Sessant'anni dalla fine del Concilio -- IV : il decreto 'Unitatis redintegratio', 3.
Sessant’anni dalla fine del Concilio
Ecumenico Vaticano Secondo - IV : Il decreto ‘Unitatis redintegratio’
sull’ecumenismo include le comunità acattoliche nella Chiesa di Cristo – di Paolo
Pasqualucci.
[Eccomi di nuovo a proporre capitoli del mio libro Unam Sanctam.Studio sulle deviazioni dottrinali nella Chiesa cattolica del XXI secolo, Solfanelli, Chieti, 2013. In questa quarta puntata riprendo il discorso sul concetto di Chiesa di Cristo proposto dal Concilio, notoriamente “ecumenico”, tale cioè da includere, oltre alla Chiesa cattolica anche le “comunità acattoliche” ossia le comunità cristiane scismatiche ed eretiche. Tale “inclusione” dalle peculiari caratteristiche risulta collegando all’art. 8 della Lumen gentium il Decreto sull’ecumenismo, in particolare il suo art. 3. Il cap. II del mio libro è per l’appunto dedicato a questo articolo del suddetto decreto (pp. 43-53 dell’opera). Insomma, il “subsistit in” di LG 8, si comprenderebbe appieno grazie all’art. 3 di Unitatis redintegratio. Vediamo dunque questo testo, uno dei testi-chiave del Concilio per l’eleborazione dell’ecumenismo sincretistico e non conforme alla Tradizione, propalato dal Concilio medesimo]
[Nota tecnica : per un difetto che non riesco ad eliminare il mio vecchio laptop mi stampa il post in triplice copia].
* * *
Cap. II.
“UNITATIS REDINTEGRATIO” 3, CHE SANZIONA L’INCLUSIONE DELLE COMUNITÀ
ACATTOLICHE NELLA CHIESA DI CRISTO
Sommario
: 1.
Gli Acattolici diventano in quanto tali “strumenti di salvezza”. 2. Una
nuova ed inaccettabile dottrina del Battesimo, dovuta al cardinale Bea. 3. I
Cattolici colpevoli della separazione, come gli Acattolici! 4. Un’unità che trascende la Chiesa
cattolica. 5. Comunione e salvezza piene e non piene, nella
confusione dei concetti. 6. Quante “Chiese” ci sono, per il Vaticano II?
1. Gli Acattolici diventano in quanto tali
“strumenti di salvezza”.
L’articolo
3 di questo decreto concerne “le relazioni dei fratelli separati con la Chiesa
cattolica”. Dopo aver dichiarato il concetto del tutto nuovo, secondo il quale
essi si trovano “in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa
cattolica”, onde il movimento ecumenico deve mirare appunto a rimuovere gli
impedimenti ad una “piena comunione” con essa, così specifica:
“Inoltre, tra gli
elementi o beni dal complesso dei quali la stessa Chiesa è edificata e
vivificata, alcuni, anzi parecchi ed eccellenti, possono trovarsi fuori dei
confini visibili di essa: la parola di
Dio scritta, la vita della grazia, la fede, la speranza e la carità, e altri
doni interiori dello Spirito Santo ed elementi visibili. Tutte queste cose, le quali provengono da
Cristo e a lui conducono, appartengono a buon diritto [iure] all’unica
Chiesa di Cristo” (UR, 3.2).
Il
testo, dopo aver elencato gli “elementi o beni” che “edificano e vivificano la
Chiesa cattolica” e che possono ritrovarsi anche fuori dai confini visibili di
essa, dando quindi un contenuto più preciso agli “elementi” di cui all’art. 8.2
LG, afferma che essi “appartengono a buon diritto all’unica Chiesa di Cristo”. Ma ciò non significa, allora, confermare che
gli “elementi” di cui al detto articolo fanno parte della Chiesa di Cristo
allo stesso modo della Chiesa cattolica, che sicuramente vi
appartiene “di diritto”? E quindi che la
Chiesa cattolica è inclusa sì nella Chiesa di Cristo ma sempre come parte
di essa?
Il paragrafo
successivo, tra i suddetti “elementi” include anche “non poche azioni sacre”,
terminologia che indica, come sappiamo, la Sacra Liturgia. In queste “Chiese o comunità” non cattoliche
esistono, ci si dice, “azioni sacre” che “possono senza dubbio produrre
realmente la vita della grazia, e si devono dire atte ad aprire accesso alla
comunione della salvezza [ingressum in salutis communionem]” (UR,
3.3). Da affermazioni del genere, come
non ricavare l’idea che le liturgie degli Ortodossi e le “cene” dei Protestanti
sono, per il Concilio, “atte ad aprire accesso alla comunione della
salvezza”? Non si giustifica forse su
passaggi del genere l’ormai inflazionata pratica delle liturgie “ecumeniche”,
nelle quali tutti i culti sono spesso rappresentati, persino quelli non
cristiani, per quanto oscura possa essere l’espressione “accesso alla comunione
della salvezza”? Includendovi le “azione
sacre”, il testo mostra che gli elementi o beni di cui sopra sono quelli delle
comunità, perché “l’azione sacra” che ha luogo mediante la liturgia non può
essere individuale.
Ma la conclusione
posta alla fine di tutti questi chiarimenti è ancora più forte: nonostante le loro “carenze”, le “Chiese e
comunità separate” vengono utilizzate dallo Spirito Santo “come strumenti di
salvezza, la cui forza deriva dalla stessa pienezza della grazia e della
verità, che è stata affidata alla Chiesa cattolica [Iis enim Spiritus
Christi uti non renuit tamquam salutis mediis, quorum virtus derivatur ab ipsa
plenitudine gratiae et veritatis quae Ecclesiae catholicae concredita est]”(UR,
3.4). Non singoli loro componenti, nonostante appartengano a comunità
eretiche e scismatiche, ma le comunità stesse, in quanto tali. Come
sottrarsi all’impressione vivissima che qui le “Chiese e comunità separate”
(che, in quanto utilizzate dallo Spirito Santo come “strumenti di salvezza”
derivano la loro “forza” addirittura “dalla stessa pienezza della grazia e della verità affidata alla Chiesa cattolica”)
risultano essere “strumenti di salvezza” proprio in quanto tali,
contro tutto l’insegnamento precedente della Chiesa? Se l’appartenenza alla Chiesa di Cristo fa sì
che anche le comunità e Chiese dei non cattolici (le “Chiese” che si
autodefiniscono “ortodosse” sono quelle dei grecoscismatici, e “Chiese” sta
solo per tradizionale titolo d’onore, mantenuto dalla Chiesa cattolica) siano
da considerarsi “strumenti di salvezza”, sia pure gravati da qualche “carenza”
(da scisma ed eresia, avversione inveterata per il Papa, per “Roma”, etc.), che
cosa ne è del dogma di fede già ricordato, secondo il quale, al di fuori della
Chiesa cattolica non può esserci salvezza, se non nei casi individuali di
battesimo di desiderio? Salvezza ad opera dell’azione insondabile dello Spirito
Santo, nonostante l’appartenenza dei salvati ad una setta eretica e/o
scismatica (o ad un’altra religione, non rivelata) e non certo grazie a
questa appartenenza?
Del resto, bisogna pur
dire che il semplice credente non riesce a comprendere come possano essersi
conservate la “vita della grazia” e le tre virtù teologali (fede, speranza e
carità) non presso individui singoli
(cosa certamente possibile con l’aiuto dello Spirito Santo, che scruta nell’intimo e conosce i cuori) ma presso comunità
eretiche e scismatiche in quanto tali, pervicacemente ribelli all’autorità
dell’unica legittima Chiesa di Cristo.
Inoltre, il semplice credente vorrebbe sapere quali possibilità di
“santificazione” e quali “verità” siano racchiuse nelle dottrine e nel modo di
vivere di queste comunità eretiche e scismatiche fieramente avverse al Romano
Pontefice e a tutto ciò che è cattolico, nelle quali molti negano il concetto
stesso di “santificazione” (preferendovi il blasfemo “pecca fortiter sed crede
fortius” di Lutero, pecca fortemente ma credi ancor più fortemente o
l’equivalente “simul iustus et peccator”) e propugnano una nozione del tutto
soggettiva della verità, compresa quella rivelata.
Per ciò che riguarda
in particolare i Protestanti, ripropongo sinteticamente i loro “limiti” come
ricordati da Mons. Gherardini, notoriamente uno dei massimi conoscitori delle
loro dottrine, in campo cattolico:
nessuna
incompatibilità fra vita cristiana ed “eticità” dell’aborto, del divorzio e
delle “diversità”; soppressione d’almeno
cinque sacramenti; concezione del sacramento con funzione di segno, ma privo
della funzione “produttiva della grazia che significa”; riduzione dell’eucaristia alla celebrazione
del “testamento” di Cristo, che ha termine con la fine della celebrazione stessa; culto della Sacra Scrittura frastagliato da
idee contrastanti sulla sua reale o attuale (anzi attualistica,
quella dell’”autopistía”) ispirazione;
assenza d’un vero culto della Madonna così come ai Santi, perché esso
sarebbe un furto a Dio e a Cristo; […] non solo assenza, ma negazione
dell’ufficio papale e, anche là dove vige [presso gli Anglicani], l’episcopato
è ben altro rispetto a quello derivante dalla successione apostolica [etc.]”[1].
2. Una nuova ed inaccettabile dottrina del
Battesimo, dovuta al cardinale Bea.
Ma
l’elevazione delle “Chiese e comunità separate” a “strumenti di salvezza” non
si giova (è stato notato) anche di quella che sembra essere una sostanziale
riformulazione della dottrina del battesimo, rispetto a quanto enunciato ad
esempio dalla Mystici Corporis ?
Infatti, in UR, 3.1 si scrive che i “fratelli separati” devono
considerarsi “cristiani” perché con il battesimo sarebbero stati incorporati
a Cristo: “Nondimeno, giustificati
nel battesimo dalla fede, sono incorporati a Cristo [Nihilominus,
iustificati ex fide in baptismate, Christo incorporantur] e perciò sono a
ragione insigniti del nome di cristiani” (UR, 3.1). Poche righe prima la loro posizione era stata
definita (vedi supra, § 1) come quella di chi si trova in “una certa
comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica”. Ma che significato ha qui l’ “esser
incorporati a Cristo”, riferito ai non cattolici? Semplicemente questo, secondo logica: se il
Battesimo ricevuto nelle loro sette li “incorpora a Cristo”, allora vengono in
tal modo a far parte della “Chiesa di Cristo”.
E se il battesimo degli eretici e scismatici li fa entrare in quanto
tali nella Chiesa di Cristo, allora quest’ultima è più ampia della
Chiesa cattolica. Con tale dottrina, i
“fratelli separati” possono esser annoverati tra i membri della Chiesa,
indipendentemente dalla professione della vera fede e dall’ubbidienza ai
legittimi Pastori!
Quest’idea
dell’”incorporazione a Cristo” anche dei “fratelli separati”, il testo del
Concilio sembra fondarla sul Magistero precedente grazie a un rimando in nota
al Concilio di Firenze del 1439, del
quale si cita un passo dal famoso decreto Pro Armenis che ristabilì
l’unità con la Chiesa Armena. Il rimando
è posto subito dopo le parole “sono incorporati a Cristo”. Ma, andando a rileggere che cosa è scritto in
quel decreto si vede che esso illustra (ad edificazione degli Armeni) tutti e
sette i Sacramenti, come debbano intendersi per i veri Cattolici, senza far
riferimento alcuno al Battesimo degli eretici e al suo significato: “Primo di tutti i sacramenti è il Battesimo,
porta della vita spirituale: grazie ad
esso diveniamo membra di Cristo e parte del Corpo della Chiesa [per ipsum
enim membra Christi ac de corpore efficimur Ecclesiae]”[2]. Coloro che vengono “incorporati a Cristo”,
sono qui i Cattolici non gli eretici e gli scismatici. È legittima, allora, l’estensione del
concetto a questi ultimi? Sembra
proprio di no, se si deve mantenere la dottrina della Chiesa, proposta da
ultimo nella Mystici Corporis.
Che così insegna:
“Tra
i membri della Chiesa bisogna annoverare esclusivamente quelli che hanno
ricevuto il lavacro di rigenerazione [il Battesimo] e professano la vera
fede né dalla compagine di questo corpo si separarono disgraziatamente da
sé stessi né per gravissime colpe ne furono separati dalla legittima
autorità”(Corsivi miei). E l’esclusione
dalla Chiesa vale per tutti gli eretici e scismatici pubblici, anche se
in buona fede (eretici e scismatici in senso materiale, cioè non per via
della loro intenzione ma a causa del contenuto oggettivamente infedele di ciò
che professano). Questi ultimi, però, a
differenza degli eretici e scismatici in senso formale (che cioè
vogliono scientemente esserlo, come un Fozio, un Lutero, un Calvino), sono, per
la loro disponibilità a professare la vera fede nella vera Chiesa (votum
Ecclesiae), “ordinati da un certo inconsapevole desiderio ed anelito [che
solo lo Spirito Santo conosce] al mistico Corpo del Redentore”. Pertanto, pur essendo fuori della
compagine visibile di questo corpo, possono appartenervi invisibilmente e per
questa via conseguire la giustificazione e la salvezza. Essi, tuttavia, restano “privi di quei tanti
doni e aiuti celesti che solo nella Chiesa cattolica è dato di godere”. Per tal motivo Pio XII, come i suoi
predecessori, li invitava “ad assecondare gli impulsi interni della grazia e a
sottrarsi al loro stato, in cui non possono essere sicuri della propria
salvezza” perché “chi abbia ricusato di ascoltare la Chiesa, deve, secondo l’ordine
di Dio, ritenersi come etnico e pubblicano [Mt 18, 17]” cioè come nemico e
pubblico peccatore: “Rientrino perciò nella cattolica unità [Ingrediantur
igitur catholicam unitatem] e tutti uniti a Noi [al Pontefice] nell’unica
compagine del Corpo di Gesù Cristo, vengano con Noi all’unico Capo nella
società di un gloriosissimo amore”[3].
Si vede chiaramente
che qui si ha un invito a ritornare all’ovile, con assunzione diretta
della responsabilità della scelta che, precisa poi il Papa, deve essere
assolutamente libera da costrizione (sponte libenterque). Il paterno invito è pertanto rivolto a chi si
trova del tutto fuori della Chiesa Cattolica Romana, per quanto ad essa ordinato
in voto dal Battesimo. Fuori, perché solo la Chiesa Cattolica
Romana è l’unica Chiesa di Cristo:
“Pertanto a definire e descrivere questa verace Chiesa di Cristo (che è
la Chiesa santa, cattolica, apostolica, romana), nulla si trova di più nobile,
di più grande, di più divino che quell’espressione con la quale essa viene
chiamata “il Corpo mistico di Gesù Cristo”; espressione che scaturisce e quasi
germoglia da ciò che vien frequentemente esposto nella Sacra Scrittura e nei
Santi Padri”[4].
La mutazione
dottrinale introdotta dal Concilio, sembra sia dovuta in particolare al
cardinale Bea, che, sull’Osservatore Romano del 27 aprile 1962,
interpretava la Mystici Corporis come se “l’ordinazione al mistico
corpo” dei “separati” dovesse intendersi (in modo nuovo) quale appartenenza,
onde la loro situazione di salvezza non sarebbe diversa da quella dei cattolici[5].
Al dettato
sconcertante dell’art. 3 UR va poi aggiunto il noto passo di UR 15.1, nel
quale, illustrando “la tradizione liturgica e spirituale degli orientali”,
meglio noti come Ortodossi (grecoscismatici), si presenta la “celebrazione
dell’Eucaristia” quale loro contributo alla crescita della “Chiesa di Dio”(Ecclesia
Dei), termine anch’esso tradizionale, che indica sempre la “Chiesa di
Cristo”: “Perciò con la celebrazione dell’eucaristia del Signore in queste
singole Chiese, la Chiesa di Dio è edificata e cresce, e con la concelebrazione
si manifesta la comunione tra di esse [Proinde per celebrationem
Eucharistiae Domini in his singulis Ecclesiis, Ecclesia Dei aedificatur et
crescit, et per concelebrationem communio earum manifestatur]”. Se la “Chiesa di Dio”, che è la “Chiesa di
Cristo”, è “edificata e cresce” ad opera di queste “Chiese” e la
“concelebrazione” ne manifesta “la comunione”, allora esse ne sono parte, così
come ne è parte la Chiesa cattolica (Apostolica, Romana). Il passo appare per
la verità di un’estrema chiarezza nell’affermare che “queste singole Chiese”
non cattoliche concorrono in quanto tali “all’edificazione e alla crescita
della Chiesa di Dio”. L’espressione “Chiesa di Dio”, ci informa in nota lo
stesso Concilio, è tratta da S. Giovanni Crisostomo, morto verso il 407 AD,
qualche secolo prima dello scisma bizantino:
era termine tradizionale, risalente addirittura all’Antico Testamento
(vedi infra, cap. IV, § 2), per indicare la Chiesa in quanto tale, nella
sua unità, e quindi la Chiesa di Cristo, nella quale era già riconosciuto il
Primato di Pietro[6].
3. I Cattolici colpevoli della separazione, come
gli Acattolici!
Ma in che senso il Concilio usa il termine
“Chiesa di Dio”? Esso compare anche nel Proemio
di UR (UR 1) oltre che in UR 3.1. Nel Proemio,
in modo del tutto inaspettato, le divisioni tra i Cristiani sembrano poste
tutte sullo stesso piano, tutte causa allo stesso modo di un unico
scandalo, come se non ci fosse stata sempre un’unica Chiesa di Cristo – quella
fondata sul primato di Pietro – dalla quale sono state le varie sette, eretiche
e scismatiche, via via a staccarsi, per colpa loro (come recita la famosa frase
di S. Cipriano di Cartagine: “sono stati loro a staccarsi da noi, non noi da
loro”). Inoltre, questo Proemio afferma che presso “i cristiani tra loro
separati”(in Christianos inter se disiunctos), il Signore negli ultimi
tempi “ha cominciato a effondere l’interiore ravvedimento e il desiderio di
unione” (UR, 1.2), includendosi evidentemente anche i Cattolici tra i cristiani
“separati” che si stavano ravvedendo, dato che il testo non dice “da noi
[Cattolici] separati”, come avrebbe dovuto, per mantenere la continuità con la
dottrina precedente! All’epoca ci
sarebbe stato dunque un generale “movimento che si allargava di giorno in
giorno per il ristabilimento dell’unità di tutti i cristiani” (ivi). Non so se
corrisponda al vero il giudizio qui espresso sulla forza del movimento
ecumenico, che era in realtà di élite e di origine protestante-teosofica. Il
testo sembra caricare alquanto le tinte.
Ma il punto più importante è un altro: l’ecumenismo non è qui inteso in
vista del ritorno alla Chiesa cattolica di eretici e scismatici (come
secondo la dottrina tradizionale) ma per “il ristabilimento dell’unità di tutti
i cristiani [ad omnium Christianorum unitatem restaurandam]”,
ristabilimento che non contempla alcun “ritorno”. Da siffatta nozione di “ristabilimento”, come
non ricavare l’impressione che, per UR 1.2, l’unità della Chiesa al momento non
c’era, che la Chiesa Cattolica (Apostolica, Romana) non realizzava in sé
stessa l’unità della vera ed unica Chiesa di Cristo! L’unità non c’era e bisognava ristabilirla,
non auspicando la conversione ed il ritorno dei “separati” ma rifondando una
“Chiesa di Dio veramente universale”, come se la Chiesa Cattolica Romana al
momento esistente non rappresentasse in quanto tale la “Chiesa di Dio” in tutta
la sua universalità!
Il concetto espresso
da UR 1.2 è ripetuto in modo ancor più forte da UR 24.2, ultimo articolo del
Decreto, ove si esalta, come motivo trainante del Concilio, “questo santo
proposito di riconciliare tutti i cristiani nell’unità di una sola e unica
Chiesa di Cristo [hoc sanctum propositum reconciliandi Christianos omnes in
unitate unius unicaeque Ecclesiae Christi]”. Non esisteva ancora, dunque, una “sola ed
unica Chiesa di Cristo”, veramente universale.
Bisognava crearla attraverso la “riconciliazione di tutti i Cristiani”
in un’unità superiore, nuova!
4. Un’unità che trascende la Chiesa Cattolica.
Consideriamo bene il
testo di UR 1.2. Chi partecipa a questo
movimento ecumenico “per l’unità”? “Tutti quelli che invocano la Trinità e
confessano Gesù come Signore e Salvatore, e non solo presi a uno a uno, ma anche
riuniti in comunità [sed etiam coetibus congregati], nelle quali hanno
ascoltato il Vangelo e che essi chiamano la Chiesa loro e la Chiesa di
Dio. Quasi tutti però, anche se in modo
diverso, aspirano a una Chiesa di Dio una e visibile, che sia veramente universale
[ad Ecclesiam Dei unam et visibilem adspirant, quae sit vere
universalis] e mandata al mondo intero, perché questo si converta al
Vangelo e così si salvi per la gloria di Dio” (UR, 1.2). La descrizione delle caratteristiche dei
Cristiani che partecipano al movimento ecumenico appare talmente generica da
potersi applicare, come ognun può
vedere, a qualsiasi tipo di “denominazione cristiana”, come si dice oggi,
copiando dai media anglosassoni. E a
cosa aspira tale movimento, secondo il Concilio? I suoi membri aspirano (adspirant),
cattolici compresi, ad una “Chiesa di Dio una e visibile, che sia veramente
universale”! E se vi aspirano, essa
evidentemente ancora non c’è. Questa
“Chiesa di Dio” così intesa è altra cosa rispetto alla “Chiesa di Cristo”? In realtà essa è solo un ulteriore nome
tradizionale della “Chiesa di Cristo”, da intendersi però quest’ultima come
esposta da UR 3, ossia della Chiesa di Cristo che ricomprende la Chiesa
cattolica e tutte le “Chiese e comunità” cristiane, l’una e le altre in diverso
modo “strumenti di salvezza”. Questa
“Chiesa di Cristo” costituisce nello stesso tempo un obiettivo ancora da
realizzare nella sua pienezza![7]
Queste sono
notoriamente le gravi questioni poste dal plesso LG 8 – UR 3 ed addentellati. E
che le questioni siano gravi lo dimostra, a mio avviso, anche il fatto che
l’idea di Chiesa racchiusa in LG 8 non può appoggiarsi ad alcuna delle
precedenti definizioni della Chiesa. Se
si guarda lo schema De Ecclesia originario, l’Aeternus Unigeniti
“scartato” in Concilio, si vede che la definizione della Chiesa si premura di
dire, senza tanti giri di parole, che la sola ed unica Chiesa di Cristo è
la Chiesa Cattolica Romana,
appoggiandosi all’autorità del Simbolo Apostolico, di quello
Niceno-Costantinopolitano, del Concilio di Trento, di quello Vaticano I,
dell’Enciclica Mystici Corporis, dell’Enciclica Humani generis etc., e stabilendo questa chiarissima
connessione: La Chiesa come società è il Corpo Mistico di Cristo –
La Chiesa Cattolica romana è il Corpo Mistico di Cristo, l’unica che abbia
diritto al titolo di “Chiesa”[8]. Stop.
Quale riferimento alle
fonti del Magistero troviamo, invece, in LG, 8.2, quale pezza d’appoggio per il
“subsistit in”? Nessuna. Solo un rinvio ai Concili tridentino e
vaticano I, per ricordare che la Chiesa cattolica (nella quale “sussiste”
quella di Cristo) è, sull’autorità di quei Concili, “governata dal successore
di Pietro e dai vescovi in comunione con lui” (vedi nota n. 13 della LG). E il lettore disattento potrebbe anche
credere che l’idea della Chiesa di Cristo che “sussiste nella” Chiesa cattolica
sia già menzionata in quei due fondamentali concili dogmatici: il che non è,
nel modo più assoluto.
Ma chi difende
l’ortodossia di UR 3 oppone in genere quanto vi si trova nell’ultimo e spesso citato
paragrafo di questo articolo.
5. Comunione
e salvezza piene e non piene, nella confusione dei concetti.
Dopo
aver detto che le “Chiese e comunità separate” sono usate anch’esse dallo
“Spirito di Cristo” come “strumenti di salvezza”, il Concilio sente il bisogno
di precisare, quasi ad attenuare l’impatto della straordinaria
affermazione. Rileva, quindi, che le
“comunità e Chiese” dei separati “non godono di quella unità che Gesù Cristo ha
voluto elargire a tutti quelli che ha rigenerato e vivificato insieme per
formare un solo corpo in vista di una vita nuova, unità attestata dalla sacra
Scrittura e dalla veneranda tradizione della Chiesa” (UR 3.5). E dove la si trova quest’unità,
indispensabile alla salvezza? Nella
Chiesa cattolica.
“Infatti, solo per
mezzo della cattolica Chiesa di Cristo, che è il mezzo generale della salvezza,
si può ottenere tutta la pienezza dei mezzi di salvezza. In realtà noi crediamo che al solo Collegio
apostolico con a capo Pietro il Signore ha affidato tutti i tesori della Nuova
Alleanza, al fine di costituire l’unico corpo di Cristo sulla terra, al quale
bisogna che siano pienamente incorporati tutti quelli che già in qualche modo
appartengono al popolo di Dio”[9].
In molti hanno sempre
ritenuto che questo fosse un testo chiaro, nel quale si dice finalmente e per
due volte che solo ad opera della Chiesa cattolica è possibile ottenere
la salvezza. Ma osserviamo il testo
attentamente. Non godendo dell’unità
“elargita” da Cristo ai battezzati, attestata dalla Sacra Scrittura e dalla
Tradizione della Chiesa, ne consegue che, come “strumenti di salvezza”, le
“Chiese e comunità” dei “separati” non possono offrire “tutta la pienezza dei mezzi della salvezza”. Domanda:
la pienezza dei mezzi di salvezza implica la salvezza o la pienezza
della salvezza? Apparendo privo di senso
il concetto di una salvezza non piena (perché la salvezza si dà o non si
dà, non può essere parziale, non esiste il Paradiso a metà), bisogna allora
dire che “la pienezza dei mezzi della salvezza” è concetto che implica la
salvezza tout court, senza distinzioni di pieno e non pieno, completo e
parziale. Ma con questa ineccepibile
conclusione che cosa resta della qualità di mezzi di salvezza forzatamente non
pieni, a causa delle loro “carenze”, attribuita ai “separati”? Se la salvezza non può che essere piena,
come possono essere considerate “strumenti di salvezza” quelle “Chiese e
comunità” che dispongono di “strumenti di salvezza” per definizione imperfetti
e quindi esclusi dalla “pienezza”? Strumenti di salvezza imperfetti o non pieni
daranno una salvezza imperfetta o non piena.
