forza la sua natura divina.

Cristo “domina sulle cose celesti e terrestri” e “riempie delle ricchezze della sua gloria tutto il suo corpo”.  Perciò “tutti i membri devono conformarsi a lui, finché Cristo non sia in essi formato”.  Siamo pertanto “collegati ai misteri della sua vita” finché con Lui regneremo.  Nella nostra peregrinazione terrena, veniamo associati alle sue sofferenze e “soffriamo con lui per essere con Lui glorificati”(Rm 8,17)”(LG 7.5).  Nel suo corpo, “che è la Chiesa”, Egli dispensa continuamente “i doni dei ministeri”.  Grazie ad essi, “ci aiutiamo vicendevolmente a salvarci” e andiamo “crescendo verso colui che è il nostro capo”(LG 7.6).  Segue infine il richiamo all’azione “del suo Spirito”, del quale ci ha resi “partecipi”, che è “l’anima” della Chiesa, ed il paragrafo finale, dedicato alla Chiesa.  La Chiesa, sposa di Cristo, gli è soggetta come al suo Capo.  Cristo riempie la Chiesa dei suoi doni – essa che è il suo Corpo e la sua pienezza (Ef 1,22-23) – affinché essa sia protesa e pervenga alla pienezza totale di Dio [omnem plenitudinem Dei] (Ef 3,19).  Pienezza totale che, evidentemente, la Chiesa ancora non possiede.  Tuttavia, sono costretto a ricordare che anche in quest’ultima perìcope, S. Paolo si riferisce ai singoli fedeli non alla Chiesa:  egli prega Dio perché conceda loro la grazia della fede, in modo che essi possano comprendere tutta la portata dell’amore di Cristo, “che sorpassa ogni scienza, affinché siate ripieni di tutta la pienezza di Dio” (Ef 3, 14-19).

 Della frase di apertura di LG 7 e delle difficoltà che essa comporta, ho già detto.  Voglio sottolineare un uso a mio avviso non convincente dell’autorità di S. Tommaso al fine di far dipendere l’azione salvifica dei Sacramenti anche dal Cristo glorioso. 

 

2. Uso improprio di un passo di S. Tommaso  

Vengo quindi a LG 7.2, nel quale si nominano i Sacramenti citando a sostegno S. Tommaso in nota, in modo da dar l’impressione  che l’opinione espressa nel testo sia fondata sul pensiero dell’Angelico.  Di cosa si tratta?  Del fatto che, nel ricordare la funzione dei Sacramenti nel “Corpo di Cristo”, si ribadisce che i credenti mediante i Sacramenti “si uniscono in modo arcano e reale a Lui sofferente e glorioso”.  Dov’è il problema, si chiederà il lettore.  La frase non è forse corretta, dal punto di vista dogmatico?  Lo è, ma l’aggettivo “glorioso” aggiunto a “sofferente”, sulla supposta autorità di S.Tommaso, non introduce una nota ambigua?  Il “glorioso” vorrebbe dire che nei Sacramenti, quali ad esempio la S. Comunione, noi celebriamo, oltre al Cristo sofferente, anche il Cristo nella Gloria e quindi che la S. Comunione ricava il suo significato non solo dal Sacrificio della Croce ma anche e in pari modo dalla Resurrezione.  Il che non è, perché tra le due c’è un rapporto di causa ed effetto[37].  E non lo è nemmeno per S. Tommaso, così come non lo è nella Messa cattolica di sempre.  La Resurrezione è sì nominata nella S. Messa di Rito Romano Antico (detta impropriamente Tridentina), ma solo nell’Anàmnesi, ossia nella preghiera che, immediatamente dopo la Consacrazione, dichiara espressamente che il S. Sacrificio della Messa ricorda e rappresenta quello della Croce:  ”..ricordando la beata passione del medesimo Cristo tuo Figliolo, nostro Signore, la sua resurrezione dai morti, e la sua gloriosa ascensione in cielo, offriamo all’eccelsa tua maestà, delle cose che ci hai donate e date, l’Ostia pura, l’Ostia santa, l’Ostia immacolata, il Pane santo della vita eterna e il Calice della perpetua salute”. 

Questa preghiera viene ancora letta nella Messa del Novus Ordo, subito dopo la Consacrazione del vino.  Tuttavia, la formula della consacrazione è stata cambiata.  Ora essa recita:  “Prendetene e bevetene tutti:  questo è il calice del mio sangue per la Nuova ed eterna Alleanza, versato per voi e per molti in remissione dei peccati.  Fate questo in memoria di Me”.  Sono state tolte le parole: “mistero della fede”, che ora vengono pronunciate subito dopo dal celebrante e alle quali il popolo risponde:  “Annunziamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua resurrezione, nell’attesa della tua venuta”.  Il “mistero della fede” graviterebbe ora nel senso della Resurrezione e dell’attesa per la venuta (finale) di Nostro Signore nella Gloria.  Prospettiva gloriosa ed escatologica, che tende a prevalere su quella del significato satisfattorio e propiziatorio della Messa, come dimostrato dall’interpretazione largamente diffusa della Messa come “far memoria del Signore Risorto” (vedi supra) e anche dal fatto che il “molti” della Consacrazione è stato sostituito arbitrariamente da “tutti” in quasi tutti i vernacoli e solo parzialmente restaurato dopo l’intervento ad hoc di Benedetto XVI, alcuni anni fa.  Nel canone dell’Ordo romano antico, che secondo la Tradizione risale ai tempi apostolici, il senso del “mistero della fede” è connesso, invece, esclusivamente alla “remissione dei peccati” ossia al significato satisfattorio e propiziatorio del Sacrificio della Messa, che rinnova in modo incruento quello della Croce :  “Poiché questo è il calice del Sangue mio, della nuova ed eterna alleanza – mistero della fede – il quale sarà sparso per voi e per molti in remissione dei peccati”.     

 Andando a leggere il capitolo della Summa citato dal Concilio, si vede che per l’Angelico è la Passione del Signore a conferire ai Sacramenti il loro autentico significato salvifico, non la sua Resurrezione.

Si tratta di Summa theologiae III, q. 62, a. 5, ad 1.  L’art. 5 della questione 62 si occupa del seguente problema:  “Se i sacramenti della nuova legge ricavino la loro virtù dalla passione di Cristo”. 

Elencate tre opinioni contrarie ed una favorevole (desunta da Rm 5 col commento della Glossa ordinaria), S. Tommaso prende nettamente posizione per quella favorevole.  Il Sacramento, scrive, “opera per causare la grazia alla maniera di uno strumento”.  Uno “strumento” va inteso in modo duplice:  “come realtà separata, p.e. un bastone (baculus), o come realtà collegata ad un’altra, p.e. la mano.  Lo strumento “separato” è mosso da quello “collegato”(coniunctum), come nel caso del bastone impugnato dalla mano.  “Ora, Dio stesso è la causa efficiente principale della grazia.  L’umanità di Cristo è paragonata a Dio come uno strumento che gli è congiunto, mentre il sacramento è inteso come strumento separato.   Ne consegue pertanto che la “vis salutifera” deriva dalla divinità di Cristo operante grazie alla sua umanità nei sacramenti stessi [Et ideo oportet quod virtus salutifera derivetur a divinitate Christi per eius humanitatem in ipsa sacramenta].  La grazia sacramentale mira essenzialmente a due cose: ad eliminare i guasti [defectus] del peccato e a perfezionare l’anima nelle cose che riguardano il culto di Dio.  Ma è indubbio che Cristo ci ha liberati dai nostri peccati soprattutto [praecipue] con la sua passione”. E non solo efficaciter, ossia con l’efficacia di un’azione effettivamente causale, in quanto “strumento della divinità” le cui azioni operano tutte per la salvezza dell’uomo; non solo meritorie, cioè meritando la salvezza per noi in quanto membra della Chiesa di cui è il Capo;  ma anche riparando all’offesa fatta a Dio dal peccato degli uomini (satisfactorie).  Questa soddisfazione in quanto sovrabbondante ci ottiene misericordia da Dio (propitiatio)[38].  Ugualmente, con la sua passione Egli ha iniziato il culto della religione Cristiana, “dando sé stesso [come] oblazione e sacrificio a Dio” [Ef 5,2].  Da tutto ciò risulta in modo evidente che “i sacramenti della Chiesa ricavano in modo particolare la loro virtù dalla passione di Cristo, la cui virtù ci si comunica in qualche modo [proprio] mediante il ricevimento dei sacramenti”: la “virtus remissiva” dei nostri peccati “appartiene in un certo special modo alla sua passione”[39].  

Nella Passione di Nostro Signore, unica sorgente della “virtù” dei sacramenti, vediamo il Cristo “sofferente” non quello “glorioso”, anche se quello “glorioso” è sempre presente perché la Divinità non può esser intaccata dalle sofferenze dell’umanità del Verbo (così come è presente nell’Ostia consacrata, che rinnova però la Passione non la Resurrezione).   Ora, come può il Concilio attribuire a S. Tommaso il concetto che attraverso i Sacramenti i fedeli “si uniscono in modo arcano e reale a lui sofferente e glorioso”, come se per S. Tommaso Passione e Gloria contribuissero in modo uguale al valore salvifico dei Sacramenti?  LG 7.2  richiama una delle tre repliche finali dell’Angelico ai tre argomenti contrari da lui esposti all’inizio dell’articolo 5.  L’argomento contrario, che è il primo dei tre, specula su di una frase di S. Agostino:  “La virtù dei sacramenti consiste nel causare la grazia nell’anima, facendola vivere spiritualmente.  Ma, come dice Agostino nel Commento al Vangelo di Giovanni:  ‘Il Verbo in quanto era in principio presso Dio, vivifica le anime; ma una volta divenuto carne, vivifica i corpi’.  Poiché la passione di Cristo riguarda il Verbo in quanto incarnato [quod est caro factum], se ne conclude che non possa causare la virtù [propria] dei sacramenti”.

Poiché la Passione concerne il Verbo nella carne che aveva assunto, ossia nel corpo, come può essa causare la virtù dei Sacramenti, che consiste nel vivificare l’anima?  Gli effetti salvifici della Passione, mi chiedo, dovrebbero allora restare limitati al corpo di Cristo?  La tesi appare manifestamente assurda. La replica di S.Tommaso (ad 1, contro il n. 1) costituisce il passo cui rinvia il Concilio.

“Contro il primo argomento bisogna dire che il Verbo, in quanto era in principio presso Dio, vivifica le anime come agente principale [sicut agens principale]; tuttavia la sua carne e i misteri che in essa hanno avuto luogo [in ea perpetrata], operano strumentalmente [instrumentaliter] alla vita dell’anima.  Alla vita del corpo, invece, non solo strumentalmente, ma anche con una certa esemplarità, come ho detto sopra”. 

Non si possono separare e contrapporre il corpo e l’anima, come sembrano fare i sostenitori della tesi criticata.  Il Verbo “vivifica” le anime.  Ma in quest’azione concorre anche l’Incarnazione ovvero il corpo assunto dal Verbo, con tutti i misteri che per noi esso presenta, come risultano in particolare dalle vicende della Passione.  L’Eucaristia è un sacramento fondamentale per la nostra salvezza.  Ma senza il “corpo” e il “sangue” di Cristo essa non sarebbe possibile.  Senza il “corpo” e il “sangue” reali del Signore, rinnovati ad ogni Messa in modo incruento dal sacerdote celebrante, nella Consacrazione.  Qui S. Tommaso fa una differenza tra “strumentale” ed “esemplare”.

Che significa “strumentale”?  Lo spiega nella questione n. 56, a. 1, nel replicare a coloro che negano esser la resurrezione di Cristo “causa” della resurrezione dei corpi. 

La “giustizia di Dio, scrive, è la causa prima della nostra resurrezione” mentre “la resurrezione di Cristo è la causa secondaria e come strumentale”.  Perché la “giustizia divina”?  Perché è necessario “che i corpi siano premiati o puniti assieme alle anime, per come reciprocamente presero parte ai meriti o ai peccati [come dissero Dionigi Areopagita e S. Giovanni Damasceno, precisa S.Tommaso nel testo]”.  La giustizia divina, in quanto “virtù dell’agente principale non ha bisogno di determinarsi in modo specifico in questo strumento [Licet autem virtus principalis agentis non determinetur ad hoc instrumentum determinate]”.  Tuttavia, “dato che opera mediante questo strumento, lo strumento stesso è causa di un effetto [instrumentum illud est causa effectus]”. Ora, la giustizia divina non era obbligata ad agire come ha agito, istituendo la nostra resurrezione sul modello di quella di Cristo: poteva “liberarci” (dal peccato) in modo diverso dalla Passione e Resurrezione del Signore.  “Ma poiché ha scelto di liberarci in questo modo, è chiaro che la resurrezione di Cristo è causa della nostra”.

Causa dunque “secondaria” (rispetto alla “giustizia divina”) e “come strumentale” perché è lo “strumento” mediante il quale opera la giustizia divina. Ne consegue che la Passione opera “strumentalmente” alla vita della nostra anima nel senso che è “causa strumentale” e quindi efficiente della sua rinascita, grazie ai Sacramenti che da essa scaturiscono.  “Strumentale” non va inteso come riferito ad una realtà subordinata e quindi ininfluente ma nel senso di ciò che produce il suo effetto pieno perché inserito in un rapporto causale (della causalità efficiente, che, per produrre un effetto, presuppone l’azione di un agente sorretta da uno scopo).  Pertanto S. Tommaso non sembra affatto mettere sullo stesso piano l’azione sulle anime del Verbo presso Dio (Cristo glorioso), che è l’azione di un “agente principale”, e quella “secondaria” e “strumentale” sulle anime da parte del Verbo Incarnato, la cui umanità ha accettato liberamente le terribili sofferenze della Passione (Cristo sofferente). Al contrario, sembra ribadire che l’azione “strumentale” del Cristo sofferente agisce di per sé sulle anime, nella sua propria autonomia di “strumento” della salvezza.

L’azione “esemplare” del Verbo Incarnato nei confronti della “vita del corpo”, riguarda invece il significato esemplare della Resurrezione di Cristo.  Essa è causa efficiente della nostra, per via della “virtù divina, il cui proprio è risuscitare i morti [mortuos vivificare]”; è anche causa “esemplare” perché costituisce il modello o esemplare della nostra individuale resurrezione (e in questo senso, pur risuscitando tutti gli uomini, si applica solo agli Eletti, non a coloro che vanno in perdizione).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VIII.  BILANCIO DEL RAFFRONTO TRA AeU 1-7 E LG 1-8 

 

 

Dalla comparazione dello schema Aeternus Unigeniti 1-7  con la costituzione Lumen Gentium 1-8, cosa concludere?  Abbiamo visto che LG 1-8 rielabora la struttura generale di AeU 1-7, accogliendone delle parti, che ripropongono concezioni tradizionali della Chiesa.  Ma non è certo questo tipo di rielaborazione a costituire i concetti essenziali della dottrina proposta da LG 1-8, che introduce a sua volta elementi nuovi concorrenti tutti ad una concezione della Chiesa che sembra alquanto diversa da quella di AeU 1-7:  non più militante ma misterica ossia aperta al soffio di uno Spirito di tipo (cosiddetto) carismatico, che investe anche le “comunità” degli acattolici, in quanto tali.  Possiamo dire, in coscienza, specchiandoci nella nostra fede di Cattolici, della quale Nostro Signore ci chiederà conto, accanto alle nostre opere, non appena moriremo, che la dottrina sulla Chiesa proposta da LG 1-8 si dimostri in perfetta continuità con quella della Chiesa di sempre, proposta da AeU 1-7?  

Guardiamo alle novità esistenti in LG 1-8, poiché sono esse a fare la differenza. 

1. Vengono accuratamente eliminati tutti i riferimenti di AeU al Primato di Pietro.  Non acquista rilievo il ruolo dei “praepositi” da Cristo sub Petro sin dall’inizio della Ecclesia Dei alla predicazione e al governo della Chiesa. Esso viene ricordato solo in LG 8.2 ma nella Chiesa cattolica dimidiata dal subsistit in. Si ha anche un accenno in LG 7.3, ove si dice che tra i doni dello Spirito “eccelle quello degli apostoli, alla cui autorità lo stesso Spirito sottomette anche i carismatici (1 Cr 14)”.  Si tratta di un riconoscimento generico.  Gli apostoli sono comunque presentati qui come collegio, senza un capo, una gerarchia. 

2. Il Corpo Mistico appare incentrato soprattutto su Cristo, che “ha redento l’uomo e l’ha trasformato in una nuova creatura” già prima della Pentecoste, con la sua Morte e Resurrezione, poste sullo stesso piano quanto al loro significato salvifico. 

3. Il rapporto tra Cristo e lo Spirito Santo nel Corpo Mistico non appare ben delineato come in AeU e risulta anche ambiguo.  Non si ripete che i doni dello Spirito Santo avvengono “secondo la misura di Cristo”. Inoltre, si indebolisce il nesso tra lo Spirito Santo e la Verità Rivelata, visto che lo Spirito Santo si limiterebbe ad introdurci a “tutta la verità”:  prospettiva che di fatto si presta a mettere tra parentesi il dogma del compimento della Rivelazione con la morte dell’ultimo Apostolo e ad aprire la strada all’ambiguo concetto di “tradizione vivente” di cui all’art. 8 della costituzione “dogmatica” Dei Verbum.  La forte enfasi posta sull’opera dello Spirito Santo, che viene però tendenzialmente intesa come l’avvento di un “carisma” che riposa su sé stesso, ha dato ad alcuni la sensazione della presenza di un certo “gioachimismo” negli articoli 2-4 della LG, come se in questi ultimi si riflettesse la ben nota, visionaria tripartizione delle epoche del mondo in età del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: quest’ultima, secondo l’abate calabrese, avrebbe inaugurato un’epoca ultima e definitiva di libertà spirituale, nella quale si sarebbe effusa maggiormente la Grazia. In quest’Età dello Spirito avremmo avuto “la perfetta intelligenza” delle cose, la “libertà”, la “contemplazione”, “l’amicizia”, il mondo sarebbe ringiovanito:  in pratica, la realizzazione (sia pure del tutto spirituale) del Regno di Dio in questo mondo.  Quest’impressione, dell’affermazione di una natura “trinitaria” della Chiesa intessuta alle visioni “trinitarie” del tutto personali di Gioacchino da Fiore, deriva anche dalla presentazione ed esaltazione del Vaticano II quale autentica “Nuova Pentecoste”, quasi il Concilio dovesse inaugurare una nuova Età dello Spirito, foriera di trionfi per la Chiesa ed apportatrice di pace al mondo intero.

4.  Nelle “immagini della Chiesa” si accentua il lato “mistico” o “spirituale” (“pneumatico”) a scapito di quello sociale (della Ecclesia societas, gerarchicamente ordinata) e a scapito dell’idea del carattere “militante” della Chiesa visibile, che scompare completamente, con tutte le sue immagini tradizionali della Chiesa e del credente, come se la Chiesa non avesse nel mondo – regno del Principe di questo mondo - un avversario formidabile contro il quale dover lottare, per strappargli le anime. 

5.  Non appare ben delineato il rapporto con il Sovrannaturale e la concezione del Regno di Dio appare ambigua; non è messo in rilievo l’insegnamento tradizionale secondo il quale si entra nel Regno solo dopo esser stati “pesati, contati, divisi” dal Cristo giudice subito dopo la morte e nemmeno che l’alternativa alla conversione a Cristo è solo la dannazione eterna. Quest’ultima verità di fede è ricordata in modo evidente da AeU quando riporta l’affermazione di Nostro Signore: “chi non sarà battezzato non si salverà”. 

6. LG fa intravedere un’immagine di tipo esistenziale della Chiesa, quale potrebbe concepirla la sensibilità decadente del Secolo ateo e miscredente:  la Chiesa come realtà sempre imperfetta, sempre alla ricerca della “pienezza” della verità, “esule” da Dio e che si piange addosso i propri peccati grazie all’arbitraria attribuzione dei peccati e delle imperfezioni dei membri della Chiesa alla Chiesa stessa.  L’immagine esistenziale della Chiesa non è in grado di distinguere tra l’immacolata Sposa di Cristo ed i suoi membri, tra il peccato nella Chiesa ed il peccato della Chiesa, che non può aver luogo.  E non sembra nemmeno in grado di concepire ancora la Chiesa cattolica come unica Arca della Salvezza. 

7.  Si ha una falsa rappresentazione del rapporto tra la Chiesa e l’Ebraismo, dando ad intendere che entrambi sarebbero già stati “riconciliati” dalla Croce di Cristo.  Cade l’immagine della Chiesa come unico “vero Israele dello spirito”, assai nitida in AeU, e viene di fatto oscurata la teologia della sostituzione.

8.  Giustificandosi con una lettura molto dubbia di S. Tommaso, si delinea il tentativo di ancorare i Sacramenti anche alla Resurrezione del Signore, di legittimarli cioè anche come manifestazione del Cristo glorioso, cui si vuole attribuire efficacia sacramentale uguale a quella della Passione, cosa che inclina in senso protestante il significato della S. Messa. 

 

 

* * *

 

Nell’ambito di un’impostazione del genere, come stupirsi allora della definizione di Chiesa cattolica che appare nell’articolo 8 della LG, corroborato da UR 3 e UR 15.1?  Il “sussistere” in essa di una Chiesa di Cristo che “sussiste” anche negli “elementi”  rappresentati da “Chiese e comunità” acattoliche, appare il coronamento inevitabile della concezione  “aperta” e “spirituale” della Chiesa, “esistenziale”, incentrata sul Cristo il cui “mistero pasquale” avrebbe già redento gli uomini, che si delinea nei primi sette articoli di questa costituzione conciliare “dogmatica”.  Lo studio fin qui fatto ci permette anche di comprendere meglio, io credo, il significato che si tende a conferire oggi al termine “Chiesa” in ambito cattolico.  Quando si nomina “la Chiesa” i più intendono, in modo più o meno consapevole, la Chiesa di Cristo, nel senso di LG 8.2 e UR 3, della quale la Chiesa Cattolica in senso proprio è solo una parte, come si è visto.  I cattolici più anziani e legati al senso della Tradizione, quando sentono dire o leggono “Chiesa” nei documenti ecclesiastici ufficiali di oggi, credono istintivamente che ci si riferisca sempre alla Chiesa Cattolica Romana, unica vera Chiesa di Cristo.  Ma così non è.  La “Chiesa” dei documenti è in genere la “Chiesa di Cristo” come concepita dal Vaticano II.

E conta poco, a mio avviso, la replica secondo la quale è indubbio che per il Concilio la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa Cattolica onde quest’ultima è la sola Chiesa di Cristo, come si è sempre creduto.  Questa replica si basa più su ciò che si dovrebbe capire dai verbali del Concilio che sull’analisi letterale dei documenti conciliari alla fine approvati (sul punto, vedi infra, cap. X).  Conta poco, poiché l’analisi accurata dei testi fa vedere, come credo risulti dal presente lavoro, che la “sussistenza” della Chiesa di Cristo anche nelle “Chiese e comunità” degli Acattolici in quanto tali, costituisce la premessa “teologica” che la mens progressista del Concilio si è voluta dare al fine di aprire il “dialogo ecumenico” con gli Acattolici stessi.  Sembra essersi di fatto instaurato un regime della doppia verità, della quale nessuno sembra accorgersi, nel senso che vengono ritenuti veri ed applicati nella prassi entrambi questi asserti, tra loro inconciliabili alla luce non solo del Deposito della Fede ma anche della logica più elementare: 1) la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa Cattolica Romana, necessaria alla salvezza, unica Chiesa di Cristo;  2) la Chiesa di Cristo sussiste anche nelle Chiese e Comunità che si trovano al di fuori della Chiesa Cattolica Romana, nonostante le loro “carenze”.  E queste “carenze” (non si può dimenticarlo) sono il risultato di eresie e scismi!   Tutto ciò non è come dire che la Chiesa Cattolica Romana è l’unica Chiesa di Cristo e nello stesso tempo non lo è?

Si può forse negare che ci sia stato un mutamento semantico profondo?  Il lemma “Chiesa”, in bocca a preti e fedeli, non ha più il significato di una volta.  È la Chiesa “aperta” e “in ascolto dello Spirito”, cosiddetta “dell’Amore”, “allargata” a tutti gli Acattolici, “solidale” con tutti ed anzi con tutta l’umanità.  Essa non vuole apparire come qualcosa di separato dal mondo, come “segno di contraddizione”, vuole immergersi nell’umanità del mondo, non per convertirla a Cristo ma per collaborare con essa alla costruzione di un mondo che si vuole “migliore”, sposandone per quanto possibile i “valori”.  Per questo è stata abolita la talare, l’abito delle suore è stato reso simile a quello delle crocerossine, e comunque molti preti e suore hanno abolito  qualsiasi segno esteriore dell’appartenenza alla Chiesa Cattolica Romana, quasi ne provassero vergogna. Per questo si è voluto che i seminaristi non studiassero più in un collegio separato, in un ambiente lontano dalle seduzioni del mondo, favorevole al raccoglimento e alla preghiera, ai difficili studi, allo spirito di disciplina e di corpo, all’esercizio dell’autorità.  E si comprende come una Gerarchia che vede la Chiesa di Cristo anche in tutti gli Acattolici in quanto tali senta la necessità di ancorare i Sacramenti al Cristo glorioso; in particolare l’Eucaristia, perché così piace ai Protestanti ed evita l’’incomodo di innalzare la Santa Croce di fronte alle altre religioni, che tutte la avversano.  O di dichiarare sempre “imperfetta” la sua santità.  Come può, del resto,  essere perfetta se ora “la Chiesa di Cristo” sussiste anche in chi professa il “pecca fortemente ma credi ancor più fortemente”?  Come può essere la stessa Chiesa di AeU e in somma la medesima Chiesa Cattolica Romana di sempre, se ora la sua Gerarchia desiste dal convertire chicchesia, negligendo quindi esplicitamente il comandamento dato da Nostro Signore agli Apostoli e ai loro successori:  “Rendete miei discepoli tutti i popoli”?  E che conto fa essa del grave ammonimento:  “ma colui che mi rinnegherà davanti agli uomini, sarà rinnegato dinanzi agli Angeli di Dio” (Lc 12, 9)?

Come ha egregiamente messo in rilievo Mons. Gherardini, attirandosi le ire dei difensori del presente stato di cose, l’idea di Chiesa proposta dal Vaticano II, assai più che dal Magistero precedente, deriva dal nuovo intreccio costituito da “ecumenismo” e “libertà religiosa”.  Improntando l’idea di Chiesa a questi due “ideali”, entrambi presi a prestito dalla filosofia moderna e dalle utopie di Protestanti e Teosofi, si è giunti addirittura a costruire e a vivere un “esser Chiesa” (come dicono oggi) che esclude in quanto tale la conversione! 

“Dal vincolo che stringe insieme ecumenismo e libertà religiosa […] sarebbe poi scaturita la rinuncia al proselitismo, alla missione evangelicamente attiva, alla conversione.  Teresa di Calcutta poté per questo dichiarare di non aver mai invitato nessuno dei diseredati da lei accuditi a convertirsi; ed un prestigioso cardinale, arcivescovo d’una grande diocesi, raccontò d’aver diassuaso alla conversione l’ebreo che gli aveva confidato questo desiderio.  Ambedue, evidentemente, s’eran collocati sulla lunghezza d’onda del messaggio conciliare che, a base della moralità pubblica e privata oltre che della c.d. nuova evangelizzazione, poneva l’elefantiasi dei diritti della persona umana, non l’indiscutibilità dei diritti di Dio e della sua Parola.  Come se questa Parola non avesse stabilito la dipendenza della libertà dalla verità (Gv 8,32), la coincidenza della fede e della conversione (cf. Mc 1,15), l’obbligo dell’annuncio salvifico a tutte le genti (Mt 28, 18-20).  Un capovolgimento radicale era stato operato…”[40].  Ad opera di quale “Spirito”, dobbiamo chiederci noi semplici credenti, e trarne le dovute conclusioni. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] DE MATTEI, op. cit., p. 311.

[2] Abbé LOVEY, op. cit., p. 122.

[3] WILTGEN, op. cit., pp. 56-8;  LOVEY, op. cit., p. 121-3, con le puntuali repliche del cardinale Ottaviani.  Le invettive del vescovo De Smedt ricordavano quelle dei Modernisti d’antan.

[4] Per l’originale latino dello schema rimando all’indicazione che ne dà il cardinale Becker nel suo articolo, sopra citato:  Schema Constitutionis dogmaticae de Ecclesia Christi Patrum examini propositum:  Mansi 51, 539-553.

