A sessant'anni dalla fine del Vaticano II -- I. Riflessioni sulla 'Gaudium et spes'.
A sessant’anni dalla fine del Concilio
Ecumenico pastorale Vaticano II.
I -- Riflessioni sull’Enciclica pastorale ‘Gaudium et spes’
dedicata al rapporto della Chiesa con il mondo contemporaneo -- di
Paolo Pasqualucci.
[Per
celebrare come merita il sessantesimo anniversario della fine del Vaticano II,
nel dicembre del 1965, ho pensato di mettere in rete alcuni capitoli del mio
libro: Paolo Pasqualucci, UNAM SANCTAM. Studio sulle deviazioni dottrinali
nella Chiesa Cattolica del XXI secolo, Solfanelli, Chieti, 2013, pp. 429. Ringrazio l’editore Marco Solfanelli per aver
autorizzato questa mia iniziativa.
Il
libro, rimasto in pratica sconosciuto, approfondiva, per quanto stava alle mie
capacità, l’analisi critica di quello straordinario Concilio iniziata da
studiosi del calibro di Romano Amerio, perfezionata da un illustre teologo
quale mons. Brunero Gherardini, per tacere del contributo di altri studiosi,
laici ed ecclesiastici, di minor levatura. Alla Gaudium et spes dedicavo
una breve sintesi nell’ultimo capitolo del libro, intitolato: La neoilluministica “Gaudium et spes”,
specchio della pastoralità confusa del Vaticano II (pp. 417-427).
I
problemi sollevati a suo tempo dagli
studiosi nei confronti del Vaticano II, con rispettose richieste all’Autorità
Ecclesiastica di voler autorizzare un dibattito qualificato su di esso, non sono stati presi in considerazione mentre
la crisi della Chiesa, alitante sotto le ceneri ed esplosa con il Vaticano II,
non ha fatto che aggravarsi. In questa
situazione riproporre l’analisi critica di dodici anni fa, mi sembra del tutto
legittimo].
* * *
1. Un concetto edulcorato di Illuminismo
Ho
lasciato per ultima la cantoniana riprovazione della critica che Mons.
Gherardini rivolge alla Gaudium et spes, costituzione pastorale sulla
Chiesa ed il mondo contemporaneo, forse il documento più famoso del Concilio
presso il grande pubblico.
“Egli
mette in discussione il documento Gaudium et spes nel suo insieme. Esso sarebbe infatti ispirato dai princìpi
dell’Illuminismo. Posto che
l’Illuminismo non è ovviamente in continuità con il cristianesimo, ne
trae la conclusione che non lo è neppure la costituzione conciliare. [Si chiede egli infatti] “se GS obbedisca ai
principi della divina Rivelazione e della Fede, o a princìpi antropologici che
appartennero al secolo dei Lumi, al suo esasperato razionalismo, ai suoi
conati di liberazione dalla morsa soffocante della Tradizione. Son certo che su questa domanda si gioca
‘l’ermeneutica della continuità o della rottura’”. Per suffragare un’affermazione del genere –
prosegue il prof. Cantoni – così pesante e gravida di conseguenze, Mons.
Gherardini cita un’opinione di Benedetto XVI, secondo la quale, nella GS,
cercando di giungere ad una conciliazione tra Chiesa e Modernità, il Concilio
ha “evidenziato” la “profonda corrispondenza tra cristianesimo ed illuminismo”[1].
Secondo
il prof. Cantoni, Mons. Gherardini non avrebbe capito in che senso il Papa usa
il concetto di Illuminismo per spiegare il significato della GS. Si tratta di un concetto allargato, che
proviene dalla storiografia laica, applicato per analogia, onde “illuminismo
prende grosso modo il senso di movimento culturale caratterizzato da una
particolare stima della ragione, soprattutto nella sua funzione critica, che
può come tale facilmente degenerare in una sua “sopravvalutazione” con esiti
eversivi”[2]. L’istanza “illuministica” fatta propria dal
Concilio sarebbe dunque immune dagli “esiti eversivi” tristemente noti – a
partire dalla Rivoluzione Francese – perché la Chiesa, con il Vaticano II,
sarebbe riuscita a farsi carico della parte migliore dell’Illuminismo,
superandolo, evitando quindi gli errori nei quali è poi caduta la
neoilluministica Modernità[3].
Ma
proprio questo – osservo – si tratta di dimostrare: che la Gerarchia cattolica, promuovendo con
il Concilio l’aggiornamento della Chiesa alla spiritualità laica del
Secolo, sia riuscita a far proprie senza danni le istanze “migliori” del
razionalismo tipico di questa spiritualità, pur sempre figlia degli
anticristiani Lumi. L’Illuminismo, si
sa, mette l’uomo al centro di tutto. Si
ispira al motto di Protagora sofista:
“l’uomo è la misura di tutte le cose”.