Ma questo non si può concedere perché significherebbe ammettere il
concetto di una salvezza non piena, cosa
assurda, come si è detto. In
alternativa, bisognerebbe ammettere, allora, che anche gli strumenti di
salvezza non pieni possono produrre la salvezza tout court, ossia piena: cosa parimenti assurda e inconcepibile.
Voler considerare le
sette di scismatici ed eretici quali “strumenti di salvezza” non porta dunque
ad una contraddizione che sembra insanabile, circa il rapporto tra la nozione
di mezzi della salvezza e salvezza? Ma
procediamo. La pienezza dei mezzi della
salvezza spetta dunque solo alla
Chiesa cattolica. Veramente il testo non
dice sic et simpliciter: “Chiesa
cattolica” o, ancor meglio, “Chiesa Cattolica Romana”; dice: “cattolica Chiesa di Cristo”(per solam
enim catholicam Christi Ecclesiam).
C’è una differenza? Forse no. O forse sì. Ci può essere, a mio avviso,
nel senso che la “cattolica Chiesa di Cristo” può indicare la Chiesa cattolica
in quanto è la componente “cattolica” della Chiesa di Cristo, quella
componente che è appunto “mezzo generale” (non l’unico mezzo!) della
salvezza perché possiede “la pienezza dei mezzi della salvezza”, al contrario
delle “Chiese e comunità” dei “separati”, che pur farebbero parte della Chiesa
di Cristo. In tal modo, il mezzo di
salvezza rappresentato dalla Chiesa cattolica non sembra affatto inteso come
unico ed esclusivo, l’unico in assoluto, sulla linea della Mystici
Corporis. Esso sarebbe, invece,
“generale” rispetto alla parzialità dei mezzi di salvezza pertinenti ai
“separati”. È solo in quanto “mezzo
generale [e non unico!] della salvezza” che la Chiesa cattolica ha
“tutta la pienezza dei mezzi della salvezza”.
E secondo me nemmeno
l’art. 14 di LG apporta il chiarimento necessario, il raggio di sole che
disperde tutte le nubi. È l’articolo nel
quale, rivolgendosi espressamente ai Cattolici, il Concilio afferma che la
Chiesa “peregrinante”, fondata da Cristo, è “necessaria alla salvezza”. Infatti, “Egli stesso, inculcando
espressamente la necessità della fede e del battesimo (cfr. Mc 16,16; Gv 3,5),
ha nello stesso tempo confermato la necessità della Chiesa [necessitatem
Ecclesiae], nella quale gli uomini entrano per il battesimo come per una
porta. Perciò non possono salvarsi [salvari non possent] quegli uomini,
i quali, pur non ignorando che la Chiesa Cattolica è stata fondata da Dio per
mezzo di Gesù Cristo come necessaria [ut necessariam], non vorranno
entrare in essa o in essa perseverare”.
Si ricorda qui Mc
16,16, nel quale Nostro Signore afferma categoricamente: “Chi crederà e si battezzerà, sarà salvo; chi
in verità non crederà, sarà condannato”.
E Gv 3,5, che ribadisce in modo
più sfumato il concetto: “Chi non sarà
rinato con l’acqua e lo Spirito Santo non può entrare nel Regno di Dio”. Tuttavia il testo si limita a dire che la
Chiesa Cattolica è “necessaria” alla salvezza; non precisa che solo essa è
necessaria ed indispensabile. È vero che
cita due perìcopi che fanno emergere l’esclusività e l’unicità della Chiesa
Cattolica per la salvezza. Ma perché
dice poi che quelli che rigettano la Chiesa o i transfughi “non potrebbero
salvarsi”? La traduzione italiana recita
“non possono”; quella francese, più correttamente, “ne pourraient pas être
sauvés [non potrebbero esser salvati]”, dato che l’originale latino usa
l’imperfetto congiuntivo (non possent).
Nostro Signore è stato categorico.
Ha detto “condemnabitur”, traduzione letterale del greco katakrithésetai:
“sarà condannato”; non ha detto: “sarebbe condannato”.
Ma, nonostante
l’evidente tortuosità della formulazione di UR 3.5 ed i gravi problemi
interpretativi che essa fa sorgere, non potremmo considerare ugualmente la
“pienezza” ivi proposta come l’equivalente dell’unicità ed esclusività
insegnata ad esempio nella Mystici Corporis? Si potrebbe, a mio modesto avviso, forzando
il testo, se non fosse per il fatto che “Chiese e comunità” non
cattoliche sono senza alcun dubbio incluse, come si è visto, nella Chiesa di
Cristo e come tali considerate “strumenti di salvezza”, sia pure afflitti da
“carenze”. Ed una controverità teologica
affermata in modo così netto, mi sembra impossibile da aggirare.
Stando così le cose,
non mi sembra che l’uso dell’avverbio “solo” apporti la chiarezza
necessaria. Ciò si vede, a mio avviso,
anche dall’ultimo passaggio di UR 3.5. Tutti i tesori della Nuova Alleanza (=
tutta la pienezza dei mezzi della salvezza) sono stati affidati al solo
Collegio apostolico con a capo Pietro (il testo evita però di precisare: “e quindi alla sola Chiesa Cattolica
Apostolica Romana con a capo i successori di Pietro”). Ma al “Corpo di Cristo sulla terra”, cioè
alla Chiesa militante (secondo la definizione tradizionale), come si viene “incorporati”? Da “ordinati in voto” per opera della Grazia,
che ritornano alla vera e unica Chiesa dopo essersi pentiti e aver fatto abiura
dei propri errori? No. Non si ha alcun ritorno o conversione. L’eventuale conversione è concepita come una piena
incorporazione, che è cosa ben diversa:
il “separato” viene incorporato “pienamente”, dal momento che era già
stato incorporato non pienamente con il battesimo (vedi supra, §
2). In quanto già “incorporati” non
pienamente (in “comunione non piena”) “i separati” appartenevano già “in
qualche modo” al “popolo di Dio” ossia alla Chiesa di Cristo (nel cap. II della
Lumen gentium, la Chiesa visibile è concepita come “popolo di
Dio”).
Come ha sottolineato
Mons. Gherardini, il linguaggio di LG e UR, strettamente connessi tra di loro,
oltre che al Decreto Dignitatis
humanae sulla libertà religiosa, “è tutto all’insegna del vago: abbonda l’uso dell’aggettivo “quidam”[un
certo, un tale, qualche e simili] che è espressione di radicale insicurezza, e
si presume con esso di determinare perfino l’azione dello Spirito Santo o di
predisporre un asserto dottrinale (“quaedam in Spirito Sanctu coniunctio [una
certa unione nello Spirito Santo]”); “in quadam cum Ecclesia catholica
coniunctione [in una certa unione con la Chiesa Cattolica]”; “quaedam immo
plurima et eximia elementa extra visibilia Ecclesiae catholicae saepta [”alcuni
molteplici e persino ottimi elementi al di fuori del recinto della Chiesa
cattolica”]; “ad populum Dei aliquo modo pertinent [appartengono in qualche
modo al popolo di Dio]”[10].
6. Quante “Chiese” ci sono, per il Vaticano II ?
Tutto
ciò considerato, possiamo dire che UR 3.5 risolva le ambiguità e le
contraddizioni presenti nella definizione (non dogmatica) della Chiesa data dal
Vaticano II? A mio avviso, esso sembra
confermare l’interpretazione secondo la quale la “Chiesa di Cristo”, nelle
intenzioni del Concilio, include sia la Chiesa cattolica che le “Chiese e
comunità” dei “separati”. La
costituzione Lumen gentium doveva
definire la natura della Chiesa, in modo da completare quanto definito come
articolo di fede dal Vaticano I sulla figura del Pontefice (dogma
dell’infallibilità pontificia quando il Papa dà una definizione solenne in
materia di fede e costumi). Ma essa
sembra aver partorito solo un’enorme confusione tra Chiesa di Dio, Chiesa di
Cristo, Chiesa cattolica, Comunità e Chiese separate, Popolo di Dio; confusione
che coinvolge anche il concetto della salvezza.
Questa è almeno la sensazione di molti credenti, costretti a vedere ora
nella Chiesa nient’altro che il terreno
“Popolo di Dio” in “comunione” o “federazione” con tutte le
“denominazioni” cristiane (e non), con il Papa come capo carismatico, “uomo di
pace”, impegnato in frequenti e mediatici “viaggi di pace”, che garantisce a tutti
il Paradiso, perché Dio è Amore e l’Inferno è vuoto.
“L’introduzione del
concetto di “piena comunione” è stato decisivo per elevare le confessioni
cristiane a una condizione diversa da quella, molto più netta, che la dottrina
cattolica aveva sempre riservato a tutto ciò che cattolico non è. Tanto per intendersi: non si sarebbe fatto un Concilio come quello
di Trento, se non si fosse ritenuta gravemente erronea la posizione di Lutero e
del luteranesimo. Ora, leggendo alcuni
dei documenti del Vaticano II, si ricava l’impressione di una nuova
ecclesiologia, nella quale si avanza una sorta di “federazione” delle chiese
cristiane, all’interno della quale la Chiesa cattolica si riserva una posizione
di “pienezza”, ma accanto e insieme al parterre di tutte le altre espressioni
della riforma protestante. A questo
scopo è stata coniata l’espressione “Chiesa di Cristo”, la cui ricomposizione
logica con la nozione di “Chiesa cattolica” risulta molto complicata. Si tratta della stessa cosa, o di
un’altra? Quante “Chiese” ci sono,
allora?”[11].
In realtà, come si è
visto, l’espressione “Chiesa di Cristo” preesisteva, unitamente agli altri
termini tradizionali. Ma è vero che essa
sembra qui una novità perché utilizzata in un senso “allargato”, in passato sconosciuto. E proprio questa sembra esser stata la causa
prima della confusione: l’aver voluto
estendere la definizione della “Chiesa di Cristo” sino ad includervi tutti gli
acattolici, giocando sull’idea di pienezza e non pienezza, comunione piena e
non piena o imperfetta. Altro motivo di
confusione deriva, io credo, dall’aver poi voluto identificare la Chiesa più
che con il Corpo Mistico di Cristo con il “popolo di Dio”, come se la parte
terrena del Corpo Mistico rappresentata dal popolo dei fedeli potesse diventare
il Tutto. A proposito dell’idea della “pienezza” (plenitudo), bisogna
ricordare che essa ricorre in S.Paolo, ma di sicuro senza le sfumature
indefinibili ed ambigue ad essa attribuite dal Concilio. Si cita sempre, a questo proposito, Ef 1, 23,
uno dei passi fondamentali per il concetto della Chiesa come Corpo Mistico di
Cristo, nel quale l’Apostolo ci insegna che Dio “tutto pose sotto i suoi piedi
[di Cristo], e Lui costituì capo supremo della Chiesa, che è il corpo di Lui,
la pienezza [plenitudo; pléroma, in greco] di Colui che tutto completa
in tutti”. La Chiesa “è piena di Cristo
che tutto riempie”. Come “corpo di Lui”
coincide perfettamente con Lui, ne è spiritualmente “la pienezza, dato che i
membri sono ciò che completa, il complemento [pléroma, di nuovo] del
Capo, come affermava S.Giovanni Crisostomo”[12]. Come inteso da S. Paolo e dai Padri della
Chiesa, il concetto della “pienezza” della Chiesa di Cristo in Cristo, in
quanto Corpo Mistico di Cristo, non lascia evidentemente spazio alcuno alle unioni
o comunioni meno piene o imperfette che dir si voglia con coloro che
si trovano fuori della Chiesa.
Tutto ciò premesso,
studiamo adesso in parallelo il primo capitolo dello schema sulla Chiesa
ripudiato, Aeternus Unigeniti, e il primo capitolo della LG, che lo ha
rielaborato, dedicati entrambi a definire il concetto della Chiesa. Solo sobbarcandosi a questo lavoro ingrato e
faticoso sui testi, credo si possa riuscire a verificare in maniera adeguata
l’esistenza o meno di una continuità
nella riforma della dottrina inaugurata dal Vaticano II.
[1]
D, 203-4. L’autopistía è la fede
prodotta dal soggetto stesso, la fede del tutto individualistica dei
Protestanti, quella del “libero esame” individuale delle Scritture.
[2] DS
696/1314.
[3]
AAS 35 (1943) 242-3; DS 2290/3821. La
traduzione italiana è quella apparsa su L’Osservatore Romano del
4.7.1943, pubblicata a parte: PIO XII, Enciclica
“Mystici Corporis” sul Corpo Mistico di Cristo, Vita e Pensiero,
Milano-Roma, 1959, p. 21, 82.
[4]
Ivi, p. 15 tr. it. Per la
coincidenza perfetta ed assoluta di
Chiesa di Cristo e Chiesa cattolica, il testo cita in nota la costituzione
dogmatica De fide catholica, cap. I, promulgata dal Vaticano I. Per la libertà con la quale devono avvenire
la conversione e il ritorno: ivi, pp.
82-3 e DS 2290/3822. Nel DS non sono riuscito a trovare il passo che ho appena
citato nel testo (sull’identità perfetta e assoluta di Chiesa di Cristo e
Chiesa Cattolica Romana), nella scelta di passi della Mystici Corporis.
[5]
Su quest’ultimo punto: AMERIO, Iota
Unum, p. 466 (§ 246); VELATI, Un indirizzo a Roma, cit., p. 107, con
le fonti ivi riprodotte in nota.
[6]
HUBERT JEDIN, Breve storia dei
Concili. I venti concili ecumenici nel
quadro della storia della Chiesa, tr. it. di Nerina Beduschi, Herder, Roma,
1960, p. 28, 32 (per il riconoscimento del Primato di Pietro).
[7]
L’appiattimento della Chiesa Cattolica sulle altre “Chiese e comunità”, come se
la nostra fede non si distinguesse da quella dei cosiddetti “fratelli
separati”, è stato colto e criticato da Mons. Gherardini in relazione al Proemio
della costituzione Sacrosanctum Concilium sulla Liturgia e ad UR 1 (Quod et tradidi
vobis, cit., pp. 373-5). Sul punto,
il prof. Cantoni accusa Mons. Gherardini di aver troncato le citazioni dai due
testi conciliari nel punto più conveniente alle sue tesi (C, 34-6). Ma il prosieguo dei testi citati non mostra
in realtà nulla di diverso, procedendo sempre nella stessa direzione. Non c’è
mai l’affermazione della superiorità della nostra religione cattolica (unica
rimasta fedele al dogma) né quella della necessità del ritorno dei “separati”,
dopo aver abiurato i loro errori. Non
c’è perché “la Chiesa” ivi menzionata è la “Chiesa di Cristo” nel senso del Concilio
non la Chiesa Cattolica Romana nel senso tradizionale del termine. E in questa “Chiesa di Cristo” in tal modo
concepita si ha appunto l’appiattimento.
[8]
Si controlli lo schema De Ecclesia “scartato” al cap. I, di 7 paragrafi
più le note, intitolato: “De Ecclesia
militantis natura”. Sul punto, vedi infra, capp. III e IV.
[9]
UR 3.5 : “Per solam enim catholicam Christi Ecclesiam, quae generale auxilium
salutis est, omnis salutarium mediorum plenitudo attingi potest. Uni nempe Collegio apostolico cui Petrus
praeest credimus Dominum commisisse omnia bona Foederis Novi, ad constituendum
unum Christi corpus in terris, cui plene
incorporentur oportet omnes, qui ad populum Dei iam aliquo modo pertinent”.
[10]
D, 205.
[11]
ALESSANDRO GNOCCHI – MARIO PALMARO, La Bella Addormentata etc., cit., p.
192.
[12] LGNT,
alla voce pléroma.
A sessant’anni dalla fine del Concilio
Ecumenico Vaticano Secondo - IV : Il decreto ‘Unitatis redintegratio’
sull’ecumenismo include le comunità acattoliche nella Chiesa di Cristo – di Paolo
Pasqualucci.
[Eccomi di nuovo a proporre capitoli del mio
libro Unam Sanctam.Studio sulle deviazioni dottrinali nella Chiesa cattolica
del XXI secolo, Solfanelli, Chieti, 2013.
In questa quarta puntata riprendo il discorso sul concetto di Chiesa di
Cristo proposto dal Concilio, notoriamente “ecumenico”, tale cioè da includere,
oltre alla Chiesa cattolica anche le “comunità acattoliche” ossia le comunità
cristiane scismatiche ed eretiche. Tale
“inclusione” dalle peculiari caratteristiche risulta collegando all’art. 8
della Lumen gentium il Decreto sull’ecumenismo, in particolare il suo
art. 3. Il cap. II del mio libro è per
l’appunto dedicato a questo articolo del suddetto decreto (pp. 43-53
dell’opera). Insomma, il “subsistit in”
di LG 8, si comprenderebbe appieno grazie all’art. 3 di Unitatis redintegratio. Vediamo dunque questo testo, uno dei
testi-chiave del Concilio per l’eleborazione dell’ecumenismo sincretistico e
non conforme alla Tradizione, propalato dal Concilio medesimo.]
* * *
Cap. II.
“UNITATIS REDINTEGRATIO” 3, CHE SANZIONA L’INCLUSIONE DELLE COMUNITÀ
ACATTOLICHE NELLA CHIESA DI CRISTO
Sommario
: 1.
Gli Acattolici diventano in quanto tali “strumenti di salvezza”. 2. Una
nuova ed inaccettabile dottrina del Battesimo, dovuta al cardinale Bea. 3. I
Cattolici colpevoli della separazione, come gli Acattolici! 4. Un’unità che trascende la Chiesa
cattolica. 5. Comunione e salvezza piene e non piene, nella
confusione dei concetti. 6. Quante “Chiese” ci sono, per il Vaticano II?
1. Gli Acattolici diventano in quanto tali
“strumenti di salvezza”.
L’articolo
3 di questo decreto concerne “le relazioni dei fratelli separati con la Chiesa
cattolica”. Dopo aver dichiarato il concetto del tutto nuovo, secondo il quale
essi si trovano “in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa
cattolica”, onde il movimento ecumenico deve mirare appunto a rimuovere gli
impedimenti ad una “piena comunione” con essa, così specifica:
“Inoltre, tra gli
elementi o beni dal complesso dei quali la stessa Chiesa è edificata e
vivificata, alcuni, anzi parecchi ed eccellenti, possono trovarsi fuori dei
confini visibili di essa: la parola di
Dio scritta, la vita della grazia, la fede, la speranza e la carità, e altri
doni interiori dello Spirito Santo ed elementi visibili. Tutte queste cose, le quali provengono da
Cristo e a lui conducono, appartengono a buon diritto [iure] all’unica
Chiesa di Cristo” (UR, 3.2).
Il
testo, dopo aver elencato gli “elementi o beni” che “edificano e vivificano la
Chiesa cattolica” e che possono ritrovarsi anche fuori dai confini visibili di
essa, dando quindi un contenuto più preciso agli “elementi” di cui all’art. 8.2
LG, afferma che essi “appartengono a buon diritto all’unica Chiesa di Cristo”. Ma ciò non significa, allora, confermare che
gli “elementi” di cui al detto articolo fanno parte della Chiesa di Cristo
allo stesso modo della Chiesa cattolica, che sicuramente vi
appartiene “di diritto”? E quindi che la
Chiesa cattolica è inclusa sì nella Chiesa di Cristo ma sempre come parte
di essa?
Il paragrafo
successivo, tra i suddetti “elementi” include anche “non poche azioni sacre”,
terminologia che indica, come sappiamo, la Sacra Liturgia. In queste “Chiese o comunità” non cattoliche
esistono, ci si dice, “azioni sacre” che “possono senza dubbio produrre
realmente la vita della grazia, e si devono dire atte ad aprire accesso alla
comunione della salvezza [ingressum in salutis communionem]” (UR,
3.3). Da affermazioni del genere, come
non ricavare l’idea che le liturgie degli Ortodossi e le “cene” dei Protestanti
sono, per il Concilio, “atte ad aprire accesso alla comunione della
salvezza”? Non si giustifica forse su
passaggi del genere l’ormai inflazionata pratica delle liturgie “ecumeniche”,
nelle quali tutti i culti sono spesso rappresentati, persino quelli non
cristiani, per quanto oscura possa essere l’espressione “accesso alla comunione
della salvezza”? Includendovi le “azione
sacre”, il testo mostra che gli elementi o beni di cui sopra sono quelli delle
comunità, perché “l’azione sacra” che ha luogo mediante la liturgia non può
essere individuale.
Ma la conclusione
posta alla fine di tutti questi chiarimenti è ancora più forte: nonostante le loro “carenze”, le “Chiese e
comunità separate” vengono utilizzate dallo Spirito Santo “come strumenti di
salvezza, la cui forza deriva dalla stessa pienezza della grazia e della
verità, che è stata affidata alla Chiesa cattolica [Iis enim Spiritus
Christi uti non renuit tamquam salutis mediis, quorum virtus derivatur ab ipsa
plenitudine gratiae et veritatis quae Ecclesiae catholicae concredita est]”(UR,
3.4). Non singoli loro componenti, nonostante appartengano a comunità
eretiche e scismatiche, ma le comunità stesse, in quanto tali. Come
sottrarsi all’impressione vivissima che qui le “Chiese e comunità separate”
(che, in quanto utilizzate dallo Spirito Santo come “strumenti di salvezza”
derivano la loro “forza” addirittura “dalla stessa pienezza della grazia e della verità affidata alla Chiesa cattolica”)
risultano essere “strumenti di salvezza” proprio in quanto tali,
contro tutto l’insegnamento precedente della Chiesa? Se l’appartenenza alla Chiesa di Cristo fa sì
che anche le comunità e Chiese dei non cattolici (le “Chiese” che si
autodefiniscono “ortodosse” sono quelle dei grecoscismatici, e “Chiese” sta
solo per tradizionale titolo d’onore, mantenuto dalla Chiesa cattolica) siano
da considerarsi “strumenti di salvezza”, sia pure gravati da qualche “carenza”
(da scisma ed eresia, avversione inveterata per il Papa, per “Roma”, etc.), che
cosa ne è del dogma di fede già ricordato, secondo il quale, al di fuori della
Chiesa cattolica non può esserci salvezza, se non nei casi individuali di
battesimo di desiderio? Salvezza ad opera dell’azione insondabile dello Spirito
Santo, nonostante l’appartenenza dei salvati ad una setta eretica e/o
scismatica (o ad un’altra religione, non rivelata) e non certo grazie a
questa appartenenza?
Del resto, bisogna pur
dire che il semplice credente non riesce a comprendere come possano essersi
conservate la “vita della grazia” e le tre virtù teologali (fede, speranza e
carità) non presso individui singoli
(cosa certamente possibile con l’aiuto dello Spirito Santo, che scruta nell’intimo e conosce i cuori) ma presso comunità
eretiche e scismatiche in quanto tali, pervicacemente ribelli all’autorità
dell’unica legittima Chiesa di Cristo.
Inoltre, il semplice credente vorrebbe sapere quali possibilità di
“santificazione” e quali “verità” siano racchiuse nelle dottrine e nel modo di
vivere di queste comunità eretiche e scismatiche fieramente avverse al Romano
Pontefice e a tutto ciò che è cattolico, nelle quali molti negano il concetto
stesso di “santificazione” (preferendovi il blasfemo “pecca fortiter sed crede
fortius” di Lutero, pecca fortemente ma credi ancor più fortemente o
l’equivalente “simul iustus et peccator”) e propugnano una nozione del tutto
soggettiva della verità, compresa quella rivelata.
Per ciò che riguarda
in particolare i Protestanti, ripropongo sinteticamente i loro “limiti” come
ricordati da Mons. Gherardini, notoriamente uno dei massimi conoscitori delle
loro dottrine, in campo cattolico:
nessuna
incompatibilità fra vita cristiana ed “eticità” dell’aborto, del divorzio e
delle “diversità”; soppressione d’almeno
cinque sacramenti; concezione del sacramento con funzione di segno, ma privo
della funzione “produttiva della grazia che significa”; riduzione dell’eucaristia alla celebrazione
del “testamento” di Cristo, che ha termine con la fine della celebrazione stessa; culto della Sacra Scrittura frastagliato da
idee contrastanti sulla sua reale o attuale (anzi attualistica,
quella dell’”autopistía”) ispirazione;
assenza d’un vero culto della Madonna così come ai Santi, perché esso
sarebbe un furto a Dio e a Cristo; […] non solo assenza, ma negazione
dell’ufficio papale e, anche là dove vige [presso gli Anglicani], l’episcopato
è ben altro rispetto a quello derivante dalla successione apostolica [etc.]”[1].
2. Una nuova ed inaccettabile dottrina del
Battesimo, dovuta al cardinale Bea.
Ma
l’elevazione delle “Chiese e comunità separate” a “strumenti di salvezza” non
si giova (è stato notato) anche di quella che sembra essere una sostanziale
riformulazione della dottrina del battesimo, rispetto a quanto enunciato ad
esempio dalla Mystici Corporis ?
Infatti, in UR, 3.1 si scrive che i “fratelli separati” devono
considerarsi “cristiani” perché con il battesimo sarebbero stati incorporati
a Cristo: “Nondimeno, giustificati
nel battesimo dalla fede, sono incorporati a Cristo [Nihilominus,
iustificati ex fide in baptismate, Christo incorporantur] e perciò sono a
ragione insigniti del nome di cristiani” (UR, 3.1). Poche righe prima la loro posizione era stata
definita (vedi supra, § 1) come quella di chi si trova in “una certa
comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica”. Ma che significato ha qui l’ “esser
incorporati a Cristo”, riferito ai non cattolici? Semplicemente questo, secondo logica: se il
Battesimo ricevuto nelle loro sette li “incorpora a Cristo”, allora vengono in
tal modo a far parte della “Chiesa di Cristo”.
E se il battesimo degli eretici e scismatici li fa entrare in quanto
tali nella Chiesa di Cristo, allora quest’ultima è più ampia della
Chiesa cattolica. Con tale dottrina, i
“fratelli separati” possono esser annoverati tra i membri della Chiesa,
indipendentemente dalla professione della vera fede e dall’ubbidienza ai
legittimi Pastori!