[5] DS 788/1511.

[6] PIO XII, Enciclica Mystici Corporis, tr. it. cit., p. 65.

[7] C, 37-8.

[8] C, 39-40.

[9] La Sacra Bibbia, Edizioni Paoline, Roma, 1960, p. 24,  in nota.

[10] Su questo tema, per maggiori approfondimenti, mi sia consentito rinviare ad un mio intervento: PAOLO PASQUALUCCI,  La notion de l’unité du genre humain:  une intrusion de la pensée laïque dans Vatican II, in La tentation de l’oecuménisme, Actes du III Congrès Théologique de sì sì no no, Albano Laziale - Avril 1998, Versailles 1998, pp. 130-144.

[11] C, 52.

[12] Ivi.

[13] C, 40.

[14] Vedi DB, voce Regno di Dio.

[15] “[…] questo Spirito ci fu meritato da Cristo sulla croce, spargendo il proprio sangue; questo, egli lo donò alla Chiesa per rimettere i peccati, alitandolo sopra gli Apostoli; e mentre soltanto Cristo ricevette questo Spirito senza misura [Gv 3, 34], alle membra del Corpo mistico vien distribuito dalla pienezza dello stesso Cristo secondo la misura del dono di Cristo [Ef 1, 8; 4, 7]”(Mystici Corporis, tr. it. cit., p. 45 [DS 2288/3807]).

[16] BERNARD BARTMANN, Précis de théologie dogmatique (1924), tr. fr. dell’Abbé  Marcel Gauthier, Salvator, Mulhouse, 1951, I, p. 230 ss. (§ 54).

[17] Nel già citato articolo su “Il peccato nella Chiesa”, Karl Rahner si lamentava del fatto che la LG, pur avendola ammessa, non fosse riuscita a fornire una nota teologica checchesia alla nozione di “Chiesa peccatrice”.  E come avrebbe potuto, mi chiedo?  L’articolo di Rahner cerca di conferire significato teologico a tale bislacca nozione, con un’esposizione  a mio avviso ripetitiva, elusiva e confusa.  Mi sembra che egli cerchi di applicare alla Chiesa, e nemmeno tanto velatamente, la nozione luterana di “simul iustus et peccator”, intrinsecamente contraddittoria.  Allora, perché la Chiesa, pur “peccatrice”,  sarebbe anche santa?  Per la possibilità che le è concessa, di ricorrere sempre alla misericordia di Dio, nonostante il suo stato di peccato:  questo solo la renderebbe “santa”.  La santità della Chiesa peccatrice viene solo dalla Grazia, come quella del singolo peccatore (op. cit., p. 431-4; 434).  Siamo in pieno Luteranesimo.  Le elucubrazioni di Rahner erano verosimilmente anche pro domo sua:  dopo la sua morte, una donna tedesca ha dimostrato con inappuntabile documentazione di esser stata per vent’anni la sua compagna segreta.

[18] DE MATTEI, op. cit., p. 311.

[19] Op. cit., pp. 341-2.  Suenens divenne poi noto per le sue “liturgie ecumeniche” aperte a tutti i soffi dello “Spirito” (vedi: JOHN VENNARI, Close-ups of the Charismatic Movement [Il movimento carismatico visto da vicino], Tradition in Action Inc., Los Angeles, 2002, pp. 155-162).

[20] PIO XII, Enciclica Mediator Dei sulla sacra Liturgia, tr. it. con testo lat. a fronte, Vita e Pensiero, Milano-Roma, 1956, pp. 126-8.

[21] CONFERENZA EPISCOPALE DELL’EMILIA E ROMAGNA, Islam e Cristianesimo, EDB, Bologna, 2000, p. 30.

[22] Nelle note relative, AeU 6.2 rimanda alla dottrina contenuta in documenti di Leone XIII, Pio IX, Pio XII, e in S. Tommaso.

[23] Si trova in S. PAOLO, Rm 8,9; Fil 1,19 etc.; vedi BARTMANN, op. cit., I, p. 231.

[24] Cit. in LOVEY, op. cit., p. 121-2.  Ho ritradotto dalla traduzione francese ivi presente.

[25] Bartmann, op. cit., I, p. 219 (§ 52).

[26] BRUNERO GHERARDINI, Chiesa-Tradizione-Magistero, articolo apparso sulla rivista elettronica Disputationes Theologicae  del 7 dicembre 2011, p. 3 di 4.

[27] Il significato tradizionale di Gv 16,13 è confermato anche dalle  edizioni dei Vangeli ispirate al metodo storico-critico, che sottopone i manoscritti ad un vaglio ipercritico, alla stregua di un qualsiasi testo letterario:  cfr. The Greek New Testament, cit.:  Gv 16,13 con le relative note; nonché: BRUCE M. METZGER & SOCII, A Textual Commentary on the Greek New Testament, German Bible Society, Stuttgart, 1994², p. 210.  Il verbo, riportato dalla quasi totalità dei manoscritti, è il futuro hodeghései en: guiderà verso, e in senso traslato insegnerà, istruirà (docebit, in latino).  Semanticamente contiene l’idea della guida, la guida di un capo, un maestro (hodós: sentiero, via; heghéomai: conduco come guida, capo).  Non c’è l’idea di un semplice introdurre; c’è l’idea di una guida in senso forte, di un capo o maestro fornito di piena autorità, di uno che è un leader, viae dux (Zorell, LGNT, sub voce). Se si fosse trattato di esprimere il concetto di “introdurre” alla verità, il greco non avrebbe dovuto usare un termine completamente diverso, come ad esempio:  eiságo?  Pochissimi manoscritti riportano :  “dieghésetai hymîn”: “vi esporrà”, più descrittivo, ma comunque lontano dall’idea dell’introduzione.  La filologia dimostra, dunque, che lo “inducit” di LG 4 non ha fondamento alcuno nel Testo Sacro.  Nel passo di Lc 12,10, il latino traduce ugualmente con docebit il greco, costituito invece da:  didáxei, insegnerà.  Il verbo è qui didásko, insegno, doceo.  Due verbi diversi, allora, tradotti allo stesso modo in latino.  Ma si tratta di due situazioni diverse, che le maggiori sfumature del greco permettono di esprimere.  Lo Spirito Santo guida con mano ferma di maestro gli Apostoli sulla via dell’approfondimento di tutta la Rivelazione, procedendo per spirazione da Nostro Signore e dal Padre come da un unico principio.  Nell’altro caso, non si tratta della Rivelazione ma di Ispirazione, al fine di vincere la paura del dolore fisico e della morte per testimoniare la fede nel caso singolo e supremo della persecuzione.  Qui le parole ci verranno alle labbra spontaneamente senza studio e preparazione specifica ma in realtà ci saranno state insegnate direttamente dallo Spirito Santo, come da Maestro a discepolo che deve solo ripeterle, per la Gloria di Dio e la salvezza della sua anima.

[28] DS 1961/3309.

[29] Enciclopedia Cattolica, voce Chiesa, col. 1450 (ed. anteriore al Concilio); DB, voce Regno di Dio, passim.

[30] HENRI DE LUBAC S.I., “Soprannaturale” al Vaticano II, tr. it., in ID., Spirito e libertà, Milano, 1980 (si tratta di una raccolta di saggi di de Lubac tradotti in italiano), pp. 343-50, p. 347, citato da GIOVANNI MORETTO, Destino dell’uomo e corpo mistico.  Blondel, de Lubac e il Concilio Vaticano II, Morcelliana, Brescia, 1994, pp. 117-8, nota n. 8.  Nel passo citato, de Lubac riassume la questione dal suo unilaterale punto di vista.

[31] MORETTO, op. cit., p. 118.

[32] Sull’influenza di de Lubac (e tramite lui di Blondel) sulla Gaudium et spes, cfr. MORETTO, op. cit., tutto il capitolo sesto, pp. 115-29.  Sul tema, mi sia permesso rinviare ad un altro mio contributo: PAOLO PASQUALUCCI, L’alterazione dell’idea del sovrannaturale nei testi del Vaticano II, in Bilancio e prospettive.  Per una vera restaurazione della Chiesa, Atti del IV Congresso teologico di “sì sì no no”, Roma 2000, Ed. Ichthys, Albano Laziale, 2003, pp. 195-236.

[33] S. GREGORIO MAGNO, La regola pastorale, presentata e interpretata da Armando Candelaresi, Edizioni Paoline, 1978², p. 198. 

[34] Ef 2, 14-16.  L’inciso: “[giudaiche]” è del traduttore dell’ Epistola paolina, nell’edizione della Bibbia curata dall’abate Ricciotti.

[35] PIO XII, Humani generis, tr. it. cit., p. 12.

[36] In una delle  lettere ricevute da Blondel, durante il suo polemico scambio epistolare sulla natura della Chiesa (1903), il Padre Wehrlé S.I. annotava a margine:  “Blondel ammette la salvezza fuori della Chiesa, direttamente ad opera del Cristo…La Chiesa non ha motivo di affannarsi con le preghiere…”.  Cosa aveva scritto Blondel?  Tra altre cose, che un primitivo (“un pauvre sauvage mourant”) che non conosce Cristo, se si salva l’anima, “ce n’est point en vertu de la Révélation en tant qu’elle est connue d’un grand nombre, c’est en vertu de la Rédemption en tant qu’elle a été acquise par Un seul et mystérieusement communiquée par les sollicitations anonymes de la grâce” (RENÉ MARLÉ  S.I.[a cura di], Au coeur de la crise moderniste.  Le dossier inédit d’une controverse. Lettres de Maurice Blondel, Henri Bremond etc., Aubier, Paris,1960, pp. 268-9).

[37] “Però quel Gesù, che è stato per breve tempo inferiore agli Angeli, noi lo vediamo ora coronato di gloria e di onore, a motivo della morte che ha sofferto, affinché per grazia di Dio, la morte da lui sopportata fosse di vantaggio a tutti” (Eb 2, 9).  Nel greco dell’originale, la frase “a motivo della morte che ha sofferto” è resa con la preposizione dià e l’accusativo (dià tò páthema toû thanátou etc.) che ha significato causale (cfr. The Greek New Testament, cit., p. 750).  Senza la Resurrezione vana è la nostra fede, ci insegna S.Paolo (1 Cr, 15); ma senza la Santa Croce non poteva esservi la Resurrezione.  “Perché dunque tanta paura di prenderti la croce che è la via del cielo?  Nella croce è la salvezza, nella croce la vita, nella croce il baluardo contro i nemici. Nella croce la sorgente delle soavità celesti, la forza dell’anima, la gioia dello spirito.  Nella croce la pienezza della virtù, nella croce la perfezione della santità. Nessuna possibilità di salvezza per l’anima, nessuna speranza di vita eterna fuorché nella croce” (Imitazione di Cristo, cap. XII del libro secondo: ‘La via regia della Santa Croce’, B.U.R., Milano, 1958, tr. it. di Carlo Vitali, p. 81).

[38] I concetti trattati nell’ultimo periodo li ho riassunti da ST, III, q. 48, a. 1 e 2, 6.

[39] ST, III, q. 62, a. 5 e ad 2.

[40] D, 187.  [ Sta per Vaticano II    . Un discorso da fare ]. 

 

 [  Testo stampato  due volte   per  errore del sistema ]


Sessant’anni dal Concilio - V

di Paolo  Pasqualucci.

 

V - Raffronto tra lo schema sulla Chiesa illegalmente scartato e la costituzione ‘Lumen Gentium’ sulla Chiesa, che lo ha rielaborato, in realtà alterandolo alquanto.

 

[Nota previa.   Dopo la settimana di Ferragosto, riprendo la pubblicazione di alcune parti del mio libro Unam Sanctam. Studio sulle deviazioni dottrinali nella Chiesa del XXI secolo, Solfanelli, 2013, pp. 437.  Questa volta il testo è più lungo, avendovi io dovuto accorpare diversi capitoli, nessuno dei quali troppo lungo.  Si tratta di sessantaquattro pagine formato Bodoni MT 14.  I capitoli riuniti sono sei, occorre pertanto un inquadramento generale.  Si tratta di capitoli tra loro connessi perché concentrati su un unico tema: un accurato raffronto tra il primo capitolo dello schema sulla Chiesa scartato e il primo capitolo della costituzione dogmatica (senza dogmi) Lumen Gentium sulla Chiesa (=LG):  entrambi questi capitoli eleborano il concetto della Chiesa.  Dovrebbe trattarsi del medesimo concetto, ma sarebbe arduo e persino azzardato l’affermarlo.

I capitoli riuniti sono dunque  s e i , dal cap. III al cap. VIII.  Ricordo ancora  che lo schema lasciato cadere si intitolava Aeternus Unigeniti Pater, abbreviato in Aeternus Unigeniti (AeU).

Il cap. III delinea un parallelo generale tra AeU parr. 1-7 e LG parr. 1-8.  Il cap. IV espone la struttura generale di AeU parr. 3 -7 contrapposta a LG parr. 4-8. 

Il cap. V si chiede:  la Chiesa di LG parr. 4-8 è una Chiesa dello Spirito e dell’Amore, ossia una Chiesa non gerarchica e non militante, sempre imperfetta, sempre in cerca della pienezza della verità?  In sostanza, come si è poi visto, una Chiesa che non insegna più verità morali e religiose rivelate da Dio e quindi obbligatorie per la salvezza di ciascuno ma all’opposto “si pone in ascolto del mondo” animata da uno spirito di grande misericordia e comprensione delle esigenze del mondo, desiderosa di collaborare con esso per realizzare l’unità del genere umano e la pace universale? 

Il cap. VI si interroga sulle “immagini della Chiesa” secondo LG par. 6, chiedendosi se esse mostrino continuità con AeU.  Un argomento in apparenza secondario ma che ha la sua importanza.

Il cap. VII pone un’ulteriore domanda, scaturente dall’ambiguità del testo conciliare:  Un corpo mistico (la Chiesa) incentrato sul Cristo, che ha già redento l’uomo con la sua incarnazione, morte e resurrezione? 

Il cap. VIII, infine, si intitola:  Bilancio del raffronto tra AeU 1-7 e LG 1-8.  Questo capitoletto finale l’ho già proposto ai lettori.  Poiché repetita iuvant, lo ripropongo, sicuro che potrà esser meglio compreso dopo l’analisi articolata dei due testi in questione.

Per favorire la lettura ricordo anche i due autori sui quali mi sono principalmente basato (in senso opposto) in questo lavoro:  mons. Brunero Gherardini e il suo critico, il sacerdote prof. Pietro Cantoni, a mio avviso rappresentativo della mentalità dei difensori del Concilio Vaticano II, trincerata a priori dietro il principio d’autorità, come se, per l’appunto, il Vaticano II fosse stato un Concilio dogmatico – il che non è – e pertanto infallibile ed intoccabile.  Lo studio del prof. Cantoni, da me confutato più volte nel testo, si intitola:  Riforma nella continuità.  Riflessioni sul Vaticano II e sull’anti-conciliarismo, SugarCo, Milano, 2011. Il testo è citato spesso con la sola lettera C maiuscola. L’anticonciliarismo sarebbe l’atteggiamento di chi critica (osa criticare) il Vaticano II.  Della produzione assai vasta di mons. Gherardini mi sono avvalso soprattutto del suo magistrale testo sulla Tradizione e del suo primo, ampio saggio critico sul Concilio:   Brunero Gherardini, Quod et tradidi vobis.  La tradizione vita e giovinezza della Chiesa, in “Divinitas”, nn. 1-2-3, Città del Vaticano, Roma, 2010.  L’opera fu poi ristampata sempre nel 2010 da Casa Mariana Editrice, Frigento, 2010:  ID., Concilio Ecumenico Vaticano II.  Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice, Frigento, 2009.

La lettura di due testi in parallelo non è mai troppo agevole.  Tuttavia, se vogliamo afferrare ciò che è veramente accaduto al Vaticano II, in tutta la sua straordinaria gravità, dobbiamo sobbarcarci pazientemente a letture di questo tipo, le sole capaci di svelare l’alchimia perversa che ha distillato i testi alla fine ufficiali del Concilio.  L’analisi comparata dei due nostri testi dimostra che, in quello venuto alla fine a far parte della costituzione conciliare Lumen Gentium sulla Chiesa, pescindendo da gravi omissioni ed ambiguità, rispetto allo schema scartato sono stati eliminati i seguenti concetti:  che solo la Chiesa cattolica è l’Israele dello spirito;  che solo la Chiesa cattolica è l’unica e vera Chiesa di Cristo; che il Papa esercita un primato di giurisdizione su tutta la Chiesa di Cristo].     

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

III.  PARALLELO TRA “AETERNUS UNIGENITI” 1-7, SCHEMA SCARTATO, E “LUMEN GENTIUM” 1-8 CHE LO HA RIELABORATO   

 

1. Uno schema contestato

Ho ricordato prima come la Commissione Teologica Mista avesse rifuso nel nuovo lo schema  iniziale sulla Chiesa, finito tra quelli “scartati” e sottoposto a rifacimento pur trattandosi di uno schema di costituzione dogmatica elaborato secondo la dottrina tradizionale della Chiesa, che si rifaceva ad un San Bellarmino, riletto dalla Mystici Corporis, e che ovviamente riprovava una concezione della Chiesa “pneumatica” o dello Spirito, dell’Amore, propagandata dalla Nouvelle théologie e in particolare dal domenicano Yves Congar[1].  Nella fase preparatoria lo schema era stato attaccato a fondo dai cardinali dell’indirizzo ammodernante (Liénart e Bea in particolare) che lo accusavano di scarso spirito ecumenico e di proporre un concetto ristretto di Chiesa, limitato alla sola Chiesa Cattolica Romana!  L’art. 7 dello schema, che ribadiva con estrema chiarezza come solo la Chiesa Cattolica Romana avesse il diritto di considerarsi il vero e unico Corpo Mistico di Cristo, fu duramente contestato dal cardinale Bea, che lo accusava di non essere “ecumenico”. Egli rimproverò  con acrimonia Ottaviani per non aver tenuto conto dei suggerimenti del suo Segretariato al fine di modificarlo nel senso, appunto, dell’apertura “ecumenica” voluta da Giovanni XXIII[2].   Queste accuse furono ripetute a più voci durante la breve discussione in Aula (nel dicembre 1962) in seguito alla quale fu deciso di rifondere lo schema con quello proposto dal Segretariato.  Particolarmente teatrali furono gli accenti del vescovo belga Émile De Smedt, un mastino dell’antiromanesimo, già distintosi negli attacchi allo schema sulle due Fonti della Rivelazione. Egli bollò lo schema di “trionfalismo, clericalismo, legalismo”[3]. Nonostante questi precedenti, il rifacimento viene presentato sempre come uno sviluppo nella continuità.  Osserviamo attentamente.  

 

2. Chiesa “militante” o semplicemente “terrena”?

    Il cap. I dello schema rigettato (AeU) constava di sette articoli che illustravano la “natura della Chiesa militante”, titolo assolutamente tradizionale, ben diverso da quello del cap. I di LG, vertente sul “mistero della Chiesa”[4].  Dal Vaticano II in poi la nozione di “Chiesa militante” è caduta in disuso e un motivo ci dovrà pur essere.  Che cos’è la Chiesa militante?  È la Chiesa visibile in questo mondo, fondata da Nostro Signore a partire da Pietro e dai Dodici, organizzata gerarchicamente, costituita dalla Gerarchia vera e propria in tutte le sue componenti e dai fedeli, dal “popolo di Dio”, che è sempre stato considerato solamente una parte della Chiesa visibile. “Militante” questa Chiesa perché essa è una milizia impegnata nella lotta quotidiana contro Satana che è “il principe di questo mondo” (Gv 12, 31).  Essendo  “omicida sin dall’inizio e padre della menzogna” (Gv 8,44), lo Spirito  Maligno opera innanzitutto nella nostra mente con tentazioni di ogni tipo per farci peccare e trascinarci nell’eterna dannazione.  Il cattolico è quindi un “miles Christi”, egli combatte come soldato di Cristo innanzitutto contro sé stesso per resistere alle tentazioni e all’odio del mondo (Gv 15, 18-25) con l’aiuto indispensabile della Grazia, dei Sacramenti e dei Sacerdoti. E senza dimenticare, ovviamente, quello non meno importante, anche se indiretto, delle Suore e Religiose:  pensiamo al grande e fondamentale esempio di vita santa, autenticamente cristiana che esse ci hanno sempre offerto. 

Lo scopo di questa lotta è realizzare la propria santificazione in questo mondo, senza la quale non è possibile accedere alla vita eterna, e contribuire alla conversione delle anime con l’esempio di una vita veramente cristiana, improntata all’ideale della carità, che esige la nostra massima generosità nel rispondere alla volontà di Dio, che ci chiede di amare il Prossimo per amor di Dio, cioè tenendo presente innanzitutto la salvezza della sua anima.  Accanto alla Chiesa militante esiste la Chiesa “purgante”, delle anime sante nel Purgatorio, e quella “trionfante”, delle anime degli Eletti, che sono già in Paradiso. Di contro vi è la Gehenna, l’Inferno, nel quale soffriranno in eterno coloro che Nostro Signore avrà dannato, nel giudizio individuale dell’anima subito dopo la morte, confermato in quello Universale, pubblico, alla fine dei tempi (Mt 25, 31-45).  I tre aspetti della Chiesa di Cristo costituiscono un’unità nel “Corpo mistico di Cristo”, del quale il capo è Cristo in cielo mentre il Papa, successore di Pietro nella continuità apostolica, ne è il suo Vicario in terra.  La Chiesa “militante” gode perciò di una connessione sovrannaturale permanente, in quanto parte visibile del Corpo  Mistico di Cristo, con il quale coincide perfettamente in questo mondo (come insegnato dalla Mystici Corporis).

Ho dovuto ripetere (per quanto sta alle mie capacit­à) queste elementari nozioni tradizionali perché a partire dal Vaticano II sembra non vengano più insegnate.  Il lettore pertanto resterebbe perplesso di fronte al concetto di Chiesa “militante”. Non è forse vero che oggi viene insegnato un concetto diverso di Chiesa, intesa solo come “popolo di Dio” inglobante anche la Gerarchia e di taglio sostanzialmente intramondano?  E il cattolico è ancora visto come “miles Christi”, come “soldato di Cristo”?  E si insegna ancora che la vita in questo mondo è una milizia perché è l’ardua prova mediante la quale veniamo vagliati per esser giudicati degni di entrare alla fine dei tempi nel Regno di Dio, che dura in eterno, così come è stato vagliato Nostro Signore durante la sua vita e soprattutto durante la sua Passione?  

 

3.  La Chiesa “nuovo Israele”, unico vero “Israele di Dio” secondo AeU 

 La struttura generale del capitolo di AeU in questione è più o meno la stessa del posteriore capitolo iniziale di LG.  Anche in AeU il discorso muove dal disegno del Padre, che ha voluto redimere il mondo con il suo Figlio Incarnato e ha voluto che “i redenti” costituissero anche “un nuovo genere (genus), un regale sacerdozio, una gente santa, ossia il nuovo Israele, sotto un unico Capo Gesù Cristo” (AeU 1).  Qui la Chiesa di Cristo appare subito come ”il nuovo Israele” concepito ab aeterno dal Padre.  Nell’art. 1 della LG si dice che “la Santa Chiesa” è stata “annunciata in figura sin dal principio del mondo” e “mirabilmente preparata nella storia del popolo d’Israele e nell’antica Alleanza”:  non si dice però che la Chiesa di Cristo è “il nuovo Israele”. Si lascia nell’ombra la cesura intervenuta tra noi Cristiani e l’Ebraismo, provocata dal fatto che la Chiesa, possedendo essa sola la vera Rivelazione, si è sempre considerata, sin dall’inizio, il nuovo Israele.  Dell’Israele della carne la LG parla all’art. 9, primo articolo del cap. II dedicato a Il popolo di Dio, che illustra il concetto della “nuova alleanza”, ma in modo che sembra suggerire l’idea di un’analogia e di una continuità senza rotture:  “Come già l’Israele secondo la carne peregrinante nel deserto viene chiamato Chiesa di Dio, così il nuovo Israele dell’èra presente (ita novus Israel, qui in praesenti saeculo incedens), che cammina alla ricerca della città futura e permanente, si chiama pure Chiesa di Cristo; è il Cristo infatti che l’ha acquistata col suo sangue, riempita del suo Spirito e fornita di mezzi adatti per l’unione visibile e sociale”.  La frase contenente il paragone proviene da AeU 3 ma appare mutila (come vedremo) ed inquadrata in un contesto diverso, di tipo sostanzialmente descrittivo, dal momento che non si è precisato esser la Chiesa di Cristo il vero Israele di Dio al di fuori del quale non c’è salvezza (come pur fa AeU 2).   

L’art. 2 di AeU, infatti, tratta dell’”esecuzione del disegno del Padre da parte del Figlio Unigenito”, termine, quest’ultimo, che ribadisce la natura divina di Cristo (viene dal Credo)  e che il Vaticano II, se non vado errato, non usa. Di sicuro non compare in questo capitolo di LG che tratta del “mistero della Chiesa” fondata da Cristo.  L’art. 2 AeU mette subito in evidenza che Nostro Signore ha posto dei capi scelti da Lui (per electos a se praepositos) per guidare “il popolo di Dio” alla vita eterna.  A queste guide o pastori ha conferito numerosi càrismi (che in greco vuol dire semplicemente doni, anche se viene in genere inteso nel senso di doni particolari, grazie speciali), da esercitarsi sotto la guida di Pietro (sub Petro exercendis), come risulta da Mt 28, 18-20 e Mc 16, 15-16.  Il testo riporta interamente i due passi di Matteo e di Marco. In quest’ultimo, nell’ultima perìcope, c’è l’ammonimento terribile, già incontrato:  “ Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, chi in verità non crederà sarà condannato”. 

Questo nuovo popolo, che è “l’Israele di Dio” (Gal 6,16) non procede come una massa sparpagliata ma in formazione  serrata come un esercito (non tanquam effusa turba, sed ut confertum agmen procedit).  Così inquadrata dalla Gerarchia e dalla dottrina resisterà alle insidie di Satana; nutrita del cibo spirituale, questa milizia durerà sino alla fine del mondo ”nell’unità di fede, nella comunione dei sacramenti e sotto il governo apostolico”.  Nel rappresentare “l’esecuzione” del disegno del Padre da parte del Figlio Unigenito, l’articolo già richiama il Primato di Pietro; il dogma della dannazione eterna per chi non avrà voluto credere; e di nuovo la teologia della sostituzione, essendo ora la Chiesa (il popolo di Dio guidato come una milizia dalla Gerarchia sub Petro) il vero Israël Dei.  L’attuazione del disegno del Padre si ha perciò nella Chiesa di Cristo, che ha sostituito completamente “l’Israele della carne”, e fuori di essa non c’è salvezza, come si evince chiaramente da Mc 16,16 già ricordato.

 

4. La teologia della sostituzione appare in ombra nella LG

Tutto ciò manca completamente in LG 3, l’articolo che si occupa della “missione del Figlio”. Qui la Chiesa, si è visto, è “il regno di Dio già presente in mistero”, nei “predestinati”, che “cresce visibilmente nel mondo per la potenza di Dio”.  La Chiesa non è più una “milizia”; è soprattutto un “mistero”, il mistero della nostra redenzione.  E se si accentua troppo la nota del “mistero” (la cui esistenza nessuno ha mai negato) non si finisce con il privilegiare la natura invisibile (detta anche spirituale o pneumatica) della Chiesa a scapito di quella visibile, uscendo in tal modo dal seminato?  In molti se lo sono chiesto, tra quelli che non si sono lasciati abbagliare da tutta questa profusione di “mistero”.  Inizio e crescita del mistero vengono significati simbolicamente dal sangue e dall’acqua che uscirono dal costato del Signore e dalle sue parole, in Gv 12, 32:  “quando sarò levato in alto da terra [in Croce], tutti attirerò a me”(ivi).  Nel sacrificio dell’altare “si rinnova l’opera della nostra redenzione e si rappresenta l’unità dei fedeli, che sono un solo corpo in Cristo” e “tutti gli uomini sono chiamati a questa unione con Cristo” (LG 3).  Il significato del “mistero” che è la Chiesa viene dunque colto mediante questi simboli di unità, che coinvolgono l’intero genere umano; non si chiarifica nell’esistenza, natura, missione concreta della Chiesa Cattolica Romana, sotto il governo del Vicario di Cristo.