L’uomo, non Dio. La ragione
illuministica in senso proprio è in sostanza lo spirito corrosivo
dell’individualismo borghese che vuole tutto dissolvere, a cominciare dalla
Verità Rivelata, della quale non vuole più sentir parlare. È la “ragione” degli scettici, che di tutto
vuol far tabula rasa per tutto ricostruire a misura d’uomo, dalla società allo
Stato ai rapporti familiari all’intero genere umano alla religione, dando nello
stesso tempo ampio spazio all’utile del soggetto, alla sua personale
ricerca della felicità terrena.
La religione cattolica è necessariamente il suo principale
bersaglio. Per gli Illuministi, la
negazione della Trascendenza deve esser totale:
nella loro ottica il Sovrannaturale non solo scompare
dall’orizzonte dell’uomo ma deve scomparire, perché la religione sarebbe
nient’altro che “superstizione” e “fanatismo” che impedisce all’uomo di godersi
la vita, da abbattere in qualsiasi modo.
Essa è accettabile solo come una sorta di depotenziata e svirilizzata
“religione civile”, di “moralità” a sfondo sociale e umanitario, senza dogmi e
senza trascendenza, senza Giudizi e Inferni checchesia (vedi supra, cap.
XVI, sulla “libertà religiosa”).
Ora,
nella pastorale cattolica odierna, che si ispira a documenti quali la GS, è
ancora presente l’istanza sovrannaturale intrinseca per definizione al
Cristianesimo e senza la quale esso perde interamente di significato? O non è forse vero che questa pastorale ha
smesso da tempo, come ho già ricordato, di rammentarci l’esistenza dei
Novissimi e in particolare del Giorno del Giudizio, nel quale, secondo il dogma
della fede, il genere umano sarà diviso per sempre in Eletti e
Reprobi? La Chiesa riformata in base ai
decreti del Concilio, non si presenta forse come una gigantesca associazione
assistenziale, intesa a promuovere i “diritti umani”, la solidarietà e
fratellanza universali, l’unità del genere umano e delle religioni, la
democrazia, il progresso e la giustizia sociale, senza più manifestare la
volontà di convertire gli uomini a Cristo, per conquistar loro la vita
eterna? Senza più mettere l’istanza
della santificazione individuale (nella lotta quotidiana contro sé stessi per
la salvezza della propria anima) al centro del suo insegnamento? In nome della cosiddetta “libertà religiosa”
l’attuale Gerarchia non ha forse rinunciato al proselitismo? Si è mai vista una cosa del genere,
nell’intera storia della Chiesa? Di
fronte a simile, radicale mutazione, le cui tragiche conseguenze
sono sotto gli occhi di tutti, concorrendo
essa all’annientamento (in corso) delle antiche nazioni cattoliche oltre
che alla generale scristianizzazione, come si fa a non chiedersi se
l’antropocentrismo dell’istanza illuministica non sia penetrato largamente
nella Gerarchia che ha voluto incautamente farla propria quell’istanza (vedi il
famoso discorso di chiusura della IV ed ultima assise conciliare, autore Paolo
VI, il 7 dicembre 1965), nell’illusione di depurarla ed innalzarla a
verità di un Cristianesimo non più “segno di contraddizione” ma conciliato
con il mondo? Conciliato, come se
Nostro Signore non avesse detto: “il
mondo mi odia perché io attesto che le sue opere sono malvage”(Gv 7,7),
ricordandoci inoltre che “il servo non è da più del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno
anche voi” (Gv 15,20)?
E che
le cose stiano così, non lo dimostra anche la mutazione che ha subìto la
figura stessa del sacerdote, in grave crisi spirituale perché considerato
come se fosse uguale agli altri, “uno come noi”, e pertanto declassato (proprio
come volevano gli irreligiosi artefici dei Lumi) a semplice “operatore” di una
morale solidaristica, sentimentale ed umanitaria che praticamente tutto
giustifica ed assolve? I dubbi sollevati
da Mons. Gherardini nei confronti della GS sono in realtà più che legittimi e
non si possono liquidare contrapponendo loro una concezione di “illuminismo”
tipica di una storiografia erudita che estrapola arbitrariamente dal contenuto
velenoso e corrosivo dell’originale, facendoci così perdere di vista il vero
significato dell’Illuminismo e Neoilluminismo ancora dominanti, che,
nell’ultralaica Respublica euroamericana, stanno affilando le armi di una nuova
persecuzione del Cristianesimo, in nome dell’Umanesimo secolarista e della
Rivoluzione Sessuale.