Quest’idea
dell’”incorporazione a Cristo” anche dei “fratelli separati”, il testo del
Concilio sembra fondarla sul Magistero precedente grazie a un rimando in nota
al Concilio di Firenze del 1439, del
quale si cita un passo dal famoso decreto Pro Armenis che ristabilì
l’unità con la Chiesa Armena. Il rimando
è posto subito dopo le parole “sono incorporati a Cristo”. Ma, andando a rileggere che cosa è scritto in
quel decreto si vede che esso illustra (ad edificazione degli Armeni) tutti e
sette i Sacramenti, come debbano intendersi per i veri Cattolici, senza far
riferimento alcuno al Battesimo degli eretici e al suo significato: “Primo di tutti i sacramenti è il Battesimo,
porta della vita spirituale: grazie ad
esso diveniamo membra di Cristo e parte del Corpo della Chiesa [per ipsum
enim membra Christi ac de corpore efficimur Ecclesiae]”[2]. Coloro che vengono “incorporati a Cristo”,
sono qui i Cattolici non gli eretici e gli scismatici. È legittima, allora, l’estensione del
concetto a questi ultimi? Sembra
proprio di no, se si deve mantenere la dottrina della Chiesa, proposta da
ultimo nella Mystici Corporis.
Che così insegna:
“Tra
i membri della Chiesa bisogna annoverare esclusivamente quelli che hanno
ricevuto il lavacro di rigenerazione [il Battesimo] e professano la vera
fede né dalla compagine di questo corpo si separarono disgraziatamente da
sé stessi né per gravissime colpe ne furono separati dalla legittima
autorità”(Corsivi miei). E l’esclusione
dalla Chiesa vale per tutti gli eretici e scismatici pubblici, anche se
in buona fede (eretici e scismatici in senso materiale, cioè non per via
della loro intenzione ma a causa del contenuto oggettivamente infedele di ciò
che professano). Questi ultimi, però, a
differenza degli eretici e scismatici in senso formale (che cioè
vogliono scientemente esserlo, come un Fozio, un Lutero, un Calvino), sono, per
la loro disponibilità a professare la vera fede nella vera Chiesa (votum
Ecclesiae), “ordinati da un certo inconsapevole desiderio ed anelito [che
solo lo Spirito Santo conosce] al mistico Corpo del Redentore”. Pertanto, pur essendo fuori della
compagine visibile di questo corpo, possono appartenervi invisibilmente e per
questa via conseguire la giustificazione e la salvezza. Essi, tuttavia, restano “privi di quei tanti
doni e aiuti celesti che solo nella Chiesa cattolica è dato di godere”. Per tal motivo Pio XII, come i suoi
predecessori, li invitava “ad assecondare gli impulsi interni della grazia e a
sottrarsi al loro stato, in cui non possono essere sicuri della propria
salvezza” perché “chi abbia ricusato di ascoltare la Chiesa, deve, secondo l’ordine
di Dio, ritenersi come etnico e pubblicano [Mt 18, 17]” cioè come nemico e
pubblico peccatore: “Rientrino perciò nella cattolica unità [Ingrediantur
igitur catholicam unitatem] e tutti uniti a Noi [al Pontefice] nell’unica
compagine del Corpo di Gesù Cristo, vengano con Noi all’unico Capo nella
società di un gloriosissimo amore”[3].
Si vede chiaramente
che qui si ha un invito a ritornare all’ovile, con assunzione diretta
della responsabilità della scelta che, precisa poi il Papa, deve essere
assolutamente libera da costrizione (sponte libenterque). Il paterno invito è pertanto rivolto a chi si
trova del tutto fuori della Chiesa Cattolica Romana, per quanto ad essa ordinato
in voto dal Battesimo. Fuori, perché solo la Chiesa Cattolica
Romana è l’unica Chiesa di Cristo:
“Pertanto a definire e descrivere questa verace Chiesa di Cristo (che è
la Chiesa santa, cattolica, apostolica, romana), nulla si trova di più nobile,
di più grande, di più divino che quell’espressione con la quale essa viene
chiamata “il Corpo mistico di Gesù Cristo”; espressione che scaturisce e quasi
germoglia da ciò che vien frequentemente esposto nella Sacra Scrittura e nei
Santi Padri”[4].
La mutazione
dottrinale introdotta dal Concilio, sembra sia dovuta in particolare al
cardinale Bea, che, sull’Osservatore Romano del 27 aprile 1962,
interpretava la Mystici Corporis come se “l’ordinazione al mistico
corpo” dei “separati” dovesse intendersi (in modo nuovo) quale appartenenza,
onde la loro situazione di salvezza non sarebbe diversa da quella dei cattolici[5].
Al dettato
sconcertante dell’art. 3 UR va poi aggiunto il noto passo di UR 15.1, nel
quale, illustrando “la tradizione liturgica e spirituale degli orientali”,
meglio noti come Ortodossi (grecoscismatici), si presenta la “celebrazione
dell’Eucaristia” quale loro contributo alla crescita della “Chiesa di Dio”(Ecclesia
Dei), termine anch’esso tradizionale, che indica sempre la “Chiesa di
Cristo”: “Perciò con la celebrazione dell’eucaristia del Signore in queste
singole Chiese, la Chiesa di Dio è edificata e cresce, e con la concelebrazione
si manifesta la comunione tra di esse [Proinde per celebrationem
Eucharistiae Domini in his singulis Ecclesiis, Ecclesia Dei aedificatur et
crescit, et per concelebrationem communio earum manifestatur]”. Se la “Chiesa di Dio”, che è la “Chiesa di
Cristo”, è “edificata e cresce” ad opera di queste “Chiese” e la
“concelebrazione” ne manifesta “la comunione”, allora esse ne sono parte, così
come ne è parte la Chiesa cattolica (Apostolica, Romana). Il passo appare per
la verità di un’estrema chiarezza nell’affermare che “queste singole Chiese”
non cattoliche concorrono in quanto tali “all’edificazione e alla crescita
della Chiesa di Dio”. L’espressione “Chiesa di Dio”, ci informa in nota lo
stesso Concilio, è tratta da S. Giovanni Crisostomo, morto verso il 407 AD,
qualche secolo prima dello scisma bizantino:
era termine tradizionale, risalente addirittura all’Antico Testamento
(vedi infra, cap. IV, § 2), per indicare la Chiesa in quanto tale, nella
sua unità, e quindi la Chiesa di Cristo, nella quale era già riconosciuto il
Primato di Pietro[6].
3. I Cattolici colpevoli della separazione, come
gli Acattolici!
Ma in che senso il Concilio usa il termine
“Chiesa di Dio”? Esso compare anche nel Proemio
di UR (UR 1) oltre che in UR 3.1. Nel Proemio,
in modo del tutto inaspettato, le divisioni tra i Cristiani sembrano poste
tutte sullo stesso piano, tutte causa allo stesso modo di un unico
scandalo, come se non ci fosse stata sempre un’unica Chiesa di Cristo – quella
fondata sul primato di Pietro – dalla quale sono state le varie sette, eretiche
e scismatiche, via via a staccarsi, per colpa loro (come recita la famosa frase
di S. Cipriano di Cartagine: “sono stati loro a staccarsi da noi, non noi da
loro”). Inoltre, questo Proemio afferma che presso “i cristiani tra loro
separati”(in Christianos inter se disiunctos), il Signore negli ultimi
tempi “ha cominciato a effondere l’interiore ravvedimento e il desiderio di
unione” (UR, 1.2), includendosi evidentemente anche i Cattolici tra i cristiani
“separati” che si stavano ravvedendo, dato che il testo non dice “da noi
[Cattolici] separati”, come avrebbe dovuto, per mantenere la continuità con la
dottrina precedente! All’epoca ci
sarebbe stato dunque un generale “movimento che si allargava di giorno in
giorno per il ristabilimento dell’unità di tutti i cristiani” (ivi). Non so se
corrisponda al vero il giudizio qui espresso sulla forza del movimento
ecumenico, che era in realtà di élite e di origine protestante-teosofica. Il
testo sembra caricare alquanto le tinte.
Ma il punto più importante è un altro: l’ecumenismo non è qui inteso in
vista del ritorno alla Chiesa cattolica di eretici e scismatici (come
secondo la dottrina tradizionale) ma per “il ristabilimento dell’unità di tutti
i cristiani [ad omnium Christianorum unitatem restaurandam]”,
ristabilimento che non contempla alcun “ritorno”. Da siffatta nozione di “ristabilimento”, come
non ricavare l’impressione che, per UR 1.2, l’unità della Chiesa al momento non
c’era, che la Chiesa Cattolica (Apostolica, Romana) non realizzava in sé
stessa l’unità della vera ed unica Chiesa di Cristo! L’unità non c’era e bisognava ristabilirla,
non auspicando la conversione ed il ritorno dei “separati” ma rifondando una
“Chiesa di Dio veramente universale”, come se la Chiesa Cattolica Romana al
momento esistente non rappresentasse in quanto tale la “Chiesa di Dio” in tutta
la sua universalità!
Il concetto espresso
da UR 1.2 è ripetuto in modo ancor più forte da UR 24.2, ultimo articolo del
Decreto, ove si esalta, come motivo trainante del Concilio, “questo santo
proposito di riconciliare tutti i cristiani nell’unità di una sola e unica
Chiesa di Cristo [hoc sanctum propositum reconciliandi Christianos omnes in
unitate unius unicaeque Ecclesiae Christi]”. Non esisteva ancora, dunque, una “sola ed
unica Chiesa di Cristo”, veramente universale.
Bisognava crearla attraverso la “riconciliazione di tutti i Cristiani”
in un’unità superiore, nuova!
4. Un’unità che trascende la Chiesa Cattolica.
Consideriamo bene il
testo di UR 1.2. Chi partecipa a questo
movimento ecumenico “per l’unità”? “Tutti quelli che invocano la Trinità e
confessano Gesù come Signore e Salvatore, e non solo presi a uno a uno, ma anche
riuniti in comunità [sed etiam coetibus congregati], nelle quali hanno
ascoltato il Vangelo e che essi chiamano la Chiesa loro e la Chiesa di
Dio. Quasi tutti però, anche se in modo
diverso, aspirano a una Chiesa di Dio una e visibile, che sia veramente universale
[ad Ecclesiam Dei unam et visibilem adspirant, quae sit vere
universalis] e mandata al mondo intero, perché questo si converta al
Vangelo e così si salvi per la gloria di Dio” (UR, 1.2). La descrizione delle caratteristiche dei
Cristiani che partecipano al movimento ecumenico appare talmente generica da
potersi applicare, come ognun può
vedere, a qualsiasi tipo di “denominazione cristiana”, come si dice oggi,
copiando dai media anglosassoni. E a
cosa aspira tale movimento, secondo il Concilio? I suoi membri aspirano (adspirant),
cattolici compresi, ad una “Chiesa di Dio una e visibile, che sia veramente
universale”! E se vi aspirano, essa
evidentemente ancora non c’è. Questa
“Chiesa di Dio” così intesa è altra cosa rispetto alla “Chiesa di Cristo”? In realtà essa è solo un ulteriore nome
tradizionale della “Chiesa di Cristo”, da intendersi però quest’ultima come
esposta da UR 3, ossia della Chiesa di Cristo che ricomprende la Chiesa
cattolica e tutte le “Chiese e comunità” cristiane, l’una e le altre in diverso
modo “strumenti di salvezza”. Questa
“Chiesa di Cristo” costituisce nello stesso tempo un obiettivo ancora da
realizzare nella sua pienezza![7]
Queste sono
notoriamente le gravi questioni poste dal plesso LG 8 – UR 3 ed addentellati. E
che le questioni siano gravi lo dimostra, a mio avviso, anche il fatto che
l’idea di Chiesa racchiusa in LG 8 non può appoggiarsi ad alcuna delle
precedenti definizioni della Chiesa. Se
si guarda lo schema De Ecclesia originario, l’Aeternus Unigeniti
“scartato” in Concilio, si vede che la definizione della Chiesa si premura di
dire, senza tanti giri di parole, che la sola ed unica Chiesa di Cristo è
la Chiesa Cattolica Romana,
appoggiandosi all’autorità del Simbolo Apostolico, di quello
Niceno-Costantinopolitano, del Concilio di Trento, di quello Vaticano I,
dell’Enciclica Mystici Corporis, dell’Enciclica Humani generis etc., e stabilendo questa chiarissima
connessione: La Chiesa come società è il Corpo Mistico di Cristo –
La Chiesa Cattolica romana è il Corpo Mistico di Cristo, l’unica che abbia
diritto al titolo di “Chiesa”[8]. Stop.
Quale riferimento alle
fonti del Magistero troviamo, invece, in LG, 8.2, quale pezza d’appoggio per il
“subsistit in”? Nessuna. Solo un rinvio ai Concili tridentino e
vaticano I, per ricordare che la Chiesa cattolica (nella quale “sussiste”
quella di Cristo) è, sull’autorità di quei Concili, “governata dal successore
di Pietro e dai vescovi in comunione con lui” (vedi nota n. 13 della LG). E il lettore disattento potrebbe anche
credere che l’idea della Chiesa di Cristo che “sussiste nella” Chiesa cattolica
sia già menzionata in quei due fondamentali concili dogmatici: il che non è,
nel modo più assoluto.
Ma chi difende
l’ortodossia di UR 3 oppone in genere quanto vi si trova nell’ultimo e spesso citato
paragrafo di questo articolo.
5. Comunione
e salvezza piene e non piene, nella confusione dei concetti.
Dopo
aver detto che le “Chiese e comunità separate” sono usate anch’esse dallo
“Spirito di Cristo” come “strumenti di salvezza”, il Concilio sente il bisogno
di precisare, quasi ad attenuare l’impatto della straordinaria
affermazione. Rileva, quindi, che le
“comunità e Chiese” dei separati “non godono di quella unità che Gesù Cristo ha
voluto elargire a tutti quelli che ha rigenerato e vivificato insieme per
formare un solo corpo in vista di una vita nuova, unità attestata dalla sacra
Scrittura e dalla veneranda tradizione della Chiesa” (UR 3.5). E dove la si trova quest’unità,
indispensabile alla salvezza? Nella
Chiesa cattolica.
“Infatti, solo per
mezzo della cattolica Chiesa di Cristo, che è il mezzo generale della salvezza,
si può ottenere tutta la pienezza dei mezzi di salvezza. In realtà noi crediamo che al solo Collegio
apostolico con a capo Pietro il Signore ha affidato tutti i tesori della Nuova
Alleanza, al fine di costituire l’unico corpo di Cristo sulla terra, al quale
bisogna che siano pienamente incorporati tutti quelli che già in qualche modo
appartengono al popolo di Dio”[9].
In molti hanno sempre
ritenuto che questo fosse un testo chiaro, nel quale si dice finalmente e per
due volte che solo ad opera della Chiesa cattolica è possibile ottenere
la salvezza. Ma osserviamo il testo
attentamente. Non godendo dell’unità
“elargita” da Cristo ai battezzati, attestata dalla Sacra Scrittura e dalla
Tradizione della Chiesa, ne consegue che, come “strumenti di salvezza”, le
“Chiese e comunità” dei “separati” non possono offrire “tutta la pienezza dei mezzi della salvezza”. Domanda:
la pienezza dei mezzi di salvezza implica la salvezza o la pienezza
della salvezza? Apparendo privo di senso
il concetto di una salvezza non piena (perché la salvezza si dà o non si
dà, non può essere parziale, non esiste il Paradiso a metà), bisogna allora
dire che “la pienezza dei mezzi della salvezza” è concetto che implica la
salvezza tout court, senza distinzioni di pieno e non pieno, completo e
parziale. Ma con questa ineccepibile
conclusione che cosa resta della qualità di mezzi di salvezza forzatamente non
pieni, a causa delle loro “carenze”, attribuita ai “separati”? Se la salvezza non può che essere piena,
come possono essere considerate “strumenti di salvezza” quelle “Chiese e
comunità” che dispongono di “strumenti di salvezza” per definizione imperfetti
e quindi esclusi dalla “pienezza”? Strumenti di salvezza imperfetti o non pieni
daranno una salvezza imperfetta o non piena.
Ma questo non si può concedere perché significherebbe ammettere il
concetto di una salvezza non piena, cosa
assurda, come si è detto. In
alternativa, bisognerebbe ammettere, allora, che anche gli strumenti di
salvezza non pieni possono produrre la salvezza tout court, ossia piena: cosa parimenti assurda e inconcepibile.
Voler considerare le
sette di scismatici ed eretici quali “strumenti di salvezza” non porta dunque
ad una contraddizione che sembra insanabile, circa il rapporto tra la nozione
di mezzi della salvezza e salvezza? Ma
procediamo. La pienezza dei mezzi della
salvezza spetta dunque solo alla
Chiesa cattolica. Veramente il testo non
dice sic et simpliciter: “Chiesa
cattolica” o, ancor meglio, “Chiesa Cattolica Romana”; dice: “cattolica Chiesa di Cristo”(per solam
enim catholicam Christi Ecclesiam).
C’è una differenza? Forse no. O forse sì. Ci può essere, a mio avviso,
nel senso che la “cattolica Chiesa di Cristo” può indicare la Chiesa cattolica
in quanto è la componente “cattolica” della Chiesa di Cristo, quella
componente che è appunto “mezzo generale” (non l’unico mezzo!) della
salvezza perché possiede “la pienezza dei mezzi della salvezza”, al contrario
delle “Chiese e comunità” dei “separati”, che pur farebbero parte della Chiesa
di Cristo. In tal modo, il mezzo di
salvezza rappresentato dalla Chiesa cattolica non sembra affatto inteso come
unico ed esclusivo, l’unico in assoluto, sulla linea della Mystici
Corporis. Esso sarebbe, invece,
“generale” rispetto alla parzialità dei mezzi di salvezza pertinenti ai
“separati”. È solo in quanto “mezzo
generale [e non unico!] della salvezza” che la Chiesa cattolica ha
“tutta la pienezza dei mezzi della salvezza”.
E secondo me nemmeno
l’art. 14 di LG apporta il chiarimento necessario, il raggio di sole che
disperde tutte le nubi. È l’articolo nel
quale, rivolgendosi espressamente ai Cattolici, il Concilio afferma che la
Chiesa “peregrinante”, fondata da Cristo, è “necessaria alla salvezza”. Infatti, “Egli stesso, inculcando
espressamente la necessità della fede e del battesimo (cfr. Mc 16,16; Gv 3,5),
ha nello stesso tempo confermato la necessità della Chiesa [necessitatem
Ecclesiae], nella quale gli uomini entrano per il battesimo come per una
porta. Perciò non possono salvarsi [salvari non possent] quegli uomini,
i quali, pur non ignorando che la Chiesa Cattolica è stata fondata da Dio per
mezzo di Gesù Cristo come necessaria [ut necessariam], non vorranno
entrare in essa o in essa perseverare”.
Si ricorda qui Mc
16,16, nel quale Nostro Signore afferma categoricamente: “Chi crederà e si battezzerà, sarà salvo; chi
in verità non crederà, sarà condannato”.
E Gv 3,5, che ribadisce in modo
più sfumato il concetto: “Chi non sarà
rinato con l’acqua e lo Spirito Santo non può entrare nel Regno di Dio”. Tuttavia il testo si limita a dire che la
Chiesa Cattolica è “necessaria” alla salvezza; non precisa che solo essa è
necessaria ed indispensabile. È vero che
cita due perìcopi che fanno emergere l’esclusività e l’unicità della Chiesa
Cattolica per la salvezza. Ma perché
dice poi che quelli che rigettano la Chiesa o i transfughi “non potrebbero
salvarsi”? La traduzione italiana recita
“non possono”; quella francese, più correttamente, “ne pourraient pas être
sauvés [non potrebbero esser salvati]”, dato che l’originale latino usa
l’imperfetto congiuntivo (non possent).
Nostro Signore è stato categorico.
Ha detto “condemnabitur”, traduzione letterale del greco katakrithésetai:
“sarà condannato”; non ha detto: “sarebbe condannato”.
Ma, nonostante
l’evidente tortuosità della formulazione di UR 3.5 ed i gravi problemi
interpretativi che essa fa sorgere, non potremmo considerare ugualmente la
“pienezza” ivi proposta come l’equivalente dell’unicità ed esclusività
insegnata ad esempio nella Mystici Corporis? Si potrebbe, a mio modesto avviso, forzando
il testo, se non fosse per il fatto che “Chiese e comunità” non
cattoliche sono senza alcun dubbio incluse, come si è visto, nella Chiesa di
Cristo e come tali considerate “strumenti di salvezza”, sia pure afflitti da
“carenze”. Ed una controverità teologica
affermata in modo così netto, mi sembra impossibile da aggirare.
Stando così le cose,
non mi sembra che l’uso dell’avverbio “solo” apporti la chiarezza
necessaria. Ciò si vede, a mio avviso,
anche dall’ultimo passaggio di UR 3.5. Tutti i tesori della Nuova Alleanza (=
tutta la pienezza dei mezzi della salvezza) sono stati affidati al solo
Collegio apostolico con a capo Pietro (il testo evita però di precisare: “e quindi alla sola Chiesa Cattolica
Apostolica Romana con a capo i successori di Pietro”). Ma al “Corpo di Cristo sulla terra”, cioè
alla Chiesa militante (secondo la definizione tradizionale), come si viene “incorporati”? Da “ordinati in voto” per opera della Grazia,
che ritornano alla vera e unica Chiesa dopo essersi pentiti e aver fatto abiura
dei propri errori? No. Non si ha alcun ritorno o conversione. L’eventuale conversione è concepita come una piena
incorporazione, che è cosa ben diversa:
il “separato” viene incorporato “pienamente”, dal momento che era già
stato incorporato non pienamente con il battesimo (vedi supra, §
2). In quanto già “incorporati” non
pienamente (in “comunione non piena”) “i separati” appartenevano già “in
qualche modo” al “popolo di Dio” ossia alla Chiesa di Cristo (nel cap. II della
Lumen gentium, la Chiesa visibile è concepita come “popolo di
Dio”).
Come ha sottolineato
Mons. Gherardini, il linguaggio di LG e UR, strettamente connessi tra di loro,
oltre che al Decreto Dignitatis
humanae sulla libertà religiosa, “è tutto all’insegna del vago: abbonda l’uso dell’aggettivo “quidam”[un
certo, un tale, qualche e simili] che è espressione di radicale insicurezza, e
si presume con esso di determinare perfino l’azione dello Spirito Santo o di
predisporre un asserto dottrinale (“quaedam in Spirito Sanctu coniunctio [una
certa unione nello Spirito Santo]”); “in quadam cum Ecclesia catholica
coniunctione [in una certa unione con la Chiesa Cattolica]”; “quaedam immo
plurima et eximia elementa extra visibilia Ecclesiae catholicae saepta [”alcuni
molteplici e persino ottimi elementi al di fuori del recinto della Chiesa
cattolica”]; “ad populum Dei aliquo modo pertinent [appartengono in qualche
modo al popolo di Dio]”[10].
6. Quante “Chiese” ci sono, per il Vaticano II ?
Tutto
ciò considerato, possiamo dire che UR 3.5 risolva le ambiguità e le
contraddizioni presenti nella definizione (non dogmatica) della Chiesa data dal
Vaticano II? A mio avviso, esso sembra
confermare l’interpretazione secondo la quale la “Chiesa di Cristo”, nelle
intenzioni del Concilio, include sia la Chiesa cattolica che le “Chiese e
comunità” dei “separati”. La
costituzione Lumen gentium doveva
definire la natura della Chiesa, in modo da completare quanto definito come
articolo di fede dal Vaticano I sulla figura del Pontefice (dogma
dell’infallibilità pontificia quando il Papa dà una definizione solenne in
materia di fede e costumi). Ma essa
sembra aver partorito solo un’enorme confusione tra Chiesa di Dio, Chiesa di
Cristo, Chiesa cattolica, Comunità e Chiese separate, Popolo di Dio; confusione
che coinvolge anche il concetto della salvezza.
Questa è almeno la sensazione di molti credenti, costretti a vedere ora
nella Chiesa nient’altro che il terreno
“Popolo di Dio” in “comunione” o “federazione” con tutte le
“denominazioni” cristiane (e non), con il Papa come capo carismatico, “uomo di
pace”, impegnato in frequenti e mediatici “viaggi di pace”, che garantisce a tutti
il Paradiso, perché Dio è Amore e l’Inferno è vuoto.
“L’introduzione del
concetto di “piena comunione” è stato decisivo per elevare le confessioni
cristiane a una condizione diversa da quella, molto più netta, che la dottrina
cattolica aveva sempre riservato a tutto ciò che cattolico non è. Tanto per intendersi: non si sarebbe fatto un Concilio come quello
di Trento, se non si fosse ritenuta gravemente erronea la posizione di Lutero e
del luteranesimo. Ora, leggendo alcuni
dei documenti del Vaticano II, si ricava l’impressione di una nuova
ecclesiologia, nella quale si avanza una sorta di “federazione” delle chiese
cristiane, all’interno della quale la Chiesa cattolica si riserva una posizione
di “pienezza”, ma accanto e insieme al parterre di tutte le altre espressioni
della riforma protestante. A questo
scopo è stata coniata l’espressione “Chiesa di Cristo”, la cui ricomposizione
logica con la nozione di “Chiesa cattolica” risulta molto complicata. Si tratta della stessa cosa, o di
un’altra? Quante “Chiese” ci sono,
allora?”[11].