 

5. La missione della Chiesa è forse quella di realizzare l’unità del genere umano?

 Qual è dunque la “missione” del Figlio, secondo LG 3?  La redenzione di tutti gli uomini mediante l’unione con Cristo, già rappresentata dall’unità dei fedeli nell’Eucaristia.  Sembra pertanto che l’unità di tutti in Cristo non dipenda tanto dalla conversione (e quindi dall’ingresso nella Chiesa Cattolica) quanto dalla partecipazione all’Eucarestia (che poi il Concilio rappresenterà  con un nuovo termine, ignoto ai Padri della Chiesa, a tutta la Tradizione, ricorrendo sempre alla nozione del mistero:  “il mistero pasquale”).  Linguaggio e simboli scelti da LG 3 non coincidono con quelli di AeU.  Manca del tutto il riferimento ai testi citati dal secondo, sopra riportati, che mostrano la netta separazione tra la Chiesa di Cristo e il mondo “regno del principe di questo mondo”, “regno” che alla fine dei tempi sarà condannato senza appello.  Le immagini usate da LG sono sempre tradizionali, ricavate da ben noti passi evangelici e dai Padri della Chiesa.  E tuttavia ciò non elimina l’impressione di un’impostazione diversa, anche a causa delle omissioni; l’impressione di trovarsi di fronte ad un concetto di Chiesa di Cristo – voglio dire – che sembra miri a sviluppare soprattutto la componente misterica della Chiesa, esaltata pertanto soprattutto come realtà salvifica invisibile, spirituale.  Ciò significa, come recita l’art. 1 della LG, attribuire alla Chiesa soprattutto la missione di realizzare in questo mondo l’unità di tutto il genere umano, dato che quest’ultimo sarebbe di per sé già “in intima unione con Dio”, unione invisibile, pneumatica. L’idea di questa “intima unione” non è del tutto chiara, per il comune credente.  Che significa, esattamente?  E come si giustifica alla luce del dogma del peccato originale?  Dobbiamo ritenere che dopo la Caduta il genere umano sia rimasto “in intima unione con Dio”?  E come ha fatto, se, come ha ribadito il dogmatico Concilio di Trento, esso, a causa del peccato, ha perduto l’originaria somiglianza con Dio?[5]

Ora, una “missione” così concepita non appare staccata dal corpo concreto di Cristo, costituito dal “popolo di Dio” inteso come Chiesa militante sub Petro e gli Apostoli?  Cristo, afferma LG, chiama tutti gli uomini all’unione con Lui, esemplificata dall’unione dei fedeli nell’Eucaristia.  Si è sempre attribuito all’Eucarestia il significato simbolico (e quindi secondario) di rappresentare l’unione dei fedeli tra di loro e loro con Cristo. Il significato primario (non simbolico ma reale) è quello di essere il rinnovamento incruento del Sacrificio sulla Croce, che soddisfa l’ira divina e ci procura misericordia per i nostri peccati.  L’Eucaristia come simbolo di unione dei cattolici è ribadito  anche dalla Mystici Corporis:  “Giacché Gesù Cristo volle che questa mirabile unione, mai abbastanza lodata, per la quale veniamo congiunti tra di noi e col divino nostro Capo, si manifestasse ai credenti in modo speciale per mezzo del sacrificio eucaristico…”[6].  Ma come è utilizzato il simbolo da LG?  Con il presentare l’unione con Cristo non solo dei fedeli ma di tutti gli uomini, senza che  per “tutti gli uomini” si affermi la necessità di entrare preliminarmente nella Chiesa cattolica, di pentirsi, convertirsi e mutar vita.

 

6.  Unione senza conversione a Cristo 

In questa “unione” lo strumento essenziale sembra esser l’Eucaristia non la Chiesa visibile, militante appunto.  E non deve quest’ultima (la cui Gerarchia amministra i Sacramenti) considerarsi lo strumento essenziale della “missione” di Cristo?  La “missione” consisterebbe allora soprattutto nel realizzare l’unità del genere umano e senza dire apertamente che quest’unità (da un punto di vista cattolico) si può conseguire solo con la  previa conversione a Cristo.  Un’idea di unità separata da quella di conversione non resta ambigua, per non dire falsa?  Ma, direbbe qualcuno, “esser chiamati a questa unione con Cristo” non significa forse, in modo indiretto o implicito, “esser chiamati a convertirsi a Cristo”?  La frase si può certo leggere in questo modo, se si vuole.  Vi ostano, comunque, a mio avviso due osservazioni: 1) perché usare un linguaggio così indiretto? Che motivo c’era di sostituire “unione” a “conversione”?  2) “l’unione con Cristo” non è invocata sul presupposto che essa sia l’unica possibilità di salvezza concessa all’uomo.   L’Eucarestia, adesso, in quanto simbolo, oltre che dell’unità dei cattolici, ci deve anche dare l’immagine dell’unità del genere umano, in quanto tale?  Non ne risulta uno stravolgimento del vero significato del simbolo?

 

7. Unità dei credenti nella Chiesa, non del genere umano 

 Se questo significato di “unione” senza “conversione” si può ricavare da LG 3, bisogna dire allora che esso non si accorda con la Tradizione della Chiesa, dato che essa ha sempre visto come scopo della “missione” del Signore (per ciò che riguarda l’idea dell’unità) l’unità di coloro che credono in Cristo, l’unità di fede, che sola rende testimonianza al Padre (Gv 17, 7-9; 20-21), non di tutto il genere umano in quanto tale, mai proposta in passato ed anzi considerata alla stregua di una pericolosa chimera.  I credenti in Cristo vengono da tutto il genere umano perché gli uomini sono tutti uguali, in quanto creati da Dio, che non ha “preferenze di persone”:  in questo senso solamente, la conversione può realizzare l’unità complessiva del genere umano.  Se si obietta che, nel comandare ai Discepoli la loro missione, Cristo risorto ha detto : “rendete miei [discepoli] tutti i popoli” (Mt 28,19), bisogna rispondere che Egli non voleva additar loro l’unità del genere umano come scopo.  Voleva dire che essi dovevano predicare a tutti i popoli (superando l’esclusivismo dell’Israele della carne, nel quale era storicamente prevalsa la componente particolaristica, nazionalistica e millenaristica dell’Ebraismo) per farli entrare nella Chiesa universale, che non realizza l’unità di tutto il genere umano (cosa irrealistica, chimerica) ma di tutti i credenti, quale che sia la loro razza o nazione.  E tutti i credenti non coincidono mai con tutti gli uomini.  Del resto, che tale unità non costituisse lo scopo della sua “missione”, Nostro Signore non lo dimostra forse quando ci rivela che il Giorno del Giudizio una parte dell’umanità (non sappiamo ovviamente quanto grande ma sicuramente non piccola – Mt 7, 13-14) sarà dannata per sempre, per sua propria colpa? E se una parte consistente dell’umanità se ne andrà in perdizione, ciò significa che solo una parte si salverà e che nella vita eterna non si avrà affatto l’unità di tutto il genere umano bensì la sua divisione perenne in Eletti e Reprobi.

 

8.  La critica di Mons. Gherardini a LG 1, le sconcertanti repliche del prof. Cantoni  

Suscitando le ire del prof. Cantoni, Mons. Gherardini critica la dottrina proposta da LG 1 sulla Chiesa come sacramento ossia “segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità del genere umano”.  Ecco il passo, come riportato dal prof. Cantoni:

“Che la Chiesa, in quanto sacramento di Cristo e sua presenza misterica nella storia dell’uomo, sia per questo segno e strumento della grazia che salva, è una grande e consolante verità.  Che tra gli effetti della sua azione sacramentale s’annoveri anche l’unità del genere umano starà scritto tra le nuvole, ma è lontano dalla più accreditata e consolidata dottrina ecclesiologica, la quale prevede, sì, un’azione di causalità esemplare della “Chiesa una” sull’”unità” di tutt’i popoli, ma non una causalità sacramentale.  L’aver sostenuto il contrario non è, tuttavia, senza significato:  apre alla Chiesa una prospettiva sociologica e perfino socio-politica […]  Con enorme sorpresa, LG 1 introduce qui due inesplicabili novità:  l’una relativa alla causa finale e l’altra alla fonte dell’asserto.  Allarga la causa finale dalla salvezza eterna all’”unità dell’intero genere umano” e collega il tutto, anche lo stupefacente allargamento, ai “precedenti Concili” dei quali intende continuare lo svolgimento tematico”[7].

Una prima critica del prof. Cantoni si concentra su quanto Mons. Gherardini scriveva circa trent’anni fa, quando era meno severo nei confronti del Concilio, e non mette conto occuparsene, come ho spiegato sopra.  In senso specifico, egli ribatte nel seguente modo: 

“In realtà l’”intima unione con Dio” e “l’unità di tutto il genere umano” di cui parla LG 1 si devono intendere alla luce di una lettura teologica e quindi unitaria della Sacra Scrittura, in cui i due episodi di Babele (Gn 11) e della Pentecoste (Atti 2) si richiamano e si illuminano a vicenda.  La divisione che minaccia e impedisce l’unione con Dio e l’unità dell’uomo con se stesso e con gli altri è dunque il peccato, a cui si contrappone, come unica forza unicamente proporzionata (anzi sovrabbondante), l’efficacia salvifica che promana dai sacramenti da cui la Chiesa è fatta e che essa stessa fa”.  Giovanni Paolo II, precisa l’Autore, ha illustrato questo aspetto nel 1984, nell’esortazione apostolica Reconciliatio et Paenitentia.  Ma questo è solo il primo punto.  Continua infatti il Nostro:

“Non riesco poi proprio a capire che cosa ci sia di scandaloso nell’affermare che il Verbo incarnato causi, mediante la Chiesa che è in qualche modo (quodammodo…) la continuazione dell’incarnazione stessa, l’unità del genere umano.  Mi parrebbe scandaloso affermare il contrario!  Che questa unità non sia primariamente di carattere sociologico è evidente (che cosa c’entrerebbe allora “l’intima unione con Dio”?), ma è altrettanto evidente che là dove si produce per davvero non può non avere anche, a lungo andare, degli effetti sociologici e politici: la fede cristiana ha fatto l’Europa”.  Come sappiamo, quest’unità non comprenderà tutti, né in questo mondo né nell’altro.  “Non tutti gli uomini, singolarmente presi, partecipano e parteciperanno di questa “unità di tutto il genere umano”, come non tutti gli uomini partecipano e parteciperanno (anche se non sappiamo quali e quanti) della salvezza di Cristo.  Questa consapevolezza però non ha mai impedito ai cristiani di scrivere, ricamare e scolpire in tanti modi e luoghi “JHS” (Jesus Hominum Salvator)”[8].

L’accenno alla “fede cristiana che ha fatto l’Europa” mi sembra fuori luogo, per il semplice motivo che (lo capiscono tutti) “la prospettiva socio-politica” cui allude Mons. Gherardini, dischiusa da questa nuova missione di unificare tutto il genere umano, è in realtà quella della “teologia della liberazione” dei popoli nelle sue varie forme. Essa ha provocato lo stravolgimento dell’attività missionaria in un’attività rivoluzionaria o a sfondo rivoluzionario che, al posto della conversione delle anime e della costruzione equilibrata di una società cristiana, mette le lotte per “la dignità dell’uomo”, per “i diritti umani”, ivi compresi quelli “delle donne” concepiti in modo simile a certi assunti del femminismo, lotte da condursi ovviamente assieme a tutte le forze laiche “progressiste”, anticristiane per definizione. È la prospettiva politicizzata con la quale le Conferenze episcopali guardano al mondo, passando parte notevole del loro tempo ad occuparsi di economia, politica, finanza in ponderosi e velleitari documenti, auspicanti, alla fin fine, la soluzione di tutti i problemi della terra ad opera di un’istituenda “Autorità mondiale” che elimini la povertà ed unifichi il mondo!

Si noti come manchi, nella replica del prof. Cantoni, qualsiasi accenno alla conversione al Cattolicesimo, per realizzare (l’auspicata) unità del genere umano.  La “divisione”, che è anche quella dell’uomo “con sé stesso”, sarebbe superata dalla “efficacia salvifica” dei Sacramenti. Ma ci si deve battezzare o no?  Si deve o no entrare nella Chiesa Cattolica (Apostolica, Romana) per conseguire questa “efficacia salvifica”?  Dal testo non lo si capisce.  Mancando un chiaro riferimento in questo senso, tutto il discorso resta astratto e nello stesso tempo ambiguo poiché fa apparire un’unità del genere umano che la Chiesa dovrebbe realizzare senza però convertire nessuno.  Ma bastano i Sacramenti da soli a vincere “il peccato” che divide, senza l’appartenenza alla Chiesa di chi deve fruirne?  Forse oggi si è convinti che bastino e anche siffatta convinzione spiegherebbe il perdurare del grande scandalo delle cosiddette “liturgie ecumeniche”, con invenzione di riti e partecipazione di Acattolici di ogni tipo.

In passato le idee erano nettamente più chiare.  Si osservi quanto scriveva a commento dell’episodio della Torre di Babele l’edizione della Bibbia della CEI, anteriore al Vaticano II:  “Allora Dio, per separare, confuse le lingue; nella Pentecoste, invece, per unire tutti i popoli in una sola Chiesa, dette agli Apostoli il dono di parlare le lingue.  Oggi la Chiesa continua il fatto iniziato nella Pentecoste e parla tutte le lingue, perché si è estesa ad ogni nazione della terra.  Sicché tutti i Cattolici, anche se di rito diverso, credono le stesse verità, recitano il medesimo Credo, obbediscono al medesimo Papa e appartengono al medesimo regno di Dio.  Il loro punto d’incontro è duplice:  nelle chiese, ai piedi dell’altare dov’è Cristo nell’Eucarestia; e nei suoi ministri, in Vaticano ove dimora il suo Vicario, faro di luce per tutte le genti”[9].  Qui è esposto chiaramente il tradizionale modo di intendere la missione della Chiesa:  unire tutti i popoli, per quanto possibile, in una sola Chiesa, nella Chiesa Cattolica Romana, che realizza l’unità di tutti i suoi credenti, non del genere umano.  

 

 

 

9.  Un fine “scandaloso”, preso a prestito dal pensiero profano

Che quest’unità del genere umano possa apparire “scandalosa” se riferita al Cristianesimo, come fa capire Mons. Gherardini, ciò risulta a mio avviso già da questa semplice riflessione:  l’ideale che essa rappresenta attribuisce al “genere umano” un valore autonomo e indipendente, ragion per cui la supposta sua unità verrebbe a costituire un fine del tutto terreno e fatalmente “sociologico” ossia “politico”, che  metterebbe la Chiesa in contraddizione con la propria vocazione sovrannaturale, che rimane sempre quella di condurre il maggior numero possibile di anime (una per una) alla vita eterna, senza preoccuparsi dell’unità o meno del genere umano. 

È noto, del resto, che tale ideale non proviene dalla Tradizione della Chiesa ma rappresenta un’aspirazione ed un mito del pensiero laico.  Se vogliamo, una delle sue peggiori utopie.  Per il Cattolicesimo,  si tratta di un prodotto d’importazione.  L’unità del genere umano, quale prodotto della ragione resasi autonoma rispetto alla Rivelazione, è stato ed ancora è uno degli obiettivi vorrei dire classici del pensiero moderno e contemporaneo. Compare nella filosofia della storia di taglio illuministico: dei Condorcet, dei Kant.

Kant concepisce la storia come un progresso costante del genere umano “verso il meglio”, rappresentato dall’affermarsi graduale di un’etica fondata solamente sulla ragione dell’uomo e di un “diritto cosmopolitico” capace di realizzare, alla fine, l’unità del genere umano nella “pace perpetua”. Infatti, le tesi 8 e 9 della sua Idea della storia universale da un punto di vista cosmopolitico (1784), sostengono che la storia non è altro che l’esecuzione “di un piano occulto della natura per realizzare una costituzione politica perfetta”, in modo da realizzare altresì “la perfetta unione civile del genere umano”. 

 Nel pensiero di Mazzini, apostolo dell’idea di Patria ma rivoluzionario visionario e  panteista in religione, troviamo ripetuta applicazione di un’idea tipica del socialismo utopistico, quella del Cristianesimo come religione dell’Umanità che, in nome della Fratellanza Universale, deve realizzare l’unità del genere umano; rappresentazione del Cristianesimo che ne falsa completamente il significato, mutandolo in quello di una religione secolare, politica[10].  

     E circa la verità a noi rivelata, secondo la quale una parte dell’umanità non si salverà, quale posizione assume il prof. Cantoni?  Replica con un’immagine, quella di Jesus Hominum Salvator, che a ben vedere va contro la sua tesi.  Infatti, essa ci dice che il sensus fidei del popolo ha sempre ritenuto Gesù “salvatore degli uomini” non di tutti gli uomini, in quanto tali, come se potesse salvarsi anche chi si rifiuta coscientemente alla fede in Cristo e alla Grazia.

 

10.  Quante “salvezze” esistono, per il prof. Cantoni? 

Il lettore avrà notato un’altra stranezza nell’esposizione del Nostro. Egli scrive infatti: “[…] non tutti gli uomini partecipano e parteciperanno […] della salvezza di Cristo”.  Mi chiedo:  c’è forse bisogno di precisare che la salvezza è la “salvezza di Cristo”?  Esiste forse un’altra “salvezza”, per un cattolico?  Una salvezza che non viene da Nostro Signore?  Chi scrive “salvezza di Cristo” potrebbe credere che esistono altre forme di salvezza, non di Cristo.   Ma questo sospetto, che il nostro Autore – sacerdote cattolico – ammetta altri tipi di salvezza, su che cosa si fonda?  Su un altro passo del suo lavoro, nel quale egli sembra presentare il Corano come portatore di una verità rivelata, allo stesso modo dei Vangeli!

Polemizzando con le critiche di Mons. Gherardini alla costituzione conciliare Dei Verbum  sulla divina Rivelazione perché essa non parla mai di “Fonti della Rivelazione”, il Nostro afferma che la critica non ha motivo di essere perché, scrive, il concilio ha voluto identificare “la parola di Dio annunciata dalla Chiesa […] con Cristo stesso, essendo lui il culmine e la pienezza della rivelazione.  Così facendo si voleva evitare una comprensione troppo “concettualista” del sacro deposito, facendo capire che esso non è un insieme di proposizioni, ma coincide ultimamente con Cristo stesso”[11].  Confesso che, come semplice credente, non riesco a comprendere il significato di queste affermazioni.  Il “sacro deposito” non consta di articoli di fede che possano esser spiegati razionalmente, secondo concetti  comprensibili, anche se vertono su verità rivelate che restano inaccessibili all’intelletto umano?  Sembra di no.  Esso “non è un insieme di proposizioni”, esso “coincide con Cristo”.  Che significa?  Ma arrivo al punto che mi preme.  Il fatto che “il sacro deposito” coincida con Cristo stesso, “dà provvidenzialmente un sapore realistico alla rivelazione cristiana e contribuisce a distinguerla in modo più netto da altri modelli di rivelazione, come per esempio quella coranica.  Il cristianesimo non è una “religione del libro””[12].

Dunque, il Corano costituirebbe “un altro modello di rivelazione”?  E che significa affermare “il sapore realistico della rivelazione cristiana”?  È vera o non è vera?  Il prof. Cantoni crede alla storicità dei Vangeli?  Se ci crede, perché usa un termine così ambiguo come “sapore realistico”?  Ma torniamo al Corano.  Esso costituisce dunque, per il Nostro, un “altro modello di rivelazione”.  Una rivelazione concorrente, per così dire!  Il prof. Cantoni ritiene dunque vi siano più “modelli di rivelazione” e quindi più “salvezze”.  Si comprende allora perché egli senta il bisogno di scrivere:  “salvezza di Cristo”.  C’è anche la “salvezza di Maometto”, a quanto pare. E sicuramente anche quella offerta da tutte le altre religioni, comprese quelle che adorano i feticci e le forze della natura. Di fronte a tanta confusione, che sembra proprio il risultato  dall’ecumenismo attuale, figlio del Vaticano II, bisogna ribadire il vero ossia che per noi Cattolici il Corano non può ritenersi verità rivelata.  Primo, perché è verità di fede che la Rivelazione (quella autentica) è finita con la morte dell’ultimo Apostolo, più di cinque secoli prima dell’avvento di Maometto.  Secondo, perché il Corano è un libro che nega tutti gli elementi essenziali del Cristianesimo, sia quelli religiosi in senso stretto (l’autenticità dei Vangeli, la S.ma Trinità, la nascita miracolosa e la divinità di Cristo, la sua morte in croce, la Resurrezione) sia quelli che costituiscono il fondamento della morale cristiana.  Il secondo punto conferma nel merito il primo.  

 

11. Vietato mettere in dubbio la “continuità” del Vaticano II 

E come osa Mons. Gherardini – continua il prof. Cantoni – mettere in dubbio la “continuità” dell’insegnamento del Vaticano II a proposito della nuova dottrina che “allarga” la causa finale dell’azione della Chiesa “dalla salvezza eterna all’unità del genere umano”?

“Non riesco neppure a capire in che cosa consista la novità dell’affermazione di un concilio non materialmente contenuta in quelli precedenti:  quello che dichiara, decreta e definisce il concilio di Trento non è certamente contenuto nei documenti del concilio di Nicea, ma non siamo perciò autorizzati a concludere che non ne sia la “continuazione”.  Tutto il magistero della Chiesa è un unico discorso e tutte le volte che riprende a parlare è come se dicesse:  dicebamus heri[13].

Non siamo autorizzati a concludere che il Tridentino non sia la continuazione del Niceno I perché, dal punto di vista del Deposito della Fede, ciò che il Tridentino insegna è già contenuto nel Niceno e non vi contraddice in alcun modo.  Ma il Vaticano II ha voluto trarre “nuovi elementi [nova congruentia] dalla dottrina sacra e dalla tradizione della Chiesa”, dichiarando naturalmente che essi sono “in costante armonia con quelli già posseduti”(Dichiarazione Dignitatis humanae, sulla libertà religiosa, 1).  Poiché l’ossequio che Nostro Signore richiede al credente è sempre un “ossequio razionale”  (Rm 12,1), noi fedeli, affidandoci ai princ­ìpi della recta ratio, abbiamo tutto il diritto di confrontare questi “nuovi elementi”, non presentati come dogmi di fede ma come princìpi di una nuova pastorale, con quelli della Tradizione della Chiesa per verificare se sono effettivamente “in costante armonia” con essi.  Il disastro che si è abbattuto sulla Chiesa dopo il Vaticano II, disastro tuttora perdurante, rende doppiamente legittimo questo confronto.  Certamente, “tutto il magistero della Chiesa è un unico discorso”.  Ma sempre sul presupposto che in ogni sua parte questo discorso sia fedele al Deposito della Fede  (1 Tm 6,2).  Ora, la “novità” non consiste qui solo nel non esser “materialmente contenuta” la nuova dottrina nei Concili precedenti:  dal punto di vista della sua qualità, di ciò che essa dice, la novità consiste nell’apparire essa ambigua e contorta e persino non conforme al Deposito per alcuni aspetti.  La questione non è di forma ma di sostanza, riguarda il merito di ciò che viene proposto.  All’analisi imparziale, queste nuove dottrine, già a causa della forma ambigua, obliqua nella quale vengono esposte, non sembrano affatto costituire un approfondimento e un chiarimento del Dogma.  Al contrario, esse fanno addirittura scorgere la presenza di errori già condannati dalla Chiesa, come per esempio il “pancristismo” precorritore del “neoecumenismo” attuale. 

Torniamo ora al nostro esame parallelo di AeU 1-7 e LG 1-8.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IV.  STRUTTURA GENERALE DI “AETERNUS UNIGENITI” 3-7   

 

1. Sintesi di “Aeternus Unigeniti” 3-7  nel confronto con “Lumen Gentium” 4-8

Dopo aver illustrato nei suoi primi due articoli l’intenzione (consilium) del Padre e la sua esecuzione da parte del Figlio Unigenito, lo schema AeU espone l’indole (indoles) o natura dello “Israele di Dio”, della Chiesa, in sé (art. 3.1) e come risulta dalle varie “figure” nelle quali è rappresentata (expressa) (art. 3.2).  Tra queste figure (regno, casa, tempio di Dio, gregge, ovile, sposa di Cristo, colonna e fondamento della verità), la più importante è quella della Chiesa come “Corpo di Cristo”, perché – si scrive  - rende  al meglio l’unità della Chiesa con il suo fondatore e l’unità dell’elemento “sociale” con quello “mistico”, continuamente presente (art. 4).  Si “enuclea” pertanto la figura del corpo nelle sue componenti (art. 5), per dimostrare alla fine come la “societas” che è la Chiesa visibile sia “il mistico Corpo di Cristo” ad opera dello Spirito Santo, condannando, sulla scia della Mystici Corporis, l’errore (neomodernista) di chi sosteneva una concezione della Chiesa cosiddetta “carismatica o fondata sull’amore”, del tutto separata dalla Chiesa visibile e gerarchica (art. 6).  Perciò lo schema, dopo aver delineato la Chiesa come il vero Israele di Dio, Corpo Mistico di Cristo, termina con l’art. 7 che afferma in modo perentorio e definitivo esser l’unica e vera Chiesa di Cristo la Chiesa Cattolica Romana.  Per ciò che riguarda l’Ebraismo, lo schema riafferma in modo netto il principio a fondamento della teologia della sostituzione, secondo il quale, come dice il nome stesso, dopo il ripudio del Messia (Nostro Signore Gesù Cristo) da parte dell’ Israele della carne, la Chiesa, da Cristo stesso fondata, si è inevitabilmente sostituita ad esso nel disegno salvifico del Padre:  essa è ora l’Israele di Dio, l’unica porta della salvezza.

Lo schema ribadisce in modo nettissimo l’identità assoluta dell’unica e vera Chiesa di Cristo con la Chiesa Cattolica Romana, che è pertanto il Corpo Mistico di Cristo.

La struttura di AeU è ripresa da LG 3-8 ma con consistenti modifiche, provocate sia da aggiunte di parti nuove che da  rilevanti omissioni.  Di LG 3, dedicato alla “Missione del Figlio”, ho già detto ampiamente.  Colpisce poi l’ampio articolo dedicato allo Spirito Santo (LG 4).  Si tratta di un approfondimento specifico del Vaticano II.  In AeU, come vedremo, l’opera dello Spirito Santo era menzionata in modo più sobrio, rigorosamente inquadrata nell’ambito del Corpo Mistico, del quale lo Spirito Santo è considerato per l’appunto “l’anima”.  L’approfondimento apportato dal Vaticano II è stato salutato con entusiasmo da molti.  In effetti, quest’articolo sullo “Spirito santificatore della Chiesa” è una vera e propria palinodia dell’azione dello Spirito Santo, costruita utilizzando tutta una serie di ineccepibili passi neotestamentari e dei Padri della Chiesa.  Tuttavia sembrano esserci due sfumature che, a mio avviso, intorbidano l’atmosfera.  Su di esse mi soffermerò in seguito.

   Proseguo ora nella sintesi generale.  Dopo il grande rilievo dato all’azione dello Spirito Santo, LG 5 illustra il mistero della Chiesa esponendo il concetto del “Regno di Dio”.  Anche questa parte è nuova rispetto allo schema AeU.  Com’è rappresentato qui il Regno di Dio?  Nella persona, nelle parole, nelle opere di Nostro Signore (che ha per l’appunto annunciato l’avvento del Regno di Dio) attraverso la consueta, nutrita serie di riferimenti a passi evangelici. La “Chiesa”, in relazione al Regno,  appare alla fine dell’articolo per ricordarci che essa deve annunciare ed instaurare in tutte le genti il Regno mentre costituisce di questo Regno “il germe e l’inizio su questa terra”.  Essa poi “anela al regno perfetto”, che ancora non possiede.  Ma questo “regno perfetto” si trova in questo mondo o nell’altro?  Il testo mantiene la dovuta distinzione tra la natura e il sovrannaturale?  Né si afferma chiaramente la tesi tradizionale: che la Chiesa cattolica sub Petro, fondata da Gesù, è già l’attuazione del Regno di Dio in terra[14].   

L’art. 6 LG riprende il tema delle immagini della Chiesa.  AeU, come si è visto, si era soffermato soprattutto sulla figura del “Corpo di Cristo”, che risale a S. Paolo, considerata la più efficace per capire effettivamente la natura della Chiesa.  LG 6 amplia enormemente l’analisi di queste immagini della Chiesa, preoccupandosi tra l’altro di stabilire un rapporto tra di esse e l’Antico Testamento, in quanto immagini già annunziate dai Profeti.  Da tutta questa analisi, come già per l’art. 5, emerge soprattutto una visione spirituale ed escatologica della Chiesa, ma di un’escatologia un po’ particolare poiché il Sovrannaturale non vi si distingue nettamente.