2. Una pastoralità confusa, pervasa da un
“profilo dottrinale” più che fallibile
La GS
è il documento più imponente del Concilio, il più lungo. Mons. Gherardini ricorda che “gli stessi
Padri conciliari non nascondevano a suo riguardo alcune perplessità: sulla vastità della materia trattata, sul
dialogo con il mondo intero, sul titolo di “Costituzione pastorale”[4]. Ma prevalse il desiderio di prestare “un
servizio all’uomo nel mondo”. Infatti,
“descritta “la condizione dell’uomo nel mondo contemporaneo”, ne trassero argomento
per le due parti della loro Costituzione e per le sue non poche distinzioni e
sottodistinzioni, passando da “La Chiesa e la vocazione dell’uomo” ad “Alcuni
fra i problemi più urgenti” (matrimonio, famiglia, progresso, cultura,
economia, politica, costruzione della pace e della comunità
internazionale). C’è davvero di
tutto. Trattandosi anzi d’un documento
conciliare, c’è indubbiamente di troppo, come se un siffatto documento dovesse
di necessità rispondere a tutti i problemi del momento, a tutte
le ansie e a tutte le speranze, ai vuoti di serenità e di luce, nonché
alle aberrazioni in qualche caso innominabili della società contemporanea, e
concorrere a creare la socializzazione di tutti gli esseri umani per
costituirli in “comunità” mondiale, tenuto conto ovviamente di quanto al
riguardo possan dare la Chiesa e gli stessi cristiani. Da questo coacervo di tematiche filosofiche,
psicologiche, sociologiche, politiche e teologiche, si fa dipendere la
qualificazione pastorale della GS.
Ma di che cosa, in realtà, si tratta?
Sarebbe bello se fosse possibile dirlo.
Non lo fu nemmeno per i Padri conciliari. Avevan faticosamente elaborato
un testo per il quale non trovavan né un titolo, né una qualificazione
sintetica”[5].
Per
il titolo, prevalse la dizione “costituzione pastorale”, di fronte però a ben
541 proposte di titoli diversi. C’era un
accordo solo sulla qualificazione di “pastorale”[6]. Si dovette apporre una nota al Proemio
della costituzione per delucidare il significato del documento. Esso constava
di due parti: una dottrinale e una
pastorale. Questa seconda esponeva
“l’atteggiamento della Chiesa di fronte al mondo ed agli uomini d’oggi”. E questo sarebbe allora il significato
“pastorale” della GS: un atteggiamento di apertura e comprensione per le
esigenze del mondo d’oggi. Però la nota
diceva anche che la parte dottrinale era pastorale e quest’ultima anche
dottrinale. Chiosa Mons. Gherardini: la nota
“non sembrava uno squarcio di scrittura trasparente”[7].
Nella
discussione in Aula prevalse un modo pragmatico di intendere la “pastorale”: la
preoccupazione non tanto del suo fondamento dottrinale quanto della “apertura
pastorale” che i testi dovevano
testimoniare perché “alla base di tutto c’era il problema dell’uomo, che in sé
è paradossalmente plurale; è la concrezione di tutt’i problemi umani –
religiosi, storici, giuridici, sociali – e quindi è variabilità, mutevolezza,
contingenza. Ma anche alternativa di
bene e di male. Di fronte a tale
alternativa, la GS perfino nella sua parte dottrinale, obbedisce alle esigenze
sempre mutevoli dell’approccio pastorale. Ad esso si dette il nome d’umanesimo
cristiano: non un’antropologia teoretica, ma un atteggiamento di simpatia,
d’apertura, di comprensione verso l’uomo, la sua storia e “gli aspetti della
vita odierna e della società umana”, con particolare attenzione ai “problemi
che sembrano più urgenti””[8].
L’approccio
“pastorale”, dunque, come atteggiamento di simpatia, apertura e
comprensione nei confronti dell’uomo
moderno. Certo, questo atteggiamento non
sembrava affatto riflettere quello di Nostro Signore quando iniziò la sua
missione, che consisteva nel convertire i peccatori con l’annuncio della Buona
Novella: “pentitevi e credete al Vangelo
poiché il Regno dei Cieli è vicino”(Mc 1,15).
Di invito al pentimento e alla
conversione non c’è traccia in questa “pastorale”. Simile “pastoralità” disponeva comunque di un
suo apparato dottrinale, rintracciabile nei testi, che non per questo diventano
dogmatici. Si tratta sempre della
dottrina sottostante alla peculiare pastorale del Concilio. Questo aspetto è stato a mio avviso colto
molto bene da Mons. Gherardini.
Egli
osserva che “la nota con cui s’intese illuminar e guidare la lettura del
documento, non indicò criteri ermeneutici fissi” cioè stabiliti ad hoc per il
documento, ma si rifece ad una frase contenuta (vedi supra) nella Nota
praevia aggiunta alla LG, che diceva: “La Costituzione dovrà esser
interpretata secondo le norme generali dell’interpretazione teologica” con
l’aggiunta: “tenendo conto…delle
circostanze mutevoli, cui son intrinsecamente connesse le materie trattate”[9]. E questo “specie nella seconda parte”, quella
più propriamente pastorale. L’impiego di questa frase, che dimostra “l’identità
dei princìpi ermeneutici” del Concilio, “conferma una volta ancora che la
qualifica di pastorale non è esclusiva della GS ma è di tutt’il
Concilio, sulla cui dimensione pastorale anche la GS viene
coestesa”. La conseguenza essenziale di
ciò, in relazione al dibattito sulla effettiva qualificazione teologica del
Concilio, è la seguente, di estrema importanza: “Ciò comporta nel Vaticano II
non l’assenza del profilo dottrinale, ma l’assenza dell’intento definitorio e,
di conseguenza, di nuove formulazioni dogmatiche”[10].