In realtà, come si è
visto, l’espressione “Chiesa di Cristo” preesisteva, unitamente agli altri
termini tradizionali. Ma è vero che essa
sembra qui una novità perché utilizzata in un senso “allargato”, in passato sconosciuto. E proprio questa sembra esser stata la causa
prima della confusione: l’aver voluto
estendere la definizione della “Chiesa di Cristo” sino ad includervi tutti gli
acattolici, giocando sull’idea di pienezza e non pienezza, comunione piena e
non piena o imperfetta. Altro motivo di
confusione deriva, io credo, dall’aver poi voluto identificare la Chiesa più
che con il Corpo Mistico di Cristo con il “popolo di Dio”, come se la parte
terrena del Corpo Mistico rappresentata dal popolo dei fedeli potesse diventare
il Tutto. A proposito dell’idea della “pienezza” (plenitudo), bisogna
ricordare che essa ricorre in S.Paolo, ma di sicuro senza le sfumature
indefinibili ed ambigue ad essa attribuite dal Concilio. Si cita sempre, a questo proposito, Ef 1, 23,
uno dei passi fondamentali per il concetto della Chiesa come Corpo Mistico di
Cristo, nel quale l’Apostolo ci insegna che Dio “tutto pose sotto i suoi piedi
[di Cristo], e Lui costituì capo supremo della Chiesa, che è il corpo di Lui,
la pienezza [plenitudo; pléroma, in greco] di Colui che tutto completa
in tutti”. La Chiesa “è piena di Cristo
che tutto riempie”. Come “corpo di Lui”
coincide perfettamente con Lui, ne è spiritualmente “la pienezza, dato che i
membri sono ciò che completa, il complemento [pléroma, di nuovo] del
Capo, come affermava S.Giovanni Crisostomo”[12]. Come inteso da S. Paolo e dai Padri della
Chiesa, il concetto della “pienezza” della Chiesa di Cristo in Cristo, in
quanto Corpo Mistico di Cristo, non lascia evidentemente spazio alcuno alle unioni
o comunioni meno piene o imperfette che dir si voglia con coloro che
si trovano fuori della Chiesa.
Tutto ciò premesso,
studiamo adesso in parallelo il primo capitolo dello schema sulla Chiesa
ripudiato, Aeternus Unigeniti, e il primo capitolo della LG, che lo ha
rielaborato, dedicati entrambi a definire il concetto della Chiesa. Solo sobbarcandosi a questo lavoro ingrato e
faticoso sui testi, credo si possa riuscire a verificare in maniera adeguata
l’esistenza o meno di una continuità
nella riforma della dottrina inaugurata dal Vaticano II.
[1]
D, 203-4. L’autopistía è la fede
prodotta dal soggetto stesso, la fede del tutto individualistica dei
Protestanti, quella del “libero esame” individuale delle Scritture.
[2] DS
696/1314.
[3]
AAS 35 (1943) 242-3; DS 2290/3821. La
traduzione italiana è quella apparsa su L’Osservatore Romano del
4.7.1943, pubblicata a parte: PIO XII, Enciclica
“Mystici Corporis” sul Corpo Mistico di Cristo, Vita e Pensiero,
Milano-Roma, 1959, p. 21, 82.
[4]
Ivi, p. 15 tr. it. Per la
coincidenza perfetta ed assoluta di
Chiesa di Cristo e Chiesa cattolica, il testo cita in nota la costituzione
dogmatica De fide catholica, cap. I, promulgata dal Vaticano I. Per la libertà con la quale devono avvenire
la conversione e il ritorno: ivi, pp.
82-3 e DS 2290/3822. Nel DS non sono riuscito a trovare il passo che ho appena
citato nel testo (sull’identità perfetta e assoluta di Chiesa di Cristo e
Chiesa Cattolica Romana), nella scelta di passi della Mystici Corporis.
[5]
Su quest’ultimo punto: AMERIO, Iota
Unum, p. 466 (§ 246); VELATI, Un indirizzo a Roma, cit., p. 107, con
le fonti ivi riprodotte in nota.
[6]
HUBERT JEDIN, Breve storia dei
Concili. I venti concili ecumenici nel
quadro della storia della Chiesa, tr. it. di Nerina Beduschi, Herder, Roma,
1960, p. 28, 32 (per il riconoscimento del Primato di Pietro).
[7]
L’appiattimento della Chiesa Cattolica sulle altre “Chiese e comunità”, come se
la nostra fede non si distinguesse da quella dei cosiddetti “fratelli
separati”, è stato colto e criticato da Mons. Gherardini in relazione al Proemio
della costituzione Sacrosanctum Concilium sulla Liturgia e ad UR 1 (Quod et tradidi
vobis, cit., pp. 373-5). Sul punto,
il prof. Cantoni accusa Mons. Gherardini di aver troncato le citazioni dai due
testi conciliari nel punto più conveniente alle sue tesi (C, 34-6). Ma il prosieguo dei testi citati non mostra
in realtà nulla di diverso, procedendo sempre nella stessa direzione. Non c’è
mai l’affermazione della superiorità della nostra religione cattolica (unica
rimasta fedele al dogma) né quella della necessità del ritorno dei “separati”,
dopo aver abiurato i loro errori. Non
c’è perché “la Chiesa” ivi menzionata è la “Chiesa di Cristo” nel senso del Concilio
non la Chiesa Cattolica Romana nel senso tradizionale del termine. E in questa “Chiesa di Cristo” in tal modo
concepita si ha appunto l’appiattimento.
[8]
Si controlli lo schema De Ecclesia “scartato” al cap. I, di 7 paragrafi
più le note, intitolato: “De Ecclesia
militantis natura”. Sul punto, vedi infra, capp. III e IV.
[9]
UR 3.5 : “Per solam enim catholicam Christi Ecclesiam, quae generale auxilium
salutis est, omnis salutarium mediorum plenitudo attingi potest. Uni nempe Collegio apostolico cui Petrus
praeest credimus Dominum commisisse omnia bona Foederis Novi, ad constituendum
unum Christi corpus in terris, cui plene
incorporentur oportet omnes, qui ad populum Dei iam aliquo modo pertinent”.
[10]
D, 205.
[11]
ALESSANDRO GNOCCHI – MARIO PALMARO, La Bella Addormentata etc., cit., p.
192.
[12] LGNT,
alla voce pléroma.
A sessant’anni dalla fine del Concilio
Ecumenico Vaticano Secondo - IV : Il decreto ‘Unitatis redintegratio’
sull’ecumenismo include le comunità acattoliche nella Chiesa di Cristo – di Paolo
Pasqualucci.
[Eccomi di nuovo a proporre capitoli del mio
libro Unam Sanctam.Studio sulle deviazioni dottrinali nella Chiesa cattolica
del XXI secolo, Solfanelli, Chieti, 2013.
In questa quarta puntata riprendo il discorso sul concetto di Chiesa di
Cristo proposto dal Concilio, notoriamente “ecumenico”, tale cioè da includere,
oltre alla Chiesa cattolica anche le “comunità acattoliche” ossia le comunità
cristiane scismatiche ed eretiche. Tale
“inclusione” dalle peculiari caratteristiche risulta collegando all’art. 8
della Lumen gentium il Decreto sull’ecumenismo, in particolare il suo
art. 3. Il cap. II del mio libro è per
l’appunto dedicato a questo articolo del suddetto decreto (pp. 43-53
dell’opera). Insomma, il “subsistit in”
di LG 8, si comprenderebbe appieno grazie all’art. 3 di Unitatis redintegratio. Vediamo dunque questo testo, uno dei
testi-chiave del Concilio per l’eleborazione dell’ecumenismo sincretistico e
non conforme alla Tradizione, propalato dal Concilio medesimo.]
* * *
Cap. II.
“UNITATIS REDINTEGRATIO” 3, CHE SANZIONA L’INCLUSIONE DELLE COMUNITÀ
ACATTOLICHE NELLA CHIESA DI CRISTO
Sommario
: 1.
Gli Acattolici diventano in quanto tali “strumenti di salvezza”. 2. Una
nuova ed inaccettabile dottrina del Battesimo, dovuta al cardinale Bea. 3. I
Cattolici colpevoli della separazione, come gli Acattolici! 4. Un’unità che trascende la Chiesa
cattolica. 5. Comunione e salvezza piene e non piene, nella
confusione dei concetti. 6. Quante “Chiese” ci sono, per il Vaticano II?
1. Gli Acattolici diventano in quanto tali
“strumenti di salvezza”.
L’articolo
3 di questo decreto concerne “le relazioni dei fratelli separati con la Chiesa
cattolica”. Dopo aver dichiarato il concetto del tutto nuovo, secondo il quale
essi si trovano “in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa
cattolica”, onde il movimento ecumenico deve mirare appunto a rimuovere gli
impedimenti ad una “piena comunione” con essa, così specifica:
“Inoltre, tra gli
elementi o beni dal complesso dei quali la stessa Chiesa è edificata e
vivificata, alcuni, anzi parecchi ed eccellenti, possono trovarsi fuori dei
confini visibili di essa: la parola di
Dio scritta, la vita della grazia, la fede, la speranza e la carità, e altri
doni interiori dello Spirito Santo ed elementi visibili. Tutte queste cose, le quali provengono da
Cristo e a lui conducono, appartengono a buon diritto [iure] all’unica
Chiesa di Cristo” (UR, 3.2).
Il
testo, dopo aver elencato gli “elementi o beni” che “edificano e vivificano la
Chiesa cattolica” e che possono ritrovarsi anche fuori dai confini visibili di
essa, dando quindi un contenuto più preciso agli “elementi” di cui all’art. 8.2
LG, afferma che essi “appartengono a buon diritto all’unica Chiesa di Cristo”. Ma ciò non significa, allora, confermare che
gli “elementi” di cui al detto articolo fanno parte della Chiesa di Cristo
allo stesso modo della Chiesa cattolica, che sicuramente vi
appartiene “di diritto”? E quindi che la
Chiesa cattolica è inclusa sì nella Chiesa di Cristo ma sempre come parte
di essa?
Il paragrafo
successivo, tra i suddetti “elementi” include anche “non poche azioni sacre”,
terminologia che indica, come sappiamo, la Sacra Liturgia. In queste “Chiese o comunità” non cattoliche
esistono, ci si dice, “azioni sacre” che “possono senza dubbio produrre
realmente la vita della grazia, e si devono dire atte ad aprire accesso alla
comunione della salvezza [ingressum in salutis communionem]” (UR,
3.3). Da affermazioni del genere, come
non ricavare l’idea che le liturgie degli Ortodossi e le “cene” dei Protestanti
sono, per il Concilio, “atte ad aprire accesso alla comunione della
salvezza”? Non si giustifica forse su
passaggi del genere l’ormai inflazionata pratica delle liturgie “ecumeniche”,
nelle quali tutti i culti sono spesso rappresentati, persino quelli non
cristiani, per quanto oscura possa essere l’espressione “accesso alla comunione
della salvezza”? Includendovi le “azione
sacre”, il testo mostra che gli elementi o beni di cui sopra sono quelli delle
comunità, perché “l’azione sacra” che ha luogo mediante la liturgia non può
essere individuale.
Ma la conclusione
posta alla fine di tutti questi chiarimenti è ancora più forte: nonostante le loro “carenze”, le “Chiese e
comunità separate” vengono utilizzate dallo Spirito Santo “come strumenti di
salvezza, la cui forza deriva dalla stessa pienezza della grazia e della
verità, che è stata affidata alla Chiesa cattolica [Iis enim Spiritus
Christi uti non renuit tamquam salutis mediis, quorum virtus derivatur ab ipsa
plenitudine gratiae et veritatis quae Ecclesiae catholicae concredita est]”(UR,
3.4). Non singoli loro componenti, nonostante appartengano a comunità
eretiche e scismatiche, ma le comunità stesse, in quanto tali. Come
sottrarsi all’impressione vivissima che qui le “Chiese e comunità separate”
(che, in quanto utilizzate dallo Spirito Santo come “strumenti di salvezza”
derivano la loro “forza” addirittura “dalla stessa pienezza della grazia e della verità affidata alla Chiesa cattolica”)
risultano essere “strumenti di salvezza” proprio in quanto tali,
contro tutto l’insegnamento precedente della Chiesa? Se l’appartenenza alla Chiesa di Cristo fa sì
che anche le comunità e Chiese dei non cattolici (le “Chiese” che si
autodefiniscono “ortodosse” sono quelle dei grecoscismatici, e “Chiese” sta
solo per tradizionale titolo d’onore, mantenuto dalla Chiesa cattolica) siano
da considerarsi “strumenti di salvezza”, sia pure gravati da qualche “carenza”
(da scisma ed eresia, avversione inveterata per il Papa, per “Roma”, etc.), che
cosa ne è del dogma di fede già ricordato, secondo il quale, al di fuori della
Chiesa cattolica non può esserci salvezza, se non nei casi individuali di
battesimo di desiderio? Salvezza ad opera dell’azione insondabile dello Spirito
Santo, nonostante l’appartenenza dei salvati ad una setta eretica e/o
scismatica (o ad un’altra religione, non rivelata) e non certo grazie a
questa appartenenza?
Del resto, bisogna pur
dire che il semplice credente non riesce a comprendere come possano essersi
conservate la “vita della grazia” e le tre virtù teologali (fede, speranza e
carità) non presso individui singoli
(cosa certamente possibile con l’aiuto dello Spirito Santo, che scruta nell’intimo e conosce i cuori) ma presso comunità
eretiche e scismatiche in quanto tali, pervicacemente ribelli all’autorità
dell’unica legittima Chiesa di Cristo.
Inoltre, il semplice credente vorrebbe sapere quali possibilità di
“santificazione” e quali “verità” siano racchiuse nelle dottrine e nel modo di
vivere di queste comunità eretiche e scismatiche fieramente avverse al Romano
Pontefice e a tutto ciò che è cattolico, nelle quali molti negano il concetto
stesso di “santificazione” (preferendovi il blasfemo “pecca fortiter sed crede
fortius” di Lutero, pecca fortemente ma credi ancor più fortemente o
l’equivalente “simul iustus et peccator”) e propugnano una nozione del tutto
soggettiva della verità, compresa quella rivelata.
Per ciò che riguarda
in particolare i Protestanti, ripropongo sinteticamente i loro “limiti” come
ricordati da Mons. Gherardini, notoriamente uno dei massimi conoscitori delle
loro dottrine, in campo cattolico:
nessuna
incompatibilità fra vita cristiana ed “eticità” dell’aborto, del divorzio e
delle “diversità”; soppressione d’almeno
cinque sacramenti; concezione del sacramento con funzione di segno, ma privo
della funzione “produttiva della grazia che significa”; riduzione dell’eucaristia alla celebrazione
del “testamento” di Cristo, che ha termine con la fine della celebrazione stessa; culto della Sacra Scrittura frastagliato da
idee contrastanti sulla sua reale o attuale (anzi attualistica,
quella dell’”autopistía”) ispirazione;
assenza d’un vero culto della Madonna così come ai Santi, perché esso
sarebbe un furto a Dio e a Cristo; […] non solo assenza, ma negazione
dell’ufficio papale e, anche là dove vige [presso gli Anglicani], l’episcopato
è ben altro rispetto a quello derivante dalla successione apostolica [etc.]”[1].
2. Una nuova ed inaccettabile dottrina del
Battesimo, dovuta al cardinale Bea.
Ma
l’elevazione delle “Chiese e comunità separate” a “strumenti di salvezza” non
si giova (è stato notato) anche di quella che sembra essere una sostanziale
riformulazione della dottrina del battesimo, rispetto a quanto enunciato ad
esempio dalla Mystici Corporis ?
Infatti, in UR, 3.1 si scrive che i “fratelli separati” devono
considerarsi “cristiani” perché con il battesimo sarebbero stati incorporati
a Cristo: “Nondimeno, giustificati
nel battesimo dalla fede, sono incorporati a Cristo [Nihilominus,
iustificati ex fide in baptismate, Christo incorporantur] e perciò sono a
ragione insigniti del nome di cristiani” (UR, 3.1). Poche righe prima la loro posizione era stata
definita (vedi supra, § 1) come quella di chi si trova in “una certa
comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica”. Ma che significato ha qui l’ “esser
incorporati a Cristo”, riferito ai non cattolici? Semplicemente questo, secondo logica: se il
Battesimo ricevuto nelle loro sette li “incorpora a Cristo”, allora vengono in
tal modo a far parte della “Chiesa di Cristo”.
E se il battesimo degli eretici e scismatici li fa entrare in quanto
tali nella Chiesa di Cristo, allora quest’ultima è più ampia della
Chiesa cattolica. Con tale dottrina, i
“fratelli separati” possono esser annoverati tra i membri della Chiesa,
indipendentemente dalla professione della vera fede e dall’ubbidienza ai
legittimi Pastori!
Quest’idea
dell’”incorporazione a Cristo” anche dei “fratelli separati”, il testo del
Concilio sembra fondarla sul Magistero precedente grazie a un rimando in nota
al Concilio di Firenze del 1439, del
quale si cita un passo dal famoso decreto Pro Armenis che ristabilì
l’unità con la Chiesa Armena. Il rimando
è posto subito dopo le parole “sono incorporati a Cristo”. Ma, andando a rileggere che cosa è scritto in
quel decreto si vede che esso illustra (ad edificazione degli Armeni) tutti e
sette i Sacramenti, come debbano intendersi per i veri Cattolici, senza far
riferimento alcuno al Battesimo degli eretici e al suo significato: “Primo di tutti i sacramenti è il Battesimo,
porta della vita spirituale: grazie ad
esso diveniamo membra di Cristo e parte del Corpo della Chiesa [per ipsum
enim membra Christi ac de corpore efficimur Ecclesiae]”[2]. Coloro che vengono “incorporati a Cristo”,
sono qui i Cattolici non gli eretici e gli scismatici. È legittima, allora, l’estensione del
concetto a questi ultimi? Sembra
proprio di no, se si deve mantenere la dottrina della Chiesa, proposta da
ultimo nella Mystici Corporis.
Che così insegna:
“Tra
i membri della Chiesa bisogna annoverare esclusivamente quelli che hanno
ricevuto il lavacro di rigenerazione [il Battesimo] e professano la vera
fede né dalla compagine di questo corpo si separarono disgraziatamente da
sé stessi né per gravissime colpe ne furono separati dalla legittima
autorità”(Corsivi miei). E l’esclusione
dalla Chiesa vale per tutti gli eretici e scismatici pubblici, anche se
in buona fede (eretici e scismatici in senso materiale, cioè non per via
della loro intenzione ma a causa del contenuto oggettivamente infedele di ciò
che professano). Questi ultimi, però, a
differenza degli eretici e scismatici in senso formale (che cioè
vogliono scientemente esserlo, come un Fozio, un Lutero, un Calvino), sono, per
la loro disponibilità a professare la vera fede nella vera Chiesa (votum
Ecclesiae), “ordinati da un certo inconsapevole desiderio ed anelito [che
solo lo Spirito Santo conosce] al mistico Corpo del Redentore”. Pertanto, pur essendo fuori della
compagine visibile di questo corpo, possono appartenervi invisibilmente e per
questa via conseguire la giustificazione e la salvezza. Essi, tuttavia, restano “privi di quei tanti
doni e aiuti celesti che solo nella Chiesa cattolica è dato di godere”. Per tal motivo Pio XII, come i suoi
predecessori, li invitava “ad assecondare gli impulsi interni della grazia e a
sottrarsi al loro stato, in cui non possono essere sicuri della propria
salvezza” perché “chi abbia ricusato di ascoltare la Chiesa, deve, secondo l’ordine
di Dio, ritenersi come etnico e pubblicano [Mt 18, 17]” cioè come nemico e
pubblico peccatore: “Rientrino perciò nella cattolica unità [Ingrediantur
igitur catholicam unitatem] e tutti uniti a Noi [al Pontefice] nell’unica
compagine del Corpo di Gesù Cristo, vengano con Noi all’unico Capo nella
società di un gloriosissimo amore”[3].
Si vede chiaramente
che qui si ha un invito a ritornare all’ovile, con assunzione diretta
della responsabilità della scelta che, precisa poi il Papa, deve essere
assolutamente libera da costrizione (sponte libenterque). Il paterno invito è pertanto rivolto a chi si
trova del tutto fuori della Chiesa Cattolica Romana, per quanto ad essa ordinato
in voto dal Battesimo. Fuori, perché solo la Chiesa Cattolica
Romana è l’unica Chiesa di Cristo:
“Pertanto a definire e descrivere questa verace Chiesa di Cristo (che è
la Chiesa santa, cattolica, apostolica, romana), nulla si trova di più nobile,
di più grande, di più divino che quell’espressione con la quale essa viene
chiamata “il Corpo mistico di Gesù Cristo”; espressione che scaturisce e quasi
germoglia da ciò che vien frequentemente esposto nella Sacra Scrittura e nei
Santi Padri”[4].
La mutazione
dottrinale introdotta dal Concilio, sembra sia dovuta in particolare al
cardinale Bea, che, sull’Osservatore Romano del 27 aprile 1962,
interpretava la Mystici Corporis come se “l’ordinazione al mistico
corpo” dei “separati” dovesse intendersi (in modo nuovo) quale appartenenza,
onde la loro situazione di salvezza non sarebbe diversa da quella dei cattolici[5].
Al dettato
sconcertante dell’art. 3 UR va poi aggiunto il noto passo di UR 15.1, nel
quale, illustrando “la tradizione liturgica e spirituale degli orientali”,
meglio noti come Ortodossi (grecoscismatici), si presenta la “celebrazione
dell’Eucaristia” quale loro contributo alla crescita della “Chiesa di Dio”(Ecclesia
Dei), termine anch’esso tradizionale, che indica sempre la “Chiesa di
Cristo”: “Perciò con la celebrazione dell’eucaristia del Signore in queste
singole Chiese, la Chiesa di Dio è edificata e cresce, e con la concelebrazione
si manifesta la comunione tra di esse [Proinde per celebrationem
Eucharistiae Domini in his singulis Ecclesiis, Ecclesia Dei aedificatur et
crescit, et per concelebrationem communio earum manifestatur]”. Se la “Chiesa di Dio”, che è la “Chiesa di
Cristo”, è “edificata e cresce” ad opera di queste “Chiese” e la
“concelebrazione” ne manifesta “la comunione”, allora esse ne sono parte, così
come ne è parte la Chiesa cattolica (Apostolica, Romana). Il passo appare per
la verità di un’estrema chiarezza nell’affermare che “queste singole Chiese”
non cattoliche concorrono in quanto tali “all’edificazione e alla crescita
della Chiesa di Dio”. L’espressione “Chiesa di Dio”, ci informa in nota lo
stesso Concilio, è tratta da S. Giovanni Crisostomo, morto verso il 407 AD,
qualche secolo prima dello scisma bizantino:
era termine tradizionale, risalente addirittura all’Antico Testamento
(vedi infra, cap. IV, § 2), per indicare la Chiesa in quanto tale, nella
sua unità, e quindi la Chiesa di Cristo, nella quale era già riconosciuto il
Primato di Pietro[6].
3. I Cattolici colpevoli della separazione, come
gli Acattolici!
Ma in che senso il Concilio usa il termine
“Chiesa di Dio”? Esso compare anche nel Proemio
di UR (UR 1) oltre che in UR 3.1. Nel Proemio,
in modo del tutto inaspettato, le divisioni tra i Cristiani sembrano poste
tutte sullo stesso piano, tutte causa allo stesso modo di un unico
scandalo, come se non ci fosse stata sempre un’unica Chiesa di Cristo – quella
fondata sul primato di Pietro – dalla quale sono state le varie sette, eretiche
e scismatiche, via via a staccarsi, per colpa loro (come recita la famosa frase
di S. Cipriano di Cartagine: “sono stati loro a staccarsi da noi, non noi da
loro”). Inoltre, questo Proemio afferma che presso “i cristiani tra loro
separati”(in Christianos inter se disiunctos), il Signore negli ultimi
tempi “ha cominciato a effondere l’interiore ravvedimento e il desiderio di
unione” (UR, 1.2), includendosi evidentemente anche i Cattolici tra i cristiani
“separati” che si stavano ravvedendo, dato che il testo non dice “da noi
[Cattolici] separati”, come avrebbe dovuto, per mantenere la continuità con la
dottrina precedente! All’epoca ci
sarebbe stato dunque un generale “movimento che si allargava di giorno in
giorno per il ristabilimento dell’unità di tutti i cristiani” (ivi). Non so se
corrisponda al vero il giudizio qui espresso sulla forza del movimento
ecumenico, che era in realtà di élite e di origine protestante-teosofica. Il
testo sembra caricare alquanto le tinte.
Ma il punto più importante è un altro: l’ecumenismo non è qui inteso in
vista del ritorno alla Chiesa cattolica di eretici e scismatici (come
secondo la dottrina tradizionale) ma per “il ristabilimento dell’unità di tutti
i cristiani [ad omnium Christianorum unitatem restaurandam]”,
ristabilimento che non contempla alcun “ritorno”. Da siffatta nozione di “ristabilimento”, come
non ricavare l’impressione che, per UR 1.2, l’unità della Chiesa al momento non
c’era, che la Chiesa Cattolica (Apostolica, Romana) non realizzava in sé
stessa l’unità della vera ed unica Chiesa di Cristo! L’unità non c’era e bisognava ristabilirla,
non auspicando la conversione ed il ritorno dei “separati” ma rifondando una
“Chiesa di Dio veramente universale”, come se la Chiesa Cattolica Romana al
momento esistente non rappresentasse in quanto tale la “Chiesa di Dio” in tutta
la sua universalità!
Il concetto espresso
da UR 1.2 è ripetuto in modo ancor più forte da UR 24.2, ultimo articolo del
Decreto, ove si esalta, come motivo trainante del Concilio, “questo santo
proposito di riconciliare tutti i cristiani nell’unità di una sola e unica
Chiesa di Cristo [hoc sanctum propositum reconciliandi Christianos omnes in
unitate unius unicaeque Ecclesiae Christi]”. Non esisteva ancora, dunque, una “sola ed
unica Chiesa di Cristo”, veramente universale.
Bisognava crearla attraverso la “riconciliazione di tutti i Cristiani”
in un’unità superiore, nuova!