Né mi sembra che si cambi impostazione nell’art. 7, che tratta della Chiesa “Corpo Mistico di Cristo”.  Non abbiamo qui una ripetizione di quanto detto nello schema AeU.  L’articolo, come vedremo, sembra voler accentuare l’aspetto per così dire “mistico” del Corpo Mistico di Cristo e tutto il discorso sembra vertere più su Cristo che sul “Corpo di Cristo”, rappresentato dalla Chiesa Cattolica Romana nella sua realtà storica concreta.

Dopo questa sintetica presentazione, vediamo ora in che modo AeU delinei la “figura” del Corpo Mistico di Cristo, scelta tra tutte quelle che rappresentano tradizionalmente l’immagine della Chiesa. 

 

 

 

 

2.  L’“Israele di Dio” denominato “Chiesa di Dio”, “Corpo di Cristo” e “Corpo Mistico di Cristo” coincide unicamente con la Chiesa Cattolica Romana, unica vera Chiesa di Cristo, secondo AeU

L’art. 3.1 di AeU tratta della natura (indoles) dell’Israele di Dio, manifestata in varie figure, a cominciare da quella espressa dal termine ecclèsia, Chiesa, che in greco (ecclesìa) vuol dire originariamente “assemblea”, “assemblea popolare”, “adunanza” (da ek-kaléo: chiamo fuori) ma che si traduce anche con “comunità” o “popolo”.  All’inizio dell’articolo si trova il passo cui ho già accennato, contenente il paragone con l’Antico Testamento, ripreso poi da LG 9 (vedi supra, cap. III, § 3). 

“Pertanto come Mosè chiamò Chiesa di Dio [Dei Ecclesiam] l’Israele secondo la carne che peregrinava nel deserto, così Cristo si riferì all’Israele di Dio che avanzando nell’era presente aspira ad una città futura ed eterna, come alla sua Chiesa, non solo perché l’acquistò con il suo sangue ma anche perché, dopo averla preparata al suo fine con i mezzi opportuni, l’edificò su Pietro (Mt 16,18) e sui suoi successori [i Pontefici], nei quali rimanesse in perpetuo il medesimo Pietro con la sua autorità”(AeU 3.1).   E perché gli uomini capissero meglio la natura della Chiesa, prosegue l’articolo, lui stesso o per mezzo degli Apostoli la rappresentò con diverse figure e nomi:  “regno, casa di Dio, tempio di Dio, gregge, ovile, sposa di Cristo, colonna e fondamento della verità”.

 Ho messo la parte finale della citazione iniziale in corsivo sottolineato per metter in evidenza la parte della frase che è stata lasciata cadere da LG 9, che riporta invece il resto, come ho ricordato sopra.  La parte lasciata cadere è proprio quella che identifica sin dall’inizio l’Israele di Dio con la “roccia” costituita per volere di Cristo da S. Pietro; che identifica perciò la Chiesa di Cristo con la Chiesa Cattolica Romana, i cui Pontefici sono i successori legittimi di S. Pietro, avendo essi soli mantenuto la continuità apostolica e dottrinale, come ho già ricordato.

 

3. Il senso del parallelo con l’Antico Testamento 

Il testo di AeU rinvia in nota a due passi dell’Antico Testamento per documentare l’appellativo Dei Ecclesia conferito al popolo ebraico:  Num 20,4 e Deut 23,2.  Nel primo si narra di un principio di ribellione del “popolo del Signore” (Ecclesia Dei) ovvero del popolo ebraico contro Mosè ed Aronne durante la traversata del deserto, allorché si era trovato momentaneamente senz’acqua.  Nel secondo, si enunciano le categorie degli esclusi dalla “assemblea di Israele”, ordinando:  “Il bastardo nato da meretricio, non entrerà nella comunità del Signore [Ecclesia Dei] sino alla decima generazione”.

Il riferimento ai Libri di Mosè permette di stabilire la giusta analogia tra Antico e Nuovo Testamento, che non è tra cose uguali.  La Ecclesia mosaica è quella limitata e ristretta all’Israele della carne e riguarda le sue vicende e leggi particolari, anche se inquadrate  nell’economia della salvezza.  Invece la Ecclesia di Cristo è stata concepita dal Signore e dichiarata “sua”, non solo perché acquisita con il sacrificio della Croce, perché provvista da Lui dei mezzi necessari al suo fine sovrannaturale, ma anche perché edificata “su Pietro e i suoi successori”, cioè sui Romani Pontefici, la cui autorità si fonda direttamente su Cristo non su quella del collegio apostolico né sulla “carne” di un’istituzione e di una tradizione meramente nazionali.  La Chiesa, pertanto, non si incorpora in un determinato popolo:  il suo “corpo” è quello di Cristo, che ne è il capo.

Stabilita in modo netto da AeU 3.1 la differenza tra l’Ecclesia Dei mosaica e l’Ecclesia Dei fondata da Nostro Signore, AeU 4 inizia l’analisi della Chiesa come “figura del corpo di Cristo”: nozione fondamentale, che ribadisce l’origine e la natura sovrannaturale della Chiesa militante, senza attenuarne il carattere appunto “militante”, terreno e visibile, gerarchico, sociale.

 

4. La Chiesa come “Corpo di Cristo” in AeU 4 

Di tutte le figure della Chiesa, prosegue il testo, quella del “corpo” occupa il posto principale “perché esprime in modo più chiaro l’unione dell’elemento sociale [della Chiesa come societas terrena] con quello mistico”.  Il concetto compare in S. Paolo, “ispirato da Cristo”, in due noti passi:  Col 1,18 ed Ef 1,23:  “Ed egli [Cristo] è il capo del corpo che è la Chiesa”;  “…[Egli] è il capo supremo della Chiesa, che è il corpo di Lui e complemento di Colui che tutto completa in tutti”. 

L’immagine del corpo implica quella dell’unità del corpo con il Capo, Nostro Signore, e dei membri del corpo tra di loro.  “Perciò – continua Aeu 4 – tutti coloro che sono entrati nella Chiesa col battesimo e si sono rivestiti di Cristo nella comunione dei santi [Gal 3, 27], allorché partecipano dell’unico pane eucaristico, raggiungono il compimento nell’unità dell’unico Corpo [di Cristo], “perché unico pane ed unico corpo formiamo noi pur essendo molti, poiché tutti partecipiamo dell’unico pane”” [1 Cr 10,17].  Quest’immagine tradizionale che connette l’unità del Corpo di Cristo all’unità che simbolicamente si realizza nell’Eucaristia, è ripresa, come si è visto, da LG 3 (vedi supra, cap. III, § 5).  Ma in AeU 4 l’unità, conformemente alla dottrina tradizionale, è rigorosamente circoscritta ai soli battezzati che professino la vera fede in parole e opere (nel modo di esprimersi di S. Paolo:  che si siano rivestiti di Cristo nella comunione dei Santi) senza accenni ad allargamenti ed estensioni che giungano a ricomprendere tutti gli uomini, anche i non convertiti (unità di tutto il genere umano)!  Gli accenni all’estensione dell’unità del Corpo di Cristo a tutti gli uomini, nel senso appena indicato, sono una caratteristica del Vaticano II.

Stabilito in che senso l’immagine del “Corpo di Cristo” faccia intendere l’unità dell’elemento “sociale” con quello “mistico” nella Chiesa, l’art. 5 di AeU procede ad “enucleare la figura del corpo” nei suoi elementi costitutivi.

Il corpo che è la Chiesa è innanzitutto “visibile” (oculis cernitur:  si scorge con gli occhi, come soleva dire Leone XIII) ed è composto da molti membri di diversa natura (“chierici e laici, governanti e sudditi, maestri e discepoli”) che danno luogo a diversi ordini (status) nella Chiesa stessa, ai quali presiede Cristo, che fornisce le grazie necessarie per mantenerli nel giusto equilibrio. I vari ordini della Chiesa sono analizzati nei capitoli successivi dello schema.  Ma nella “compagine dei membri del corpo” c’è un’altra connexio che opera a mantenere l’unità del tutto; connexio soprannaturale, che risale anch’essa al Signore, da lui illustrata quando ha detto:  “Io sono la vite, voi i tralci.  Colui che rimane in Me e Io in lui, porta abbondanti frutti; perché senza di Me non potete far nulla” (Gv 15,5).  La connessione profonda che mantiene l’unità della Chiesa visibile, l’unità di un vero e proprio Corpo, è quindi sempre sovrannaturale ed è prodotta dallo Spirito Santo.  La seconda e la terza Persona della Santissima Trinità concorrono quindi a costituire e a mantenere la Chiesa visibile come unità, unità dei soli credenti non di tutto il genere umano.

“Così come infatti Cristo è il Capo del Corpo, allo stesso modo lo Spirito Santo, che inabita nel Capo e nelle membra, è la sua Anima;  essendo uno, costituisce e tiene tutto il corpo in unità e a tutti i membri, secondo la misura del dono di Cristo, amministra la grazia e i doni, e conferisce i carismi.  Per tal motivo la Chiesa è detta essere una persona veramente mistica in Cristo Gesù:  “Infatti voi tutti siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3, 28).

Qual è il rapporto tra lo Spirito Santo e la Chiesa corpo di Cristo?  Lo Spirito Santo è “l’anima” della Chiesa ma senza esser mai indipendente dal Capo, cioè da Cristo.  Non può esistere un dualismo tra il Capo del corpo e l’Anima dello stesso.  Quest’immagine agostiniana è ripresa da Leone XIII e successivamente dalla Mystici Corporis.  Fuor di metafora:  lo Spirito Santo “amministra” (administrat) e “conferisce” (confert) la grazia, i doni, i “carismi” (nel senso di doni particolari, eccezionali) ma sempre “secondo la misura del dono di Cristo”.  Questo principio fu ribadito con estrema chiarezza nella Mystici Corporis[15].  Esso è verità rivelata da S. Paolo. Proviene da Ef 4,7, da un capitolo nel quale S. Paolo sta spiegando le virtù fondamentali della vita cristiana:  “A ciascuno poi di noi fu data la grazia secondo la misura del dono di Cristo” [data est gratia secundum mensuram donationis Christi].  Il “dono”  è molteplice:  “Ed egli diede gli uni apostoli, gli altri profeti, gli altri evangelisti, gli altri pastori e maestri, per il perfezionamento dei santi [dei credenti fra i Gentili], in vista dell’opera del ministero, che è l’edificazione del corpo di Cristo…”(Ef 4,11-12).  Naturalmente, come mostra il prosieguo dell’epistola paolina, “i doni di Cristo” non sono riservati al solo corpo docente della Chiesa nascente, essi sono attribuiti a tutti i membri della Chiesa, come appunto ribadito da AeU 5. Senza un’illustrazione precisa dell’opera dello Spirito Santo non si potrebbe definire la Chiesa come “corpo mistico di Cristo”.  E quest’illustrazione riflette la dottrina ortodossa, il dogma secondo il quale “la terza Persona della Santissima Trinità procede per spirazione dalla prima e dalla seconda, come da un solo principio”[16].

 

5. Il peccato dei suoi membri non lede la santità della Chiesa 

 L’ultimo paragrafo di AeU 5 tratta della santità della Chiesa nonostante i peccati commessi dai “membri malati” che ne fanno parte. 

“Tuttavia i peccati di costoro offendono in verità la Chiesa ma non ne ledono la santità essenziale; infatti, la Chiesa è santa soprattutto perché, come sposa di Cristo è costituita nella santità, genera i suoi membri nella santità e non manca mai di membri che eccellono nella santità.  Inoltre, non si limita a reprimere i peccati dei suoi membri ma si adopera affinché questi stessi membri malati siano ricondotti nella pristina condizione di santità, a volte persino più elevata”.

Avendo definito la Chiesa come “Corpo Mistico di Cristo”, bisogna spiegare il rapporto che con esso hanno quei membri che cadano nel peccato.  E chi è, anche tra i cristiani, che non sia peccatore?  Il fatto di appartenere alla Chiesa non li salva dall’eterna dannazione, se induriscono nel peccato.  In nota, AeU 5 cita S. Agostino, il quale insegnava che “anche nel Corpo di Cristo l’amore per la meretrice manda all’Inferno” (Serm. 349, 2:  PL 39, 1530), ove con “meretricis amorem” si devono evidentemente intendere i peccati della carne in tutti i loro vari aspetti, per maschi e femmine.

Ma perché la Chiesa può sanare il membro malato del suo corpo, grazie all’uso dei Sacramenti, istituiti da Cristo come strumenti, se così posso dire, della santità della Chiesa?  Proprio perché è sempre santa in quanto Sposa di Cristo, il quale, tramite lo Spirito Santo, non abbandona la sua Chiesa:  il peccato del cristiano “offende” il Corpo Mistico ma senza “lederlo”.  Infatti, una cosa è “l’offesa”, un’altra la “lesione”:  i nostri peccati offendono Dio ma non possono certo lederlo, ferirlo nella sua divinità, ulcerandola o diminuendola! Idem per la Santa Chiesa, fondata da Nostro Signore.  Da sé stessa, proprio perché assistita sovrannaturalmente dal Signore e dallo Spirito Santo, essa può sempre trovare le forze per sanare il male al suo interno sia punendo sia  esercitando il ministero della misericordia, che mira al pentimento e alla conversione del peccatore.  Inoltre, osservo, se la Chiesa dovesse ritenersi in quanto tale peccatrice, e quindi esserlo nella sua totalità, lo status di peccato non dovrebbe coinvolgere, oltre a tutte le membra, anche il Capo, ossia Nostro Signore?  Se la Chiesa è il “corpo mistico di Cristo” e tale corpo è immerso nel peccato, come fa a non considerarsi “peccatore” anche il Capo del Corpo?  A tali conseguenze aberranti conduce, dunque, la logica intrinseca all’idea assurda di una Chiesa “peccatrice”.

 

6. LG 8 sembra attribuire il peccato anche alla Chiesa come tale  

Questo stesso concetto è ripreso nel penultimo paragrafo di Lumen gentium 8, ma in modo che a molti è parso ambiguo.  Recita infatti il testo:  “Ma mentre Cristo, “santo, innocente, immacolato” non conobbe il peccato e venne solo allo scopo di espiare i peccati del popolo, la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento [Ecclesia in proprio sinu peccatores complectentes, sancta simul et semper purificanda, poenitentiam et renovationem continuo prosequitur]” (LG 8.3).  Si vede subito che qui non è stata ripresa la distinzione di AeU tra “offesa” e “lesione”.  Dobbiamo allora ritenere che il peccato dei Cattolici incida sulla santità della Chiesa?  In effetti, il testo potrebbe legittimare un’interpretazione di questo genere perché afferma che, in conseguenza del peccato dei suoi membri, è la Chiesa in quanto tale ad aver bisogno di “purificazione” e ad avanzare continuamente  “per il cammino della penitenza”.  Ora, chi, se non il peccatore, ha bisogno di “purificazione” e di avanzare senza posa “per il cammino della penitenza”?   L’idea di una peccaminosità della Chiesa (notoriamente sostenuta da Karl Rahner) verrebbe dunque insinuata nell’argomentare obliquo tipico per l’appunto di certi testi del Vaticano II.  Ulteriori riferimenti conciliari mantengono l’ambiguità e forse l’aggravano (LG 11:  coloro che si confessano si riconciliano con la Chiesa alla quale “hanno inflitto una ferita col peccato”; LG 39: “La Chiesa […] è agli occhi della fede indefettibilmente santa [indefectibiliter sancta creditur]”: in sé stessa o agli occhi della fede solamente?  LG 48:  la Chiesa già sulla terra “è adornata di santità anche se imperfetta”:  ma esiste una “santità imperfetta”?  Che significa?). 

Secondo AeU 5, invece, era solo il peccatore ad aver bisogno di “purificazione” e poteva ottenerla proprio perché la santità della Chiesa non era venuta meno, grazie all’assistenza divina.  È giusto dire che la santità della Chiesa può essere offesa dal peccato ma non può esserne “ferita”, perché il peccato non può colpire la Chiesa ontologicamente, nella sua essenza, che è divina e non umana, e gode sempre dell’assistenza divina.  È la santità permanente della Chiesa a garantirle quei mezzi (i Sacramenti) mediante i quali essa ci purifica dai nostri peccati, inducendoci a cambiar vita e a correre verso Cristo come il Figliol Prodigo verso il Padre.  L’ambiguità di LG 8.3  rafforza la sensazione di trovarsi in presenza di un diverso e contraddittorio concetto di Chiesa, visto che ora la si potrebbe intendere contemporaneamente come santa e peccatrice.  Bisogna, inoltre aggiungere che, se la Chiesa, la Sposa di Cristo, fosse essa stessa “peccatrice” e quindi sempre “imperfetta” nella sua santità, non potrebbe trovare in sé stessa i mezzi necessari per purificare i suoi membri peccatori[17].     

 

7. L’errore di chi concepisce una Chiesa solo “carismatica o dell’amore” 

Stabiliti gli elementi essenziali della Chiesa come “Corpo Mistico di Cristo”, il penultimo articolo dello schema rigettato, AeU 6, prende posizione contro l’errore al tempo diffuso ad opera della Nouvelle Théologie, e già ricordato da me, secondo il quale la natura della Chiesa era soprattutto quella di essere un ente carismatico o spirituale, del tutto separato dalla Chiesa gerarchica e militante, sentita anzi come un impaccio, un peso morto.  È quasi superfluo rilevare che di questa precisazione e condanna non v’è traccia nella Lumen Gentium. E come avrebbe potuto, visto che i profeti della “Chiesa carismatica” come P. Congar OP, grazie al “buon cuore” di Roncalli, facevano ora parte della Commissione Teologica? 

In ogni caso, nella Allocuzione di apertura del Vaticano II, l’11 ottobre 1962, Giovanni XXIII non aveva forse detto che non bisognava più condannare gli errori ma usare la medicina della misericordia (come se condannare gli errori non fosse già opera di misericordia nei confronti dell’errante e dei fedeli messi così sull’avviso - Amerio), dato che gli uomini del Secolo presente erano talmente progrediti da condannare ormai da sé stessi certi errori?  E che dire, allora, del fatto che nel 1961 era entrata in commercio negli Stati Uniti la pillola anticoncezionale, che avrebbe potentemente contribuito alla cosiddetta “emancipazione” delle donne, consegnandole in pratica alla corruzione del Secolo?  La diffusione degli anticoncezionali, che si è dimostrata letale per l’Occidente, dimostrava forse che l’umanità ormai condannava da sé stessa certi errori?  Tanto poco li condannava, che questi errori penetrarono ampiamente nella Cattolicità, come dimostrò la vasta ribellione, guidata da interi settori dell’episcopato, che scoppiò quando Paolo VI, pur liberale di temperamento, dovette finalmente dichiarare illecito l’uso degli anticoncezionali, nell’enciclica Humanae vitae, del 25.7.1968.  Come si sa, questa proibizione è rimasta a tutt’oggi lettera morta per molti cattolici.

Ma torniamo ad AeU 6.  L’argomento dell’articolo è:  “La Chiesa in quanto società è il Corpo mistico di Cristo”.  Ossia:  il Corpo Mistico non è solo “spirituale” o “pneumatico” (dal greco pneuma, soffio, spirito), comprende anche la Chiesa società, visibile, gerarchica, militante.

“Dato dunque che lo Spirito Santo elargisce molti carismi alla Chiesa, che corrispondono alla sua indole sociale e alla sua missione divina, in vari offici e ministeri, affinché coloro che li ricevono, operino unitariamente quali cooperatori di Dio [Dei adiutores]  all’edificazione del corpo di Cristo, è falso sostenere che la Chiesa gerarchica o giuridica differisca  nei fatti [re] dalla Chiesa carismatica o dell’amore, come dicono.  Per il semplice fatto che la Chiesa in quanto società [Ecclesia societas] e il Corpo Mistico di Cristo non sono affatto due cose diverse [haud binae res sunt], ma la medesima cosa, che si palesa nel suo aspetto umano e divino; sì da venir assimilata al Mistero del Verbo Incarnato, con analogia di non piccola importanza”.

In cosa consiste, dunque, l’errore degli Ammodernanti?  Nel voler ritenere che l’azione dello Spirito Santo si svolga fornendo di doni  o càrismi solo la componente invisibile della Chiesa, agendo quindi  principalmente sul cuore e sul sentimento, che verrebbero così elevati a componenti di una Chiesa “dell’amore” (per l’umanità) del tutto indipendente dalla Chiesa gerarchica, ossia dalla Chiesa-società, istituzione.  Quest’ultima si troverebbe allora istituzionalmente (re) fuori dell’azione dello Spirito Santo, non godrebbe dei suoi doni.  Ma ciò è impossibile, obietta giustamente AeU 6, per il semplice motivo che la Ecclesia societas, con tutti i suoi ordini, non è stata fondata dagli uomini ma da Cristo stesso, che l’ha costruita a partire dai Dodici, ossia cominciando dall’alto, dai quadri, dalla gerarchia, non dal basso, dal popolo dei fedeli, che doveva ancora esser formato.  In quanto fondata da Cristo, la Chiesa gerarchica e militante gode pertanto dei doni dello Spirito Santo che, come si è visto, sono sempre, ci rivela S. Paolo, “secondo la misura dei doni di Cristo”.

Non ha perciò senso ipotizzare l’esistenza di una Chiesa dello Spirito, del tutto invisibile, che operi con i suoi doni nei cuori degli uomini ed addirittura si contrapponga a quella gerarchica.  Ed ancor meno ne ha, pretendere di “riformare” la Chiesa gerarchica in modo da renderla “carismatica o dell’amore”, come volevano Congar e i suoi amici; cosa che renderebbe – osservo – il Cattolicesimo una sorta di pappa del cuore.  Una concezione del genere riflette le eresie dei Protestanti, per i quali la vera Chiesa è appunto solo quella invisibile, costruita dal cuore, dal sentimento, dalla coscienza di ciascuno, e di essa ogni credente sarebbe il sacerdote, con lo Spirito Santo che lo assisterebbe nella lettura individuale della Bibbia, qualsiasi cosa creda egli poi di trovarvi!  Inoltre, quell’erronea concezione non tiene conto del dato storico offerto dai Vangeli, che mostrano appunto come Nostro Signore abbia fondato nei particolari la Chiesa come realtà gerarchica e sociale visibile, alla quale ha promesso l’aiuto dello Spirito Santo, poi inviato in forma sensibile con il miracolo del giorno della Pentecoste.  E come abbia insegnato a santificarci nella rinuncia a noi stessi e nella lotta contro noi stessi, ricercando il Regno di Dio e la sua giustizia, non la nostra; a non abbandonarci alle ingannevoli lusinghe del cuore o del sentimento, sempre pronti a lasciarsi sedurre dal peccato.

I sostenitori dell’idea di una Chiesa “pneumatica” proponevano un’ecclesiologia nella quale si riaffacciavano le eresie dei Modernisti.  Ciò apparve in modo evidente quando si aprì la discussione sullo schema De Ecclesia rielaborato dalla Commissione Mista, nella 37 Congregazione generale del Concilio.  “I due primi interventi, quelli del cardinale Frings e Siri confermarono la profonda divergenza di vedute esistente all’interno dell’assemblea.  Da una parte vi era la concezione della Nouvelle Théologie, in particolare di Congar, che contrapponeva alla “Chiesa del Diritto” quella pneumatica dell’Amore; dall’altra la visione tradizionale, che si rifaceva alla dottrina di san Roberto Bellarmino, letta alla luce della Mystici Corporis”.  Il giorno successivo un altro esponente dei Novatori, il cardinale cileno Raul Silva Henríquez sostenne che “la Chiesa deve esser considerata come una comunione di chiese locali, nello stesso senso in cui san Paolo si rivolgeva alla ‘Chiesa di Corinto’ e alla ‘Chiesa di Efeso’[una “comunione” retta dallo “Spirito”, più che dal Vicario di Cristo].  Ruffini, in polemica anche con Frings, criticò il concetto di Chiesa-sacramento [utilizzato in LG 1] già usato dall’eretico Tyrrell [gesuita irlandese, uno dei capi del Modernismo, scomunicato da S. Pio X] e contestò la base scritturistica della collegialità, ricordando che Cristo disse solo a Pietro:  “Tu sei Pietro e su questa pietra costruirò la mia Chiesa”[18].

La visione di una Chiesa “pneumatica” o “dello Spirito” separava l’azione dello Spirito Santo da quella di Nostro Signore, rendendola incontrollata e pencolando verso una “Chiesa” costituita da “movimenti” di spiritati e invasati dallo “Spirito”, sul tipo dei c.d. “carismatici” protestanti. Oggi “movimenti” di questo tipo, che bisognerebbe definire pseudocattolici, hanno invaso la Chiesa Cattolica, tollerati dall’autorità ecclesiastica.  Ma era proprio questo il modello, c.d. “profetico”, verso il quale tendeva l’ecclesiologia del “popolo di Dio” propugnata con particolare intensità dal  cardinale belga Suenens[19].

Mi sembra utile ricordare, a questo punto, che nell’importante enciclica Mediator Dei sulla sacra Liturgia, del 20.11.1947, Pio XII condannava l’errore di “autori moderni” i quali, a proposito della liturgia:

“ingannati da una pretesa più alta disciplina mistica, osano affermare che non ci si deve concentrare sul Cristo storico, ma sul Cristo “pneumatico e glorificato”; e non dubitano di asserire che nella pietà dei fedeli si sarebbe verificato un mutamento, per cui il Cristo è stato quasi detronizzato, con l’occultamento del Cristo glorificato che vive e regna nei secoli dei secoli e siede alla destra del Padre, mentre al suo posto è subentrato il Cristo della vita terrena.  Alcuni perciò arrivano fino al punto di voler rimuovere dalle chiese le immagini del Divino Redentore che soffre in Croce [sic].

Ma queste false opinioni sono del tutto contrarie alla sacra dottrina tradizionale.  “Credi nel Cristo nato in carne – così Sant’Agostino – e arriverai al Cristo nato da Dio, Dio presso Dio”.  La sacra Liturgia, poi, ci propone tutto il Cristo, nei vari aspetti della sua vita [sino alla sua Passione, Morte e Resurrezione, continua il Papa, dopo la quale egli ci invia lo Spirito Santo].  E inoltre non ce lo presenta soltanto come un esempio da imitare, ma anche come maestro da ascoltare, un pastore da seguire, come mediatore della nostra salvezza, principio della nostra santità, e Mistico Capo di cui siamo membra, viventi della sua stessa vita.  E siccome i suoi acerbi dolori costituiscono il mistero principale da cui proviene la nostra salvezza, è secondo le esigenze della fede cattolica porre ciò nella sua massima luce, poiché esso è come il centro del culto divino, essendone il Sacrificio Eucaristico la quotidiana rappresentazione e rinnovazione, ed essendo tutti i Sacramenti congiunti con strettissimo vincolo alla Croce”[20].

Ho voluto ricordare la riprovazione pacelliana delle false dottrine sul Cristo “pneumatico e glorificato” che avrebbe dovuto occupare il centro della liturgia cattolica perché esse sono certamente da connettere alla falsa idea di una Chiesa “carismatica e dell’amore” alternativa alla Chiesa gerarchica e militante, condannata da AeU 6.  Sembrano costituirne l’applicazione nell’ambito della riforma liturgica auspicata dagli elementi deviati del Movimento Liturgico, attivo soprattutto fra le due guerre mondiali.  E la riforma liturgica posta in essere su impulso del Vaticano II, ha portato o no, di fatto, a vedere nella Resurrezione – in quanto momento di gaudio e gioia – il momento essenziale della S. Messa?  Tanto per fare un esempio, la Conferenza Episcopale dell’Emilia Romagna, in un opuscolo dedicato al confronto-dialogo tra Cristianesimo e Islam, in che modo presenta sinteticamente la S. Messa agli occhi dei Mussulmani?  In questo modo:  “La Chiesa fa memoria del Signore Risorto mettendo in una comunione viva e reale i suoi figli con Dio uno e trino”[21].  In questa definizione, che sembra addirittura inclinare alla S. Messa intesa come semplice “memoriale” e “sacrificio di lode”, alla maniera dei Protestanti eretici, non vi è più nessuna traccia dell’idea della S. Messa come Sacrificio propiziatorio, che ci ottiene misericordia (propitiatio) per i nostri peccati.  Qui la S. Croce non sembra pertanto esser più il centro del culto divino, il che rappresenterebbe una deviazione terrificante dalla retta dottrina e liturgia, un vero e proprio tradimento. 

 

8. L’analogia con il Verbo Incarnato 

Il secondo e ultimo paragrafo di AeU 6 spiega l’analogia tra la Chiesa e il Verbo Incarnato.