La
presenza di una dottrina peculiare al Vaticano II non deve far gridare
all’infallibilità: cosa impossibile a
ritrovarsi in questo Concilio a causa dell’assenza dell’”intento definitorio”,
che sarebbe pertanto assurdo considerare implicitamente esistente a causa
dell’esistenza di questa dottrina. Nel
“pastorale” Vaticano II il “profilo dottrinale” c’è e come. L’Autore ne individua molteplici aspetti. “Come riesumazione di precedenti Concili;
come attenzione ai dati della tradizione filosofico-teologica; come
preoccupazione per l’esegesi biblica; com’esigenza della stessa metafisica;
come segnalazione dei traguardi culturali ultimamente raggiunti”[11].
Ma
questo “profilo dottrinale” è sempre in funzione della “pastorale”, che riporta
il sopravvento, talché il Vaticano II, nella storia dei Concili Ecumenici, si
segnala “non per una sua incidenza dottrinale – ed ancor meno dogmatica – ma
per le novità d’atteggiamento, di valutazione, di movimento e d’azione,
introdotte nei gangli vitali della Chiesa, senza un evidente e necessario nesso
con le sue verità”[12]. Naturalmente, i Padri conciliari tentarono di
“assicurare” la pastorale del Concilio “su un consistente fondamento
scritturistico, storico e teologico”. Tuttavia, all’atto pratico, conclude l’Autore,
“diventa difficile giudicare la bontà non tanto del loro intento, quanto del
risultato globale da essi conseguito”[13].
3. Rilievi sul “profilo dottrinale” della
“Gaudium et spes”
A
questa analisi di Mons. Gherardini, a mio avviso esemplare, mi permetto di
aggiungere qualche considerazione concernente il “profilo dottrinale” della Gaudium
et spes, senza pretesa di completezza.
La GS mostra indubbiamente un suo modo di intendere “il mondo
contemporaneo”, una sua filosofia della storia, che non è affatto quella
cristiana tradizionale, di un S. Agostino, di un Bossuet, ma quella laica dei
Kant e dei Condorcet, incentrata sull’idea di un progresso dell’umanità dovuto
all’uomo stesso, verso il perfezionamento e l’unione dell’intero genere umano
(vedi supra, cap. III, § 5). In
questo schema la GS inserisce elementi di pensiero cristiano, che non
modificano l’impostazione laica ed antropocentrica dell’insieme ed anzi
deformano la componente “cristiana” o “cattolica” stessa.
Il
discorso del documento si sviluppa per cerchi concentrici, in 93 articoli. Dopo essersi soffermato sull’”intima unione
della Chiesa con la famiglia umana” (GS 1-3), nozione che tende ad identificare
la Chiesa con l’umanità stessa, esso affronta la “condizione dell’uomo nel
mondo contemporaneo” (4-10), vista in preda a profondi mutamenti “psicologici,
sociali, religiosi”: mutamenti che da un
lato creavano una profonda “crisi d’identità”, dall’altro spingevano verso una
migliore conoscenza di sé grazie anche all’apporto delle scienze. In ogni caso i mutamenti in corso stavano
realizzando l’unità del genere umano, per il Concilio un dato di fatto
irreversibile: “unico diventa il destino
dell’umana società, senza diversificarsi più in tante storie separate” (GS
5.6). Anche la “vita religiosa” era
coinvolta in questo processo e il Concilio ne deduceva che erano “numerosi
coloro che giungono a un più vivo senso di Dio”, guardando con “un più acuto
senso critico” alle concezioni magiche del mondo e alle “sopravvivenze
superstiziose”. Questa tendenza era controbilanciata da una crescente tendenza
all’ateismo (GS 7). Chi fossero coloro
che erano giunti “a un più vivo senso di Dio”, liberandosi delle “sopravvivenze
superstiziose”, non era chiaro. Comunque
sia, nonostante “squilibri” di ogni tipo
nel mondo contemporaneo (GS 8), il Concilio credeva di individuarvi
“aspirazioni sempre più universali”, anche di ordine sociale e coinvolgenti i
popoli e anche le donne (“che rivendicano, là dove ancora non l’hanno
raggiunta, la parità con gli uomini, non solo di diritto, ma anche di fatto” –
GS 9). Era questa una prima apertura del
Concilio al femminismo, in uno dei suoi documenti più importanti. Le “aspirazioni” molteplici celavano, secondo
GS, “un’aspirazione più profonda e universale”, quella di “una vita piena e
libera, degna dell’uomo, che metta al proprio servizio tutto quanto il mondo
oggi gli offre così abbondantemente. Anche le nazioni si sforzano sempre più di
raggiungere una certa comunità universale”(GS 9.3).