4. Un’unità che trascende la Chiesa Cattolica.
Consideriamo bene il
testo di UR 1.2. Chi partecipa a questo
movimento ecumenico “per l’unità”? “Tutti quelli che invocano la Trinità e
confessano Gesù come Signore e Salvatore, e non solo presi a uno a uno, ma anche
riuniti in comunità [sed etiam coetibus congregati], nelle quali hanno
ascoltato il Vangelo e che essi chiamano la Chiesa loro e la Chiesa di
Dio. Quasi tutti però, anche se in modo
diverso, aspirano a una Chiesa di Dio una e visibile, che sia veramente universale
[ad Ecclesiam Dei unam et visibilem adspirant, quae sit vere
universalis] e mandata al mondo intero, perché questo si converta al
Vangelo e così si salvi per la gloria di Dio” (UR, 1.2). La descrizione delle caratteristiche dei
Cristiani che partecipano al movimento ecumenico appare talmente generica da
potersi applicare, come ognun può
vedere, a qualsiasi tipo di “denominazione cristiana”, come si dice oggi,
copiando dai media anglosassoni. E a
cosa aspira tale movimento, secondo il Concilio? I suoi membri aspirano (adspirant),
cattolici compresi, ad una “Chiesa di Dio una e visibile, che sia veramente
universale”! E se vi aspirano, essa
evidentemente ancora non c’è. Questa
“Chiesa di Dio” così intesa è altra cosa rispetto alla “Chiesa di Cristo”? In realtà essa è solo un ulteriore nome
tradizionale della “Chiesa di Cristo”, da intendersi però quest’ultima come
esposta da UR 3, ossia della Chiesa di Cristo che ricomprende la Chiesa
cattolica e tutte le “Chiese e comunità” cristiane, l’una e le altre in diverso
modo “strumenti di salvezza”. Questa
“Chiesa di Cristo” costituisce nello stesso tempo un obiettivo ancora da
realizzare nella sua pienezza![7]
Queste sono
notoriamente le gravi questioni poste dal plesso LG 8 – UR 3 ed addentellati. E
che le questioni siano gravi lo dimostra, a mio avviso, anche il fatto che
l’idea di Chiesa racchiusa in LG 8 non può appoggiarsi ad alcuna delle
precedenti definizioni della Chiesa. Se
si guarda lo schema De Ecclesia originario, l’Aeternus Unigeniti
“scartato” in Concilio, si vede che la definizione della Chiesa si premura di
dire, senza tanti giri di parole, che la sola ed unica Chiesa di Cristo è
la Chiesa Cattolica Romana,
appoggiandosi all’autorità del Simbolo Apostolico, di quello
Niceno-Costantinopolitano, del Concilio di Trento, di quello Vaticano I,
dell’Enciclica Mystici Corporis, dell’Enciclica Humani generis etc., e stabilendo questa chiarissima
connessione: La Chiesa come società è il Corpo Mistico di Cristo –
La Chiesa Cattolica romana è il Corpo Mistico di Cristo, l’unica che abbia
diritto al titolo di “Chiesa”[8]. Stop.
Quale riferimento alle
fonti del Magistero troviamo, invece, in LG, 8.2, quale pezza d’appoggio per il
“subsistit in”? Nessuna. Solo un rinvio ai Concili tridentino e
vaticano I, per ricordare che la Chiesa cattolica (nella quale “sussiste”
quella di Cristo) è, sull’autorità di quei Concili, “governata dal successore
di Pietro e dai vescovi in comunione con lui” (vedi nota n. 13 della LG). E il lettore disattento potrebbe anche
credere che l’idea della Chiesa di Cristo che “sussiste nella” Chiesa cattolica
sia già menzionata in quei due fondamentali concili dogmatici: il che non è,
nel modo più assoluto.
Ma chi difende
l’ortodossia di UR 3 oppone in genere quanto vi si trova nell’ultimo e spesso citato
paragrafo di questo articolo.
5. Comunione
e salvezza piene e non piene, nella confusione dei concetti.
Dopo
aver detto che le “Chiese e comunità separate” sono usate anch’esse dallo
“Spirito di Cristo” come “strumenti di salvezza”, il Concilio sente il bisogno
di precisare, quasi ad attenuare l’impatto della straordinaria
affermazione. Rileva, quindi, che le
“comunità e Chiese” dei separati “non godono di quella unità che Gesù Cristo ha
voluto elargire a tutti quelli che ha rigenerato e vivificato insieme per
formare un solo corpo in vista di una vita nuova, unità attestata dalla sacra
Scrittura e dalla veneranda tradizione della Chiesa” (UR 3.5). E dove la si trova quest’unità,
indispensabile alla salvezza? Nella
Chiesa cattolica.
“Infatti, solo per
mezzo della cattolica Chiesa di Cristo, che è il mezzo generale della salvezza,
si può ottenere tutta la pienezza dei mezzi di salvezza. In realtà noi crediamo che al solo Collegio
apostolico con a capo Pietro il Signore ha affidato tutti i tesori della Nuova
Alleanza, al fine di costituire l’unico corpo di Cristo sulla terra, al quale
bisogna che siano pienamente incorporati tutti quelli che già in qualche modo
appartengono al popolo di Dio”[9].
In molti hanno sempre
ritenuto che questo fosse un testo chiaro, nel quale si dice finalmente e per
due volte che solo ad opera della Chiesa cattolica è possibile ottenere
la salvezza. Ma osserviamo il testo
attentamente. Non godendo dell’unità
“elargita” da Cristo ai battezzati, attestata dalla Sacra Scrittura e dalla
Tradizione della Chiesa, ne consegue che, come “strumenti di salvezza”, le
“Chiese e comunità” dei “separati” non possono offrire “tutta la pienezza dei mezzi della salvezza”. Domanda:
la pienezza dei mezzi di salvezza implica la salvezza o la pienezza
della salvezza? Apparendo privo di senso
il concetto di una salvezza non piena (perché la salvezza si dà o non si
dà, non può essere parziale, non esiste il Paradiso a metà), bisogna allora
dire che “la pienezza dei mezzi della salvezza” è concetto che implica la
salvezza tout court, senza distinzioni di pieno e non pieno, completo e
parziale. Ma con questa ineccepibile
conclusione che cosa resta della qualità di mezzi di salvezza forzatamente non
pieni, a causa delle loro “carenze”, attribuita ai “separati”? Se la salvezza non può che essere piena,
come possono essere considerate “strumenti di salvezza” quelle “Chiese e
comunità” che dispongono di “strumenti di salvezza” per definizione imperfetti
e quindi esclusi dalla “pienezza”? Strumenti di salvezza imperfetti o non pieni
daranno una salvezza imperfetta o non piena.
Ma questo non si può concedere perché significherebbe ammettere il
concetto di una salvezza non piena, cosa
assurda, come si è detto. In
alternativa, bisognerebbe ammettere, allora, che anche gli strumenti di
salvezza non pieni possono produrre la salvezza tout court, ossia piena: cosa parimenti assurda e inconcepibile.
Voler considerare le
sette di scismatici ed eretici quali “strumenti di salvezza” non porta dunque
ad una contraddizione che sembra insanabile, circa il rapporto tra la nozione
di mezzi della salvezza e salvezza? Ma
procediamo. La pienezza dei mezzi della
salvezza spetta dunque solo alla
Chiesa cattolica. Veramente il testo non
dice sic et simpliciter: “Chiesa
cattolica” o, ancor meglio, “Chiesa Cattolica Romana”; dice: “cattolica Chiesa di Cristo”(per solam
enim catholicam Christi Ecclesiam).
C’è una differenza? Forse no. O forse sì. Ci può essere, a mio avviso,
nel senso che la “cattolica Chiesa di Cristo” può indicare la Chiesa cattolica
in quanto è la componente “cattolica” della Chiesa di Cristo, quella
componente che è appunto “mezzo generale” (non l’unico mezzo!) della
salvezza perché possiede “la pienezza dei mezzi della salvezza”, al contrario
delle “Chiese e comunità” dei “separati”, che pur farebbero parte della Chiesa
di Cristo. In tal modo, il mezzo di
salvezza rappresentato dalla Chiesa cattolica non sembra affatto inteso come
unico ed esclusivo, l’unico in assoluto, sulla linea della Mystici
Corporis. Esso sarebbe, invece,
“generale” rispetto alla parzialità dei mezzi di salvezza pertinenti ai
“separati”. È solo in quanto “mezzo
generale [e non unico!] della salvezza” che la Chiesa cattolica ha
“tutta la pienezza dei mezzi della salvezza”.
E secondo me nemmeno
l’art. 14 di LG apporta il chiarimento necessario, il raggio di sole che
disperde tutte le nubi. È l’articolo nel
quale, rivolgendosi espressamente ai Cattolici, il Concilio afferma che la
Chiesa “peregrinante”, fondata da Cristo, è “necessaria alla salvezza”. Infatti, “Egli stesso, inculcando
espressamente la necessità della fede e del battesimo (cfr. Mc 16,16; Gv 3,5),
ha nello stesso tempo confermato la necessità della Chiesa [necessitatem
Ecclesiae], nella quale gli uomini entrano per il battesimo come per una
porta. Perciò non possono salvarsi [salvari non possent] quegli uomini,
i quali, pur non ignorando che la Chiesa Cattolica è stata fondata da Dio per
mezzo di Gesù Cristo come necessaria [ut necessariam], non vorranno
entrare in essa o in essa perseverare”.
Si ricorda qui Mc
16,16, nel quale Nostro Signore afferma categoricamente: “Chi crederà e si battezzerà, sarà salvo; chi
in verità non crederà, sarà condannato”.
E Gv 3,5, che ribadisce in modo
più sfumato il concetto: “Chi non sarà
rinato con l’acqua e lo Spirito Santo non può entrare nel Regno di Dio”. Tuttavia il testo si limita a dire che la
Chiesa Cattolica è “necessaria” alla salvezza; non precisa che solo essa è
necessaria ed indispensabile. È vero che
cita due perìcopi che fanno emergere l’esclusività e l’unicità della Chiesa
Cattolica per la salvezza. Ma perché
dice poi che quelli che rigettano la Chiesa o i transfughi “non potrebbero
salvarsi”? La traduzione italiana recita
“non possono”; quella francese, più correttamente, “ne pourraient pas être
sauvés [non potrebbero esser salvati]”, dato che l’originale latino usa
l’imperfetto congiuntivo (non possent).
Nostro Signore è stato categorico.
Ha detto “condemnabitur”, traduzione letterale del greco katakrithésetai:
“sarà condannato”; non ha detto: “sarebbe condannato”.
Ma, nonostante
l’evidente tortuosità della formulazione di UR 3.5 ed i gravi problemi
interpretativi che essa fa sorgere, non potremmo considerare ugualmente la
“pienezza” ivi proposta come l’equivalente dell’unicità ed esclusività
insegnata ad esempio nella Mystici Corporis? Si potrebbe, a mio modesto avviso, forzando
il testo, se non fosse per il fatto che “Chiese e comunità” non
cattoliche sono senza alcun dubbio incluse, come si è visto, nella Chiesa di
Cristo e come tali considerate “strumenti di salvezza”, sia pure afflitti da
“carenze”. Ed una controverità teologica
affermata in modo così netto, mi sembra impossibile da aggirare.
Stando così le cose,
non mi sembra che l’uso dell’avverbio “solo” apporti la chiarezza
necessaria. Ciò si vede, a mio avviso,
anche dall’ultimo passaggio di UR 3.5. Tutti i tesori della Nuova Alleanza (=
tutta la pienezza dei mezzi della salvezza) sono stati affidati al solo
Collegio apostolico con a capo Pietro (il testo evita però di precisare: “e quindi alla sola Chiesa Cattolica
Apostolica Romana con a capo i successori di Pietro”). Ma al “Corpo di Cristo sulla terra”, cioè
alla Chiesa militante (secondo la definizione tradizionale), come si viene “incorporati”? Da “ordinati in voto” per opera della Grazia,
che ritornano alla vera e unica Chiesa dopo essersi pentiti e aver fatto abiura
dei propri errori? No. Non si ha alcun ritorno o conversione. L’eventuale conversione è concepita come una piena
incorporazione, che è cosa ben diversa:
il “separato” viene incorporato “pienamente”, dal momento che era già
stato incorporato non pienamente con il battesimo (vedi supra, §
2). In quanto già “incorporati” non
pienamente (in “comunione non piena”) “i separati” appartenevano già “in
qualche modo” al “popolo di Dio” ossia alla Chiesa di Cristo (nel cap. II della
Lumen gentium, la Chiesa visibile è concepita come “popolo di
Dio”).
Come ha sottolineato
Mons. Gherardini, il linguaggio di LG e UR, strettamente connessi tra di loro,
oltre che al Decreto Dignitatis
humanae sulla libertà religiosa, “è tutto all’insegna del vago: abbonda l’uso dell’aggettivo “quidam”[un
certo, un tale, qualche e simili] che è espressione di radicale insicurezza, e
si presume con esso di determinare perfino l’azione dello Spirito Santo o di
predisporre un asserto dottrinale (“quaedam in Spirito Sanctu coniunctio [una
certa unione nello Spirito Santo]”); “in quadam cum Ecclesia catholica
coniunctione [in una certa unione con la Chiesa Cattolica]”; “quaedam immo
plurima et eximia elementa extra visibilia Ecclesiae catholicae saepta [”alcuni
molteplici e persino ottimi elementi al di fuori del recinto della Chiesa
cattolica”]; “ad populum Dei aliquo modo pertinent [appartengono in qualche
modo al popolo di Dio]”[10].
6. Quante “Chiese” ci sono, per il Vaticano II ?
Tutto
ciò considerato, possiamo dire che UR 3.5 risolva le ambiguità e le
contraddizioni presenti nella definizione (non dogmatica) della Chiesa data dal
Vaticano II? A mio avviso, esso sembra
confermare l’interpretazione secondo la quale la “Chiesa di Cristo”, nelle
intenzioni del Concilio, include sia la Chiesa cattolica che le “Chiese e
comunità” dei “separati”. La
costituzione Lumen gentium doveva
definire la natura della Chiesa, in modo da completare quanto definito come
articolo di fede dal Vaticano I sulla figura del Pontefice (dogma
dell’infallibilità pontificia quando il Papa dà una definizione solenne in
materia di fede e costumi). Ma essa
sembra aver partorito solo un’enorme confusione tra Chiesa di Dio, Chiesa di
Cristo, Chiesa cattolica, Comunità e Chiese separate, Popolo di Dio; confusione
che coinvolge anche il concetto della salvezza.
Questa è almeno la sensazione di molti credenti, costretti a vedere ora
nella Chiesa nient’altro che il terreno
“Popolo di Dio” in “comunione” o “federazione” con tutte le
“denominazioni” cristiane (e non), con il Papa come capo carismatico, “uomo di
pace”, impegnato in frequenti e mediatici “viaggi di pace”, che garantisce a tutti
il Paradiso, perché Dio è Amore e l’Inferno è vuoto.
“L’introduzione del
concetto di “piena comunione” è stato decisivo per elevare le confessioni
cristiane a una condizione diversa da quella, molto più netta, che la dottrina
cattolica aveva sempre riservato a tutto ciò che cattolico non è. Tanto per intendersi: non si sarebbe fatto un Concilio come quello
di Trento, se non si fosse ritenuta gravemente erronea la posizione di Lutero e
del luteranesimo. Ora, leggendo alcuni
dei documenti del Vaticano II, si ricava l’impressione di una nuova
ecclesiologia, nella quale si avanza una sorta di “federazione” delle chiese
cristiane, all’interno della quale la Chiesa cattolica si riserva una posizione
di “pienezza”, ma accanto e insieme al parterre di tutte le altre espressioni
della riforma protestante. A questo
scopo è stata coniata l’espressione “Chiesa di Cristo”, la cui ricomposizione
logica con la nozione di “Chiesa cattolica” risulta molto complicata. Si tratta della stessa cosa, o di
un’altra? Quante “Chiese” ci sono,
allora?”[11].
In realtà, come si è
visto, l’espressione “Chiesa di Cristo” preesisteva, unitamente agli altri
termini tradizionali. Ma è vero che essa
sembra qui una novità perché utilizzata in un senso “allargato”, in passato sconosciuto. E proprio questa sembra esser stata la causa
prima della confusione: l’aver voluto
estendere la definizione della “Chiesa di Cristo” sino ad includervi tutti gli
acattolici, giocando sull’idea di pienezza e non pienezza, comunione piena e
non piena o imperfetta. Altro motivo di
confusione deriva, io credo, dall’aver poi voluto identificare la Chiesa più
che con il Corpo Mistico di Cristo con il “popolo di Dio”, come se la parte
terrena del Corpo Mistico rappresentata dal popolo dei fedeli potesse diventare
il Tutto. A proposito dell’idea della “pienezza” (plenitudo), bisogna
ricordare che essa ricorre in S.Paolo, ma di sicuro senza le sfumature
indefinibili ed ambigue ad essa attribuite dal Concilio. Si cita sempre, a questo proposito, Ef 1, 23,
uno dei passi fondamentali per il concetto della Chiesa come Corpo Mistico di
Cristo, nel quale l’Apostolo ci insegna che Dio “tutto pose sotto i suoi piedi
[di Cristo], e Lui costituì capo supremo della Chiesa, che è il corpo di Lui,
la pienezza [plenitudo; pléroma, in greco] di Colui che tutto completa
in tutti”. La Chiesa “è piena di Cristo
che tutto riempie”. Come “corpo di Lui”
coincide perfettamente con Lui, ne è spiritualmente “la pienezza, dato che i
membri sono ciò che completa, il complemento [pléroma, di nuovo] del
Capo, come affermava S.Giovanni Crisostomo”[12]. Come inteso da S. Paolo e dai Padri della
Chiesa, il concetto della “pienezza” della Chiesa di Cristo in Cristo, in
quanto Corpo Mistico di Cristo, non lascia evidentemente spazio alcuno alle unioni
o comunioni meno piene o imperfette che dir si voglia con coloro che
si trovano fuori della Chiesa.
Tutto ciò premesso,
studiamo adesso in parallelo il primo capitolo dello schema sulla Chiesa
ripudiato, Aeternus Unigeniti, e il primo capitolo della LG, che lo ha
rielaborato, dedicati entrambi a definire il concetto della Chiesa. Solo sobbarcandosi a questo lavoro ingrato e
faticoso sui testi, credo si possa riuscire a verificare in maniera adeguata
l’esistenza o meno di una continuità
nella riforma della dottrina inaugurata dal Vaticano II.
[1]
D, 203-4. L’autopistía è la fede
prodotta dal soggetto stesso, la fede del tutto individualistica dei
Protestanti, quella del “libero esame” individuale delle Scritture.
[2] DS
696/1314.
[3]
AAS 35 (1943) 242-3; DS 2290/3821. La
traduzione italiana è quella apparsa su L’Osservatore Romano del
4.7.1943, pubblicata a parte: PIO XII, Enciclica
“Mystici Corporis” sul Corpo Mistico di Cristo, Vita e Pensiero,
Milano-Roma, 1959, p. 21, 82.
[4]
Ivi, p. 15 tr. it. Per la
coincidenza perfetta ed assoluta di
Chiesa di Cristo e Chiesa cattolica, il testo cita in nota la costituzione
dogmatica De fide catholica, cap. I, promulgata dal Vaticano I. Per la libertà con la quale devono avvenire
la conversione e il ritorno: ivi, pp.
82-3 e DS 2290/3822. Nel DS non sono riuscito a trovare il passo che ho appena
citato nel testo (sull’identità perfetta e assoluta di Chiesa di Cristo e
Chiesa Cattolica Romana), nella scelta di passi della Mystici Corporis.
[5]
Su quest’ultimo punto: AMERIO, Iota
Unum, p. 466 (§ 246); VELATI, Un indirizzo a Roma, cit., p. 107, con
le fonti ivi riprodotte in nota.
[6]
HUBERT JEDIN, Breve storia dei
Concili. I venti concili ecumenici nel
quadro della storia della Chiesa, tr. it. di Nerina Beduschi, Herder, Roma,
1960, p. 28, 32 (per il riconoscimento del Primato di Pietro).
[7]
L’appiattimento della Chiesa Cattolica sulle altre “Chiese e comunità”, come se
la nostra fede non si distinguesse da quella dei cosiddetti “fratelli
separati”, è stato colto e criticato da Mons. Gherardini in relazione al Proemio
della costituzione Sacrosanctum Concilium sulla Liturgia e ad UR 1 (Quod et tradidi
vobis, cit., pp. 373-5). Sul punto,
il prof. Cantoni accusa Mons. Gherardini di aver troncato le citazioni dai due
testi conciliari nel punto più conveniente alle sue tesi (C, 34-6). Ma il prosieguo dei testi citati non mostra
in realtà nulla di diverso, procedendo sempre nella stessa direzione. Non c’è
mai l’affermazione della superiorità della nostra religione cattolica (unica
rimasta fedele al dogma) né quella della necessità del ritorno dei “separati”,
dopo aver abiurato i loro errori. Non
c’è perché “la Chiesa” ivi menzionata è la “Chiesa di Cristo” nel senso del Concilio
non la Chiesa Cattolica Romana nel senso tradizionale del termine. E in questa “Chiesa di Cristo” in tal modo
concepita si ha appunto l’appiattimento.
[8]
Si controlli lo schema De Ecclesia “scartato” al cap. I, di 7 paragrafi
più le note, intitolato: “De Ecclesia
militantis natura”. Sul punto, vedi infra, capp. III e IV.
[9]
UR 3.5 : “Per solam enim catholicam Christi Ecclesiam, quae generale auxilium
salutis est, omnis salutarium mediorum plenitudo attingi potest. Uni nempe Collegio apostolico cui Petrus
praeest credimus Dominum commisisse omnia bona Foederis Novi, ad constituendum
unum Christi corpus in terris, cui plene
incorporentur oportet omnes, qui ad populum Dei iam aliquo modo pertinent”.
[10]
D, 205.
[11]
ALESSANDRO GNOCCHI – MARIO PALMARO, La Bella Addormentata etc., cit., p.
192.
[12] LGNT,
alla voce pléroma.
A sessant’anni dalla fine del Concilio
Ecumenico Vaticano Secondo - IV : Il decreto ‘Unitatis redintegratio’
sull’ecumenismo include le comunità acattoliche nella Chiesa di Cristo – di Paolo
Pasqualucci.
[Eccomi di nuovo a proporre capitoli del mio
libro Unam Sanctam.Studio sulle deviazioni dottrinali nella Chiesa cattolica
del XXI secolo, Solfanelli, Chieti, 2013.
In questa quarta puntata riprendo il discorso sul concetto di Chiesa di
Cristo proposto dal Concilio, notoriamente “ecumenico”, tale cioè da includere,
oltre alla Chiesa cattolica anche le “comunità acattoliche” ossia le comunità
cristiane scismatiche ed eretiche. Tale
“inclusione” dalle peculiari caratteristiche risulta collegando all’art. 8
della Lumen gentium il Decreto sull’ecumenismo, in particolare il suo
art. 3. Il cap. II del mio libro è per
l’appunto dedicato a questo articolo del suddetto decreto (pp. 43-53
dell’opera). Insomma, il “subsistit in”
di LG 8, si comprenderebbe appieno grazie all’art. 3 di Unitatis redintegratio. Vediamo dunque questo testo, uno dei
testi-chiave del Concilio per l’eleborazione dell’ecumenismo sincretistico e
non conforme alla Tradizione, propalato dal Concilio medesimo.]
* * *
Cap. II.
“UNITATIS REDINTEGRATIO” 3, CHE SANZIONA L’INCLUSIONE DELLE COMUNITÀ
ACATTOLICHE NELLA CHIESA DI CRISTO
Sommario
: 1.
Gli Acattolici diventano in quanto tali “strumenti di salvezza”. 2. Una
nuova ed inaccettabile dottrina del Battesimo, dovuta al cardinale Bea. 3. I
Cattolici colpevoli della separazione, come gli Acattolici! 4. Un’unità che trascende la Chiesa
cattolica. 5. Comunione e salvezza piene e non piene, nella
confusione dei concetti. 6. Quante “Chiese” ci sono, per il Vaticano II?
1. Gli Acattolici diventano in quanto tali
“strumenti di salvezza”.
L’articolo
3 di questo decreto concerne “le relazioni dei fratelli separati con la Chiesa
cattolica”. Dopo aver dichiarato il concetto del tutto nuovo, secondo il quale
essi si trovano “in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa
cattolica”, onde il movimento ecumenico deve mirare appunto a rimuovere gli
impedimenti ad una “piena comunione” con essa, così specifica:
“Inoltre, tra gli
elementi o beni dal complesso dei quali la stessa Chiesa è edificata e
vivificata, alcuni, anzi parecchi ed eccellenti, possono trovarsi fuori dei
confini visibili di essa: la parola di
Dio scritta, la vita della grazia, la fede, la speranza e la carità, e altri
doni interiori dello Spirito Santo ed elementi visibili. Tutte queste cose, le quali provengono da
Cristo e a lui conducono, appartengono a buon diritto [iure] all’unica
Chiesa di Cristo” (UR, 3.2).
Il
testo, dopo aver elencato gli “elementi o beni” che “edificano e vivificano la
Chiesa cattolica” e che possono ritrovarsi anche fuori dai confini visibili di
essa, dando quindi un contenuto più preciso agli “elementi” di cui all’art. 8.2
LG, afferma che essi “appartengono a buon diritto all’unica Chiesa di Cristo”. Ma ciò non significa, allora, confermare che
gli “elementi” di cui al detto articolo fanno parte della Chiesa di Cristo
allo stesso modo della Chiesa cattolica, che sicuramente vi
appartiene “di diritto”? E quindi che la
Chiesa cattolica è inclusa sì nella Chiesa di Cristo ma sempre come parte
di essa?
Il paragrafo
successivo, tra i suddetti “elementi” include anche “non poche azioni sacre”,
terminologia che indica, come sappiamo, la Sacra Liturgia. In queste “Chiese o comunità” non cattoliche
esistono, ci si dice, “azioni sacre” che “possono senza dubbio produrre
realmente la vita della grazia, e si devono dire atte ad aprire accesso alla
comunione della salvezza [ingressum in salutis communionem]” (UR,
3.3). Da affermazioni del genere, come
non ricavare l’idea che le liturgie degli Ortodossi e le “cene” dei Protestanti
sono, per il Concilio, “atte ad aprire accesso alla comunione della
salvezza”? Non si giustifica forse su
passaggi del genere l’ormai inflazionata pratica delle liturgie “ecumeniche”,
nelle quali tutti i culti sono spesso rappresentati, persino quelli non
cristiani, per quanto oscura possa essere l’espressione “accesso alla comunione
della salvezza”? Includendovi le “azione
sacre”, il testo mostra che gli elementi o beni di cui sopra sono quelli delle
comunità, perché “l’azione sacra” che ha luogo mediante la liturgia non può
essere individuale.