“Infatti, come nel Verbo Incarnato la natura umana, quale strumento vivo della sua stessa natura divina, si dedica alla salute nostra e di tutto il mondo e continua nei cieli a dedicarvisi [è l’umanità trasfigurata del Corpo Glorioso del Signore, che è nostro Patrono in Cielo – Eb 7,25], così la Chiesa in quanto società [Ecclesia societas] riceve i doni [charismatibus] della predicazione, del sacerdozio, della regalità [di Nostro Signore] affinché essa serva lo Spirito di Cristo nell’edificazione del Corpo di Cristo.  Infatti, questi doni, non altrimenti che gli altri ricevuti dallo Spirito Santo, devono esser messi a frutto come servizio e ministero di verità e carità, affinché la salvezza originata da Cristo e contemporaneamente tutti i benefici che ne scaturiscono, si propaghino a tutti gli uomini e a tutte le età”[22].

Il senso della non facile ma tuttavia evidente analogia sembra essere il seguente:  il rapporto tra la Ecclesia societas e il Corpo Mistico è simile a quello tra la natura umana e la natura divina del Verbo Incarnato, le quali non si confondono mai pur costituendo un’unità inscindibile nella Persona stessa del Verbo.  La Ecclesia societas, gerarchica e militante, ha ricevuto da Cristo suo fondatore determinati doni per edificare il Corpo di Cristo, in un’azione sempre obbediente allo “Spirito di Cristo”, che è altro modo tradizionale di designare lo Spirito Santo[23].  La Ecclesia societas ha ricevuto i doni dal suo divino fondatore e li mantiene con l’aiuto dello Spirito Santo proprio perché unita in terra al Corpo Mistico di Cristo ma senza confondersi in esso, così come la natura umana è unita, senza confondervisi, a quella divina del Verbo. La Chiesa gerarchica e militante svolge, pertanto, la stessa funzione di “strumento” della natura divina espletato dalla natura umana del Verbo.  Separarla dallo Spirito Santo equivarrebbe a separarla dal Verbo, suo fondatore, il che sarebbe assurdo oltre che eretico perché equivarrebbe a negare la storicità dei Vangeli. 

 

9.  L’unica e vera Chiesa di Cristo è la Chiesa Cattolica Romana 

Tutto ciò considerato, lo schema si conclude con l’art. 7, che dichiara senza mezzi termini esser la Chiesa cattolica romana l’unica e vera Chiesa di Cristo:  questa è la vera natura della Chiesa militante.  Il titolo dell’articolo recita:  “La Chiesa cattolica romana è il Corpo Mistico di Cristo”.

“Insegna pertanto il Sacro Sinodo e professa solennemente che non vi è se non un’unica vera Chiesa di Cristo, e cioè quella che nel Simbolo celebriamo una, santa, cattolica e apostolica, vale a dire quella che il Salvatore si acquistò sulla Croce e congiunse a sé come il corpo alla testa e la sposa allo sposo, e dopo la sua resurrezione diede a S. Pietro e Successori, che sono i Romani Pontefici, affinché la governassero; e che pertanto è la sola che di diritto viene chiamata Chiesa Cattolica Romana”.

Ho messo in corsivo e sottolineato le parti di questa definizione lasciate cadere dalla rielaborazione che ne avrebbe fatto la Commissione Mista, sopra richiamata, inserendo i resti in LG 8.2.  La presente definizione, chiara, semplice e lineare, rappresenta la conclusione logica di tutto il discorso che la precede, che a sua volta viene condotto in perfetta continuità con la dottrina tradizionale della Chiesa.  Anche in AeU vengono usate le varie denominazioni tradizionali della Chiesa.  Non c’è però nessuna confusione.  I termini tradizionali usati esprimono tutti una medesima realtà.  Il nuovo “Israele di Dio” o “Chiesa di Dio” è la “Chiesa di Cristo” da lui fondata, che è nello stesso tempo il “Corpo Mistico di Cristo”, il quale coincide perfettamente in questo mondo con la Chiesa Cattolica Apostolica Romana, governata dal Vicario di Cristo in terra, il Sommo Pontefice, Vescovo di Roma, Primate d’Italia.

Ma, durante la fase preparatoria, proprio contro questo articolo 7 si scatenò l’ira degli Ammodernanti, come si è detto, in particolare del cardinale Liénart (l’uomo del 13 ottobre) e del cardinale Bea.  Due cardinali di S. Romana Chiesa, e non erano i soli, non accettavano più una definizione della Chiesa conforme all’insegnamento di sempre, che identificava la Chiesa Cattolica Romana con l’unica vera Chiesa di Cristo e quindi con il Corpo Mistico di Cristo! E non l’accettavano in nome delle esigenze ecumeniche indicate da Giovanni XXIII, grazie alle quali l’idea e il concetto della vera Chiesa di Cristo si dovevano poter applicare anche ai “fratelli separati”, i quali erano (e restano) scismatici ed eretici?  Nel corpo della Gerarchia, agli alti livelli, c’era evidentemente qualcosa che non quadrava, dal punto di vista teologico.

    Ma vediamo la critica all’articolo avanzata dal cardinale Liénart.  Dopo aver detto che lo schema non gli piaceva perché trascurava l’aspirazione all’unità dei “cristiani separati”, sferrò il suo attacco in questo modo.   “Mi sembra, disse, che non possiamo “confessare solennemente”, come propone il testo all’art. 7, che la Chiesa romana e il Corpo Mistico siano l’identica realtà, come se il Corpo Mistico fosse interamente ricompreso nei limiti della Chiesa romana. Difatti il Corpo Mistico di Cristo è molto pi­ù ampio della Chiesa cattolica militante.  Abbraccia la Chiesa sofferente al Purgatorio e la Chiesa trionfante in cielo.  Dal che si conclude che la nostra Chiesa, per quanto sia l’aspetto visibile del Corpo Mistico di Cristo, non possa assolutamente identificarsi con esso”[24].  Il cardinale Liénart ne faceva una questione di quantità!  Poiché l’intero Corpo Mistico è senz’altro più esteso della Chiesa militante, allora i due non si identificano.  Non diceva nemmeno:  bisogna dire che si identificano in parte, solo in questo mondo:  non si identificano e basta.  Come se si trattasse di due realtà diverse.  E in nome di questa maggior estensione del Corpo Mistico rispetto alla Chiesa militante il cardinale rifiutava il concetto tradizionale di Chiesa per ricercarne uno che si estendesse anche ai “fratelli separati”?  La Chiesa Cattolica “militante” non si identificava con il Corpo Mistico mentre vi si sarebbe identificata una Chiesa aperta  ai “fratelli separati”?  Forse che questa nuova “Chiesa” avrebbe potuto estendersi al Purgatorio e al Paradiso?    Ma quando S. Paolo insegnava che la Chiesa era il Corpo il cui Capo era il Cristo, non includeva quella che poi si è chiamata Chiesa militante nel Corpo di Cristo ossia nel Corpo Mistico di Cristo?  E la includeva come un qualcosa di estraneo o come qualcosa che si identificava perfettamente con il Corpo Mistico di Cristo? Dal punto di vista qualitativo, della sua specifica natura, la Chiesa visibile fondata in terra da Nostro Signore non si distingue in alcun modo dalla “pienezza” del Corpo Mistico di cui il Cristo è il Capo in cielo. È dunque corretto esprimere questa identità assoluta usando il verbo essere, e dire che la Chiesa militante è il Corpo Mistico di Cristo.  E che lo sia in terra è ovvio, risulta già dall’aggettivo “militante”, che designa da sempre la Chiesa visibile, in questo mondo.  Nell’attaccare lo schema, Liénart non attaccava solo Ottaviani e la Curia.  Attaccava in realtà l’insegnamento della Mystici Corporis, che a sua volta (come si è detto) si basava su quello di Leone XIII e risaliva sino a S. Bellarmino, morto nel 1621; insomma attaccava la dottrina sempre insegnata dalla Chiesa sulla natura della Chiesa stessa. E gli argomenti che usava non avrebbero potuto essere sostenuti senza problemi anche da un Protestante?

 Con il togliere dall’art. 7 le parti più significative:  dall’aggettivo “vera” al riferimento alla Croce e ai suoi meriti (sgraditissimo evidentemente ai Protestanti oltre che a tutte le altre religioni della terra), al Primato di Pietro e dei suoi successori, la Commissione Mista dimostrava di procedere nello spirito del cardinale Liénart e dei suoi sodali in Nouvelle Théologie.  Ma vediamo ora cosa resta di AeU 3-7 in Lumen Gentium 4-8. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

V.  LA CHIESA DI LG 4-8 É UNA CHIESA DELLO SPIRITO E DELL’AMORE, OSSIA UNA CHIESA NON GERARCHICA E NON MILITANTE, SEMPRE IMPERFETTA, SEMPRE IN CERCA DELLA PIENEZZA DELLA VERITÀ?

Cominciamo dunque con l’esaminare LG 4, dedicato allo “Spirito santificatore della Chiesa”, uno degli articoli interamente nuovi rispetto allo schema Aeterni Unigenitus.  In quest’articolo si riafferma la tradizionale molteplicità dei doni dello Spirito Santo.  Qual è il fine dello Spirito Santo?  Il giorno di Pentecoste esso fu inviato “per santificare continuamente la Chiesa”. Ma anche affinché “i credenti avessero così attraverso Cristo accesso al Padre in un solo Spirito (Ef 2, 18)”.  Nella sua opera di “santificazione”, che cosa propriamente fa lo Spirito Santo?  Esso “dà la vita”, si intende la vita dell’anima; è infatti “una sorgente di acqua zampillante fino alla vita eterna (Gv 4, 14-17; 7, 38-39)”, che ci procura la rigenerazione spirituale:  “per mezzo suo il Padre ridà la vita agli uomini, morti per il peccato, finché un giorno risusciterà in Cristo i loro corpi mortali (Rm 8, 10-11)”.  Dove “abita” (habitat) lo Spirito Santo?  “Nella Chiesa, nei cuori dei fedeli come in un tempio e in essi prega e rende testimonianza della loro condizione di figli di Dio per adozione (Gal 4, 6 etc.) ”.  Ma lo Spirito Santo non contribuisce anche al nostro retto intendimento, al giusto discernimento?  La sua azione non incide anche sulla sfera razionale dell’individuo?  E difatti, lo Spirito Santo “introduce la Chiesa in tutta la pienezza della verità”[Ecclesiam quam in omnem veritatem inducit..](Gv 16, 13).  Inoltre, esso “la unifica nella comunione e nel ministero, la provvede e dirige con diversi doni gerarchici e carismatici, la abbellisce dei suoi frutti.  Con la forza del Vangelo la fa ringiovanire, continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione col suo Sposo”.  In conclusione:  “la Chiesa universale si presenta come “un popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (S. Cipriano; S. Agostino)”.

 In questa ampia rappresentazione, intessuta di immagini tradizionali, ci sono però, come ho già detto, alcuni aspetti che non solo non sembrano affatto coincidere con l’impostazione di AeU ma che fanno anche scorgere una concezione singolare dell’azione dello Spirito Santo. 

1)  In AeU lo Spirito Santo contribuisce all’edificazione del Corpo Mistico di Cristo sempre “secondo la misura dei doni di Cristo”.  In LG 5 questa verità non viene enunciata in modo così chiaro; essa resta come implicita, per non dire addirittura sepolta nel riferimento ad Ef 2,18, che in realtà tratta “dell’unico Spirito” di Cristo che avrebbe affratellato pagani ed ebrei, una volta diventati tutti cristiani (sull’ulteriore uso conciliare di questo passo di Ef 2, vedi infra).  

2) Secondo la dottrina tradizionale, lo Spirito Santo non è solo “grazia carismatica”, che cioè conferisce i necessari doni o carismi spirituali alla Chiesa e ai singoli fedeli. In quanto Persona della Santissima Trinità, la sua azione (e proprio in base alle dichiarazioni di Nostro Signore) viene percepita anche come quella di una persona, di un Soggetto che mostra una personalità, che opera con discernimento e volontà.  La funzione docente  dello Spirito Santo è appunto una di quelle che lo caratterizza come Persona e non come semplice spirito impersonale[25].  LG 4 ricorda la funzione docente dello Spirito Santo, ma in che modo?

 

1.  Uno Spirito Santo che solamente “ci introduce” a “tutta la verità”?

Risulta chiaramente dal Vangelo che lo Spirito Santo “insegnerà [docebit] alla Chiesa tutta la verità” della Rivelazione ed insegnerà ai singoli fedeli cosa rispondere ai persecutori, una volta tradotti nei loro tribunali (“lo Spirito Santo vi insegnerà [docebit] in quel momento stesso ciò che dovrete dire” – Lc 12,10).  In LG 4, invece, lo Spirito “introduce la Chiesa in tutta la verità” o “nella pienezza della verità”, secondo il volgare italiano. Il francese dice, ugualmente: “Cette ­Église qu’il introduit dans la vérité toute entière..”.  Tra l’insegnare tout court tutta la verità e l’introdurre ad essa, c’è o no una sensibile differenza?  A me sembra di sì.  Un conto è dire che lo Spirito Santo “vi insegnerà tutta la verità” (docebit vos omnem veritatem, Gv 16,13), espressione forte, senza sfumature, sia dal lato dell’azione docente sia da quello della materia insegnata, che è tutta la verità.  Il concetto lo si è reso  anche traducendo dal greco in modo più letterale, scrivendo:  “vi guiderà a tutta la verità”, come nelle edizioni della S. Bibbia della CEI di prima e dopo il Concilio ma anche in quelle popolari della Pia Società di S. Girolamo, regnante S. Pio X (“vi guiderà ad ogni vero”).  Il significato è esattamente il medesimo:  l’insegnamento dello Spirito Santo è appunto la preannunciata, sicura guida sovrannaturale a tutta la verità, già predicata e spiegata da Cristo ma non ancora afferrata compiutamente dai Discepoli. 

Altro, invece, è dire che lo Spirito Santo “ci introduce a tutta la verità” (Ecclesiam, quam in omnem veritatem inducit..), variando la traduzione latina consolidata del medesimo passo evangelico sì da conferire all’insegnamento dello Spirito Santo il valore di una semplice “introduzione”.   Un’introduzione alla verità ha in sé stessa, proprio come concetto, qualcosa di parziale, l’idea di un vero che si inizia a conoscere ma resta ancora incompiuto, quanto al suo definitivo possesso.  E crea una certa difficoltà pensare ad una “introduzione a tutta la verità”, proprio perché l’introdurre è sempre atto che resta parziale e quindi non può riguardare “tutta” la verità.

Ma perché si è voluto variare il latino della citazione?  E quali le possibili conseguenze di questo mutamento?  Può incidere esso sul concetto  di verità rivelata oltre che sul modo di intendere lo Spirito Santo?  Il passo giovanneo è di fondamentale importanza per comprendere in modo esatto la rivelazione di Nostro Signore a proposito dello Spirito Santo.  Esso va inteso nel suo contesto proprio.  “Ho ancora molte cose da dirvi, ma per ora non potete sostenerle”.  Si trattava di verità ancora troppo profonde.  “Quando sarà venuto lo Spirito di verità, egli v’insegnerà tutta la verità; giacché non parlerà da sé stesso, ma vi dirà quanto udrà, e vi annunzierà le cose che dovranno succedere.  Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve lo annunzierà.  Tutto ciò che ha il Padre, è mio; perciò ho detto che prenderà dal mio e ve lo annunzierà” (Gv 16, 12-15). 

Quindi:  lo Spirito Santo completerà l’insegnamento di Cristo, senza tralasciare nulla (“tutta la verità”, rivelata, ovviamente).  E potrà farlo perché insegnerà “quanto udrà”.  Da chi?  Da Cristo stesso e dal Padre.  Prenderà “del mio” da Nostro Signore, ma “il mio” di Nostro Signore è sempre “il mio” del Padre, ab aeterno, perché è “tutto ciò che ha il Padre”.  L’insegnamento dello Spirito Santo agli Apostoli, ivi comprese le profezie, riguardando “tutta la verità” da approfondire rispetto a quanto già insegnato da Nostro Signore, avrebbe pertanto concluso la Rivelazione.  E correttamente si è sempre ritenuta come verità di fede la proposizione secondo la quale la Rivelazione si è conclusa con la morte dell’ultimo Apostolo.  L’insegnamento di “tutta la verità” da parte dello Spirito Santo porta perciò a compimento il Deposito della Fede. 

Bisogna comunque tener sempre presente, sottolinea Mons. Gherardini, che da parte dello Spirito Santo si ha solo una “assistenza conservativa alla verità rivelata, non un’integrazione in essa di verità altre o diverse da quelle rivelate, o presunte come tali”.  Alla Pentecoste “non ci saranno ulteriori rivelazioni.  L’unica si chiude con coloro ai quali Gesù sta ora parlando [ai Discepoli, nel Vangelo di Giovanni citato].  Le sue parole si presentano con un significato univoco, riguardante l’insegnamento da Lui impartito e soltanto codest’insegnamento.  Un linguaggio, questo, non criptato o cifrato, ma limpido come il sole.  Si potrebbe sollevar un’obiezione sulla prospettiva d’apparente novità in relazione a quello che, ora taciuto da Gesù, verrà annunziato dallo Spirito Santo; ma la delimitazione della sua assistenza ad un’azione di guida verso il possesso di tutta la verità rivelata da Cristo esclude novità sostanziali.  Se novità emergeranno, si tratterà di significati nuovi, non di verità nuove; donde il giustissimo “eodem sensu eademque sententia” del Lerinense.  Insomma, la pretesa d’agganciar all’assistenza dello Spirito Santo ogni stormir di fronda, voglio dire ogni novità e segnatamente quelle che commisurano la Chiesa sulle dimensioni della cultura imperante e della c.d. dignità della persona umana, non solo è un capovolgimento strutturale della Chiesa stessa, ma è pure un gran segno di croce sui due testi sopra indicati [Gv 14,16-26 e 16, 13-14]”[26].  

Ma se questo insegnamento diventa una semplice “introduzione” a “tutta la verità”, non lo si accorcia arbitrariamente, aprendo la via all’idea che esso avrebbe semplicemente “introdotto” ad una verità che deve ancora completarsi?  Un’introduzione, infatti, rinvia di per sé ad un ulteriore sviluppo.  E dove si ferma questo sviluppo?  Il concetto che lo Spirito Santo “ci introduce” alla verità rivelata, è ripetuto dal Concilio nella costituzione Dei Verbum sulla divina Rivelazione, all’art. 8, ove si dice, alla fine:  “e lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce dell’Evangelo risuona nella Chiesa e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti alla verità intera [credentes in omnem veritatem inducit] e in essi fa risiedere la parola di Cristo in tutta la sua ricchezza (cfr. Col 3, 16)”, dove il riferimento paolino va riferito solo al risiedere della parola di Cristo in noi, in tutta la sua ricchezza. La traduzione francese è uguale:  “introduit les croyants dans la vérité tout entière”. Del resto, in questo stesso articolo della DV, non si scrive forse che: ”la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina [ad plenitudinem divinae veritatis iugiter tendit], finché in essa vengano a compimento le parole di Dio”?  Come se la Chiesa non avesse già il possesso della “pienezza” della verità divina nel Deposito della Fede, conclusosi con la morte dell’ultimo Apostolo!  Altro è dire che la Chiesa deve sempre tendere alla migliore realizzazione del mandato divino e delle verità di fede, migliorandosi costantemente nei suoi membri, ecclesiastici e laici, nell’opera instancabile della santificazione quotidiana.  Ma in DV 8 si parla proprio di un “tendere incessantemente alla pienezza della verità”, come se la verità (rivelata) tutt’intera la Chiesa non la possedesse ancora; la verità in quanto tale, non la sua attuazione! 

Mi chiedo se l’inducere in di LG 4 non svolga una funzione analoga al subsistere in di LG 8:  quella di introdurre l’idea di movimento, sviluppo, ampliamento e nello stesso tempo parzialità in ciò che dovrebbe essere di per sé completo ed immutabile: la verità rivelata una volta per tutte, verità che comprende la Chiesa di Cristo costruita sulla roccia rappresentata da Pietro e che può esser oggetto solamente di approfondimenti e chiarimenti “eodemque sensu eodemque sententia”[27].

 

2. Un Regno di Dio che si accetta sola fide e cui si partecipa senza il Giudizio? 

Il Vaticano II non ha mai impiegato in modo esplicito il concetto del sovrannaturale (meritandosi per questo un famoso elogio di de Lubac) e ciò lo ha esposto all’accusa di non aver riproposto la distinzione tra natura e sovrannaturale, Natura e Grazia, favorendo anzi, di fatto, la confusione tra i due regni.  Tuttavia, esso ha voluto dedicare un intero articolo al “Regno di Dio”, che rappresenta per l’appunto il Sovrannaturale per eccellenza.  LG 5 è dedicato appunto al Regno di Dio in connessione con il “mistero della Chiesa”.  Anche quest’articolo è del tutto nuovo rispetto allo schema AeU.  L’articolo non dice che cosa sia il Regno di Dio, non ne dà una definizione:  sembra presupporne la nozione, come se fosse cosa nota.  Né sembra in alcun modo riproporre l’immagine tradizionale del Regno di Dio come simbolo della Chiesa in quanto tale (come in AeU) né la qualità sovrannaturale in senso proprio del Regno, che coinciderà alla fine dei tempi con la Chiesa trionfante nella gloria indicibile della Visione Beatifica:  “O isplendor di Dio, per cu’io vidi/l’alto trionfo del Regno verace,/dammi virtù a dir com’io il vidi!” (Par., XXX, 97-100).

Come veniamo a sapere del Regno di Dio?  È Cristo che  lo annuncia  e lo manifesta nelle sue parole e opere, con la sua stessa “presenza”, dimostrando che esso “è arrivato sulla terra”.  La “parola del Signore” è appunto “paragonata al seme che viene seminato nel campo”, secondo la nota parabola del Seminatore (Mc 4,14).  Quelli che la ascoltano “con fede e appartengono al piccolo gregge di Cristo hanno accolto il regno stesso di Dio (Lc 12,32), poi il seme per virtù propria germoglia e cresce fino al tempo del raccolto (Mc 4, 26-29)”.  Non si tratta solo della parola:  “anche i miracoli di Gesù provano che il regno è arrivato sulla terra” poiché Egli ha detto:  “Se con il dito di Dio io scaccio i demoni, allora è già pervenuto tra voi il regno di Dio” (Lc 11,20; Mt 12,28)”.  Ma più ancora che nelle sue parole e opere, precisa il testo, il Regno si manifesta nella persona stessa del Cristo, “figlio di Dio e figlio dell’uomo, il quale è venuto “a servire e a dare la sua vita in riscatto per i molti”(Mc 10,45)”(LG 5.1).

Che significa dire che il Regno di Dio si manifesta soprattutto nella persona stessa di Cristo?  Si noti innanzitutto che si scrive “Figlio di Dio e Figlio dell’uomo”, senza voler usare termini come Unigenito o Consustanziale al Padre, che esprimono in modo  dogmaticamente ineccepibile la natura divina del Signore.  E si noti, nel volgare italiano, come il senso del testo di Mc 10,45 sia stato modificato poiché la “redemptio pro multis (antì pollôn)” è sempre stata resa con “riscatto per molti”, non “per i molti”, versione che sembra introdurre una certa ambiguità.  La versione francese recita:  “..et donner sa vie en rançon d’une multitude”.

Dunque:  il Regno si manifesta nella persona di Cristo, che è venuto a dare la sua vita in riscatto “per i molti”.  Ma “i molti” come entrano nel Regno di Dio?  Semplicemente attraverso la “persona di Cristo”, accogliendo il suo insegnamento salvifico e lasciandolo fruttificare, fino a che è maturo “per il raccolto”?  In questo modo possiamo indubbiamente esporre sinteticamente il rapporto tra la Parola di Cristo e il suo produr frutti in noi, sino al “raccolto” finale (della vita eterna). Tuttavia, LG 5 non illustra il concetto dell’”entrare nel Regno di Dio”.  Si limita alla sua manifestazione per opera di Cristo e al suo accoglimento da parte nostra, con l’atto di fede di chi appartiene al “piccolo gregge”.  E non manca qualcosa, a siffatta rappresentazione del Regno, per esser completa?  Nostro Signore non ha detto qualcos’altro sul suo Regno, “che non è di questo mondo”?   Si può entrare nel Regno di Dio senza esser battezzati e senza esser giudicati da Nostro Signore alla fine della nostra vita?  E la Chiesa, come viene nominata da LG 5?

La Chiesa, lo sappiamo, è il Regno di Dio che comincia per noi già qui in terra, nell’appartenenza alla Chiesa militante.  Ma questa è la dottrina tradizionale, riproposta da AeU.  Per LG 5 la Chiesa è “germe e inizio” del Regno come Chiesa universale santificata dallo Spirito nei modi illustrati da LG 4, appena richiamato.

“La Chiesa perciò, fornita dei doni del suo fondatore e osservando fedelmente i suoi precetti di carità, umiltà e abnegazione, riceve la missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il regno di Cristo e di Dio, e di questo regno costituisce in terra il germe e l’inizio.  Intanto, mentre va lentamente crescendo, anela al regno perfetto [Regnum consummatum] e con tutte le sue forze spera e brama di unirsi col suo re nella gloria”(LG 5.2). 

È vero che “la Chiesa” (che qui non è ancora la Chiesa Cattolica) ha ricevuto dal suo fondatore la missione di “annunziare ed instaurare in tutte le genti il Regno di Dio”, del quale costituisce quindi “in terra il germe e l’inizio”.  Ma vedere solo in questo – in sostanza nella predicazione della Buona Novella – il nesso tra la Chiesa e il Regno di Dio non è alquanto riduttivo?  A  S. Pietro, ossia alla Gerarchia della Chiesa cattolica, ai sacerdoti, Nostro Signore non ha forse dato “le Chiavi del Regno”?  Nell’unico scarno riferimento ai nomi della Chiesa contenuto in AeU 3.2, si è visto che tra di essi c’è anche il “regnum Dei”.  In nota, si rimanda a Mt 16,19, alla celebre frase rivolta da Nostro Signore a S. Pietro, che, per divina ispirazione, l’aveva riconosciuto come il Messia: “E ti darò le chiavi del Regno dei Cieli”.  Il “Regno dei Cieli”, lo sappiamo, non è cosa diversa dal “Regno di Dio”.  E AeU 3.2  rimanda nella stessa nota all’enciclica Satis cognitum di Leone XIII, del 5.9.1896 sull’unità della Chiesa, ove si legge: 

“E per verità al solo Pietro furono consegnate le chiavi del regno celeste, e a lui, unitamente agli apostoli, fu dato, per testimonianza della sacra Scrittura, il potere di legare e di sciogliere”[28].

Come mai in LG 5 manca del tutto questo fondamentale aspetto del rapporto tra la Chiesa cattolica e il Regno di Dio, pur accennato in AeU?  E lo sappiamo bene che l’attribuzione di tale potere a Pietro da parte di Nostro Signore non è mai stata intesa in senso meramente simbolico.  Per mandato divino la Chiesa Cattolica (la Chiesa governata da Pietro e dai vescovi) è la custode del Regno di Dio.  E il custode lascia entrare solo chi ha i giusti titoli.  Se il sacerdote non ti assolve in confessione, tu resti nei tuoi peccati e se morirai nei tuoi peccati non entrerai mai nel Regno di Dio.  La dottrina tradizionale ha sempre posto nel dovuto rilievo la natura sovrannaturale del Regno, ribadendo che, con l’insegnamento e i Sacramenti, la Chiesa “rinnova le anime, disponendole alla fase ultima del Regno di Dio, che è la vita eterna”[29]. 