Quest’analisi
può sembrare ancor oggi valida. In
realtà, pur contenendo delle verità, si
fermava alle apparenze, edulcorando alquanto le “aspirazioni” degli individui e
delle masse di allora, conferendo loro una nobiltà di intenti che raramente
avevano. Sotto le esigenze della
giustizia sociale e del riconoscimento della dignità della persona (una
retorica che già allora ammorbava l’aria) non era molto difficile scorgere la
violenta spinta eversiva ed edonistica, nichilista che cominciava ad affermarsi
nelle nostre società: eversiva,
intendo, non solo in senso politico ma anche sul piano dei valori e dei
princìpi, sul piano morale. E
quella spinta non si è certo affievolita in seguito alla “cooperazione” offerta
al mondo dalla Chiesa cattolica “riformata” grazie al Concilio; anzi, si è
enormemente accentuata, come possiamo constatare amaramente ogni giorno. L’analisi soffriva poi di una grave lacuna,
tacendo, come faceva, del Comunismo, che rappresentava indubbiamente una delle
“questioni” fondamentali dell’epoca. Il marxismo-leninismo, con la sua pretesa
di essere una verità omnicomprensiva ed assoluta, non rappresentava anche una
sfida intellettuale di estrema gravità per la Chiesa e la concezione cristiana
della vita? Il Concilio non aveva nulla da dire, in proposito, ai fedeli? La montagna della Gaudium et spes
riuscì solo a partorire il topolino di tre piatti ed ambigui articoli
sull’ateismo (GS 19-21) e una condanna generica del totalitarismo, da reperire
con il lanternino, in GS 73.9.
Nello
stesso tempo, la Gaudium et spes non nascondeva il suo apprezzamento per
la democrazia vigente in Occidente, espressione del Progresso dell’umanità (GS
31, 34). L’individualismo esasperato e
l’edonismo che questa democrazia, fondata su istanze materialistiche e
su una nozione tendenzialmente assoluta di libertà individuale, già
cominciava a far vedere, venivano completamente ignorati. Voglio ricordare ai lettori che lo schema di
costituzione dogmatica De ordine morali, anch’esso tra quelli sabotati
in Aula dai Novatori, conteneva un’analisi lucidissima dei mali morali e delle
degenerazioni incipienti nelle nostre società[14]. E non da meno era lo schema di costituzione De
deposito fidei pure custodiendo, anch’esso scomparso nel naufragio iniziale
di tutti gli schemi in Concilio. In questi schemi, al Marxismo si dedicavano
solo fuggevoli cenni e sappiamo perché.
C’era, tuttavia, la critica radicale e ragionata del principio di
immanenza, dell’antropocentrismo posto dall’uomo moderno e contemporaneo a
fondamento delle sue società, democratico-borghesi o comuniste che
fossero. Per esser all’altezza del suo
compito storico, il Concilio non avrebbe
dovuto elaborare una critica obiettiva, razionale e se necessario impietosa,
sia della democrazia liberale americana che della democrazia popolare
sovietica, ossia comunista? Non se ne
fece nulla e la pappa del cuore che risultò alla fine essere la Gaudium
et spes si può considerare, io credo, l’emblema di un colossale fallimento
intellettuale[15].
La GS
si limitava a riconoscere che in generale c’era il pericolo, per le aspirazioni
e le energie dell’umanità, di prendere una brutta direzione: bisognava scegliere tra “la strada della
libertà e della schiavitù, del progresso o del regresso, della fraternità o dell’odio”(GS
9.4). Si noterà che la scelta era vista
sempre dal punto di vista di una concezione del tutto terrena della scelta
stessa. Quale allora il compito della
Chiesa? Intervenire in questo mondo in
rapida e pericolosa evoluzione con tutta la forza di una rinnovata attività
missionaria, al fine di convertirlo a Cristo, indirizzando così il suo
(supposto) progresso verso l’unica meta compatibile con la vocazione divina
della Chiesa Cattolica? Così avrebbe
dovuto essere, pensarono in molti, ma così non fu, come risulta, ad esempio,
dall’art. 10 della GS, che chiude l’esposizione introduttiva, sulla condizione
dell’uomo nel mondo contemporaneo.
L’articolo
si inizia con il richiamo all’origine interiore degli “squilibri”
contemporanei, nel cuore dell’uomo “debole e peccatore”, in contraddizione con
sé stesso, alla ricerca di una spiegazione definitiva del senso della vita, che
non riesce a trovare. L’uomo di allora
si interrogava sulla sua natura, ansiosamente:
“che cos’è l’uomo? Qual è il
significato del dolore, del male, della morte […] Cosa ci sarà dopo questa
vita?” (GS 10).
Per
chi ricorda quegli anni, erano solo in pochi a porsi davvero quegli
interrogativi, la scena essendo occupata dagli ottimistici miti del progresso
in versione democratico-americana o marxistico-sovietica e dalle conseguenti
spinte eversive ed edonistiche di cui sopra.