Ma la conclusione
posta alla fine di tutti questi chiarimenti è ancora più forte: nonostante le loro “carenze”, le “Chiese e
comunità separate” vengono utilizzate dallo Spirito Santo “come strumenti di
salvezza, la cui forza deriva dalla stessa pienezza della grazia e della
verità, che è stata affidata alla Chiesa cattolica [Iis enim Spiritus
Christi uti non renuit tamquam salutis mediis, quorum virtus derivatur ab ipsa
plenitudine gratiae et veritatis quae Ecclesiae catholicae concredita est]”(UR,
3.4). Non singoli loro componenti, nonostante appartengano a comunità
eretiche e scismatiche, ma le comunità stesse, in quanto tali. Come
sottrarsi all’impressione vivissima che qui le “Chiese e comunità separate”
(che, in quanto utilizzate dallo Spirito Santo come “strumenti di salvezza”
derivano la loro “forza” addirittura “dalla stessa pienezza della grazia e della verità affidata alla Chiesa cattolica”)
risultano essere “strumenti di salvezza” proprio in quanto tali,
contro tutto l’insegnamento precedente della Chiesa? Se l’appartenenza alla Chiesa di Cristo fa sì
che anche le comunità e Chiese dei non cattolici (le “Chiese” che si
autodefiniscono “ortodosse” sono quelle dei grecoscismatici, e “Chiese” sta
solo per tradizionale titolo d’onore, mantenuto dalla Chiesa cattolica) siano
da considerarsi “strumenti di salvezza”, sia pure gravati da qualche “carenza”
(da scisma ed eresia, avversione inveterata per il Papa, per “Roma”, etc.), che
cosa ne è del dogma di fede già ricordato, secondo il quale, al di fuori della
Chiesa cattolica non può esserci salvezza, se non nei casi individuali di
battesimo di desiderio? Salvezza ad opera dell’azione insondabile dello Spirito
Santo, nonostante l’appartenenza dei salvati ad una setta eretica e/o
scismatica (o ad un’altra religione, non rivelata) e non certo grazie a
questa appartenenza?
Del resto, bisogna pur
dire che il semplice credente non riesce a comprendere come possano essersi
conservate la “vita della grazia” e le tre virtù teologali (fede, speranza e
carità) non presso individui singoli
(cosa certamente possibile con l’aiuto dello Spirito Santo, che scruta nell’intimo e conosce i cuori) ma presso comunità
eretiche e scismatiche in quanto tali, pervicacemente ribelli all’autorità
dell’unica legittima Chiesa di Cristo.
Inoltre, il semplice credente vorrebbe sapere quali possibilità di
“santificazione” e quali “verità” siano racchiuse nelle dottrine e nel modo di
vivere di queste comunità eretiche e scismatiche fieramente avverse al Romano
Pontefice e a tutto ciò che è cattolico, nelle quali molti negano il concetto
stesso di “santificazione” (preferendovi il blasfemo “pecca fortiter sed crede
fortius” di Lutero, pecca fortemente ma credi ancor più fortemente o
l’equivalente “simul iustus et peccator”) e propugnano una nozione del tutto
soggettiva della verità, compresa quella rivelata.
Per ciò che riguarda
in particolare i Protestanti, ripropongo sinteticamente i loro “limiti” come
ricordati da Mons. Gherardini, notoriamente uno dei massimi conoscitori delle
loro dottrine, in campo cattolico:
nessuna
incompatibilità fra vita cristiana ed “eticità” dell’aborto, del divorzio e
delle “diversità”; soppressione d’almeno
cinque sacramenti; concezione del sacramento con funzione di segno, ma privo
della funzione “produttiva della grazia che significa”; riduzione dell’eucaristia alla celebrazione
del “testamento” di Cristo, che ha termine con la fine della celebrazione stessa; culto della Sacra Scrittura frastagliato da
idee contrastanti sulla sua reale o attuale (anzi attualistica,
quella dell’”autopistía”) ispirazione;
assenza d’un vero culto della Madonna così come ai Santi, perché esso
sarebbe un furto a Dio e a Cristo; […] non solo assenza, ma negazione
dell’ufficio papale e, anche là dove vige [presso gli Anglicani], l’episcopato
è ben altro rispetto a quello derivante dalla successione apostolica [etc.]”[1].
2. Una nuova ed inaccettabile dottrina del
Battesimo, dovuta al cardinale Bea.
Ma
l’elevazione delle “Chiese e comunità separate” a “strumenti di salvezza” non
si giova (è stato notato) anche di quella che sembra essere una sostanziale
riformulazione della dottrina del battesimo, rispetto a quanto enunciato ad
esempio dalla Mystici Corporis ?
Infatti, in UR, 3.1 si scrive che i “fratelli separati” devono
considerarsi “cristiani” perché con il battesimo sarebbero stati incorporati
a Cristo: “Nondimeno, giustificati
nel battesimo dalla fede, sono incorporati a Cristo [Nihilominus,
iustificati ex fide in baptismate, Christo incorporantur] e perciò sono a
ragione insigniti del nome di cristiani” (UR, 3.1). Poche righe prima la loro posizione era stata
definita (vedi supra, § 1) come quella di chi si trova in “una certa
comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica”. Ma che significato ha qui l’ “esser
incorporati a Cristo”, riferito ai non cattolici? Semplicemente questo, secondo logica: se il
Battesimo ricevuto nelle loro sette li “incorpora a Cristo”, allora vengono in
tal modo a far parte della “Chiesa di Cristo”.
E se il battesimo degli eretici e scismatici li fa entrare in quanto
tali nella Chiesa di Cristo, allora quest’ultima è più ampia della
Chiesa cattolica. Con tale dottrina, i
“fratelli separati” possono esser annoverati tra i membri della Chiesa,
indipendentemente dalla professione della vera fede e dall’ubbidienza ai
legittimi Pastori!
Quest’idea
dell’”incorporazione a Cristo” anche dei “fratelli separati”, il testo del
Concilio sembra fondarla sul Magistero precedente grazie a un rimando in nota
al Concilio di Firenze del 1439, del
quale si cita un passo dal famoso decreto Pro Armenis che ristabilì
l’unità con la Chiesa Armena. Il rimando
è posto subito dopo le parole “sono incorporati a Cristo”. Ma, andando a rileggere che cosa è scritto in
quel decreto si vede che esso illustra (ad edificazione degli Armeni) tutti e
sette i Sacramenti, come debbano intendersi per i veri Cattolici, senza far
riferimento alcuno al Battesimo degli eretici e al suo significato: “Primo di tutti i sacramenti è il Battesimo,
porta della vita spirituale: grazie ad
esso diveniamo membra di Cristo e parte del Corpo della Chiesa [per ipsum
enim membra Christi ac de corpore efficimur Ecclesiae]”[2]. Coloro che vengono “incorporati a Cristo”,
sono qui i Cattolici non gli eretici e gli scismatici. È legittima, allora, l’estensione del
concetto a questi ultimi? Sembra
proprio di no, se si deve mantenere la dottrina della Chiesa, proposta da
ultimo nella Mystici Corporis.
Che così insegna:
“Tra
i membri della Chiesa bisogna annoverare esclusivamente quelli che hanno
ricevuto il lavacro di rigenerazione [il Battesimo] e professano la vera
fede né dalla compagine di questo corpo si separarono disgraziatamente da
sé stessi né per gravissime colpe ne furono separati dalla legittima
autorità”(Corsivi miei). E l’esclusione
dalla Chiesa vale per tutti gli eretici e scismatici pubblici, anche se
in buona fede (eretici e scismatici in senso materiale, cioè non per via
della loro intenzione ma a causa del contenuto oggettivamente infedele di ciò
che professano). Questi ultimi, però, a
differenza degli eretici e scismatici in senso formale (che cioè
vogliono scientemente esserlo, come un Fozio, un Lutero, un Calvino), sono, per
la loro disponibilità a professare la vera fede nella vera Chiesa (votum
Ecclesiae), “ordinati da un certo inconsapevole desiderio ed anelito [che
solo lo Spirito Santo conosce] al mistico Corpo del Redentore”. Pertanto, pur essendo fuori della
compagine visibile di questo corpo, possono appartenervi invisibilmente e per
questa via conseguire la giustificazione e la salvezza. Essi, tuttavia, restano “privi di quei tanti
doni e aiuti celesti che solo nella Chiesa cattolica è dato di godere”. Per tal motivo Pio XII, come i suoi
predecessori, li invitava “ad assecondare gli impulsi interni della grazia e a
sottrarsi al loro stato, in cui non possono essere sicuri della propria
salvezza” perché “chi abbia ricusato di ascoltare la Chiesa, deve, secondo l’ordine
di Dio, ritenersi come etnico e pubblicano [Mt 18, 17]” cioè come nemico e
pubblico peccatore: “Rientrino perciò nella cattolica unità [Ingrediantur
igitur catholicam unitatem] e tutti uniti a Noi [al Pontefice] nell’unica
compagine del Corpo di Gesù Cristo, vengano con Noi all’unico Capo nella
società di un gloriosissimo amore”[3].
Si vede chiaramente
che qui si ha un invito a ritornare all’ovile, con assunzione diretta
della responsabilità della scelta che, precisa poi il Papa, deve essere
assolutamente libera da costrizione (sponte libenterque). Il paterno invito è pertanto rivolto a chi si
trova del tutto fuori della Chiesa Cattolica Romana, per quanto ad essa ordinato
in voto dal Battesimo. Fuori, perché solo la Chiesa Cattolica
Romana è l’unica Chiesa di Cristo:
“Pertanto a definire e descrivere questa verace Chiesa di Cristo (che è
la Chiesa santa, cattolica, apostolica, romana), nulla si trova di più nobile,
di più grande, di più divino che quell’espressione con la quale essa viene
chiamata “il Corpo mistico di Gesù Cristo”; espressione che scaturisce e quasi
germoglia da ciò che vien frequentemente esposto nella Sacra Scrittura e nei
Santi Padri”[4].
La mutazione
dottrinale introdotta dal Concilio, sembra sia dovuta in particolare al
cardinale Bea, che, sull’Osservatore Romano del 27 aprile 1962,
interpretava la Mystici Corporis come se “l’ordinazione al mistico
corpo” dei “separati” dovesse intendersi (in modo nuovo) quale appartenenza,
onde la loro situazione di salvezza non sarebbe diversa da quella dei cattolici[5].
Al dettato
sconcertante dell’art. 3 UR va poi aggiunto il noto passo di UR 15.1, nel
quale, illustrando “la tradizione liturgica e spirituale degli orientali”,
meglio noti come Ortodossi (grecoscismatici), si presenta la “celebrazione
dell’Eucaristia” quale loro contributo alla crescita della “Chiesa di Dio”(Ecclesia
Dei), termine anch’esso tradizionale, che indica sempre la “Chiesa di
Cristo”: “Perciò con la celebrazione dell’eucaristia del Signore in queste
singole Chiese, la Chiesa di Dio è edificata e cresce, e con la concelebrazione
si manifesta la comunione tra di esse [Proinde per celebrationem
Eucharistiae Domini in his singulis Ecclesiis, Ecclesia Dei aedificatur et
crescit, et per concelebrationem communio earum manifestatur]”. Se la “Chiesa di Dio”, che è la “Chiesa di
Cristo”, è “edificata e cresce” ad opera di queste “Chiese” e la
“concelebrazione” ne manifesta “la comunione”, allora esse ne sono parte, così
come ne è parte la Chiesa cattolica (Apostolica, Romana). Il passo appare per
la verità di un’estrema chiarezza nell’affermare che “queste singole Chiese”
non cattoliche concorrono in quanto tali “all’edificazione e alla crescita
della Chiesa di Dio”. L’espressione “Chiesa di Dio”, ci informa in nota lo
stesso Concilio, è tratta da S. Giovanni Crisostomo, morto verso il 407 AD,
qualche secolo prima dello scisma bizantino:
era termine tradizionale, risalente addirittura all’Antico Testamento
(vedi infra, cap. IV, § 2), per indicare la Chiesa in quanto tale, nella
sua unità, e quindi la Chiesa di Cristo, nella quale era già riconosciuto il
Primato di Pietro[6].
3. I Cattolici colpevoli della separazione, come
gli Acattolici!
Ma in che senso il Concilio usa il termine
“Chiesa di Dio”? Esso compare anche nel Proemio
di UR (UR 1) oltre che in UR 3.1. Nel Proemio,
in modo del tutto inaspettato, le divisioni tra i Cristiani sembrano poste
tutte sullo stesso piano, tutte causa allo stesso modo di un unico
scandalo, come se non ci fosse stata sempre un’unica Chiesa di Cristo – quella
fondata sul primato di Pietro – dalla quale sono state le varie sette, eretiche
e scismatiche, via via a staccarsi, per colpa loro (come recita la famosa frase
di S. Cipriano di Cartagine: “sono stati loro a staccarsi da noi, non noi da
loro”). Inoltre, questo Proemio afferma che presso “i cristiani tra loro
separati”(in Christianos inter se disiunctos), il Signore negli ultimi
tempi “ha cominciato a effondere l’interiore ravvedimento e il desiderio di
unione” (UR, 1.2), includendosi evidentemente anche i Cattolici tra i cristiani
“separati” che si stavano ravvedendo, dato che il testo non dice “da noi
[Cattolici] separati”, come avrebbe dovuto, per mantenere la continuità con la
dottrina precedente! All’epoca ci
sarebbe stato dunque un generale “movimento che si allargava di giorno in
giorno per il ristabilimento dell’unità di tutti i cristiani” (ivi). Non so se
corrisponda al vero il giudizio qui espresso sulla forza del movimento
ecumenico, che era in realtà di élite e di origine protestante-teosofica. Il
testo sembra caricare alquanto le tinte.
Ma il punto più importante è un altro: l’ecumenismo non è qui inteso in
vista del ritorno alla Chiesa cattolica di eretici e scismatici (come
secondo la dottrina tradizionale) ma per “il ristabilimento dell’unità di tutti
i cristiani [ad omnium Christianorum unitatem restaurandam]”,
ristabilimento che non contempla alcun “ritorno”. Da siffatta nozione di “ristabilimento”, come
non ricavare l’impressione che, per UR 1.2, l’unità della Chiesa al momento non
c’era, che la Chiesa Cattolica (Apostolica, Romana) non realizzava in sé
stessa l’unità della vera ed unica Chiesa di Cristo! L’unità non c’era e bisognava ristabilirla,
non auspicando la conversione ed il ritorno dei “separati” ma rifondando una
“Chiesa di Dio veramente universale”, come se la Chiesa Cattolica Romana al
momento esistente non rappresentasse in quanto tale la “Chiesa di Dio” in tutta
la sua universalità!
Il concetto espresso
da UR 1.2 è ripetuto in modo ancor più forte da UR 24.2, ultimo articolo del
Decreto, ove si esalta, come motivo trainante del Concilio, “questo santo
proposito di riconciliare tutti i cristiani nell’unità di una sola e unica
Chiesa di Cristo [hoc sanctum propositum reconciliandi Christianos omnes in
unitate unius unicaeque Ecclesiae Christi]”. Non esisteva ancora, dunque, una “sola ed
unica Chiesa di Cristo”, veramente universale.
Bisognava crearla attraverso la “riconciliazione di tutti i Cristiani”
in un’unità superiore, nuova!
4. Un’unità che trascende la Chiesa Cattolica.
Consideriamo bene il
testo di UR 1.2. Chi partecipa a questo
movimento ecumenico “per l’unità”? “Tutti quelli che invocano la Trinità e
confessano Gesù come Signore e Salvatore, e non solo presi a uno a uno, ma anche
riuniti in comunità [sed etiam coetibus congregati], nelle quali hanno
ascoltato il Vangelo e che essi chiamano la Chiesa loro e la Chiesa di
Dio. Quasi tutti però, anche se in modo
diverso, aspirano a una Chiesa di Dio una e visibile, che sia veramente universale
[ad Ecclesiam Dei unam et visibilem adspirant, quae sit vere
universalis] e mandata al mondo intero, perché questo si converta al
Vangelo e così si salvi per la gloria di Dio” (UR, 1.2). La descrizione delle caratteristiche dei
Cristiani che partecipano al movimento ecumenico appare talmente generica da
potersi applicare, come ognun può
vedere, a qualsiasi tipo di “denominazione cristiana”, come si dice oggi,
copiando dai media anglosassoni. E a
cosa aspira tale movimento, secondo il Concilio? I suoi membri aspirano (adspirant),
cattolici compresi, ad una “Chiesa di Dio una e visibile, che sia veramente
universale”! E se vi aspirano, essa
evidentemente ancora non c’è. Questa
“Chiesa di Dio” così intesa è altra cosa rispetto alla “Chiesa di Cristo”? In realtà essa è solo un ulteriore nome
tradizionale della “Chiesa di Cristo”, da intendersi però quest’ultima come
esposta da UR 3, ossia della Chiesa di Cristo che ricomprende la Chiesa
cattolica e tutte le “Chiese e comunità” cristiane, l’una e le altre in diverso
modo “strumenti di salvezza”. Questa
“Chiesa di Cristo” costituisce nello stesso tempo un obiettivo ancora da
realizzare nella sua pienezza![7]
Queste sono
notoriamente le gravi questioni poste dal plesso LG 8 – UR 3 ed addentellati. E
che le questioni siano gravi lo dimostra, a mio avviso, anche il fatto che
l’idea di Chiesa racchiusa in LG 8 non può appoggiarsi ad alcuna delle
precedenti definizioni della Chiesa. Se
si guarda lo schema De Ecclesia originario, l’Aeternus Unigeniti
“scartato” in Concilio, si vede che la definizione della Chiesa si premura di
dire, senza tanti giri di parole, che la sola ed unica Chiesa di Cristo è
la Chiesa Cattolica Romana,
appoggiandosi all’autorità del Simbolo Apostolico, di quello
Niceno-Costantinopolitano, del Concilio di Trento, di quello Vaticano I,
dell’Enciclica Mystici Corporis, dell’Enciclica Humani generis etc., e stabilendo questa chiarissima
connessione: La Chiesa come società è il Corpo Mistico di Cristo –
La Chiesa Cattolica romana è il Corpo Mistico di Cristo, l’unica che abbia
diritto al titolo di “Chiesa”[8]. Stop.
Quale riferimento alle
fonti del Magistero troviamo, invece, in LG, 8.2, quale pezza d’appoggio per il
“subsistit in”? Nessuna. Solo un rinvio ai Concili tridentino e
vaticano I, per ricordare che la Chiesa cattolica (nella quale “sussiste”
quella di Cristo) è, sull’autorità di quei Concili, “governata dal successore
di Pietro e dai vescovi in comunione con lui” (vedi nota n. 13 della LG). E il lettore disattento potrebbe anche
credere che l’idea della Chiesa di Cristo che “sussiste nella” Chiesa cattolica
sia già menzionata in quei due fondamentali concili dogmatici: il che non è,
nel modo più assoluto.
Ma chi difende
l’ortodossia di UR 3 oppone in genere quanto vi si trova nell’ultimo e spesso citato
paragrafo di questo articolo.
5. Comunione
e salvezza piene e non piene, nella confusione dei concetti.
Dopo
aver detto che le “Chiese e comunità separate” sono usate anch’esse dallo
“Spirito di Cristo” come “strumenti di salvezza”, il Concilio sente il bisogno
di precisare, quasi ad attenuare l’impatto della straordinaria
affermazione. Rileva, quindi, che le
“comunità e Chiese” dei separati “non godono di quella unità che Gesù Cristo ha
voluto elargire a tutti quelli che ha rigenerato e vivificato insieme per
formare un solo corpo in vista di una vita nuova, unità attestata dalla sacra
Scrittura e dalla veneranda tradizione della Chiesa” (UR 3.5). E dove la si trova quest’unità,
indispensabile alla salvezza? Nella
Chiesa cattolica.
“Infatti, solo per
mezzo della cattolica Chiesa di Cristo, che è il mezzo generale della salvezza,
si può ottenere tutta la pienezza dei mezzi di salvezza. In realtà noi crediamo che al solo Collegio
apostolico con a capo Pietro il Signore ha affidato tutti i tesori della Nuova
Alleanza, al fine di costituire l’unico corpo di Cristo sulla terra, al quale
bisogna che siano pienamente incorporati tutti quelli che già in qualche modo
appartengono al popolo di Dio”[9].
In molti hanno sempre
ritenuto che questo fosse un testo chiaro, nel quale si dice finalmente e per
due volte che solo ad opera della Chiesa cattolica è possibile ottenere
la salvezza. Ma osserviamo il testo
attentamente. Non godendo dell’unità
“elargita” da Cristo ai battezzati, attestata dalla Sacra Scrittura e dalla
Tradizione della Chiesa, ne consegue che, come “strumenti di salvezza”, le
“Chiese e comunità” dei “separati” non possono offrire “tutta la pienezza dei mezzi della salvezza”. Domanda:
la pienezza dei mezzi di salvezza implica la salvezza o la pienezza
della salvezza? Apparendo privo di senso
il concetto di una salvezza non piena (perché la salvezza si dà o non si
dà, non può essere parziale, non esiste il Paradiso a metà), bisogna allora
dire che “la pienezza dei mezzi della salvezza” è concetto che implica la
salvezza tout court, senza distinzioni di pieno e non pieno, completo e
parziale. Ma con questa ineccepibile
conclusione che cosa resta della qualità di mezzi di salvezza forzatamente non
pieni, a causa delle loro “carenze”, attribuita ai “separati”? Se la salvezza non può che essere piena,
come possono essere considerate “strumenti di salvezza” quelle “Chiese e
comunità” che dispongono di “strumenti di salvezza” per definizione imperfetti
e quindi esclusi dalla “pienezza”? Strumenti di salvezza imperfetti o non pieni
daranno una salvezza imperfetta o non piena.
Ma questo non si può concedere perché significherebbe ammettere il
concetto di una salvezza non piena, cosa
assurda, come si è detto. In
alternativa, bisognerebbe ammettere, allora, che anche gli strumenti di
salvezza non pieni possono produrre la salvezza tout court, ossia piena: cosa parimenti assurda e inconcepibile.
Voler considerare le
sette di scismatici ed eretici quali “strumenti di salvezza” non porta dunque
ad una contraddizione che sembra insanabile, circa il rapporto tra la nozione
di mezzi della salvezza e salvezza? Ma
procediamo. La pienezza dei mezzi della
salvezza spetta dunque solo alla
Chiesa cattolica. Veramente il testo non
dice sic et simpliciter: “Chiesa
cattolica” o, ancor meglio, “Chiesa Cattolica Romana”; dice: “cattolica Chiesa di Cristo”(per solam
enim catholicam Christi Ecclesiam).
C’è una differenza? Forse no. O forse sì. Ci può essere, a mio avviso,
nel senso che la “cattolica Chiesa di Cristo” può indicare la Chiesa cattolica
in quanto è la componente “cattolica” della Chiesa di Cristo, quella
componente che è appunto “mezzo generale” (non l’unico mezzo!) della
salvezza perché possiede “la pienezza dei mezzi della salvezza”, al contrario
delle “Chiese e comunità” dei “separati”, che pur farebbero parte della Chiesa
di Cristo. In tal modo, il mezzo di
salvezza rappresentato dalla Chiesa cattolica non sembra affatto inteso come
unico ed esclusivo, l’unico in assoluto, sulla linea della Mystici
Corporis. Esso sarebbe, invece,
“generale” rispetto alla parzialità dei mezzi di salvezza pertinenti ai
“separati”. È solo in quanto “mezzo
generale [e non unico!] della salvezza” che la Chiesa cattolica ha
“tutta la pienezza dei mezzi della salvezza”.
E secondo me nemmeno
l’art. 14 di LG apporta il chiarimento necessario, il raggio di sole che
disperde tutte le nubi. È l’articolo nel
quale, rivolgendosi espressamente ai Cattolici, il Concilio afferma che la
Chiesa “peregrinante”, fondata da Cristo, è “necessaria alla salvezza”. Infatti, “Egli stesso, inculcando
espressamente la necessità della fede e del battesimo (cfr. Mc 16,16; Gv 3,5),
ha nello stesso tempo confermato la necessità della Chiesa [necessitatem
Ecclesiae], nella quale gli uomini entrano per il battesimo come per una
porta. Perciò non possono salvarsi [salvari non possent] quegli uomini,
i quali, pur non ignorando che la Chiesa Cattolica è stata fondata da Dio per
mezzo di Gesù Cristo come necessaria [ut necessariam], non vorranno
entrare in essa o in essa perseverare”.
Si ricorda qui Mc
16,16, nel quale Nostro Signore afferma categoricamente: “Chi crederà e si battezzerà, sarà salvo; chi
in verità non crederà, sarà condannato”.
E Gv 3,5, che ribadisce in modo
più sfumato il concetto: “Chi non sarà
rinato con l’acqua e lo Spirito Santo non può entrare nel Regno di Dio”. Tuttavia il testo si limita a dire che la
Chiesa Cattolica è “necessaria” alla salvezza; non precisa che solo essa è
necessaria ed indispensabile. È vero che
cita due perìcopi che fanno emergere l’esclusività e l’unicità della Chiesa
Cattolica per la salvezza. Ma perché
dice poi che quelli che rigettano la Chiesa o i transfughi “non potrebbero
salvarsi”? La traduzione italiana recita
“non possono”; quella francese, più correttamente, “ne pourraient pas être
sauvés [non potrebbero esser salvati]”, dato che l’originale latino usa
l’imperfetto congiuntivo (non possent).
Nostro Signore è stato categorico.
Ha detto “condemnabitur”, traduzione letterale del greco katakrithésetai:
“sarà condannato”; non ha detto: “sarebbe condannato”.
Ma, nonostante
l’evidente tortuosità della formulazione di UR 3.5 ed i gravi problemi
interpretativi che essa fa sorgere, non potremmo considerare ugualmente la
“pienezza” ivi proposta come l’equivalente dell’unicità ed esclusività
insegnata ad esempio nella Mystici Corporis? Si potrebbe, a mio modesto avviso, forzando
il testo, se non fosse per il fatto che “Chiese e comunità” non
cattoliche sono senza alcun dubbio incluse, come si è visto, nella Chiesa di
Cristo e come tali considerate “strumenti di salvezza”, sia pure afflitti da
“carenze”. Ed una controverità teologica
affermata in modo così netto, mi sembra impossibile da aggirare.