 

3. Le ambiguità del “Regno” di LG 5 

Il rapporto tra la Chiesa e il regno sembra per la verità impostato da LG 5 in una prospettiva soprattutto escatologica, ma si tratta di un’escatologia sui generis poiché la natura  sovrannaturale del Regno di Dio non sembra mai emergere chiaramente.  Il “regno perfetto” cui la Chiesa “anela”, come sua meta finale, è il Regno dei Cieli nel quale entreranno gli Eletti dopo il Giudizio universale?  Che lo sia, risulterebbe dal senso tradizionale dell’espressione utilizzata: “Regnum consummatum”, con la quale, se non erro, si intende il Regno nel quale si rivela la Visione Beatifica.  Ma dire che la Chiesa, dopo aver costituito in terra “il germe e l’inizio” del Regno, “spera e brama con tutte le sue forze” di giungere alla Visione Beatifica, è sufficiente per esporre in modo completo il giusto rapporto tra il Regno di Dio e la Chiesa?  È sufficiente, in assenza di qualsiasi riferimento al Giudizio e alla divisione finale in Eletti e Reprobi e al potere delle Sante Chiavi di aprire e chiudere le porte del Regno di Dio?    La “Chiesa” appare inoltre lontana dal “Regno perfetto” perché vi anela solamente, e “spera e brama” di “unirsi al suo Re nella gloria”.  Non dice nemmeno, il testo, che spera di entrare nel Regno, alla fine dei tempi, affermazione che indicherebbe la natura sovrannaturale dello stesso.  La Chiesa di LG 5 appare sempre imperfetta perché sempre in ricerca.  Ma l’anelare, lo sperare e il bramare possono applicarsi ai singoli membri della “Chiesa” ma non alla Chiesa in quanto tale, depositaria della verità rivelata, che già costituisce il Regno di Dio, in terra e nei cieli (nelle anime di quei Cristiani che già sono in Paradiso e siedono alla destra del Padre, con Nostro Signore). 

Noi sappiamo dai Vangeli che il Regno è sia esteriore che interiore.  Rispondendo polemicamente ai Farisei, che pensavano sempre al dominio temporale di Israele, Gesù rispose che il Regno “è dentro di voi”(Lc, 17,21).  Se poi l’espressione deve esser intesa nel senso di “tra di voi” e non dentro ciascuno di voi (“tra di voi” nell’Ecclesia Dei che stava nascendo con la predicazione del Signore), ciò non toglie che noi siamo chiamati a “cercare” il Regno, nel quale entrano solo coloro “che fanno violenza a sé stessi”(Mt 11,12; Lc 16,16) ossia coloro che combattono vittoriosamente contro sé stessi, obbedendo così in tutto ai precetti di Cristo e della sua Chiesa.  Ma il rapporto tra ciascuno di noi credenti e il Regno, come risulta da LG 5?  Quelli che ascoltano la parola del Signore “con fede e appartengono al piccolo gregge di Cristo”, costoro “hanno accolto il regno stesso di Dio [Regnum ipsum susceperunt]”, che poi germina e cresce “per virtù propria”, come il seme nel campo, sino al tempo del raccolto. E cosa succederà al momento del “raccolto”?  LG 5 non ce lo vuol rammentare. Esso si limita a questo:  poiché la parola del Signore annunzia il Regno, chi la accoglie con fede, accoglie il Regno stesso di Dio  e questa parola cresce in lui per forza intrinseca.  Ciò risulta da tutte le parabole del Regno che lo paragonano ad un seme che cresce lentamente e per forza propria:  è la forza della parola di Cristo che germoglia lentamente nella nostra anima. Ma poi viene il momento del “raccolto”, che si fa con la falce del Giudizio divino.

Infatti, “accogliere” il Regno mediante la fede nella predicazione di Cristo, non è sufficiente per entrarvi alla fine dei tempi.  Non basta, come risulta dalla stessa parabola del Seminatore (Mc 4, 3-20).  In questa parabola, Nostro Signore ci rivela che molti tra quelli che accolgono la parola che annuncia il Regno di Dio non perseverano nella fede e quindi non entrano nel Regno, perdendosi nelle vie del peccato.  Nel Regno che si attua in questo mondo (ovvero nella Chiesa) accanto ai buoni ci sono anche i cattivi e la parabola della zizzania ci rivela che nel giorno del Giudizio il loglio sarà separato dal buon grano e gettato nella “fornace ardente”.  Ma questi fondamentali approfondimenti sono forse ripresi da LG 5?  Non lo sono. E mi sembra manchino anche negli altri passi conciliari nei quali riappare la visione del Regno.  Dal tenore di LG 5 sembra che coloro che ascoltano inizialmente con fede la parola di Cristo, per ciò stesso “accolgono” il Regno, che poi matura in loro ex opere operato, sino al “raccolto”, nel quale evidentemente non succede nulla di particolare.  Ridotto a quest’unica e mutila proposizione, il rapporto tra ciascuno di noi e il Regno non risulta privo delle necessarie sfumature e non sembra esser risolto a nostro favore dalla semplice fede nella Parola di Cristo? 

Ora, Nostro Signore ci ha fatto chiaramente capire che il possesso del Regno non è affatto sicuro da parte nostra senza l’opera della nostra santificazione quotidiana.  Non basta la fede, occorrono anche le opere, a cominciare da quell’opera fondamentale che è la nostra preghiera quotidiana, nella quale Egli stesso ci ha insegnato ad invocare l’avvento del Regno di Dio, nel Padre Nostro.  Nel Discorso della Montagna, quando ci esorta a non angustiarci per i nostri problemi quotidiani perché Dio sa di che cosa abbiamo bisogno e veglia sempre su di noi, ha detto:  “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutto il resto vi sarà dato per giunta.  Non preoccupatevi dunque per il domani, poiché il domani sarà sollecito di sé stesso”(Mt 6, 33-34).   Qui, il “cercare” indica evidentemente quale deve essere il corretto atteggiamento dell’anima nostra, che in ogni cosa della vita deve far prevalere la “giustizia del Regno di Dio” ossia i princìpi dell’etica cristiana, fondata sulla Rivelazione di Nostro Signore, senza lasciarsi travolgere dai bisogni del presente, per i quali dobbiamo sempre rimetterci alla Provvidenza.

Nel Regno non si entra poi collettivamente, vale a dire grazie ad un accoglimento collettivo della Parola di Cristo, come qualcuno potrebbe credere in base al dettato ambiguo di LG 5.  I testi sacri sono piuttosto chiari in proposito.

Per abbassare l’orgoglio mal posto dei Discepoli che litigavano per stabilire chi tra di essi dovesse essere considerato “il maggiore”, Nostro Signore fece loro una bella lezione d’umiltà, ricordando il principio: “chi governa sia come colui che serve”.  Lui stesso era rispetto a  loro come uno che governa e tuttavia stava “in mezzo a loro come uno che serve”.  Ed ecco il punto essenziale.  Perché affannarsi stoltamente per vane ambizioni terrene quando Egli stesso  aveva preparato per ciascuno di loro un posto nel suo Regno, dal quale avrebbe addirittura giudicato le tribù di Israele?  “Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; io vi preparo un regno, come il Padre mio l’ha preparato per me; affinché mangiate e beviate alla mia mensa [del tutto spirituale] nel mio regno e sediate in trono a giudicare le dodici tribù di Israele” (Lc 22, 24-30).  Il “trono” è singolo, ci si siede sopra individualmente.  Il Regno che è giunto in questa terra, testimoniato con la predicazione ed i miracoli di Cristo, è la realtà sovrannaturale ed eterna che Cristo stesso prepara per ognuno di quelli che avranno creduto in lui e perseverato sino alla fine.  Questo Regno è lo stesso che il Padre ha preparato per Lui.  Questa verità è ripetuta in Gv 14,1-4.  Durante l’Ultima Cena con il tradimento e la persecuzione incipienti, nell’incoraggiare i Discepoli, Gesù ripete che i suoi fedeli si riuniranno con lui nella “Casa del Padre”, che è un altro modo di chiamare il Regno di Dio.  “Il vostro cuore non si turbi.  Credete in Dio e credete anche in me.  Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore; se fosse diversamente ve lo avrei detto, perché io vado a preparare un posto per voi.  E quando sarò andato e avrò preparato il vostro posto, tornerò e vi prenderò con me, affinché dove sono io siate anche voi.  Voi sapete dove io vada e ne conoscete la via”.  Anche per ognuno di noi, di noi credenti che con l’aiuto della Grazia (e quindi della Chiesa Cattolica Romana) avremo perseverato sino alla fine nella fede e nelle buone opere (“Sii fedele sino alla morte e ti darò la corona della Vita”, Ap 2,10), Nostro Signore ha preparato “un posto” nella Casa del Padre, al quale accederemo dopo il Giudizio e dopo le opportune purificazioni nel Purgatorio. 

 

4. Una vena “millenaristica” nella visione conciliare del ‘Regno’?

 Ho ricordato prima che de Lubac elogiò il Concilio per non aver voluto proporre il concetto del Sovrannaturale.  Il termine si trova solo qualche volta come aggettivo, per esempio in frasi come la seguente, nella quale si coniuga ambiguamente il concetto profano della “solidarietà” con la Verità rivelata:  “Egli, infatti, assumendo la natura umana, ha legato a sé come sua famiglia tutto il genere umano in una solidarietà soprannaturale…” (Decreto Apostolicam Actuositatem sull’apostolato dei laici, 8).  Ma cosa disse de Lubac?  “Il Concilio giudicò più giusto e più saggio non usare una tale parola in certi contesti per non perpetuare degli equivoci né ravvivare delle polemiche dando l’impressione di canonizzare o almeno di favorire una teoria di scuola (detta della ‘natura pura’ nel senso preciso che essa sosteneva due finalità ultime dell’uomo)”[30].  La cosiddetta “teoria di scuola” è quella che, da ultimo nella cosiddetta “scuola romana”, ha espresso ed esprime l’insegnamento costante della Chiesa, sino al Vaticano II, concernente la gratuità dell’ordine sovrannaturale per l’uomo, il quale gli contrappone spesso e volentieri la propria natura umana ferita dal peccato originale, capace quindi, come “pura natura” non illuminata dalla Grazia ma decaduta, di rifiutare la Grazia stessa e la Salvezza.  È noto che  de Lubac, ispirandosi a Blondel, e Rahner, ispirandosi a Heidegger, cercavano entrambi di dimostrare che la Grazia deve considerarsi immanente alla natura.  In tal modo dissolvevano la Grazia in quanto dono gratuito di Dio, come insegnato da S. Paolo e da tutta la Chiesa nei secoli, aprendo appunto la strada ad una concezione cosiddetta “millenaristica” del Regno dei Cieli, ovvero all’errore secondo il quale (nell’ultima sua formulazione) il Regno di Dio si realizzerebbe già in terra alla fine dell’era cristiana, nell’unione pacifica di tutto il genere umano in una sorta di nuova ed indefinita Età dello Spirito.

Al di là delle fumose dichiarazioni di teologi neomodernisti come de Lubac e Rahner, il fatto importante, ai fini della nostra analisi del Concilio, è costituito dall’entusiasmo dei Protestanti per la chiusura conciliare al Sovrannaturale.  Essi dichiararono che l’antropologia delineata dalla costituzione Gaudium et spes, che riguarda la Chiesa e il mondo contemporaneo, si segnalava “per la scomparsa della distinzione tra natura e soprannaturale”, risultando quindi più affine alla concezione dell’uomo del Protestantesimo[31].  Questa dichiarazione dei Protestanti è o non è un bel siluro a chi sostiene che la “riforma” dottrinale apportata dal Concilio è in piena continuità con tutta la Tradizione della Chiesa?

Il Concilio si è in realtà occupato del Sovrannaturale, anche se non direttamente.  Se ne è occupato tutte le volte che ha preso in considerazione il “Regno di Dio”.   Non molte, ma sufficienti a far vedere la presenza di una corrente dottrinale più vicina alle concezioni di de Lubac e Rahner che alla dottrina ortodossa della Chiesa.  Così gli spunti in tal senso presenti in LG 13 e 35, nei quali si esamina il rapporto tra il bonum temporale dei popoli e il Regno alla luce del contributo che i cristiani devono dare all’incremento di tale bonum temporale “nel progresso universale nella libertà umana e cristiana” (LG 35.2); questi spunti trovano la loro elaborazione finale nella dottrina che espone addirittura “l’attività umana nell’universo [De humana navitate in universo mundo]”, agli articoli 33-39 della costituzione conciliare Gaudium et spes.  In particolare, l’art. 39, intitolato:  Terra nuova e cielo nuovo, mostra l’impronta delle visioni di tipo millenaristico di de Lubac, abbozzate in Catholicisme, che è del 1937[32].

 

 

VI.  LE IMMAGINI DELLA CHIESA, SECONDO LG 6

 

Come ho già ricordato, LG sviluppa alquanto il tema delle “immagini della Chiesa”, dedicandogli un apposito, non breve articolo, il n. 6.  Esso riprende e amplia tutte quelle già presenti in AeU 3.2, con l’eccezione di due:  la Chiesa “colonna e fondamento della verità” (spostata in LG 8.2) e il Regno di Dio.  Si è appena visto che il Regno di Dio è stato considerato a parte, senza mai dire che esso è da sempre immagine della Chiesa ed anzi che è la Chiesa stessa, Cattolica, Apostolica e Romana, in quanto Corpo Mistico di Cristo.

Perché tanto interesse nei confronti delle “immagini” della Chiesa?  La cosa è forse importante?  Lo è sicuramente per una teologia che vuole affidarsi al “mistero” in maniera sovrabbondante, dato che l’esplorazione del “mistero” avviene in genere attraverso quel tipo di conoscenza che si suol definire “simbolica”.  Conoscenza forse affascinante, soprattutto per chi si è nutrito delle labili categorie del pensiero contemporaneo, ma che facilmente pencola verso l’irrazionale e quindi da prendersi con le molle.  Essa tende a sostituire l’immagine al concetto, il sentimento al ragionamento, la sensibilità alla morale.

Quali sono le immagini della Chiesa e cosa si deve dedurre da esse in ordine alla comprensione della natura della Chiesa?  Queste immagini ci fanno vedere “l’intima natura della Chiesa” e sono in gran parte abbozzate “nei libri dei profeti” (LG 6.1).  Nell’ordine esse sono: l’ovile; il gregge; il podere o campo di Dio; la vigna scelta della quale Cristo è la vera vite; l’edificio di Dio, chiamato anche casa di Dio, dimora di Dio, “e soprattutto tempio santo, il quale, rappresentato dai santuari di pietra, è l’oggetto della lode dei santi Padri ed è paragonato a giusto titolo dalla liturgia alla Città santa, la nuova Gerusalemme” (LG 6.4).  Pertanto la Chiesa viene anche chiamata Gerusalemme celeste e madre nostra; immacolata sposa dell’Agnello immacolato (LG 6.4).

Sull’immagine della Chiesa “sposa dell’Agnello”,  LG 6 si dilunga.  È la sposa che Cristo ha amato, per la quale ha dato sé stesso per santificarla, che si è associata con patto indissolubile, che nutre e cura, che, dopo averla purificata, volle a sé congiunta e soggetta nell’amore e nella fedeltà; che ha, infine, riempito di grazie celesti, “onde potessimo capire la carità di Dio e di Cristo verso di noi, carità che sorpassa ogni conoscenza” (LG 6.5).  Si tratta di immagini tratte in gran parte da S. Paolo.  Messe insieme in poche righe sembrano voler celebrare le massime virtù della Chiesa, sposa immacolata di Cristo.  

 

1. Una Chiesa sempre imperfetta per definizione 

 E tuttavia il capitolo si chiude con una notazione che sembra richiamare di nuovo l’idea di un’imperfezione della Chiesa. Nell’immagine di una Chiesa peregrinante su questa terra e lontana dal Signore, riappare di nuovo la Chiesa che anela ad una perfezione che non possiede, nonostante essa sia la sposa immacolata dell’Agnello.  “Ma mentre la Chiesa compie su questa terra il suo pellegrinaggio lontana dal Signore (cfr. 2 Cor 5,6), è come un esule, e cerca e pensa alle cose di lassù, dove Cristo siede alla destra di Dio, dove la vita della Chiesa è nascosta con Cristo in Dio, fino a che col suo Sposo comparirà rivestita di gloria (cfr. Col 3, 1-4)” (LG 6.5).     

 Una Chiesa, dunque, che “cerca e pensa alle cose di lassù”, come se non possedesse la verità rivelata nel Deposito della Fede, del quale è custode.  Il riferimento a 2 Cor 5,6 mi sembra fuori posto.  Infatti, S. Paolo scrive che noi credenti, in quanto individui costretti ancora a quest’esistenza mortale, “viviamo nel corpo, siamo pellegrini lungi dal Signore”, ma ci tiene in vita la fede, grazie alla quale sappiamo di poter accedere alla “dimora eterna” (2 Cr 5, 1-6).  Non è “pellegrina” la Chiesa, sono “pellegrini” e lontani da Dio i singoli credenti, compresi gli uomini di Chiesa, finché si trovano a lottare in questo corpo mortale.  LG sembra confondere ancora una volta la Chiesa con i suoi membri, attribuire alla prima i limiti che appartengono solo ai secondi.  Siamo noi i “pellegrini” nel pensiero di S. Paolo, non la Chiesa in quanto tale.  Ugualmente male usato mi sembra il passo di Col 3, 1-4, che concerne noi credenti, uti singuli, non la Chiesa, non il Corpo Mistico.  È un passo famoso, nel quale S. Paolo incita i cristiani a vivere per il cielo in ogni momento della loro vita.

“Se dunque siete risuscitati con Cristo, cercate le cose del Cielo, dov’è Cristo, assiso alla destra del Padre:  aspirate alle cose di lassù e non a quelle che son sulla terra.  Voi, infatti, siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio.  Ma quando comparirà Cristo, che è la vostra vita, allora anche voi apparirete con lui nella gloria”(Col 3,1-4).  Commenta l’edizione della CEI del 1963:  “Vedi Rm 6,11.  Il Battesimo ci fa morire al mondo del peccato, dà una vita nuova partecipata a noi dal nostro capo glorioso, Cristo”.  E quella del 1974: ”La nuova vita cristiana nasce dalla mistica unione del battezzato  con Cristo e, per lui, con Dio”.  Da questi commentari risulta che il passo si riferisce al singolo credente non alla Chiesa.  Il passo che può creare difficoltà è quello in cui si dice che il cristiano “è morto e la sua vita è nascosta con Cristo in Dio”.  Grazie al Battesimo siamo morti al peccato.  Se viviamo da buoni cristiani possiamo dire di esser comunque morti al peccato e che in noi è nato l’uomo nuovo.  Ma la vita di quest’uomo nuovo è ancora “nascosta con Cristo in Dio”. Solo Cristo e Dio la conoscono per ciò che essa effettivamente è; diventerà di pubblico dominio nel giorno del Giudizio universale, quando i Giusti appariranno con Cristo nella sua Gloria.  I cristiani non devono dunque scoraggiarsi, se la ricompensa eterna appare lontana, mentre sono ancora qui, a lottare sulla terra:  devono comunque avere il pensiero fisso “alle cose di lassù”, alla vita eterna, l’unica cosa che conti.

  L’immagine dell’esilio da Dio si può forse applicare alla Chiesa di Cristo?  Si potrà applicare ai singoli credenti, “in esilio” rispetto alla Patria celeste finché vivono in questo mondo, non alla Chiesa, se essa è il Corpo Mistico di Cristo.  Se Cristo ne è il Capo, il Corpo non può essere “in esilio” da Lui.  Finché la Chiesa conserva la purezza del Deposito della Fede essa gode dell’assistenza dello Spirito Santo e allora come può peregrinare “lontana dal Signore” come se fosse “esule”? 

L’immagine di una Chiesa dalla santità imperfetta [!] è ripresa negli ultimi due paragrafi di LG 8.  Sembra che il Concilio (la fazione progressista che vi si è imposta) tenesse in modo particolare a sottolineare questo singolare concetto.  Il soggetto del quale si sta parlando qui, non dobbiamo dimenticarlo, è sempre la Chiesa di Cristo che sussiste nella Chiesa cattolica e negli “elementi” acattolici al di fuori di essa.

LG 8.3 ricorda giustamente come Nostro Signore abbia “compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni” ragion per cui la Chiesa (di Cristo) “non è costituita per cercare la gloria terrena bensì per diffondere, anche col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione” (LG 8.3).  Perciò, come Cristo è venuto “ad annunciare la buona novella ai poveri, a guarire quei che hanno il cuore contrito” (Lc 4,18), “a cercare e salvare ciò che era perduto”(Lc 19,10), allo stesso modo “la Chiesa circonda d’affettuosa cura quanti sono afflitti dall’umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di sollevarne l’indigenza e in loro cerca di servire il Cristo”(ivi).

Nel riferimento ai “poveri”, senza ulteriori determinazioni, qualcuno ha voluto scorgere uno scivolone verso la c.d. “teologia della liberazione” dal momento che il testo, non menzionando i “poveri nello spirito” cioè coloro che avranno “il Regno dei Cieli” (Mt 5,1) perché vivono in spirito di povertà, che è spirito di mitezza, di giustizia, di misericordia (Mt, 5 passim), sembra ridurre la missione di Cristo ad una sorta di apostolato sociale cui la Chiesa deve ispirarsi, privilegiando appunto i “poveri” e i “sofferenti” (in pauperibus et patientibus). Soprattutto in loro si rifletterebbe l’immagine di Nostro Signore “povero e sofferente” (pauper et patiens).  Ora, si è sempre vista l’immagine di Cristo anche nel “povero”, in senso materiale, come sembra sia il caso qui, e nel “sofferente” per la povertà stessa, in colui che la subisce.  Ma si è sempre saputo che Nostro Signore è venuto a “guarire” tutti gli uomini dal peccato, più che ad alleviare le sofferenze dei poveri, che pur vanno alleviate, per quanto possibile.  Lo ricorda il Concilio stesso, citando Lc 4,18:  “[sono venuto] a guarire [sanare] quei che hannno il cuore contrito”.  E chi sono quelli che “hanno il cuore contrito”?  I poveri, gli indigenti? No.  Sono i peccatori in generale, che già soffrono interiormente per i loro peccati: e i peccatori sono presenti in tutti gli strati della società (“Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori”- Mc 2,18).

Non ci sono peccatori anche tra i poveri, gli indigenti?  Ci sono di certo anche tra di loro e sarebbe un grave errore trasformare i poveri in giusti per il solo fatto di essere poveri.  “Va offerto pertanto conforto a chi arde nel forno della miseria; mentre è salutare il timore incusso a quelli che il conforto della gloria terrena rende superbi [con citazione di Lc 6,24: “Guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione”].  È vero, infatti, che i  poveri posseggono ricchezze invisibili e i ricchi non possono conservare le ricchezze che posseggono.  Tuttavia, la varietà dei caratteri riesce persino a trasformare la categoria delle persone, tal che è possibile trovare un ricco umile e un povero superbo.  Il discorso va, pertanto, rapportato alla condotta di chi ascolta.  Sarà duro nel colpire la superbia del povero, non giustificata dalla povertà.  Sarà, invece, dolcissimo nel lodare l’umiltà dei ricchi, se non li inorgoglisce l’esaltante abbondanza”[33].

Non mi sembra si possa dire che LG 8.3 adotti una prospettiva simile a quella della teologia della liberazione.  Tuttavia, sembra privilegiare “i poveri e sofferenti” come oggetto dell’attività della Chiesa, con la conseguente (implicita) elevazione dell’attività di assistenza sociale e umanitaria della Chiesa a scopo essenziale della Chiesa stessa.  Il che non può essere perché l’assistenza materiale ai poveri (e ai malati), per quanto di grande importanza per gli assistiti e per la società, non costituisce lo scopo fondamentale della Chiesa, che resta sempre quello di “guarire quelli che hanno il cuore contrito”, di curare le anime non i corpi, cioè di convertire i peccatori, ricchi o poveri che siano, strappandoli al “Principe di questo mondo”.

La “povertà” e la “sofferenza” di Nostro Signore sono poi le stesse dei poveri?  Il paragone è tradizionale ma va inteso nei suoi giusti termini.  Gesù di Nazareth, secondo la Tradizione, aiutava il padre putativo, S. Giuseppe, nella sua bottega di falegname: un mestiere valido, dignitoso, sufficiente a far vivere decorosamente la famiglia.  La povertà fu scelta da Gesù quando cominciò la sua missione, che comportava una vita da predicatore itinerante, con il suo piccolo seguito, affidati entrambi al buon cuore di seguaci, amici e parenti.  La scelta della povertà era un portato necessario della sua missione, impossibile senza il pieno distacco – anche esteriore – dai beni di questo mondo, rimessi all’aiuto della Provvidenza per le esigenze giornaliere dell’esistenza.  In tal modo Nostro Signore ha rivalutato il significato della povertà, togliendola dallo stolto disprezzo con il quale era considerata, senza per questo farne un oggetto privilegiato della sua predicazione.  Tant’è vero che né Lui né gli Apostoli incitano alle riforme sociali o, peggio, alla rivoluzione in nome dei “diritti” dei poveri (dei loro “diritti umani” si direbbe oggi).  La condizione dei poveri e degli schiavi deve piuttosto esser alleviata convertendo i ricchi alla carità cristiana e quindi a forme sociali via via più giuste (Ef 6, 5-9). 

In LG 8.3 ritorna il tema della “santità imperfetta” della Chiesa, agganciato inaspettatamente all’attività della Chiesa che vuole alleviare l’indigenza dei poveri, cercando così di “servire Cristo”.  Ho già citato il passo. Mentre Cristo “santo, innocente, immacolato” non conobbe il peccato e venne solo allo scopo di espiare i peccati del popolo, “la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamente” (LG 8.3).  Il “servire Cristo” della Chiesa è dunque sempre imperfetto.  Per le inevitabili carenze dei singoli?  No.  Perché è la Chiesa stessa ad aver sempre bisogno di “purificazione”, mediante una “penitenza” ed un “rinnovamento” continui.  La Chiesa è dunque “santa” ma in modo imperfetto.  Ma può esistere una santità “imperfetta”, mi chiedo di nuovo?  Che significa? 

Nell’ultimo paragrafo, LG 8.4,  l’argomento si chiude ripresentando due temi peculiari al Concilio: la virtù salvifica del Cristo glorioso (vedi infra, cap. VII, § 2) e (di nuovo) l’imperfezione della Chiesa.  Si scrive che è “dalla virtù del Signore risuscitato” (non dalla virtù della Croce) che la Chiesa (di Cristo) trae la forza per superare tutte le difficoltà che le vengono dall’esterno e dall’interno, e “per svelare in mezzo al mondo, con fedeltà, anche se non perfettamente [licet sub umbris], il mistero di lui, fino a che alla fine dei tempi esso sarà manifestato nella pienezza della luce”.

Ma su questa raccolta di immagini della Chiesa mi sembra doveroso fare altre due  osservazioni.

 

2. L’inserimento equivoco delle immagini di Israele nelle immagini della Chiesa

La prima riguarda l’inserimento dell’immagine di Israele nelle immagini della Chiesa.  Dopo aver ricordato che per S. Paolo la Chiesa è come il podere o campo di Dio, il testo così prosegue:  “In quel campo cresce l’antico olivo, la cui santa radice sono stati i patriarchi e nel quale è avvenuta e avverrà la riconciliazione [reconciliatio facta est et fiet] dei Giudei e delle Genti (cfr. Rm 11,13-26)”.  L’antico olivo, ci insegna S. Paolo nell’epistola citata, è Israele, dal quale sono stati però tagliati i rami secchi (i Giudei increduli, persecutori di Cristo) e nel quale sono stati inseriti quelli nuovi, rappresentati dai pagani che si sono convertiti a Cristo.  Ma un giorno, che solo Dio conosce, quando sarà entrata “la totalità dei Gentili” anche “tutto Israele si salverà” (ivi, 25-26), profezia che finora non si è avverata e che è stata sempre intesa nel senso di una conversione in massa degli Ebrei alla fine dei tempi, poco prima della Parusìa o ritorno di Cristo nella Gloria, come Giudice dell’intero genere umano.

La Chiesa è dunque cresciuta sulle “radici” dell’antico olivo rappresentato dalla fede degli Ebrei (ivi, 11,17).  Non è chiaro, tuttavia, come “l’antico olivo” possa crescere “nel campo” ossia nella Chiesa, restando “antico olivo”.  Né come sia possibile che “la riconciliazione” dei Giudei coi Gentili, profetizzata da S. Paolo, sia anche (già) “avvenuta”.  È corretto dire che “avverrà”, secondo quanto ci annuncia S. Paolo (e non con il c.d. “dialogo” ma con la “conversione” spontanea dell’intero Israele).  Ma appare del tutto incomprensibile affermare che essa sarebbe anche “avvenuta”.  Quando sarebbe avvenuta?  Se i Cristiani, per restare sempre a S. Paolo, sono i rami nuovi innestati dallo Spirito Santo al posto dei vecchi tagliati via, ciò non può certamente considerarsi una “reconciliatio”.  La sostituzione della Chiesa di Cristo all’Israele della carne non rappresenta di sicuro una “riconciliazione” con l’Ebraismo.  L’antitesi è radicale perché solo la Chiesa è ora il vero “Israele di Dio”.  La riconciliazione avverrà solo con la conversione di “tutto Israele”, alla vigilia della fine dei tempi.  E che ci debba essere questa conversione finale, quando gli Ebrei si renderanno conto del loro errore nei confronti di Cristo allorché Dio avrà fatto cadere “il velo” che ancora oscura loro la vista (2 Cr 3,16) – ciò è perfettamente logico, ci spiega S. Paolo, dal momento che Dio “non ha rigettato il suo popolo”, che gli è rimasto caro, per le promesse fatte ai Padri. Non avendolo rigettato, concederà che un giorno il suo “accecamento” finisca (Rm, 11, 1 ss., 28-29, et passim).  Finché Israele non si convertirà, riconoscendo in Cristo il Messia, il mondo non finirà.  Il concetto espresso da S. Paolo è chiaro: il fatto che Dio abbia mantenuto “l’elezione” di Israele significa che gli concederà la conversione, non significa che l’attesa messianica dell’Israele della carne possa considerarsi ancora valida, in contraddizione con la teologia della sostituzione.