A meno di un anno dalla fine del Concilio il capo del Partito Comunista
Cinese, Mao Tse Dong, scatenò la gioventù cinese contro i quadri del partito,
iniziando una sanguinosissima guerra
civile che sarebbe durata anni. Poco
dopo, nel Maggio del 1968 esplosero nell’Europa Occidentale, a partire dalla
Francia, i “moti studenteschi” di infausta memoria, con la loro contestazione
del principio di autorità, in ogni campo, morale, politico, estetico. Fu
l’inizio evidente di quel rovesciamento di tutti i valori che ha portato in
pratica alla decomposizione dell’Occidente, della quale stiamo forse vivendo
l’ultima fase. Nel frattempo, la Chiesa
era squassata dalla tempesta postconciliare; stava vivendo, come poi si è
detto, il suo “Sessantotto”. L’ottimismo
del Concilio e in particolare della Gaudium et spes, che si riprometteva
un grandioso avvenire di pace e progresso grazie alla collaborazione della
Chiesa con il mondo, si rivelava del tutto fallace. Anzi, nella Chiesa il “Sessantotto” cominciò
ancor prima di quello esploso poi sulle piazze ed in un certo senso l’anticipò;
l’anticipò già con la traumatica contestazione del principio d’autorità da
parte del cardinale Liénart, il 13 ottobre 1962, dentro la Basilica di S.
Pietro, all’apertura del Concilio.
Anche con i suoi limiti, che erano quelli di rappresentare
un’umanità in sostanza astratta,
l’analisi di GS 10 coglieva ancora una parte di verità e poteva comunque
apparire come uno sguardo più profondo sulla reale situazione esistenziale
della condizione umana. Ma era nel
delineare lo scopo che la Chiesa voleva prefiggersi per contribuire a risolvere
i problemi di questa condizione umana, che appariva di colpo la svolta
antropocentrica. Appariva, in
sostanza, l’elemento eterodosso che sviava il discorso in una direzione non
cattolica, secolaristica.
La
risposta ai problemi dell’umanità poteva venire solo da Cristo. Giusto.
Ma in che modo? Con il pentimento
e la conversione? No. Solo da Cristo perché solo la Parola di
Cristo, per il tramite della Chiesa, permetteva all’uomo di trovare la forza
“per rispondere alla sua altissima vocazione”.
Ecco il passo, per me uno dei testi chiave per capire il vero spirito
del Vaticano II: “Ecco: la Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e
risorto, dà sempre all’uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza per
rispondere alla sua altissima vocazione [ut ille summae suae vocationi
respondere possit]; né è dato in terra un altro nome agli uomini, mediante
il quale possono essere salvati”(GS 10.3).
Il richiamo finale al famoso testo di Atti 4,12 nulla toglie, mi sembra,
al taglio antropocentrico di questa “vocazione”, taglio che, come si è visto,
diverrà più evidente negli articoli successivi della GS (vedi supra,
capp. da XI a XIV). L’articolo si
conclude dichiarando che Cristo è la “chiave” e “il centro” di tutta la storia
umana, che è “immagine del Dio invisibile, primogenito di tutte le creature”
(secondo il famoso passo di Col 1, 15, richiamato più volte dal Concilio);
“immagine”, comunque, della quale non si ricorda mai la consustanzialità con
il Padre, la sua natura divina. Sulla
base di questa centralità di Cristo nella storia, “il Concilio intende
rivolgersi a tutti per illustrare il mistero dell’uomo e per cooperare nella
ricerca di una soluzione ai principali problemi del nostro tempo” (GS 10.3).
La
Chiesa, dunque, non ha più la missione di convertire ma quella nuova di
“cooperare” al fine di risolvere “i problemi del nostro tempo” unitamente al
resto dell’umanità e in modo da far realizzare all’uomo la sua “altissima
vocazione”. Certo, se Nostro Signore
avesse proposto un messaggio del genere agli Apostoli, costoro se ne sarebbero
tornati senza indugio alle loro case e alla loro vita di prima, suppongo. Cooperare per aiutare l’uomo nel rispondere
alla sua “altissima vocazione”, dunque. Non ripeterò quanto ho già detto su
questo tema nei capitoli precedenti di questo lavoro. Ritorno solo sul concetto di
“vocazione”. Vocazione, ma
quale? Trattandosi della costituzione di
un Concilio Ecumenico della Chiesa Cattolica,
non avrebbe dovuto, quest’idea di vocazione, ricollegarsi sempre alla
“vocazione” dei peccatori di cui al Vangelo di Marco, 2, 17? Narrando la vocatio di Levi l’esattore
delle imposte (S. Matteo) da parte di Nostro Signore, S. Marco, che
raccoglieva, come sappiamo dalla più antica Tradizione, i ricordi di S. Pietro,
riporta la risposta che Gesù diede ai Farisei, scandalizzatisi con i suoi
discepoli per il fatto che Egli si era recato con loro ad un pranzo dato in suo
onore dal suddetto Levi, al quale partecipavano diversi suoi colleghi,
considerati dalla purità legale farisaica contaminati e peccatori per via dei
loro contatti con i Romani: “ — dissero ai suoi discepoli: “Perché mangia e beve coi pubblicani e i
peccatori?”. Gesù, avendo sentito, disse
loro: “Non i sani han bisogno del
medico, ma i malati: non son venuto a
chiamare i giusti ma i peccatori [non enim veni vocare iustos sed peccatores]”.