Stando così le cose,
non mi sembra che l’uso dell’avverbio “solo” apporti la chiarezza
necessaria. Ciò si vede, a mio avviso,
anche dall’ultimo passaggio di UR 3.5. Tutti i tesori della Nuova Alleanza (=
tutta la pienezza dei mezzi della salvezza) sono stati affidati al solo
Collegio apostolico con a capo Pietro (il testo evita però di precisare: “e quindi alla sola Chiesa Cattolica
Apostolica Romana con a capo i successori di Pietro”). Ma al “Corpo di Cristo sulla terra”, cioè
alla Chiesa militante (secondo la definizione tradizionale), come si viene “incorporati”? Da “ordinati in voto” per opera della Grazia,
che ritornano alla vera e unica Chiesa dopo essersi pentiti e aver fatto abiura
dei propri errori? No. Non si ha alcun ritorno o conversione. L’eventuale conversione è concepita come una piena
incorporazione, che è cosa ben diversa:
il “separato” viene incorporato “pienamente”, dal momento che era già
stato incorporato non pienamente con il battesimo (vedi supra, §
2). In quanto già “incorporati” non
pienamente (in “comunione non piena”) “i separati” appartenevano già “in
qualche modo” al “popolo di Dio” ossia alla Chiesa di Cristo (nel cap. II della
Lumen gentium, la Chiesa visibile è concepita come “popolo di
Dio”).
Come ha sottolineato
Mons. Gherardini, il linguaggio di LG e UR, strettamente connessi tra di loro,
oltre che al Decreto Dignitatis
humanae sulla libertà religiosa, “è tutto all’insegna del vago: abbonda l’uso dell’aggettivo “quidam”[un
certo, un tale, qualche e simili] che è espressione di radicale insicurezza, e
si presume con esso di determinare perfino l’azione dello Spirito Santo o di
predisporre un asserto dottrinale (“quaedam in Spirito Sanctu coniunctio [una
certa unione nello Spirito Santo]”); “in quadam cum Ecclesia catholica
coniunctione [in una certa unione con la Chiesa Cattolica]”; “quaedam immo
plurima et eximia elementa extra visibilia Ecclesiae catholicae saepta [”alcuni
molteplici e persino ottimi elementi al di fuori del recinto della Chiesa
cattolica”]; “ad populum Dei aliquo modo pertinent [appartengono in qualche
modo al popolo di Dio]”[10].
6. Quante “Chiese” ci sono, per il Vaticano II ?
Tutto
ciò considerato, possiamo dire che UR 3.5 risolva le ambiguità e le
contraddizioni presenti nella definizione (non dogmatica) della Chiesa data dal
Vaticano II? A mio avviso, esso sembra
confermare l’interpretazione secondo la quale la “Chiesa di Cristo”, nelle
intenzioni del Concilio, include sia la Chiesa cattolica che le “Chiese e
comunità” dei “separati”. La
costituzione Lumen gentium doveva
definire la natura della Chiesa, in modo da completare quanto definito come
articolo di fede dal Vaticano I sulla figura del Pontefice (dogma
dell’infallibilità pontificia quando il Papa dà una definizione solenne in
materia di fede e costumi). Ma essa
sembra aver partorito solo un’enorme confusione tra Chiesa di Dio, Chiesa di
Cristo, Chiesa cattolica, Comunità e Chiese separate, Popolo di Dio; confusione
che coinvolge anche il concetto della salvezza.
Questa è almeno la sensazione di molti credenti, costretti a vedere ora
nella Chiesa nient’altro che il terreno
“Popolo di Dio” in “comunione” o “federazione” con tutte le
“denominazioni” cristiane (e non), con il Papa come capo carismatico, “uomo di
pace”, impegnato in frequenti e mediatici “viaggi di pace”, che garantisce a tutti
il Paradiso, perché Dio è Amore e l’Inferno è vuoto.
“L’introduzione del
concetto di “piena comunione” è stato decisivo per elevare le confessioni
cristiane a una condizione diversa da quella, molto più netta, che la dottrina
cattolica aveva sempre riservato a tutto ciò che cattolico non è. Tanto per intendersi: non si sarebbe fatto un Concilio come quello
di Trento, se non si fosse ritenuta gravemente erronea la posizione di Lutero e
del luteranesimo. Ora, leggendo alcuni
dei documenti del Vaticano II, si ricava l’impressione di una nuova
ecclesiologia, nella quale si avanza una sorta di “federazione” delle chiese
cristiane, all’interno della quale la Chiesa cattolica si riserva una posizione
di “pienezza”, ma accanto e insieme al parterre di tutte le altre espressioni
della riforma protestante. A questo
scopo è stata coniata l’espressione “Chiesa di Cristo”, la cui ricomposizione
logica con la nozione di “Chiesa cattolica” risulta molto complicata. Si tratta della stessa cosa, o di
un’altra? Quante “Chiese” ci sono,
allora?”[11].
In realtà, come si è
visto, l’espressione “Chiesa di Cristo” preesisteva, unitamente agli altri
termini tradizionali. Ma è vero che essa
sembra qui una novità perché utilizzata in un senso “allargato”, in passato sconosciuto. E proprio questa sembra esser stata la causa
prima della confusione: l’aver voluto
estendere la definizione della “Chiesa di Cristo” sino ad includervi tutti gli
acattolici, giocando sull’idea di pienezza e non pienezza, comunione piena e
non piena o imperfetta. Altro motivo di
confusione deriva, io credo, dall’aver poi voluto identificare la Chiesa più
che con il Corpo Mistico di Cristo con il “popolo di Dio”, come se la parte
terrena del Corpo Mistico rappresentata dal popolo dei fedeli potesse diventare
il Tutto. A proposito dell’idea della “pienezza” (plenitudo), bisogna
ricordare che essa ricorre in S.Paolo, ma di sicuro senza le sfumature
indefinibili ed ambigue ad essa attribuite dal Concilio. Si cita sempre, a questo proposito, Ef 1, 23,
uno dei passi fondamentali per il concetto della Chiesa come Corpo Mistico di
Cristo, nel quale l’Apostolo ci insegna che Dio “tutto pose sotto i suoi piedi
[di Cristo], e Lui costituì capo supremo della Chiesa, che è il corpo di Lui,
la pienezza [plenitudo; pléroma, in greco] di Colui che tutto completa
in tutti”. La Chiesa “è piena di Cristo
che tutto riempie”. Come “corpo di Lui”
coincide perfettamente con Lui, ne è spiritualmente “la pienezza, dato che i
membri sono ciò che completa, il complemento [pléroma, di nuovo] del
Capo, come affermava S.Giovanni Crisostomo”[12]. Come inteso da S. Paolo e dai Padri della
Chiesa, il concetto della “pienezza” della Chiesa di Cristo in Cristo, in
quanto Corpo Mistico di Cristo, non lascia evidentemente spazio alcuno alle unioni
o comunioni meno piene o imperfette che dir si voglia con coloro che
si trovano fuori della Chiesa.
Tutto ciò premesso,
studiamo adesso in parallelo il primo capitolo dello schema sulla Chiesa
ripudiato, Aeternus Unigeniti, e il primo capitolo della LG, che lo ha
rielaborato, dedicati entrambi a definire il concetto della Chiesa. Solo sobbarcandosi a questo lavoro ingrato e
faticoso sui testi, credo si possa riuscire a verificare in maniera adeguata
l’esistenza o meno di una continuità
nella riforma della dottrina inaugurata dal Vaticano II.
[1]
D, 203-4. L’autopistía è la fede
prodotta dal soggetto stesso, la fede del tutto individualistica dei
Protestanti, quella del “libero esame” individuale delle Scritture.
[2] DS
696/1314.
[3]
AAS 35 (1943) 242-3; DS 2290/3821. La
traduzione italiana è quella apparsa su L’Osservatore Romano del
4.7.1943, pubblicata a parte: PIO XII, Enciclica
“Mystici Corporis” sul Corpo Mistico di Cristo, Vita e Pensiero,
Milano-Roma, 1959, p. 21, 82.
[4]
Ivi, p. 15 tr. it. Per la
coincidenza perfetta ed assoluta di
Chiesa di Cristo e Chiesa cattolica, il testo cita in nota la costituzione
dogmatica De fide catholica, cap. I, promulgata dal Vaticano I. Per la libertà con la quale devono avvenire
la conversione e il ritorno: ivi, pp.
82-3 e DS 2290/3822. Nel DS non sono riuscito a trovare il passo che ho appena
citato nel testo (sull’identità perfetta e assoluta di Chiesa di Cristo e
Chiesa Cattolica Romana), nella scelta di passi della Mystici Corporis.
[5]
Su quest’ultimo punto: AMERIO, Iota
Unum, p. 466 (§ 246); VELATI, Un indirizzo a Roma, cit., p. 107, con
le fonti ivi riprodotte in nota.
[6]
HUBERT JEDIN, Breve storia dei
Concili. I venti concili ecumenici nel
quadro della storia della Chiesa, tr. it. di Nerina Beduschi, Herder, Roma,
1960, p. 28, 32 (per il riconoscimento del Primato di Pietro).
[7]
L’appiattimento della Chiesa Cattolica sulle altre “Chiese e comunità”, come se
la nostra fede non si distinguesse da quella dei cosiddetti “fratelli
separati”, è stato colto e criticato da Mons. Gherardini in relazione al Proemio
della costituzione Sacrosanctum Concilium sulla Liturgia e ad UR 1 (Quod et tradidi
vobis, cit., pp. 373-5). Sul punto,
il prof. Cantoni accusa Mons. Gherardini di aver troncato le citazioni dai due
testi conciliari nel punto più conveniente alle sue tesi (C, 34-6). Ma il prosieguo dei testi citati non mostra
in realtà nulla di diverso, procedendo sempre nella stessa direzione. Non c’è
mai l’affermazione della superiorità della nostra religione cattolica (unica
rimasta fedele al dogma) né quella della necessità del ritorno dei “separati”,
dopo aver abiurato i loro errori. Non
c’è perché “la Chiesa” ivi menzionata è la “Chiesa di Cristo” nel senso del Concilio
non la Chiesa Cattolica Romana nel senso tradizionale del termine. E in questa “Chiesa di Cristo” in tal modo
concepita si ha appunto l’appiattimento.
[8]
Si controlli lo schema De Ecclesia “scartato” al cap. I, di 7 paragrafi
più le note, intitolato: “De Ecclesia
militantis natura”. Sul punto, vedi infra, capp. III e IV.
[9]
UR 3.5 : “Per solam enim catholicam Christi Ecclesiam, quae generale auxilium
salutis est, omnis salutarium mediorum plenitudo attingi potest. Uni nempe Collegio apostolico cui Petrus
praeest credimus Dominum commisisse omnia bona Foederis Novi, ad constituendum
unum Christi corpus in terris, cui plene
incorporentur oportet omnes, qui ad populum Dei iam aliquo modo pertinent”.
[10]
D, 205.
[11]
ALESSANDRO GNOCCHI – MARIO PALMARO, La Bella Addormentata etc., cit., p.
192.
[12] LGNT,
alla voce pléroma.
A sessant’anni dalla fine del Concilio
Ecumenico Vaticano Secondo - IV : Il decreto ‘Unitatis redintegratio’
sull’ecumenismo include le comunità acattoliche nella Chiesa di Cristo – di Paolo
Pasqualucci.
[Eccomi di nuovo a proporre capitoli del mio
libro Unam Sanctam.Studio sulle deviazioni dottrinali nella Chiesa cattolica
del XXI secolo, Solfanelli, Chieti, 2013.
In questa quarta puntata riprendo il discorso sul concetto di Chiesa di
Cristo proposto dal Concilio, notoriamente “ecumenico”, tale cioè da includere,
oltre alla Chiesa cattolica anche le “comunità acattoliche” ossia le comunità
cristiane scismatiche ed eretiche. Tale
“inclusione” dalle peculiari caratteristiche risulta collegando all’art. 8
della Lumen gentium il Decreto sull’ecumenismo, in particolare il suo
art. 3. Il cap. II del mio libro è per
l’appunto dedicato a questo articolo del suddetto decreto (pp. 43-53
dell’opera). Insomma, il “subsistit in”
di LG 8, si comprenderebbe appieno grazie all’art. 3 di Unitatis redintegratio. Vediamo dunque questo testo, uno dei
testi-chiave del Concilio per l’eleborazione dell’ecumenismo sincretistico e
non conforme alla Tradizione, propalato dal Concilio medesimo.]
* * *
Cap. II.
“UNITATIS REDINTEGRATIO” 3, CHE SANZIONA L’INCLUSIONE DELLE COMUNITÀ
ACATTOLICHE NELLA CHIESA DI CRISTO
Sommario
: 1.
Gli Acattolici diventano in quanto tali “strumenti di salvezza”. 2. Una
nuova ed inaccettabile dottrina del Battesimo, dovuta al cardinale Bea. 3. I
Cattolici colpevoli della separazione, come gli Acattolici! 4. Un’unità che trascende la Chiesa
cattolica. 5. Comunione e salvezza piene e non piene, nella
confusione dei concetti. 6. Quante “Chiese” ci sono, per il Vaticano II?
1. Gli Acattolici diventano in quanto tali
“strumenti di salvezza”.
L’articolo
3 di questo decreto concerne “le relazioni dei fratelli separati con la Chiesa
cattolica”. Dopo aver dichiarato il concetto del tutto nuovo, secondo il quale
essi si trovano “in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa
cattolica”, onde il movimento ecumenico deve mirare appunto a rimuovere gli
impedimenti ad una “piena comunione” con essa, così specifica:
“Inoltre, tra gli
elementi o beni dal complesso dei quali la stessa Chiesa è edificata e
vivificata, alcuni, anzi parecchi ed eccellenti, possono trovarsi fuori dei
confini visibili di essa: la parola di
Dio scritta, la vita della grazia, la fede, la speranza e la carità, e altri
doni interiori dello Spirito Santo ed elementi visibili. Tutte queste cose, le quali provengono da
Cristo e a lui conducono, appartengono a buon diritto [iure] all’unica
Chiesa di Cristo” (UR, 3.2).
Il
testo, dopo aver elencato gli “elementi o beni” che “edificano e vivificano la
Chiesa cattolica” e che possono ritrovarsi anche fuori dai confini visibili di
essa, dando quindi un contenuto più preciso agli “elementi” di cui all’art. 8.2
LG, afferma che essi “appartengono a buon diritto all’unica Chiesa di Cristo”. Ma ciò non significa, allora, confermare che
gli “elementi” di cui al detto articolo fanno parte della Chiesa di Cristo
allo stesso modo della Chiesa cattolica, che sicuramente vi
appartiene “di diritto”? E quindi che la
Chiesa cattolica è inclusa sì nella Chiesa di Cristo ma sempre come parte
di essa?
Il paragrafo
successivo, tra i suddetti “elementi” include anche “non poche azioni sacre”,
terminologia che indica, come sappiamo, la Sacra Liturgia. In queste “Chiese o comunità” non cattoliche
esistono, ci si dice, “azioni sacre” che “possono senza dubbio produrre
realmente la vita della grazia, e si devono dire atte ad aprire accesso alla
comunione della salvezza [ingressum in salutis communionem]” (UR,
3.3). Da affermazioni del genere, come
non ricavare l’idea che le liturgie degli Ortodossi e le “cene” dei Protestanti
sono, per il Concilio, “atte ad aprire accesso alla comunione della
salvezza”? Non si giustifica forse su
passaggi del genere l’ormai inflazionata pratica delle liturgie “ecumeniche”,
nelle quali tutti i culti sono spesso rappresentati, persino quelli non
cristiani, per quanto oscura possa essere l’espressione “accesso alla comunione
della salvezza”? Includendovi le “azione
sacre”, il testo mostra che gli elementi o beni di cui sopra sono quelli delle
comunità, perché “l’azione sacra” che ha luogo mediante la liturgia non può
essere individuale.
Ma la conclusione
posta alla fine di tutti questi chiarimenti è ancora più forte: nonostante le loro “carenze”, le “Chiese e
comunità separate” vengono utilizzate dallo Spirito Santo “come strumenti di
salvezza, la cui forza deriva dalla stessa pienezza della grazia e della
verità, che è stata affidata alla Chiesa cattolica [Iis enim Spiritus
Christi uti non renuit tamquam salutis mediis, quorum virtus derivatur ab ipsa
plenitudine gratiae et veritatis quae Ecclesiae catholicae concredita est]”(UR,
3.4). Non singoli loro componenti, nonostante appartengano a comunità
eretiche e scismatiche, ma le comunità stesse, in quanto tali. Come
sottrarsi all’impressione vivissima che qui le “Chiese e comunità separate”
(che, in quanto utilizzate dallo Spirito Santo come “strumenti di salvezza”
derivano la loro “forza” addirittura “dalla stessa pienezza della grazia e della verità affidata alla Chiesa cattolica”)
risultano essere “strumenti di salvezza” proprio in quanto tali,
contro tutto l’insegnamento precedente della Chiesa? Se l’appartenenza alla Chiesa di Cristo fa sì
che anche le comunità e Chiese dei non cattolici (le “Chiese” che si
autodefiniscono “ortodosse” sono quelle dei grecoscismatici, e “Chiese” sta
solo per tradizionale titolo d’onore, mantenuto dalla Chiesa cattolica) siano
da considerarsi “strumenti di salvezza”, sia pure gravati da qualche “carenza”
(da scisma ed eresia, avversione inveterata per il Papa, per “Roma”, etc.), che
cosa ne è del dogma di fede già ricordato, secondo il quale, al di fuori della
Chiesa cattolica non può esserci salvezza, se non nei casi individuali di
battesimo di desiderio? Salvezza ad opera dell’azione insondabile dello Spirito
Santo, nonostante l’appartenenza dei salvati ad una setta eretica e/o
scismatica (o ad un’altra religione, non rivelata) e non certo grazie a
questa appartenenza?
Del resto, bisogna pur
dire che il semplice credente non riesce a comprendere come possano essersi
conservate la “vita della grazia” e le tre virtù teologali (fede, speranza e
carità) non presso individui singoli
(cosa certamente possibile con l’aiuto dello Spirito Santo, che scruta nell’intimo e conosce i cuori) ma presso comunità
eretiche e scismatiche in quanto tali, pervicacemente ribelli all’autorità
dell’unica legittima Chiesa di Cristo.
Inoltre, il semplice credente vorrebbe sapere quali possibilità di
“santificazione” e quali “verità” siano racchiuse nelle dottrine e nel modo di
vivere di queste comunità eretiche e scismatiche fieramente avverse al Romano
Pontefice e a tutto ciò che è cattolico, nelle quali molti negano il concetto
stesso di “santificazione” (preferendovi il blasfemo “pecca fortiter sed crede
fortius” di Lutero, pecca fortemente ma credi ancor più fortemente o
l’equivalente “simul iustus et peccator”) e propugnano una nozione del tutto
soggettiva della verità, compresa quella rivelata.
Per ciò che riguarda
in particolare i Protestanti, ripropongo sinteticamente i loro “limiti” come
ricordati da Mons. Gherardini, notoriamente uno dei massimi conoscitori delle
loro dottrine, in campo cattolico:
nessuna
incompatibilità fra vita cristiana ed “eticità” dell’aborto, del divorzio e
delle “diversità”; soppressione d’almeno
cinque sacramenti; concezione del sacramento con funzione di segno, ma privo
della funzione “produttiva della grazia che significa”; riduzione dell’eucaristia alla celebrazione
del “testamento” di Cristo, che ha termine con la fine della celebrazione stessa; culto della Sacra Scrittura frastagliato da
idee contrastanti sulla sua reale o attuale (anzi attualistica,
quella dell’”autopistía”) ispirazione;
assenza d’un vero culto della Madonna così come ai Santi, perché esso
sarebbe un furto a Dio e a Cristo; […] non solo assenza, ma negazione
dell’ufficio papale e, anche là dove vige [presso gli Anglicani], l’episcopato
è ben altro rispetto a quello derivante dalla successione apostolica [etc.]”[1].
2. Una nuova ed inaccettabile dottrina del
Battesimo, dovuta al cardinale Bea.
Ma
l’elevazione delle “Chiese e comunità separate” a “strumenti di salvezza” non
si giova (è stato notato) anche di quella che sembra essere una sostanziale
riformulazione della dottrina del battesimo, rispetto a quanto enunciato ad
esempio dalla Mystici Corporis ?
Infatti, in UR, 3.1 si scrive che i “fratelli separati” devono
considerarsi “cristiani” perché con il battesimo sarebbero stati incorporati
a Cristo: “Nondimeno, giustificati
nel battesimo dalla fede, sono incorporati a Cristo [Nihilominus,
iustificati ex fide in baptismate, Christo incorporantur] e perciò sono a
ragione insigniti del nome di cristiani” (UR, 3.1). Poche righe prima la loro posizione era stata
definita (vedi supra, § 1) come quella di chi si trova in “una certa
comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica”. Ma che significato ha qui l’ “esser
incorporati a Cristo”, riferito ai non cattolici? Semplicemente questo, secondo logica: se il
Battesimo ricevuto nelle loro sette li “incorpora a Cristo”, allora vengono in
tal modo a far parte della “Chiesa di Cristo”.
E se il battesimo degli eretici e scismatici li fa entrare in quanto
tali nella Chiesa di Cristo, allora quest’ultima è più ampia della
Chiesa cattolica. Con tale dottrina, i
“fratelli separati” possono esser annoverati tra i membri della Chiesa,
indipendentemente dalla professione della vera fede e dall’ubbidienza ai
legittimi Pastori!
Quest’idea
dell’”incorporazione a Cristo” anche dei “fratelli separati”, il testo del
Concilio sembra fondarla sul Magistero precedente grazie a un rimando in nota
al Concilio di Firenze del 1439, del
quale si cita un passo dal famoso decreto Pro Armenis che ristabilì
l’unità con la Chiesa Armena. Il rimando
è posto subito dopo le parole “sono incorporati a Cristo”. Ma, andando a rileggere che cosa è scritto in
quel decreto si vede che esso illustra (ad edificazione degli Armeni) tutti e
sette i Sacramenti, come debbano intendersi per i veri Cattolici, senza far
riferimento alcuno al Battesimo degli eretici e al suo significato: “Primo di tutti i sacramenti è il Battesimo,
porta della vita spirituale: grazie ad
esso diveniamo membra di Cristo e parte del Corpo della Chiesa [per ipsum
enim membra Christi ac de corpore efficimur Ecclesiae]”[2]. Coloro che vengono “incorporati a Cristo”,
sono qui i Cattolici non gli eretici e gli scismatici. È legittima, allora, l’estensione del
concetto a questi ultimi? Sembra
proprio di no, se si deve mantenere la dottrina della Chiesa, proposta da
ultimo nella Mystici Corporis.
Che così insegna:
“Tra
i membri della Chiesa bisogna annoverare esclusivamente quelli che hanno
ricevuto il lavacro di rigenerazione [il Battesimo] e professano la vera
fede né dalla compagine di questo corpo si separarono disgraziatamente da
sé stessi né per gravissime colpe ne furono separati dalla legittima
autorità”(Corsivi miei). E l’esclusione
dalla Chiesa vale per tutti gli eretici e scismatici pubblici, anche se
in buona fede (eretici e scismatici in senso materiale, cioè non per via
della loro intenzione ma a causa del contenuto oggettivamente infedele di ciò
che professano). Questi ultimi, però, a
differenza degli eretici e scismatici in senso formale (che cioè
vogliono scientemente esserlo, come un Fozio, un Lutero, un Calvino), sono, per
la loro disponibilità a professare la vera fede nella vera Chiesa (votum
Ecclesiae), “ordinati da un certo inconsapevole desiderio ed anelito [che
solo lo Spirito Santo conosce] al mistico Corpo del Redentore”. Pertanto, pur essendo fuori della
compagine visibile di questo corpo, possono appartenervi invisibilmente e per
questa via conseguire la giustificazione e la salvezza. Essi, tuttavia, restano “privi di quei tanti
doni e aiuti celesti che solo nella Chiesa cattolica è dato di godere”. Per tal motivo Pio XII, come i suoi
predecessori, li invitava “ad assecondare gli impulsi interni della grazia e a
sottrarsi al loro stato, in cui non possono essere sicuri della propria
salvezza” perché “chi abbia ricusato di ascoltare la Chiesa, deve, secondo l’ordine
di Dio, ritenersi come etnico e pubblicano [Mt 18, 17]” cioè come nemico e
pubblico peccatore: “Rientrino perciò nella cattolica unità [Ingrediantur
igitur catholicam unitatem] e tutti uniti a Noi [al Pontefice] nell’unica
compagine del Corpo di Gesù Cristo, vengano con Noi all’unico Capo nella
società di un gloriosissimo amore”[3].
Si vede chiaramente
che qui si ha un invito a ritornare all’ovile, con assunzione diretta
della responsabilità della scelta che, precisa poi il Papa, deve essere
assolutamente libera da costrizione (sponte libenterque). Il paterno invito è pertanto rivolto a chi si
trova del tutto fuori della Chiesa Cattolica Romana, per quanto ad essa ordinato
in voto dal Battesimo. Fuori, perché solo la Chiesa Cattolica
Romana è l’unica Chiesa di Cristo:
“Pertanto a definire e descrivere questa verace Chiesa di Cristo (che è
la Chiesa santa, cattolica, apostolica, romana), nulla si trova di più nobile,
di più grande, di più divino che quell’espressione con la quale essa viene
chiamata “il Corpo mistico di Gesù Cristo”; espressione che scaturisce e quasi
germoglia da ciò che vien frequentemente esposto nella Sacra Scrittura e nei
Santi Padri”[4].
La mutazione
dottrinale introdotta dal Concilio, sembra sia dovuta in particolare al
cardinale Bea, che, sull’Osservatore Romano del 27 aprile 1962,
interpretava la Mystici Corporis come se “l’ordinazione al mistico
corpo” dei “separati” dovesse intendersi (in modo nuovo) quale appartenenza,
onde la loro situazione di salvezza non sarebbe diversa da quella dei cattolici[5].