Ma l’inserimento dell’immagine dell’antico olivo nelle immagini della Chiesa, come fatto da LG 6, è coerente con il senso evidente e tradizionale dell’insegnamento di S. Paolo o non sembra produrre una discreta confusione?  Confusione perché si parla di una riconciliazione che sarebbe già “avvenuta” quando l’Ebraismo resta sempre ostile a Cristo mentre si evita di specificare che la riconciliazione può avvenire solo in seguito alla conversione degli Ebrei.  Nella dichiarazione conciliare Nostra Aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, come si è visto nell’Introduzione di questo lavoro, viene ripetuto questo concetto di una riconciliazione tra Ebrei e Gentili che sarebbe già avvenuta per mezzo della Croce, grazie alla quale Cristo ha fatto dei due una sola cosa in sé stesso (NAet 4.3).  Ma il testo di S. Paolo che si cita (Ef 2, 14-16) ancora una volta, ribadisce che la “riconciliazione” ha luogo solo con la conversione di entrambi al Cristianesimo.  Dice infatti l’Apostolo delle Genti ai pagani convertiti:  un tempo voi eravate “all’infuori di Cristo” cioè ancora pagani nonché “esclusi dalla cittadinanza d’Israele ed estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo”.  Si intende: esclusi dalla cittadinanza divina d’Israele, popolo eletto con “i patti della promessa”.  Ma grazie a Cristo, al quale vi siete convertiti, “voi che eravate lontani siete diventati vicini nel sangue di Cristo”.  “Vicini”, a chi?  Agli Ebrei che hanno rifiutato Cristo e perseguitano i suoi seguaci?  Non può essere.  “Vicini” a Cristo ossia agli Ebrei convertiti. L’ebreo che ha riconciliato i Gentili con gli Ebrei è Cristo stesso, il Messia nel quale l’Ebraismo trova il suo compimento finale.  Cristo “è la nostra pace” perché “ha fatto delle due cose [Ebrei e Gentili] una sola, togliendo di mezzo il muro che li separava, cioè l’inimicizia”; infatti, “nella sua carne annullò co’ suoi precetti la Legge delle prescrizioni [giudaiche], al fine di ridurre in sé stesso, artefice di pace, i due in unico uomo nuovo [il Cristiano], e riconciliarli entrambi in un corpo unico a Dio [la Chiesa di Cristo] per mezzo della croce, uccidendo in sé ogni inimicizia”[34].  Le “due cose” diventano una sola nell’”uomo nuovo” rappresentato dal Cristiano, verità che, a mio avviso, non compare affatto nei passi del Concilio analizzati, che utilizzano S. Paolo in un modo che mi sembra alquanto ambiguo.  La “riconciliazione” paolina è unilaterale, va in una direzione sola ossia può aver luogo solo nella vera Ecclesia Dei, alla quale verranno un giorno tutti gli Ebrei.

Nell’inserimento equivoco dell’immagine dell’antico olivo tra le “immagini della Chiesa” appare quella che a me sembra una sopravvalutazione dell’Antico Testamento da parte dei Novatori.  Mi sembra presente in Dei Verbum 16, articolo nel quale si parla di “unità dei due Testamenti”, scrivendo: “[…] i libri del Vecchio Testamento, integralmente assunti nella predicazione evangelica, acquistano e manifestano il loro pieno significato nel Nuovo Testamento (cfr. Mt 5, 17 etc.), che essi a loro volta illuminano e spiegano [illudque vicissim illuminant et explicant]”. È vero che da certi passi dell’Antico si possono comprendere meglio alcuni del Nuovo Testamento (vedi infra, cap. XVII, § 5).  Ma non è azzardato affermare come principio generale e assoluto che i libri dell’Antico Testamento, in quanto tali, “a loro volta illuminano e spiegano” quelli del Nuovo? E per di più in blocco?  E questo della totale reciproca “illuminazione e spiegazione” dei due Testamenti è diventato una sorta di dogma ermeneutico!  Non si sente qui l’infiltrazione  della “falsa esegesi” (dei Nuovi Teologi) condannata da Pio XII nella Humani generis?  Esegesi “chiamata simbolica e spirituale”, secondo la quale “i libri del Vecchio Testamento, che oggi nella Chiesa sono una fonte chiusa e nascosta, verrebbero finalmente aperti a tutti” risolvendo una volta per tutte [!] le difficoltà di chi si attiene al senso letterale delle Scritture?[35]

L’apertura dell’Antico Testamento al popolo l’ha fatta la montiniana Messa del Novus Ordo, che ne offre regolari estratti nella domenicale Liturgia della Parola.  Come dimenticare l’autentico martirio che subiscono quei Sacri Testi, affidati alla lettura di laici più o meno volonterosi, maschi e femmine che quasi mai danno l’impressione di capire quello che stanno leggendo?  Non che la lettura dei contigui passi del Nuovo Testamento migliori di molto la situazione, ovviamente, peggiorata poi ulteriormente dal pistolotto a sfondo social-umanitario nel quale si rifugia in genere la predica dell’officiante, smarrito di fronte alla mole di Vecchio e Nuovo Testamento che gli viene propinata, per esser da lui trasfusa in qualche modo nel sermone.

 

3. La scelta delle immagini mostra continuità con AeU?  

La seconda osservazione è di carattere più generale.  Da tutto questo florilegio emerge un’immagine della Chiesa che sia in armonia con quella proposta dallo schema Aeterni Unigenitus?  In quest’ultimo, l’immagine prevalente era sempre quella della Chiesa militante, inquadrata nel Corpo Mistico di Cristo.  Ora il carattere militante della Chiesa non viene più ricordato, con conseguente scomparsa delle immagini connesse, ricavate da S. Paolo e dal Vangelo di Giovanni:  la milizia, il cristiano come soldato di Cristo, la lotta contro sé stessi e il mondo, il combattimento, anche come competizione dell’atleta (il Cristiano atleta di Cristo).  Tutto questo lo si considera ormai anticaglia: la Chiesa non ha nemici e non ne hanno nemmeno i Cristiani.  Si vuole evidentemente rinnegare ogni immagine che implichi l’idea di lotta, combattimento, nemico da affrontare (anche dentro di sé), contrapposizione radicale con il mondo “regno del principe di questo mondo”:  insomma, ogni immagine che individui la Chiesa come “segno di contraddizione” nei confronti del mondo, esponendola all’odio e alla persecuzione. 

Inoltre, AeU precisa che le “immagini” della Chiesa realizzano sempre una sintesi tra l’elemento “mistico” e quello “sociale”.  La sintesi tra i due aspetti (Chiesa visibile ed invisibile) sembra essersi persa in LG, dal momento che sembra prevalervi l’elemento “mistico”, nel senso però di misterico; o, in modo affine, spirituale nel senso di uno “Spirito” dai tratti tendenzialmente indefiniti.  Un’ulteriore differenza con lo schema rigettato è data dal fatto che attraverso una certa lettura delle immagini della Chiesa si insinua una ambigua rappresentazione dell’Ebraismo da un lato e del Sovrannaturale dall’altro.

L’immagine resta nel campo puramente simbolico solo per modo di dire, dato che vi compare sempre il modo nel quale si intende la cosa concreta, vale a dire il concetto di Chiesa che dette immagini vogliono rappresentare.  Tale concetto, come inteso da LG, si precisa ulteriormente nell’analisi del concetto di Corpo Mistico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VII.  UN “CORPO MISTICO” (LA CHIESA) INCENTRATO SUL CRISTO, CHE HA GIÀ REDENTO L’UOMO CON LA SUA INCARNAZIONE, MORTE E RESURREZIONE? 

 

 

Vengo pertanto all’ultimo articolo della Lumen gentium, tra quelli che precedono il famoso n. 8.  Qui viene riproposto il concetto del Corpo Mistico che, come si è visto, costituiva il cuore dell’argomentazione di Aeternus Unigeniti.

Il testo di LG 7, che si intitola : La Chiesa, corpo mistico di Cristo, è molto più ampio.   Dell’impostazione di AeU sembra esser rimasto poco o nulla.  In apertura, si connette l’unione mistica del Corpo di Cristo nello Spirito Santo con la redenzione dell’uomo.  Quest’ultima, però, è presentata come se fosse avvenuta direttamente con l’Incarnazione, Morte e Resurrezione di Nostro Signore.  Già avvenuta, sembrerebbe, come la “riconciliazione” tra Ebrei e Cristiani.

“Il Figlio di Dio, unendo a sé la natura umana e vincendo la morte con la sua morte e resurrezione, ha redento l’uomo e l’ha trasformato in una nuova creatura (Gal 6,15; 2 Cr 5,17).  Comunicando infatti il suo Spirito, costituisce misticamente come suo corpo i suoi fratelli, che raccoglie da tutte le genti”(LG 7.1). 

 

1. La redenzione direttamente da Cristo, indipendentemente dalla Chiesa? 

Di questo periodo non sono riuscito a trovare un aggancio nello schema Aeternus Unigeniti, in particolare della sua prima frase.  La seconda ripropone in generale la “comunicazione” dello Spirito Santo, in quanto costitutiva del Corpo Mistico.  Le due frasi sono collegate dallo “infatti” (enim).  Se si guarda bene, tuttativa, il loro nesso non è così lineare come potrebbe sembrare a prima vista.  Si afferma perentoriamente e senza sfumature che il Figlio di Dio con l’Incarnazione, la sua Morte e la sua Resurrezione “ha redento l’uomo e l’ha trasformato in una nuova creatura”.  E ciò risulta dal fatto (“infatti”) che ha comunicato il suo Spirito ai “suoi fratelli” ovvero agli uomini (Eb 2,11-18), in tutte le genti, costituendoli “misticamente come suo corpo”.

      Il Cristo costituisce dunque gli uomini “suoi fratelli” in un corpo mistico, inviando lo Spirito Santo.  La redenzione, noi sappiamo, può aver luogo solo nel Corpo Mistico che è la Chiesa. E la Chiesa è nata con la Pentecoste, con l’invio dello Spirito Santo.  Anteriormente, essa era già cominciata con la predicazione di Nostro Signore e l’invio delle prime “missioni” degli Apostoli.  Ma solo con l’effusione dello Spirito Santo si ha la compiuta formazione della Chiesa, come Corpo Mistico di Cristo.  Ma se si dice che Cristo con l’Incarnazione, Morte e Resurrezione ha redento l’uomo, ciò non significa dire che la redenzione, che trasforma l’uomo in una nuova creatura, ha avuto luogo prima dell’invio dello Spirito Santo, cioè prima della nascita della Chiesa?  E se le cose stanno così, allora non si spiega l’”infatti” della seconda frase, che sembra invece attribuire la redenzione all’azione dello Spirito Santo che costituisce il Corpo Mistico, quindi posteriormente all’Incarnazione, Morte e Resurrezione del Signore.

Ma andiamo a vedere i riferimenti scritturali paolini della prima frase:  Gal 6,15 e 2 Cr 5,17. La perìcope della Lettera ai Galati si trova nella chiusura della lettera.  Polemizzando con i Giudaizzanti, che volevano far circoncidere i Galati convertitisi al Cristianesimo perché a loro erroneo giudizio i Cristiani dovevano continuare ad osservare le pratiche giudaiche, S. Paolo ribadisce che l’unica cosa che conta è l’essere “una creatura nuova” ossia convertito a Cristo nella fede e nelle opere.  “Quanto a me sia lungi il gloriarmi d’altro che della croce del Signor nostro Gesù Cristo, per la quale il mondo è stato per me crocifisso, e io pel mondo.  Né la circoncisione ha valore, né l’essere incirconciso; ma l’essere una creatura nuova” (Gal 6,14-15).  Non contano le pratiche formali, quali che siano, giudaiche o altre:  conta l’esser un vero seguace di Cristo, vivere effettivamente come “l’uomo nuovo” che il Battesimo fa nascere in noi.  E questo è possibile solo nella Chiesa ovvero mettendo in pratica gli insegnamenti (nella fattispecie) di S. Paolo, attraverso il quale parla il Signore.   L’altro testo è tratto da 2 Cr 5,17.  Esso recita:  “Sicché, se uno è in Cristo, è una creatura nuova, quel ch’era vecchio è sparito, ecco è sorto il nuovo”.  Solo se uno “è in Cristo” può essere “la creatura nuova”, richiesta dallo stesso Cristo (Gv 3,5).  Che vuol dire “se uno è in Cristo” (óste ei tís en Christô)?  Se uno si è convertito, si è fatto cristiano, entrando nella Chiesa o Corpo Mistico.  Solo a questa condizione può diventare un “uomo nuovo”.  Nuovo, si intende, sempre nel senso voluto da Nostro Signore. 

Ora, da questi due testi dell’Apostolo delle Genti si ricava forse l’impressione che l’uomo sia stato redento e trasformato “in una nuova creatura” direttamente dall’Incarnazione, Morte e Resurrezione di Nostro Signore?  Secondo me, no.  S. Paolo si limita a dire che ognuno di noi può essere la “creatura nuova” desiderata da Cristo, solo “se è in Cristo”, cioè se vive da buon cristiano, in pensieri, parole e opere, obbedendo ai precetti della Chiesa.  E questo non è possibile se non si fa parte della Chiesa o Corpo Mistico di Cristo. 

L’apertura di LG 7 presenta dunque un tratto decisamente nuovo rispetto ad AeU, un tratto che fa difficoltà perché sembra suggerire l’idea di una redenzione attuata direttamente dal Cristo con l’Incarnazione, Morte e Resurrezione, prima ancora della nascita della Chiesa da Lui fondata ad opera dello Spirito Santo.  Fa difficoltà, questo tratto, perché  richiama alla mente il “pancristismo” di blondeliana memoria (ripreso da de Lubac e Teilhard de Chardin) secondo il quale il Cristo con l’Incarnazione, Morte e Resurrezione avrebbe già salvato il mondo, senza bisogno della Chiesa[36].

Ma vediamo ora rapidamente gli elementi essenziali del Corpo Mistico secondo LG 7.  Lo stile dell’argomentazione è simile a quello di LG 6 sulle immagini della Chiesa.  Anche qui le immagini abbondano e abbondano anche le ripetizioni (una costante nel prolisso argomentare del Vaticano II).  Le immagini sono ovviamente tradizionali come pure i concetti che ad esse si ricollegano, le une e gli altri ricavati in genere da S. Paolo.  Bisogna però vedere come vengono utilizzati, per affermare quale concetto di Corpo Mistico.

La “vita di Cristo” si diffonde nel Corpo di Cristo ai credenti attraverso i Sacramenti, mediante i quali i credenti “si uniscono in modo arcano e reale a lui sofferente e glorioso” (LG 7.2).  Quest’affermazione sulla presenza del Cristo glorioso nei Sacramenti si appoggia su una citazione di S. Tommaso, della quale parlerò tra breve.  Il Battesimo ci rende conformi a Cristo, tramite il Battesimo siamo simbolicamente uniti a Lui nella Morte e Resurrezione (Rm 6, 4-5).  Nell’Eucaristia “siamo elevati alla comunione con lui e tra di noi”; l’Eucaristia è simbolo di unità, essa crea un solo corpo (concetto già visto in LG 3).

Nel Corpo Mistico di Cristo “vige una diversità di membri e di offici” (LG 7.3).  Ma “uno è lo Spirito”, che “distribuisce la varietà dei suoi doni con magnificenza proporzionata alla sua ricchezza e alla necessità dei ministeri. Tra i doni “eccelle quello degli apostoli” cioè le grazie loro conferite.  Lo Spirito “produce e stimola la carità tra i fedeli” (ivi).  Nel penultimo paragrafo (LG 7.7), si riprende il discorso sullo “Spirito”, utilizzando l’immagine agostiniana dello Spirito Santo come “anima” del Corpo Mistico, già presente nel Magistero precedente e da ultimo in AeU, come si è visto.  E nell’ultimo paragrafo (LG 7.8) si ripete l’immagine della Chiesa come “sposa di Cristo”.

Dopo essersi soffermato sullo Spirito Santo, il testo si concentra sulla figura di Cristo stesso, “capo” del Corpo Mistico, “che è la Chiesa”.  Sono elencati molti degli attributi del Cristo che si desumono dalle lettere di S. Paolo.  Egli “è l’immagine dell’invisibile Dio e in lui tutto è stato creato.  Egli è anteriore a tutti, e tutte le cose sussistono in lui.  È il capo del corpo, che è la Chiesa.  È il principio, il primo nato di tra i morti, affinché abbia il primato in tutto”(Col 1,15-18)”(LG 7.4).  Il testo omette dalla citazione della Lettera ai Colossesi la pericope nella quale si afferma che “tutto per mezzo di lui e in vista di lui fu creato [omnia per ipsum, et in ipso creata sunt]” (ivi, 1,16):  omette il passo dal quale appare con chiarezza che il Verbo ha creato il mondo, dal quale risulta con maggior forza la sua natura divina.

Cristo “domina sulle cose celesti e terrestri” e “riempie delle ricchezze della sua gloria tutto il suo corpo”.  Perciò “tutti i membri devono conformarsi a lui, finché Cristo non sia in essi formato”.  Siamo pertanto “collegati ai misteri della sua vita” finché con Lui regneremo.  Nella nostra peregrinazione terrena, veniamo associati alle sue sofferenze e “soffriamo con lui per essere con Lui glorificati”(Rm 8,17)”(LG 7.5).  Nel suo corpo, “che è la Chiesa”, Egli dispensa continuamente “i doni dei ministeri”.  Grazie ad essi, “ci aiutiamo vicendevolmente a salvarci” e andiamo “crescendo verso colui che è il nostro capo”(LG 7.6).  Segue infine il richiamo all’azione “del suo Spirito”, del quale ci ha resi “partecipi”, che è “l’anima” della Chiesa, ed il paragrafo finale, dedicato alla Chiesa.  La Chiesa, sposa di Cristo, gli è soggetta come al suo Capo.  Cristo riempie la Chiesa dei suoi doni – essa che è il suo Corpo e la sua pienezza (Ef 1,22-23) – affinché essa sia protesa e pervenga alla pienezza totale di Dio [omnem plenitudinem Dei] (Ef 3,19).  Pienezza totale che, evidentemente, la Chiesa ancora non possiede.  Tuttavia, sono costretto a ricordare che anche in quest’ultima perìcope, S. Paolo si riferisce ai singoli fedeli non alla Chiesa:  egli prega Dio perché conceda loro la grazia della fede, in modo che essi possano comprendere tutta la portata dell’amore di Cristo, “che sorpassa ogni scienza, affinché siate ripieni di tutta la pienezza di Dio” (Ef 3, 14-19).

 Della frase di apertura di LG 7 e delle difficoltà che essa comporta, ho già detto.  Voglio sottolineare un uso a mio avviso non convincente dell’autorità di S. Tommaso al fine di far dipendere l’azione salvifica dei Sacramenti anche dal Cristo glorioso. 

 

2. Uso improprio di un passo di S. Tommaso  

Vengo quindi a LG 7.2, nel quale si nominano i Sacramenti citando a sostegno S. Tommaso in nota, in modo da dar l’impressione  che l’opinione espressa nel testo sia fondata sul pensiero dell’Angelico.  Di cosa si tratta?  Del fatto che, nel ricordare la funzione dei Sacramenti nel “Corpo di Cristo”, si ribadisce che i credenti mediante i Sacramenti “si uniscono in modo arcano e reale a Lui sofferente e glorioso”.  Dov’è il problema, si chiederà il lettore.  La frase non è forse corretta, dal punto di vista dogmatico?  Lo è, ma l’aggettivo “glorioso” aggiunto a “sofferente”, sulla supposta autorità di S.Tommaso, non introduce una nota ambigua?  Il “glorioso” vorrebbe dire che nei Sacramenti, quali ad esempio la S. Comunione, noi celebriamo, oltre al Cristo sofferente, anche il Cristo nella Gloria e quindi che la S. Comunione ricava il suo significato non solo dal Sacrificio della Croce ma anche e in pari modo dalla Resurrezione.  Il che non è, perché tra le due c’è un rapporto di causa ed effetto[37].  E non lo è nemmeno per S. Tommaso, così come non lo è nella Messa cattolica di sempre.  La Resurrezione è sì nominata nella S. Messa di Rito Romano Antico (detta impropriamente Tridentina), ma solo nell’Anàmnesi, ossia nella preghiera che, immediatamente dopo la Consacrazione, dichiara espressamente che il S. Sacrificio della Messa ricorda e rappresenta quello della Croce:  ”..ricordando la beata passione del medesimo Cristo tuo Figliolo, nostro Signore, la sua resurrezione dai morti, e la sua gloriosa ascensione in cielo, offriamo all’eccelsa tua maestà, delle cose che ci hai donate e date, l’Ostia pura, l’Ostia santa, l’Ostia immacolata, il Pane santo della vita eterna e il Calice della perpetua salute”. 

Questa preghiera viene ancora letta nella Messa del Novus Ordo, subito dopo la Consacrazione del vino.  Tuttavia, la formula della consacrazione è stata cambiata.  Ora essa recita:  “Prendetene e bevetene tutti:  questo è il calice del mio sangue per la Nuova ed eterna Alleanza, versato per voi e per molti in remissione dei peccati.  Fate questo in memoria di Me”.  Sono state tolte le parole: “mistero della fede”, che ora vengono pronunciate subito dopo dal celebrante e alle quali il popolo risponde:  “Annunziamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua resurrezione, nell’attesa della tua venuta”.  Il “mistero della fede” graviterebbe ora nel senso della Resurrezione e dell’attesa per la venuta (finale) di Nostro Signore nella Gloria.  Prospettiva gloriosa ed escatologica, che tende a prevalere su quella del significato satisfattorio e propiziatorio della Messa, come dimostrato dall’interpretazione largamente diffusa della Messa come “far memoria del Signore Risorto” (vedi supra) e anche dal fatto che il “molti” della Consacrazione è stato sostituito arbitrariamente da “tutti” in quasi tutti i vernacoli e solo parzialmente restaurato dopo l’intervento ad hoc di Benedetto XVI, alcuni anni fa.  Nel canone dell’Ordo romano antico, che secondo la Tradizione risale ai tempi apostolici, il senso del “mistero della fede” è connesso, invece, esclusivamente alla “remissione dei peccati” ossia al significato satisfattorio e propiziatorio del Sacrificio della Messa, che rinnova in modo incruento quello della Croce :  “Poiché questo è il calice del Sangue mio, della nuova ed eterna alleanza – mistero della fede – il quale sarà sparso per voi e per molti in remissione dei peccati”.     

 Andando a leggere il capitolo della Summa citato dal Concilio, si vede che per l’Angelico è la Passione del Signore a conferire ai Sacramenti il loro autentico significato salvifico, non la sua Resurrezione.

Si tratta di Summa theologiae III, q. 62, a. 5, ad 1.  L’art. 5 della questione 62 si occupa del seguente problema:  “Se i sacramenti della nuova legge ricavino la loro virtù dalla passione di Cristo”. 

Elencate tre opinioni contrarie ed una favorevole (desunta da Rm 5 col commento della Glossa ordinaria), S. Tommaso prende nettamente posizione per quella favorevole.  Il Sacramento, scrive, “opera per causare la grazia alla maniera di uno strumento”.  Uno “strumento” va inteso in modo duplice:  “come realtà separata, p.e. un bastone (baculus), o come realtà collegata ad un’altra, p.e. la mano.  Lo strumento “separato” è mosso da quello “collegato”(coniunctum), come nel caso del bastone impugnato dalla mano.  “Ora, Dio stesso è la causa efficiente principale della grazia.  L’umanità di Cristo è paragonata a Dio come uno strumento che gli è congiunto, mentre il sacramento è inteso come strumento separato.   Ne consegue pertanto che la “vis salutifera” deriva dalla divinità di Cristo operante grazie alla sua umanità nei sacramenti stessi [Et ideo oportet quod virtus salutifera derivetur a divinitate Christi per eius humanitatem in ipsa sacramenta].  La grazia sacramentale mira essenzialmente a due cose: ad eliminare i guasti [defectus] del peccato e a perfezionare l’anima nelle cose che riguardano il culto di Dio.  Ma è indubbio che Cristo ci ha liberati dai nostri peccati soprattutto [praecipue] con la sua passione”. E non solo efficaciter, ossia con l’efficacia di un’azione effettivamente causale, in quanto “strumento della divinità” le cui azioni operano tutte per la salvezza dell’uomo; non solo meritorie, cioè meritando la salvezza per noi in quanto membra della Chiesa di cui è il Capo;  ma anche riparando all’offesa fatta a Dio dal peccato degli uomini (satisfactorie).  Questa soddisfazione in quanto sovrabbondante ci ottiene misericordia da Dio (propitiatio)[38].  Ugualmente, con la sua passione Egli ha iniziato il culto della religione Cristiana, “dando sé stesso [come] oblazione e sacrificio a Dio” [Ef 5,2].  Da tutto ciò risulta in modo evidente che “i sacramenti della Chiesa ricavano in modo particolare la loro virtù dalla passione di Cristo, la cui virtù ci si comunica in qualche modo [proprio] mediante il ricevimento dei sacramenti”: la “virtus remissiva” dei nostri peccati “appartiene in un certo special modo alla sua passione”[39].  

Nella Passione di Nostro Signore, unica sorgente della “virtù” dei sacramenti, vediamo il Cristo “sofferente” non quello “glorioso”, anche se quello “glorioso” è sempre presente perché la Divinità non può esser intaccata dalle sofferenze dell’umanità del Verbo (così come è presente nell’Ostia consacrata, che rinnova però la Passione non la Resurrezione).   Ora, come può il Concilio attribuire a S. Tommaso il concetto che attraverso i Sacramenti i fedeli “si uniscono in modo arcano e reale a lui sofferente e glorioso”, come se per S. Tommaso Passione e Gloria contribuissero in modo uguale al valore salvifico dei Sacramenti?  LG 7.2  richiama una delle tre repliche finali dell’Angelico ai tre argomenti contrari da lui esposti all’inizio dell’articolo 5.  L’argomento contrario, che è il primo dei tre, specula su di una frase di S. Agostino:  “La virtù dei sacramenti consiste nel causare la grazia nell’anima, facendola vivere spiritualmente.  Ma, come dice Agostino nel Commento al Vangelo di Giovanni:  ‘Il Verbo in quanto era in principio presso Dio, vivifica le anime; ma una volta divenuto carne, vivifica i corpi’.  Poiché la passione di Cristo riguarda il Verbo in quanto incarnato [quod est caro factum], se ne conclude che non possa causare la virtù [propria] dei sacramenti”.

Poiché la Passione concerne il Verbo nella carne che aveva assunto, ossia nel corpo, come può essa causare la virtù dei Sacramenti, che consiste nel vivificare l’anima?  Gli effetti salvifici della Passione, mi chiedo, dovrebbero allora restare limitati al corpo di Cristo?  La tesi appare manifestamente assurda. La replica di S.Tommaso (ad 1, contro il n. 1) costituisce il passo cui rinvia il Concilio.

“Contro il primo argomento bisogna dire che il Verbo, in quanto era in principio presso Dio, vivifica le anime come agente principale [sicut agens principale]; tuttavia la sua carne e i misteri che in essa hanno avuto luogo [in ea perpetrata], operano strumentalmente [instrumentaliter] alla vita dell’anima.  Alla vita del corpo, invece, non solo strumentalmente, ma anche con una certa esemplarità, come ho detto sopra”. 