Questa
dunque “la vocazione”, la vera chiamata cristiana, che in primo luogo ci chiama
all’umiltà, al pentimento, alla conversione del cuore verso Dio, al mutamento
effettivo della nostra vita, improntandola all’amore del Prossimo per Amor di
Dio. La “altissima vocazione” di cui a
GS 10.6 mi ricorda invece Die Bestimmung
des Menschen di Fichte, dell’anno
1800, il più illuminista tra i filosofi idealisti, il più sensibile al delirio
rivoluzionario. Questa la Missione
dell’Uomo, che era anche la sua vocazione: rompere tutte le barriere, innalzandosi nella
propria coscienza di sé sino ad identificarsi nel pensiero con l’Assoluto, con
la Divinità stessa. E difatti, nel già
visto art. 22 della GS, che chiude appunto il capitolo dedicato alla “dignità della
persona umana” non si assiste ad una vera e propria divinizzazione
dell’uomo? Prima si afferma che Cristo
“svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima
vocazione”, poi che la natura umana (per
l’occasione solo “deformata” dal peccato originale) è stata innalzata
dall’Incarnazione “anche in noi ad una dignità sublime”, ed infine che ciò è
avvenuto perché “con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo
ad ogni uomo” (GS 22). Per tacere
dell’inciso dell’art. 24.4 della GS, sull’uomo “sola creatura che Dio abbia
voluto per sé stessa”.
Stabilita la “vocazione” dell’uomo come
“altissima vocazione” a realizzare la sua dignità e personalità, tale concetto
– chiaramente estraneo al giusnaturalismo sempre insegnato dalla Chiesa - viene
applicato nella susseguente prima parte del documento: nella prima sezione, che
si occupa appunto de “La Chiesa e la vocazione dell’uomo”, artt. 11-45. Questa sezione è divisa in quattro capitoli,
che trattano rispettivamente de: “la dignità della persona umana” (12-22); “la
comunità degli uomini” (23-32);
“l’attività umana nell’universo” (33-39); “la missione della Chiesa nel mondo
contemporaneo” (40-45). Questi quattro
capitoli procedono anch’essi per cerchi concentrici. Si passa dall’uomo
considerato singolarmente, come persona, all’uomo in comunità, all’attività
umana nel mondo e addirittura
nell’universo, inquadrata quindi
in una prospettiva cosmica [sic]; al compito specifico della Chiesa in simile
quasi faustiano scenario, di “vocazione” e “attività” individuale e collettiva
dell’umanità, che dovrebbe concludersi nella visione millenaristica di GS 39,
dedicato a “Terra nuova e cielo nuovo”.
A
questo punto, proposta la visione utopica finale, la GS non avrebbe dovuto
concludersi? Il quadro non era
completo? E invece no. Come nota Mons. Gherardini, la costituzione
voleva occuparsi anche di tutti i problemi dell’uomo contemporaneo e dare
un’indicazione precisa per risolverli tutti!
Parlare di documento megalomane sarebbe forse
eccessivo? Si rischia di commettere
peccato? E difatti, sotto la dizione in
apparenza modesta di “Alcuni problemi più urgenti” si inizia la seconda parte
del documento, che mette in pratica i concetti generali, il “profilo dottrinale”
proposto nella prima e sempre nella forma dell’approccio pastorale, del
discorso aperto e pieno di simpatia, dal taglio sociologico-narrativo,
minimalista per quanto riguarda i riferimenti alle verità di fede. Questa seconda parte è divisa in cinque
capitoli, a loro volta divisi in sottosezioni per un totale generale di
sette. Non tedierò il lettore con una
descrizione accurata di questa pachidermica struttura. Mi limiterò a ricordare che essa tratta del
matrimonio e della famiglia (cap. I); della “promozione del progresso della
cultura” (II) ove si propone come modello una “cultura integrale” di tipo
appunto neoilluminista, umanistico e non cristiano; della “vita
economico-sociale”, dove ci si occupa anche di “investimenti e moneta,
latifondi” (III); della “vita della comunità politica” (IV) ove non si
ripropone affatto l’ideale dello Stato cristiano ma si propugna la “giusta
separazione” tra lo Stato e la Chiesa; della “promozione della pace e la
comunità dei popoli” (V), ove sono gettate le basi del “pacifismo” tipico della
Chiesa uscita dal Concilio, funzionale non alla conversione bensì al dialogo
ecumenico.