Al dettato
sconcertante dell’art. 3 UR va poi aggiunto il noto passo di UR 15.1, nel
quale, illustrando “la tradizione liturgica e spirituale degli orientali”,
meglio noti come Ortodossi (grecoscismatici), si presenta la “celebrazione
dell’Eucaristia” quale loro contributo alla crescita della “Chiesa di Dio”(Ecclesia
Dei), termine anch’esso tradizionale, che indica sempre la “Chiesa di
Cristo”: “Perciò con la celebrazione dell’eucaristia del Signore in queste
singole Chiese, la Chiesa di Dio è edificata e cresce, e con la concelebrazione
si manifesta la comunione tra di esse [Proinde per celebrationem
Eucharistiae Domini in his singulis Ecclesiis, Ecclesia Dei aedificatur et
crescit, et per concelebrationem communio earum manifestatur]”. Se la “Chiesa di Dio”, che è la “Chiesa di
Cristo”, è “edificata e cresce” ad opera di queste “Chiese” e la
“concelebrazione” ne manifesta “la comunione”, allora esse ne sono parte, così
come ne è parte la Chiesa cattolica (Apostolica, Romana). Il passo appare per
la verità di un’estrema chiarezza nell’affermare che “queste singole Chiese”
non cattoliche concorrono in quanto tali “all’edificazione e alla crescita
della Chiesa di Dio”. L’espressione “Chiesa di Dio”, ci informa in nota lo
stesso Concilio, è tratta da S. Giovanni Crisostomo, morto verso il 407 AD,
qualche secolo prima dello scisma bizantino:
era termine tradizionale, risalente addirittura all’Antico Testamento
(vedi infra, cap. IV, § 2), per indicare la Chiesa in quanto tale, nella
sua unità, e quindi la Chiesa di Cristo, nella quale era già riconosciuto il
Primato di Pietro[6].
3. I Cattolici colpevoli della separazione, come
gli Acattolici!
Ma in che senso il Concilio usa il termine
“Chiesa di Dio”? Esso compare anche nel Proemio
di UR (UR 1) oltre che in UR 3.1. Nel Proemio,
in modo del tutto inaspettato, le divisioni tra i Cristiani sembrano poste
tutte sullo stesso piano, tutte causa allo stesso modo di un unico
scandalo, come se non ci fosse stata sempre un’unica Chiesa di Cristo – quella
fondata sul primato di Pietro – dalla quale sono state le varie sette, eretiche
e scismatiche, via via a staccarsi, per colpa loro (come recita la famosa frase
di S. Cipriano di Cartagine: “sono stati loro a staccarsi da noi, non noi da
loro”). Inoltre, questo Proemio afferma che presso “i cristiani tra loro
separati”(in Christianos inter se disiunctos), il Signore negli ultimi
tempi “ha cominciato a effondere l’interiore ravvedimento e il desiderio di
unione” (UR, 1.2), includendosi evidentemente anche i Cattolici tra i cristiani
“separati” che si stavano ravvedendo, dato che il testo non dice “da noi
[Cattolici] separati”, come avrebbe dovuto, per mantenere la continuità con la
dottrina precedente! All’epoca ci
sarebbe stato dunque un generale “movimento che si allargava di giorno in
giorno per il ristabilimento dell’unità di tutti i cristiani” (ivi). Non so se
corrisponda al vero il giudizio qui espresso sulla forza del movimento
ecumenico, che era in realtà di élite e di origine protestante-teosofica. Il
testo sembra caricare alquanto le tinte.
Ma il punto più importante è un altro: l’ecumenismo non è qui inteso in
vista del ritorno alla Chiesa cattolica di eretici e scismatici (come
secondo la dottrina tradizionale) ma per “il ristabilimento dell’unità di tutti
i cristiani [ad omnium Christianorum unitatem restaurandam]”,
ristabilimento che non contempla alcun “ritorno”. Da siffatta nozione di “ristabilimento”, come
non ricavare l’impressione che, per UR 1.2, l’unità della Chiesa al momento non
c’era, che la Chiesa Cattolica (Apostolica, Romana) non realizzava in sé
stessa l’unità della vera ed unica Chiesa di Cristo! L’unità non c’era e bisognava ristabilirla,
non auspicando la conversione ed il ritorno dei “separati” ma rifondando una
“Chiesa di Dio veramente universale”, come se la Chiesa Cattolica Romana al
momento esistente non rappresentasse in quanto tale la “Chiesa di Dio” in tutta
la sua universalità!
Il concetto espresso
da UR 1.2 è ripetuto in modo ancor più forte da UR 24.2, ultimo articolo del
Decreto, ove si esalta, come motivo trainante del Concilio, “questo santo
proposito di riconciliare tutti i cristiani nell’unità di una sola e unica
Chiesa di Cristo [hoc sanctum propositum reconciliandi Christianos omnes in
unitate unius unicaeque Ecclesiae Christi]”. Non esisteva ancora, dunque, una “sola ed
unica Chiesa di Cristo”, veramente universale.
Bisognava crearla attraverso la “riconciliazione di tutti i Cristiani”
in un’unità superiore, nuova!
4. Un’unità che trascende la Chiesa Cattolica.
Consideriamo bene il
testo di UR 1.2. Chi partecipa a questo
movimento ecumenico “per l’unità”? “Tutti quelli che invocano la Trinità e
confessano Gesù come Signore e Salvatore, e non solo presi a uno a uno, ma anche
riuniti in comunità [sed etiam coetibus congregati], nelle quali hanno
ascoltato il Vangelo e che essi chiamano la Chiesa loro e la Chiesa di
Dio. Quasi tutti però, anche se in modo
diverso, aspirano a una Chiesa di Dio una e visibile, che sia veramente universale
[ad Ecclesiam Dei unam et visibilem adspirant, quae sit vere
universalis] e mandata al mondo intero, perché questo si converta al
Vangelo e così si salvi per la gloria di Dio” (UR, 1.2). La descrizione delle caratteristiche dei
Cristiani che partecipano al movimento ecumenico appare talmente generica da
potersi applicare, come ognun può
vedere, a qualsiasi tipo di “denominazione cristiana”, come si dice oggi,
copiando dai media anglosassoni. E a
cosa aspira tale movimento, secondo il Concilio? I suoi membri aspirano (adspirant),
cattolici compresi, ad una “Chiesa di Dio una e visibile, che sia veramente
universale”! E se vi aspirano, essa
evidentemente ancora non c’è. Questa
“Chiesa di Dio” così intesa è altra cosa rispetto alla “Chiesa di Cristo”? In realtà essa è solo un ulteriore nome
tradizionale della “Chiesa di Cristo”, da intendersi però quest’ultima come
esposta da UR 3, ossia della Chiesa di Cristo che ricomprende la Chiesa
cattolica e tutte le “Chiese e comunità” cristiane, l’una e le altre in diverso
modo “strumenti di salvezza”. Questa
“Chiesa di Cristo” costituisce nello stesso tempo un obiettivo ancora da
realizzare nella sua pienezza![7]
Queste sono
notoriamente le gravi questioni poste dal plesso LG 8 – UR 3 ed addentellati. E
che le questioni siano gravi lo dimostra, a mio avviso, anche il fatto che
l’idea di Chiesa racchiusa in LG 8 non può appoggiarsi ad alcuna delle
precedenti definizioni della Chiesa. Se
si guarda lo schema De Ecclesia originario, l’Aeternus Unigeniti
“scartato” in Concilio, si vede che la definizione della Chiesa si premura di
dire, senza tanti giri di parole, che la sola ed unica Chiesa di Cristo è
la Chiesa Cattolica Romana,
appoggiandosi all’autorità del Simbolo Apostolico, di quello
Niceno-Costantinopolitano, del Concilio di Trento, di quello Vaticano I,
dell’Enciclica Mystici Corporis, dell’Enciclica Humani generis etc., e stabilendo questa chiarissima
connessione: La Chiesa come società è il Corpo Mistico di Cristo –
La Chiesa Cattolica romana è il Corpo Mistico di Cristo, l’unica che abbia
diritto al titolo di “Chiesa”[8]. Stop.
Quale riferimento alle
fonti del Magistero troviamo, invece, in LG, 8.2, quale pezza d’appoggio per il
“subsistit in”? Nessuna. Solo un rinvio ai Concili tridentino e
vaticano I, per ricordare che la Chiesa cattolica (nella quale “sussiste”
quella di Cristo) è, sull’autorità di quei Concili, “governata dal successore
di Pietro e dai vescovi in comunione con lui” (vedi nota n. 13 della LG). E il lettore disattento potrebbe anche
credere che l’idea della Chiesa di Cristo che “sussiste nella” Chiesa cattolica
sia già menzionata in quei due fondamentali concili dogmatici: il che non è,
nel modo più assoluto.
Ma chi difende
l’ortodossia di UR 3 oppone in genere quanto vi si trova nell’ultimo e spesso citato
paragrafo di questo articolo.
5. Comunione
e salvezza piene e non piene, nella confusione dei concetti.
Dopo
aver detto che le “Chiese e comunità separate” sono usate anch’esse dallo
“Spirito di Cristo” come “strumenti di salvezza”, il Concilio sente il bisogno
di precisare, quasi ad attenuare l’impatto della straordinaria
affermazione. Rileva, quindi, che le
“comunità e Chiese” dei separati “non godono di quella unità che Gesù Cristo ha
voluto elargire a tutti quelli che ha rigenerato e vivificato insieme per
formare un solo corpo in vista di una vita nuova, unità attestata dalla sacra
Scrittura e dalla veneranda tradizione della Chiesa” (UR 3.5). E dove la si trova quest’unità,
indispensabile alla salvezza? Nella
Chiesa cattolica.
“Infatti, solo per
mezzo della cattolica Chiesa di Cristo, che è il mezzo generale della salvezza,
si può ottenere tutta la pienezza dei mezzi di salvezza. In realtà noi crediamo che al solo Collegio
apostolico con a capo Pietro il Signore ha affidato tutti i tesori della Nuova
Alleanza, al fine di costituire l’unico corpo di Cristo sulla terra, al quale
bisogna che siano pienamente incorporati tutti quelli che già in qualche modo
appartengono al popolo di Dio”[9].
In molti hanno sempre
ritenuto che questo fosse un testo chiaro, nel quale si dice finalmente e per
due volte che solo ad opera della Chiesa cattolica è possibile ottenere
la salvezza. Ma osserviamo il testo
attentamente. Non godendo dell’unità
“elargita” da Cristo ai battezzati, attestata dalla Sacra Scrittura e dalla
Tradizione della Chiesa, ne consegue che, come “strumenti di salvezza”, le
“Chiese e comunità” dei “separati” non possono offrire “tutta la pienezza dei mezzi della salvezza”. Domanda:
la pienezza dei mezzi di salvezza implica la salvezza o la pienezza
della salvezza? Apparendo privo di senso
il concetto di una salvezza non piena (perché la salvezza si dà o non si
dà, non può essere parziale, non esiste il Paradiso a metà), bisogna allora
dire che “la pienezza dei mezzi della salvezza” è concetto che implica la
salvezza tout court, senza distinzioni di pieno e non pieno, completo e
parziale. Ma con questa ineccepibile
conclusione che cosa resta della qualità di mezzi di salvezza forzatamente non
pieni, a causa delle loro “carenze”, attribuita ai “separati”? Se la salvezza non può che essere piena,
come possono essere considerate “strumenti di salvezza” quelle “Chiese e
comunità” che dispongono di “strumenti di salvezza” per definizione imperfetti
e quindi esclusi dalla “pienezza”? Strumenti di salvezza imperfetti o non pieni
daranno una salvezza imperfetta o non piena.
Ma questo non si può concedere perché significherebbe ammettere il
concetto di una salvezza non piena, cosa
assurda, come si è detto. In
alternativa, bisognerebbe ammettere, allora, che anche gli strumenti di
salvezza non pieni possono produrre la salvezza tout court, ossia piena: cosa parimenti assurda e inconcepibile.
Voler considerare le
sette di scismatici ed eretici quali “strumenti di salvezza” non porta dunque
ad una contraddizione che sembra insanabile, circa il rapporto tra la nozione
di mezzi della salvezza e salvezza? Ma
procediamo. La pienezza dei mezzi della
salvezza spetta dunque solo alla
Chiesa cattolica. Veramente il testo non
dice sic et simpliciter: “Chiesa
cattolica” o, ancor meglio, “Chiesa Cattolica Romana”; dice: “cattolica Chiesa di Cristo”(per solam
enim catholicam Christi Ecclesiam).
C’è una differenza? Forse no. O forse sì. Ci può essere, a mio avviso,
nel senso che la “cattolica Chiesa di Cristo” può indicare la Chiesa cattolica
in quanto è la componente “cattolica” della Chiesa di Cristo, quella
componente che è appunto “mezzo generale” (non l’unico mezzo!) della
salvezza perché possiede “la pienezza dei mezzi della salvezza”, al contrario
delle “Chiese e comunità” dei “separati”, che pur farebbero parte della Chiesa
di Cristo. In tal modo, il mezzo di
salvezza rappresentato dalla Chiesa cattolica non sembra affatto inteso come
unico ed esclusivo, l’unico in assoluto, sulla linea della Mystici
Corporis. Esso sarebbe, invece,
“generale” rispetto alla parzialità dei mezzi di salvezza pertinenti ai
“separati”. È solo in quanto “mezzo
generale [e non unico!] della salvezza” che la Chiesa cattolica ha
“tutta la pienezza dei mezzi della salvezza”.
E secondo me nemmeno
l’art. 14 di LG apporta il chiarimento necessario, il raggio di sole che
disperde tutte le nubi. È l’articolo nel
quale, rivolgendosi espressamente ai Cattolici, il Concilio afferma che la
Chiesa “peregrinante”, fondata da Cristo, è “necessaria alla salvezza”. Infatti, “Egli stesso, inculcando
espressamente la necessità della fede e del battesimo (cfr. Mc 16,16; Gv 3,5),
ha nello stesso tempo confermato la necessità della Chiesa [necessitatem
Ecclesiae], nella quale gli uomini entrano per il battesimo come per una
porta. Perciò non possono salvarsi [salvari non possent] quegli uomini,
i quali, pur non ignorando che la Chiesa Cattolica è stata fondata da Dio per
mezzo di Gesù Cristo come necessaria [ut necessariam], non vorranno
entrare in essa o in essa perseverare”.
Si ricorda qui Mc
16,16, nel quale Nostro Signore afferma categoricamente: “Chi crederà e si battezzerà, sarà salvo; chi
in verità non crederà, sarà condannato”.
E Gv 3,5, che ribadisce in modo
più sfumato il concetto: “Chi non sarà
rinato con l’acqua e lo Spirito Santo non può entrare nel Regno di Dio”. Tuttavia il testo si limita a dire che la
Chiesa Cattolica è “necessaria” alla salvezza; non precisa che solo essa è
necessaria ed indispensabile. È vero che
cita due perìcopi che fanno emergere l’esclusività e l’unicità della Chiesa
Cattolica per la salvezza. Ma perché
dice poi che quelli che rigettano la Chiesa o i transfughi “non potrebbero
salvarsi”? La traduzione italiana recita
“non possono”; quella francese, più correttamente, “ne pourraient pas être
sauvés [non potrebbero esser salvati]”, dato che l’originale latino usa
l’imperfetto congiuntivo (non possent).
Nostro Signore è stato categorico.
Ha detto “condemnabitur”, traduzione letterale del greco katakrithésetai:
“sarà condannato”; non ha detto: “sarebbe condannato”.
Ma, nonostante
l’evidente tortuosità della formulazione di UR 3.5 ed i gravi problemi
interpretativi che essa fa sorgere, non potremmo considerare ugualmente la
“pienezza” ivi proposta come l’equivalente dell’unicità ed esclusività
insegnata ad esempio nella Mystici Corporis? Si potrebbe, a mio modesto avviso, forzando
il testo, se non fosse per il fatto che “Chiese e comunità” non
cattoliche sono senza alcun dubbio incluse, come si è visto, nella Chiesa di
Cristo e come tali considerate “strumenti di salvezza”, sia pure afflitti da
“carenze”. Ed una controverità teologica
affermata in modo così netto, mi sembra impossibile da aggirare.
Stando così le cose,
non mi sembra che l’uso dell’avverbio “solo” apporti la chiarezza
necessaria. Ciò si vede, a mio avviso,
anche dall’ultimo passaggio di UR 3.5. Tutti i tesori della Nuova Alleanza (=
tutta la pienezza dei mezzi della salvezza) sono stati affidati al solo
Collegio apostolico con a capo Pietro (il testo evita però di precisare: “e quindi alla sola Chiesa Cattolica
Apostolica Romana con a capo i successori di Pietro”). Ma al “Corpo di Cristo sulla terra”, cioè
alla Chiesa militante (secondo la definizione tradizionale), come si viene “incorporati”? Da “ordinati in voto” per opera della Grazia,
che ritornano alla vera e unica Chiesa dopo essersi pentiti e aver fatto abiura
dei propri errori? No. Non si ha alcun ritorno o conversione. L’eventuale conversione è concepita come una piena
incorporazione, che è cosa ben diversa:
il “separato” viene incorporato “pienamente”, dal momento che era già
stato incorporato non pienamente con il battesimo (vedi supra, §
2). In quanto già “incorporati” non
pienamente (in “comunione non piena”) “i separati” appartenevano già “in
qualche modo” al “popolo di Dio” ossia alla Chiesa di Cristo (nel cap. II della
Lumen gentium, la Chiesa visibile è concepita come “popolo di
Dio”).
Come ha sottolineato
Mons. Gherardini, il linguaggio di LG e UR, strettamente connessi tra di loro,
oltre che al Decreto Dignitatis
humanae sulla libertà religiosa, “è tutto all’insegna del vago: abbonda l’uso dell’aggettivo “quidam”[un
certo, un tale, qualche e simili] che è espressione di radicale insicurezza, e
si presume con esso di determinare perfino l’azione dello Spirito Santo o di
predisporre un asserto dottrinale (“quaedam in Spirito Sanctu coniunctio [una
certa unione nello Spirito Santo]”); “in quadam cum Ecclesia catholica
coniunctione [in una certa unione con la Chiesa Cattolica]”; “quaedam immo
plurima et eximia elementa extra visibilia Ecclesiae catholicae saepta [”alcuni
molteplici e persino ottimi elementi al di fuori del recinto della Chiesa
cattolica”]; “ad populum Dei aliquo modo pertinent [appartengono in qualche
modo al popolo di Dio]”[10].
6. Quante “Chiese” ci sono, per il Vaticano II ?
Tutto
ciò considerato, possiamo dire che UR 3.5 risolva le ambiguità e le
contraddizioni presenti nella definizione (non dogmatica) della Chiesa data dal
Vaticano II? A mio avviso, esso sembra
confermare l’interpretazione secondo la quale la “Chiesa di Cristo”, nelle
intenzioni del Concilio, include sia la Chiesa cattolica che le “Chiese e
comunità” dei “separati”. La
costituzione Lumen gentium doveva
definire la natura della Chiesa, in modo da completare quanto definito come
articolo di fede dal Vaticano I sulla figura del Pontefice (dogma
dell’infallibilità pontificia quando il Papa dà una definizione solenne in
materia di fede e costumi). Ma essa
sembra aver partorito solo un’enorme confusione tra Chiesa di Dio, Chiesa di
Cristo, Chiesa cattolica, Comunità e Chiese separate, Popolo di Dio; confusione
che coinvolge anche il concetto della salvezza.
Questa è almeno la sensazione di molti credenti, costretti a vedere ora
nella Chiesa nient’altro che il terreno
“Popolo di Dio” in “comunione” o “federazione” con tutte le
“denominazioni” cristiane (e non), con il Papa come capo carismatico, “uomo di
pace”, impegnato in frequenti e mediatici “viaggi di pace”, che garantisce a tutti
il Paradiso, perché Dio è Amore e l’Inferno è vuoto.
“L’introduzione del
concetto di “piena comunione” è stato decisivo per elevare le confessioni
cristiane a una condizione diversa da quella, molto più netta, che la dottrina
cattolica aveva sempre riservato a tutto ciò che cattolico non è. Tanto per intendersi: non si sarebbe fatto un Concilio come quello
di Trento, se non si fosse ritenuta gravemente erronea la posizione di Lutero e
del luteranesimo. Ora, leggendo alcuni
dei documenti del Vaticano II, si ricava l’impressione di una nuova
ecclesiologia, nella quale si avanza una sorta di “federazione” delle chiese
cristiane, all’interno della quale la Chiesa cattolica si riserva una posizione
di “pienezza”, ma accanto e insieme al parterre di tutte le altre espressioni
della riforma protestante. A questo
scopo è stata coniata l’espressione “Chiesa di Cristo”, la cui ricomposizione
logica con la nozione di “Chiesa cattolica” risulta molto complicata. Si tratta della stessa cosa, o di
un’altra? Quante “Chiese” ci sono,
allora?”[11].
In realtà, come si è
visto, l’espressione “Chiesa di Cristo” preesisteva, unitamente agli altri
termini tradizionali. Ma è vero che essa
sembra qui una novità perché utilizzata in un senso “allargato”, in passato sconosciuto. E proprio questa sembra esser stata la causa
prima della confusione: l’aver voluto
estendere la definizione della “Chiesa di Cristo” sino ad includervi tutti gli
acattolici, giocando sull’idea di pienezza e non pienezza, comunione piena e
non piena o imperfetta. Altro motivo di
confusione deriva, io credo, dall’aver poi voluto identificare la Chiesa più
che con il Corpo Mistico di Cristo con il “popolo di Dio”, come se la parte
terrena del Corpo Mistico rappresentata dal popolo dei fedeli potesse diventare
il Tutto. A proposito dell’idea della “pienezza” (plenitudo), bisogna
ricordare che essa ricorre in S.Paolo, ma di sicuro senza le sfumature
indefinibili ed ambigue ad essa attribuite dal Concilio. Si cita sempre, a questo proposito, Ef 1, 23,
uno dei passi fondamentali per il concetto della Chiesa come Corpo Mistico di
Cristo, nel quale l’Apostolo ci insegna che Dio “tutto pose sotto i suoi piedi
[di Cristo], e Lui costituì capo supremo della Chiesa, che è il corpo di Lui,
la pienezza [plenitudo; pléroma, in greco] di Colui che tutto completa
in tutti”. La Chiesa “è piena di Cristo
che tutto riempie”. Come “corpo di Lui”
coincide perfettamente con Lui, ne è spiritualmente “la pienezza, dato che i
membri sono ciò che completa, il complemento [pléroma, di nuovo] del
Capo, come affermava S.Giovanni Crisostomo”[12]. Come inteso da S. Paolo e dai Padri della
Chiesa, il concetto della “pienezza” della Chiesa di Cristo in Cristo, in
quanto Corpo Mistico di Cristo, non lascia evidentemente spazio alcuno alle unioni
o comunioni meno piene o imperfette che dir si voglia con coloro che
si trovano fuori della Chiesa.
Tutto ciò premesso,
studiamo adesso in parallelo il primo capitolo dello schema sulla Chiesa
ripudiato, Aeternus Unigeniti, e il primo capitolo della LG, che lo ha
rielaborato, dedicati entrambi a definire il concetto della Chiesa. Solo sobbarcandosi a questo lavoro ingrato e
faticoso sui testi, credo si possa riuscire a verificare in maniera adeguata
l’esistenza o meno di una continuità
nella riforma della dottrina inaugurata dal Vaticano II.
[1]
D, 203-4. L’autopistía è la fede
prodotta dal soggetto stesso, la fede del tutto individualistica dei
Protestanti, quella del “libero esame” individuale delle Scritture.
[2] DS
696/1314.
[3]
AAS 35 (1943) 242-3; DS 2290/3821. La
traduzione italiana è quella apparsa su L’Osservatore Romano del
4.7.1943, pubblicata a parte: PIO XII, Enciclica
“Mystici Corporis” sul Corpo Mistico di Cristo, Vita e Pensiero,
Milano-Roma, 1959, p. 21, 82.
[4]
Ivi, p. 15 tr. it. Per la
coincidenza perfetta ed assoluta di
Chiesa di Cristo e Chiesa cattolica, il testo cita in nota la costituzione
dogmatica De fide catholica, cap. I, promulgata dal Vaticano I. Per la libertà con la quale devono avvenire
la conversione e il ritorno: ivi, pp.
82-3 e DS 2290/3822. Nel DS non sono riuscito a trovare il passo che ho appena
citato nel testo (sull’identità perfetta e assoluta di Chiesa di Cristo e
Chiesa Cattolica Romana), nella scelta di passi della Mystici Corporis.
[5]
Su quest’ultimo punto: AMERIO, Iota
Unum, p. 466 (§ 246); VELATI, Un indirizzo a Roma, cit., p. 107, con
le fonti ivi riprodotte in nota.
[6]
HUBERT JEDIN, Breve storia dei
Concili. I venti concili ecumenici nel
quadro della storia della Chiesa, tr. it. di Nerina Beduschi, Herder, Roma,
1960, p. 28, 32 (per il riconoscimento del Primato di Pietro).
[7]
L’appiattimento della Chiesa Cattolica sulle altre “Chiese e comunità”, come se
la nostra fede non si distinguesse da quella dei cosiddetti “fratelli
separati”, è stato colto e criticato da Mons. Gherardini in relazione al Proemio
della costituzione Sacrosanctum Concilium sulla Liturgia e ad UR 1 (Quod et tradidi
vobis, cit., pp. 373-5). Sul punto,
il prof. Cantoni accusa Mons. Gherardini di aver troncato le citazioni dai due
testi conciliari nel punto più conveniente alle sue tesi (C, 34-6). Ma il prosieguo dei testi citati non mostra
in realtà nulla di diverso, procedendo sempre nella stessa direzione. Non c’è
mai l’affermazione della superiorità della nostra religione cattolica (unica
rimasta fedele al dogma) né quella della necessità del ritorno dei “separati”,
dopo aver abiurato i loro errori. Non
c’è perché “la Chiesa” ivi menzionata è la “Chiesa di Cristo” nel senso del Concilio
non la Chiesa Cattolica Romana nel senso tradizionale del termine. E in questa “Chiesa di Cristo” in tal modo
concepita si ha appunto l’appiattimento.
[8]
Si controlli lo schema De Ecclesia “scartato” al cap. I, di 7 paragrafi
più le note, intitolato: “De Ecclesia
militantis natura”. Sul punto, vedi infra, capp. III e IV.
[9]
UR 3.5 : “Per solam enim catholicam Christi Ecclesiam, quae generale auxilium
salutis est, omnis salutarium mediorum plenitudo attingi potest. Uni nempe Collegio apostolico cui Petrus
praeest credimus Dominum commisisse omnia bona Foederis Novi, ad constituendum
unum Christi corpus in terris, cui plene
incorporentur oportet omnes, qui ad populum Dei iam aliquo modo pertinent”.
[10]
D, 205.
[11]
ALESSANDRO GNOCCHI – MARIO PALMARO, La Bella Addormentata etc., cit., p.
192.
[12] LGNT,
alla voce pléroma.
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