Non si possono separare e contrapporre il corpo e l’anima, come sembrano fare i sostenitori della tesi criticata.  Il Verbo “vivifica” le anime.  Ma in quest’azione concorre anche l’Incarnazione ovvero il corpo assunto dal Verbo, con tutti i misteri che per noi esso presenta, come risultano in particolare dalle vicende della Passione.  L’Eucaristia è un sacramento fondamentale per la nostra salvezza.  Ma senza il “corpo” e il “sangue” di Cristo essa non sarebbe possibile.  Senza il “corpo” e il “sangue” reali del Signore, rinnovati ad ogni Messa in modo incruento dal sacerdote celebrante, nella Consacrazione.  Qui S. Tommaso fa una differenza tra “strumentale” ed “esemplare”.

Che significa “strumentale”?  Lo spiega nella questione n. 56, a. 1, nel replicare a coloro che negano esser la resurrezione di Cristo “causa” della resurrezione dei corpi. 

La “giustizia di Dio, scrive, è la causa prima della nostra resurrezione” mentre “la resurrezione di Cristo è la causa secondaria e come strumentale”.  Perché la “giustizia divina”?  Perché è necessario “che i corpi siano premiati o puniti assieme alle anime, per come reciprocamente presero parte ai meriti o ai peccati [come dissero Dionigi Areopagita e S. Giovanni Damasceno, precisa S.Tommaso nel testo]”.  La giustizia divina, in quanto “virtù dell’agente principale non ha bisogno di determinarsi in modo specifico in questo strumento [Licet autem virtus principalis agentis non determinetur ad hoc instrumentum determinate]”.  Tuttavia, “dato che opera mediante questo strumento, lo strumento stesso è causa di un effetto [instrumentum illud est causa effectus]”. Ora, la giustizia divina non era obbligata ad agire come ha agito, istituendo la nostra resurrezione sul modello di quella di Cristo: poteva “liberarci” (dal peccato) in modo diverso dalla Passione e Resurrezione del Signore.  “Ma poiché ha scelto di liberarci in questo modo, è chiaro che la resurrezione di Cristo è causa della nostra”.

Causa dunque “secondaria” (rispetto alla “giustizia divina”) e “come strumentale” perché è lo “strumento” mediante il quale opera la giustizia divina. Ne consegue che la Passione opera “strumentalmente” alla vita della nostra anima nel senso che è “causa strumentale” e quindi efficiente della sua rinascita, grazie ai Sacramenti che da essa scaturiscono.  “Strumentale” non va inteso come riferito ad una realtà subordinata e quindi ininfluente ma nel senso di ciò che produce il suo effetto pieno perché inserito in un rapporto causale (della causalità efficiente, che, per produrre un effetto, presuppone l’azione di un agente sorretta da uno scopo).  Pertanto S. Tommaso non sembra affatto mettere sullo stesso piano l’azione sulle anime del Verbo presso Dio (Cristo glorioso), che è l’azione di un “agente principale”, e quella “secondaria” e “strumentale” sulle anime da parte del Verbo Incarnato, la cui umanità ha accettato liberamente le terribili sofferenze della Passione (Cristo sofferente). Al contrario, sembra ribadire che l’azione “strumentale” del Cristo sofferente agisce di per sé sulle anime, nella sua propria autonomia di “strumento” della salvezza.

L’azione “esemplare” del Verbo Incarnato nei confronti della “vita del corpo”, riguarda invece il significato esemplare della Resurrezione di Cristo.  Essa è causa efficiente della nostra, per via della “virtù divina, il cui proprio è risuscitare i morti [mortuos vivificare]”; è anche causa “esemplare” perché costituisce il modello o esemplare della nostra individuale resurrezione (e in questo senso, pur risuscitando tutti gli uomini, si applica solo agli Eletti, non a coloro che vanno in perdizione).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VIII.  BILANCIO DEL RAFFRONTO TRA AeU 1-7 E LG 1-8 

 

 

Dalla comparazione dello schema Aeternus Unigeniti 1-7  con la costituzione Lumen Gentium 1-8, cosa concludere?  Abbiamo visto che LG 1-8 rielabora la struttura generale di AeU 1-7, accogliendone delle parti, che ripropongono concezioni tradizionali della Chiesa.  Ma non è certo questo tipo di rielaborazione a costituire i concetti essenziali della dottrina proposta da LG 1-8, che introduce a sua volta elementi nuovi concorrenti tutti ad una concezione della Chiesa che sembra alquanto diversa da quella di AeU 1-7:  non più militante ma misterica ossia aperta al soffio di uno Spirito di tipo (cosiddetto) carismatico, che investe anche le “comunità” degli acattolici, in quanto tali.  Possiamo dire, in coscienza, specchiandoci nella nostra fede di Cattolici, della quale Nostro Signore ci chiederà conto, accanto alle nostre opere, non appena moriremo, che la dottrina sulla Chiesa proposta da LG 1-8 si dimostri in perfetta continuità con quella della Chiesa di sempre, proposta da AeU 1-7?  

Guardiamo alle novità esistenti in LG 1-8, poiché sono esse a fare la differenza. 

1. Vengono accuratamente eliminati tutti i riferimenti di AeU al Primato di Pietro.  Non acquista rilievo il ruolo dei “praepositi” da Cristo sub Petro sin dall’inizio della Ecclesia Dei alla predicazione e al governo della Chiesa. Esso viene ricordato solo in LG 8.2 ma nella Chiesa cattolica dimidiata dal subsistit in. Si ha anche un accenno in LG 7.3, ove si dice che tra i doni dello Spirito “eccelle quello degli apostoli, alla cui autorità lo stesso Spirito sottomette anche i carismatici (1 Cr 14)”.  Si tratta di un riconoscimento generico.  Gli apostoli sono comunque presentati qui come collegio, senza un capo, una gerarchia. 

2. Il Corpo Mistico appare incentrato soprattutto su Cristo, che “ha redento l’uomo e l’ha trasformato in una nuova creatura” già prima della Pentecoste, con la sua Morte e Resurrezione, poste sullo stesso piano quanto al loro significato salvifico. 

3. Il rapporto tra Cristo e lo Spirito Santo nel Corpo Mistico non appare ben delineato come in AeU e risulta anche ambiguo.  Non si ripete che i doni dello Spirito Santo avvengono “secondo la misura di Cristo”. Inoltre, si indebolisce il nesso tra lo Spirito Santo e la Verità Rivelata, visto che lo Spirito Santo si limiterebbe ad introdurci a “tutta la verità”:  prospettiva che di fatto si presta a mettere tra parentesi il dogma del compimento della Rivelazione con la morte dell’ultimo Apostolo e ad aprire la strada all’ambiguo concetto di “tradizione vivente” di cui all’art. 8 della costituzione “dogmatica” Dei Verbum.  La forte enfasi posta sull’opera dello Spirito Santo, che viene però tendenzialmente intesa come l’avvento di un “carisma” che riposa su sé stesso, ha dato ad alcuni la sensazione della presenza di un certo “gioachimismo” negli articoli 2-4 della LG, come se in questi ultimi si riflettesse la ben nota, visionaria tripartizione delle epoche del mondo in età del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: quest’ultima, secondo l’abate calabrese, avrebbe inaugurato un’epoca ultima e definitiva di libertà spirituale, nella quale si sarebbe effusa maggiormente la Grazia. In quest’Età dello Spirito avremmo avuto “la perfetta intelligenza” delle cose, la “libertà”, la “contemplazione”, “l’amicizia”, il mondo sarebbe ringiovanito:  in pratica, la realizzazione (sia pure del tutto spirituale) del Regno di Dio in questo mondo.  Quest’impressione, dell’affermazione di una natura “trinitaria” della Chiesa intessuta alle visioni “trinitarie” del tutto personali di Gioacchino da Fiore, deriva anche dalla presentazione ed esaltazione del Vaticano II quale autentica “Nuova Pentecoste”, quasi il Concilio dovesse inaugurare una nuova Età dello Spirito, foriera di trionfi per la Chiesa ed apportatrice di pace al mondo intero.

4.  Nelle “immagini della Chiesa” si accentua il lato “mistico” o “spirituale” (“pneumatico”) a scapito di quello sociale (della Ecclesia societas, gerarchicamente ordinata) e a scapito dell’idea del carattere “militante” della Chiesa visibile, che scompare completamente, con tutte le sue immagini tradizionali della Chiesa e del credente, come se la Chiesa non avesse nel mondo – regno del Principe di questo mondo - un avversario formidabile contro il quale dover lottare, per strappargli le anime. 

5.  Non appare ben delineato il rapporto con il Sovrannaturale e la concezione del Regno di Dio appare ambigua; non è messo in rilievo l’insegnamento tradizionale secondo il quale si entra nel Regno solo dopo esser stati “pesati, contati, divisi” dal Cristo giudice subito dopo la morte e nemmeno che l’alternativa alla conversione a Cristo è solo la dannazione eterna. Quest’ultima verità di fede è ricordata in modo evidente da AeU quando riporta l’affermazione di Nostro Signore: “chi non sarà battezzato non si salverà”. 

6. LG fa intravedere un’immagine di tipo esistenziale della Chiesa, quale potrebbe concepirla la sensibilità decadente del Secolo ateo e miscredente:  la Chiesa come realtà sempre imperfetta, sempre alla ricerca della “pienezza” della verità, “esule” da Dio e che si piange addosso i propri peccati grazie all’arbitraria attribuzione dei peccati e delle imperfezioni dei membri della Chiesa alla Chiesa stessa.  L’immagine esistenziale della Chiesa non è in grado di distinguere tra l’immacolata Sposa di Cristo ed i suoi membri, tra il peccato nella Chiesa ed il peccato della Chiesa, che non può aver luogo.  E non sembra nemmeno in grado di concepire ancora la Chiesa cattolica come unica Arca della Salvezza. 

7.  Si ha una falsa rappresentazione del rapporto tra la Chiesa e l’Ebraismo, dando ad intendere che entrambi sarebbero già stati “riconciliati” dalla Croce di Cristo.  Cade l’immagine della Chiesa come unico “vero Israele dello spirito”, assai nitida in AeU, e viene di fatto oscurata la teologia della sostituzione.

8.  Giustificandosi con una lettura molto dubbia di S. Tommaso, si delinea il tentativo di ancorare i Sacramenti anche alla Resurrezione del Signore, di legittimarli cioè anche come manifestazione del Cristo glorioso, cui si vuole attribuire efficacia sacramentale uguale a quella della Passione, cosa che inclina in senso protestante il significato della S. Messa. 

 

 

* * *

 

Nell’ambito di un’impostazione del genere, come stupirsi allora della definizione di Chiesa cattolica che appare nell’articolo 8 della LG, corroborato da UR 3 e UR 15.1?  Il “sussistere” in essa di una Chiesa di Cristo che “sussiste” anche negli “elementi”  rappresentati da “Chiese e comunità” acattoliche, appare il coronamento inevitabile della concezione  “aperta” e “spirituale” della Chiesa, “esistenziale”, incentrata sul Cristo il cui “mistero pasquale” avrebbe già redento gli uomini, che si delinea nei primi sette articoli di questa costituzione conciliare “dogmatica”.  Lo studio fin qui fatto ci permette anche di comprendere meglio, io credo, il significato che si tende a conferire oggi al termine “Chiesa” in ambito cattolico.  Quando si nomina “la Chiesa” i più intendono, in modo più o meno consapevole, la Chiesa di Cristo, nel senso di LG 8.2 e UR 3, della quale la Chiesa Cattolica in senso proprio è solo una parte, come si è visto.  I cattolici più anziani e legati al senso della Tradizione, quando sentono dire o leggono “Chiesa” nei documenti ecclesiastici ufficiali di oggi, credono istintivamente che ci si riferisca sempre alla Chiesa Cattolica Romana, unica vera Chiesa di Cristo.  Ma così non è.  La “Chiesa” dei documenti è in genere la “Chiesa di Cristo” come concepita dal Vaticano II.

E conta poco, a mio avviso, la replica secondo la quale è indubbio che per il Concilio la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa Cattolica onde quest’ultima è la sola Chiesa di Cristo, come si è sempre creduto.  Questa replica si basa più su ciò che si dovrebbe capire dai verbali del Concilio che sull’analisi letterale dei documenti conciliari alla fine approvati (sul punto, vedi infra, cap. X).  Conta poco, poiché l’analisi accurata dei testi fa vedere, come credo risulti dal presente lavoro, che la “sussistenza” della Chiesa di Cristo anche nelle “Chiese e comunità” degli Acattolici in quanto tali, costituisce la premessa “teologica” che la mens progressista del Concilio si è voluta dare al fine di aprire il “dialogo ecumenico” con gli Acattolici stessi.  Sembra essersi di fatto instaurato un regime della doppia verità, della quale nessuno sembra accorgersi, nel senso che vengono ritenuti veri ed applicati nella prassi entrambi questi asserti, tra loro inconciliabili alla luce non solo del Deposito della Fede ma anche della logica più elementare: 1) la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa Cattolica Romana, necessaria alla salvezza, unica Chiesa di Cristo;  2) la Chiesa di Cristo sussiste anche nelle Chiese e Comunità che si trovano al di fuori della Chiesa Cattolica Romana, nonostante le loro “carenze”.  E queste “carenze” (non si può dimenticarlo) sono il risultato di eresie e scismi!   Tutto ciò non è come dire che la Chiesa Cattolica Romana è l’unica Chiesa di Cristo e nello stesso tempo non lo è?

Si può forse negare che ci sia stato un mutamento semantico profondo?  Il lemma “Chiesa”, in bocca a preti e fedeli, non ha più il significato di una volta.  È la Chiesa “aperta” e “in ascolto dello Spirito”, cosiddetta “dell’Amore”, “allargata” a tutti gli Acattolici, “solidale” con tutti ed anzi con tutta l’umanità.  Essa non vuole apparire come qualcosa di separato dal mondo, come “segno di contraddizione”, vuole immergersi nell’umanità del mondo, non per convertirla a Cristo ma per collaborare con essa alla costruzione di un mondo che si vuole “migliore”, sposandone per quanto possibile i “valori”.  Per questo è stata abolita la talare, l’abito delle suore è stato reso simile a quello delle crocerossine, e comunque molti preti e suore hanno abolito  qualsiasi segno esteriore dell’appartenenza alla Chiesa Cattolica Romana, quasi ne provassero vergogna. Per questo si è voluto che i seminaristi non studiassero più in un collegio separato, in un ambiente lontano dalle seduzioni del mondo, favorevole al raccoglimento e alla preghiera, ai difficili studi, allo spirito di disciplina e di corpo, all’esercizio dell’autorità.  E si comprende come una Gerarchia che vede la Chiesa di Cristo anche in tutti gli Acattolici in quanto tali senta la necessità di ancorare i Sacramenti al Cristo glorioso; in particolare l’Eucaristia, perché così piace ai Protestanti ed evita l’’incomodo di innalzare la Santa Croce di fronte alle altre religioni, che tutte la avversano.  O di dichiarare sempre “imperfetta” la sua santità.  Come può, del resto,  essere perfetta se ora “la Chiesa di Cristo” sussiste anche in chi professa il “pecca fortemente ma credi ancor più fortemente”?  Come può essere la stessa Chiesa di AeU e in somma la medesima Chiesa Cattolica Romana di sempre, se ora la sua Gerarchia desiste dal convertire chicchesia, negligendo quindi esplicitamente il comandamento dato da Nostro Signore agli Apostoli e ai loro successori:  “Rendete miei discepoli tutti i popoli”?  E che conto fa essa del grave ammonimento:  “ma colui che mi rinnegherà davanti agli uomini, sarà rinnegato dinanzi agli Angeli di Dio” (Lc 12, 9)?

Come ha egregiamente messo in rilievo Mons. Gherardini, attirandosi le ire dei difensori del presente stato di cose, l’idea di Chiesa proposta dal Vaticano II, assai più che dal Magistero precedente, deriva dal nuovo intreccio costituito da “ecumenismo” e “libertà religiosa”.  Improntando l’idea di Chiesa a questi due “ideali”, entrambi presi a prestito dalla filosofia moderna e dalle utopie di Protestanti e Teosofi, si è giunti addirittura a costruire e a vivere un “esser Chiesa” (come dicono oggi) che esclude in quanto tale la conversione! 

“Dal vincolo che stringe insieme ecumenismo e libertà religiosa […] sarebbe poi scaturita la rinuncia al proselitismo, alla missione evangelicamente attiva, alla conversione.  Teresa di Calcutta poté per questo dichiarare di non aver mai invitato nessuno dei diseredati da lei accuditi a convertirsi; ed un prestigioso cardinale, arcivescovo d’una grande diocesi, raccontò d’aver diassuaso alla conversione l’ebreo che gli aveva confidato questo desiderio.  Ambedue, evidentemente, s’eran collocati sulla lunghezza d’onda del messaggio conciliare che, a base della moralità pubblica e privata oltre che della c.d. nuova evangelizzazione, poneva l’elefantiasi dei diritti della persona umana, non l’indiscutibilità dei diritti di Dio e della sua Parola.  Come se questa Parola non avesse stabilito la dipendenza della libertà dalla verità (Gv 8,32), la coincidenza della fede e della conversione (cf. Mc 1,15), l’obbligo dell’annuncio salvifico a tutte le genti (Mt 28, 18-20).  Un capovolgimento radicale era stato operato…”[40].  Ad opera di quale “Spirito”, dobbiamo chiederci noi semplici credenti, e trarne le dovute conclusioni. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] DE MATTEI, op. cit., p. 311.

[2] Abbé LOVEY, op. cit., p. 122.

[3] WILTGEN, op. cit., pp. 56-8;  LOVEY, op. cit., p. 121-3, con le puntuali repliche del cardinale Ottaviani.  Le invettive del vescovo De Smedt ricordavano quelle dei Modernisti d’antan.

[4] Per l’originale latino dello schema rimando all’indicazione che ne dà il cardinale Becker nel suo articolo, sopra citato:  Schema Constitutionis dogmaticae de Ecclesia Christi Patrum examini propositum:  Mansi 51, 539-553.

[5] DS 788/1511.

[6] PIO XII, Enciclica Mystici Corporis, tr. it. cit., p. 65.

[7] C, 37-8.

[8] C, 39-40.

[9] La Sacra Bibbia, Edizioni Paoline, Roma, 1960, p. 24,  in nota.

[10] Su questo tema, per maggiori approfondimenti, mi sia consentito rinviare ad un mio intervento: PAOLO PASQUALUCCI,  La notion de l’unité du genre humain:  une intrusion de la pensée laïque dans Vatican II, in La tentation de l’oecuménisme, Actes du III Congrès Théologique de sì sì no no, Albano Laziale - Avril 1998, Versailles 1998, pp. 130-144.

[11] C, 52.

[12] Ivi.

[13] C, 40.

[14] Vedi DB, voce Regno di Dio.

[15] “[…] questo Spirito ci fu meritato da Cristo sulla croce, spargendo il proprio sangue; questo, egli lo donò alla Chiesa per rimettere i peccati, alitandolo sopra gli Apostoli; e mentre soltanto Cristo ricevette questo Spirito senza misura [Gv 3, 34], alle membra del Corpo mistico vien distribuito dalla pienezza dello stesso Cristo secondo la misura del dono di Cristo [Ef 1, 8; 4, 7]”(Mystici Corporis, tr. it. cit., p. 45 [DS 2288/3807]).

[16] BERNARD BARTMANN, Précis de théologie dogmatique (1924), tr. fr. dell’Abbé  Marcel Gauthier, Salvator, Mulhouse, 1951, I, p. 230 ss. (§ 54).

[17] Nel già citato articolo su “Il peccato nella Chiesa”, Karl Rahner si lamentava del fatto che la LG, pur avendola ammessa, non fosse riuscita a fornire una nota teologica checchesia alla nozione di “Chiesa peccatrice”.  E come avrebbe potuto, mi chiedo?  L’articolo di Rahner cerca di conferire significato teologico a tale bislacca nozione, con un’esposizione  a mio avviso ripetitiva, elusiva e confusa.  Mi sembra che egli cerchi di applicare alla Chiesa, e nemmeno tanto velatamente, la nozione luterana di “simul iustus et peccator”, intrinsecamente contraddittoria.  Allora, perché la Chiesa, pur “peccatrice”,  sarebbe anche santa?  Per la possibilità che le è concessa, di ricorrere sempre alla misericordia di Dio, nonostante il suo stato di peccato:  questo solo la renderebbe “santa”.  La santità della Chiesa peccatrice viene solo dalla Grazia, come quella del singolo peccatore (op. cit., p. 431-4; 434).  Siamo in pieno Luteranesimo.  Le elucubrazioni di Rahner erano verosimilmente anche pro domo sua:  dopo la sua morte, una donna tedesca ha dimostrato con inappuntabile documentazione di esser stata per vent’anni la sua compagna segreta.

[18] DE MATTEI, op. cit., p. 311.

[19] Op. cit., pp. 341-2.  Suenens divenne poi noto per le sue “liturgie ecumeniche” aperte a tutti i soffi dello “Spirito” (vedi: JOHN VENNARI, Close-ups of the Charismatic Movement [Il movimento carismatico visto da vicino], Tradition in Action Inc., Los Angeles, 2002, pp. 155-162).

[20] PIO XII, Enciclica Mediator Dei sulla sacra Liturgia, tr. it. con testo lat. a fronte, Vita e Pensiero, Milano-Roma, 1956, pp. 126-8.

[21] CONFERENZA EPISCOPALE DELL’EMILIA E ROMAGNA, Islam e Cristianesimo, EDB, Bologna, 2000, p. 30.

[22] Nelle note relative, AeU 6.2 rimanda alla dottrina contenuta in documenti di Leone XIII, Pio IX, Pio XII, e in S. Tommaso.

[23] Si trova in S. PAOLO, Rm 8,9; Fil 1,19 etc.; vedi BARTMANN, op. cit., I, p. 231.

[24] Cit. in LOVEY, op. cit., p. 121-2.  Ho ritradotto dalla traduzione francese ivi presente.

[25] Bartmann, op. cit., I, p. 219 (§ 52).

[26] BRUNERO GHERARDINI, Chiesa-Tradizione-Magistero, articolo apparso sulla rivista elettronica Disputationes Theologicae  del 7 dicembre 2011, p. 3 di 4.

[27] Il significato tradizionale di Gv 16,13 è confermato anche dalle  edizioni dei Vangeli ispirate al metodo storico-critico, che sottopone i manoscritti ad un vaglio ipercritico, alla stregua di un qualsiasi testo letterario:  cfr. The Greek New Testament, cit.:  Gv 16,13 con le relative note; nonché: BRUCE M. METZGER & SOCII, A Textual Commentary on the Greek New Testament, German Bible Society, Stuttgart, 1994², p. 210.  Il verbo, riportato dalla quasi totalità dei manoscritti, è il futuro hodeghései en: guiderà verso, e in senso traslato insegnerà, istruirà (docebit, in latino).  Semanticamente contiene l’idea della guida, la guida di un capo, un maestro (hodós: sentiero, via; heghéomai: conduco come guida, capo).  Non c’è l’idea di un semplice introdurre; c’è l’idea di una guida in senso forte, di un capo o maestro fornito di piena autorità, di uno che è un leader, viae dux (Zorell, LGNT, sub voce). Se si fosse trattato di esprimere il concetto di “introdurre” alla verità, il greco non avrebbe dovuto usare un termine completamente diverso, come ad esempio:  eiságo?  Pochissimi manoscritti riportano :  “dieghésetai hymîn”: “vi esporrà”, più descrittivo, ma comunque lontano dall’idea dell’introduzione.  La filologia dimostra, dunque, che lo “inducit” di LG 4 non ha fondamento alcuno nel Testo Sacro.  Nel passo di Lc 12,10, il latino traduce ugualmente con docebit il greco, costituito invece da:  didáxei, insegnerà.  Il verbo è qui didásko, insegno, doceo.  Due verbi diversi, allora, tradotti allo stesso modo in latino.  Ma si tratta di due situazioni diverse, che le maggiori sfumature del greco permettono di esprimere.  Lo Spirito Santo guida con mano ferma di maestro gli Apostoli sulla via dell’approfondimento di tutta la Rivelazione, procedendo per spirazione da Nostro Signore e dal Padre come da un unico principio.  Nell’altro caso, non si tratta della Rivelazione ma di Ispirazione, al fine di vincere la paura del dolore fisico e della morte per testimoniare la fede nel caso singolo e supremo della persecuzione.  Qui le parole ci verranno alle labbra spontaneamente senza studio e preparazione specifica ma in realtà ci saranno state insegnate direttamente dallo Spirito Santo, come da Maestro a discepolo che deve solo ripeterle, per la Gloria di Dio e la salvezza della sua anima.

[28] DS 1961/3309.

[29] Enciclopedia Cattolica, voce Chiesa, col. 1450 (ed. anteriore al Concilio); DB, voce Regno di Dio, passim.

[30] HENRI DE LUBAC S.I., “Soprannaturale” al Vaticano II, tr. it., in ID., Spirito e libertà, Milano, 1980 (si tratta di una raccolta di saggi di de Lubac tradotti in italiano), pp. 343-50, p. 347, citato da GIOVANNI MORETTO, Destino dell’uomo e corpo mistico.  Blondel, de Lubac e il Concilio Vaticano II, Morcelliana, Brescia, 1994, pp. 117-8, nota n. 8.  Nel passo citato, de Lubac riassume la questione dal suo unilaterale punto di vista.

[31] MORETTO, op. cit., p. 118.

[32] Sull’influenza di de Lubac (e tramite lui di Blondel) sulla Gaudium et spes, cfr. MORETTO, op. cit., tutto il capitolo sesto, pp. 115-29.  Sul tema, mi sia permesso rinviare ad un altro mio contributo: PAOLO PASQUALUCCI, L’alterazione dell’idea del sovrannaturale nei testi del Vaticano II, in Bilancio e prospettive.  Per una vera restaurazione della Chiesa, Atti del IV Congresso teologico di “sì sì no no”, Roma 2000, Ed. Ichthys, Albano Laziale, 2003, pp. 195-236.

[33] S. GREGORIO MAGNO, La regola pastorale, presentata e interpretata da Armando Candelaresi, Edizioni Paoline, 1978², p. 198. 

[34] Ef 2, 14-16.  L’inciso: “[giudaiche]” è del traduttore dell’ Epistola paolina, nell’edizione della Bibbia curata dall’abate Ricciotti.

[35] PIO XII, Humani generis, tr. it. cit., p. 12.

[36] In una delle  lettere ricevute da Blondel, durante il suo polemico scambio epistolare sulla natura della Chiesa (1903), il Padre Wehrlé S.I. annotava a margine:  “Blondel ammette la salvezza fuori della Chiesa, direttamente ad opera del Cristo…La Chiesa non ha motivo di affannarsi con le preghiere…”.  Cosa aveva scritto Blondel?  Tra altre cose, che un primitivo (“un pauvre sauvage mourant”) che non conosce Cristo, se si salva l’anima, “ce n’est point en vertu de la Révélation en tant qu’elle est connue d’un grand nombre, c’est en vertu de la Rédemption en tant qu’elle a été acquise par Un seul et mystérieusement communiquée par les sollicitations anonymes de la grâce” (RENÉ MARLÉ  S.I.[a cura di], Au coeur de la crise moderniste.  Le dossier inédit d’une controverse. Lettres de Maurice Blondel, Henri Bremond etc., Aubier, Paris,1960, pp. 268-9).

[37] “Però quel Gesù, che è stato per breve tempo inferiore agli Angeli, noi lo vediamo ora coronato di gloria e di onore, a motivo della morte che ha sofferto, affinché per grazia di Dio, la morte da lui sopportata fosse di vantaggio a tutti” (Eb 2, 9).  Nel greco dell’originale, la frase “a motivo della morte che ha sofferto” è resa con la preposizione dià e l’accusativo (dià tò páthema toû thanátou etc.) che ha significato causale (cfr. The Greek New Testament, cit., p. 750).  Senza la Resurrezione vana è la nostra fede, ci insegna S.Paolo (1 Cr, 15); ma senza la Santa Croce non poteva esservi la Resurrezione.  “Perché dunque tanta paura di prenderti la croce che è la via del cielo?  Nella croce è la salvezza, nella croce la vita, nella croce il baluardo contro i nemici. Nella croce la sorgente delle soavità celesti, la forza dell’anima, la gioia dello spirito.  Nella croce la pienezza della virtù, nella croce la perfezione della santità. Nessuna possibilità di salvezza per l’anima, nessuna speranza di vita eterna fuorché nella croce” (Imitazione di Cristo, cap. XII del libro secondo: ‘La via regia della Santa Croce’, B.U.R., Milano, 1958, tr. it. di Carlo Vitali, p. 81).

[38] I concetti trattati nell’ultimo periodo li ho riassunti da ST, III, q. 48, a. 1 e 2, 6.

[39] ST, III, q. 62, a. 5 e ad 2.

[40] D, 187.

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