Questa
seconda parte rappresenta dunque “la prassi” rispetto alla “teoria”. Che la teoria dovesse concludersi in una
prassi del genere, risulta da tutto il contesto della parte introduttiva e in
particolare dall’incipit della sua parte prima, dove si dice all’art. 11, che
“il popolo di Dio” deve cogliere “i veri segni della presenza del disegno di
Dio” nel mondo, nella storia, “le intenzioni di Dio sulla vocazione integrale
dell’uomo, orientando così lo spirito verso soluzioni pienamente umane” (GS
11.1). “Umane”, non ”cristiane”. In
conseguenza di ciò, “il Concilio si propone innanzitutto di esprimere un
giudizio su quei valori che oggi sono più stimati e di ricondurli alla loro
divina sorgente. Questi valori infatti,
in quanto procedono dall’ingegno umano che all’uomo è stato dato da Dio, sono
in sé ottimi, ma per effetto della corruzione del cuore umano non raramente
vengono distorti dall’ordine richiesto, per cui hanno bisogno di essere
purificati”(GS 11.2).
In
questo, che a mio avviso è un altro testo chiave del Concilio, si dichiara
apertamente che lo scopo del Concilio è quello di “purificare” i valori nei
quali crede l’uomo del Secolo e “di ricondurli alla loro divina sorgente”. Ma forse che i valori mondani professati dal
Secolo hanno tutti una “divina sorgente”?
Che concetto ha il Secolo del matrimonio? Lo sappiamo:
sensuale ed egoistico, con la procreazione della prole tenuta sullo
sfondo, un mero optional. Allora,
nel ricondurrre l’imperante concezione laica del matrimonio alla sua “divina
sorgente”, il Concilio non avrebbe dovuto ribadire l’insegnamento tradizionale
della Chiesa, quello della Casti connubii di Pio XI, tanto per
capirci? Invece all’art. 48 della GS,
che si occupa della “santità del matrimonio e della famiglia”, cosa
troviamo? Troviamo, come è stato più
volte rilevato (vedi supra, Cahier de doléances 20), una
concessione esiziale allo spirito del Secolo. Infatti, non vi si dice con
chiarezza che la procreazione e l’educazione della prole è il fine primario
del matrimonio, al quale è subordinato l’arricchimento personale reciproco
degli sposi, anche per ciò che riguarda il soddisfacimento della concupiscenza
carnale naturale, come sempre insegnato dalla Chiesa; si scrive, invece, che: “l’istituto del matrimonio e l’amore
coniugale sono ordinati alla procreazione e alla educazione della prole e in
queste trovano il loro coronamento” (GS 48.2).
La procreazione è il “coronamento” dell’unione e dell’amore coniugale,
non più il suo fine primario. Il termine non sembra chiarissimo. Perché non si è voluto scrivere, in modo
chiaro e netto, che l’istituto del matrimonio e l’amore coniugale hanno il
loro fine primario nella procreazione ed educazione dei figli? Il “coronamento” di qualcosa può anche
apparirne un’appendice, non collegata in modo necessario al fine per cui quel
qualcosa è.
E
chiudo qui i miei sintetici rilievi, che avrei potuto benissimo estender a
tutto l’insieme della GS, sicuro di trovarvi praticamente in ogni articolo la
presenza di una “dottrina” che viene dallo Spirito del Secolo e non dallo
Spirito Santo. È proprio la presenza di
un “profilo dottrinale” del genere la causa principale della confusione messa
in rilievo nelle sue implicazioni teologiche da Mons. Gherardini. Essa risulta di una ripetuta commistione di
elementi della vera dottrina cattolica con le concezioni profane, con quei
“valori” del Secolo che si volevano ricondurre alla loro “sorgente divina”,
“sorgente” partorita in realtà dalla fervida mente dei settatori della Nouvelle
Théologie.
[1] C, 29.
[Per chiarezza devo precisare che il mio libro è anche un saggio di controversistica
cattolica, critico nei confronti delle tesi del prof. Pietro Cantoni, nel suo
libro, al tempo recente, intitolato: Riforma nella continuità. Riflessioni
sul Vaticano II e sull’anti-conciliarismo, SugarCo, Milano, 2011, dove “l’anti-conciliarismo”
sarebbe l’atteggiamento di chi critica il Vaticano II, un Concilio che il prof.
Cantoni riteneva intoccabile perché dotato di una sua propria, peculiare
infallibilità. NB: parole o frasi tra parentesi quadre sono
sempre mie, salvo diversa indicazione].
[2]
C, 31.
[3]
C, 30.
[4]
D, 62.
[5]
D, 62-3.
[6]
D, 63.
[7]
Ivi.
[8]
D, 64.
[9]
Ivi.
[10]
Ivi.
[11]
D, 65.
[12]
Ivi.
[13]
Ivi.
[14]
Schema di costituzione dogmatica De ordine morali, AD/II, 2,2, pp.
28-58.
[15] Il
giudizio di Congar sullo schema De ordine morali mi sembra indicativo
del modo di sentire contraddittorio ed irrazionale dei “nuovi teologi”. Da un lato, come tutti gli altri schemi, gli
sembrava troppo “scolastico”, appiattito [sic] sui documenti ufficiali dei
Papi, poco “ecumenico” (Mon journal du Concile, cit., I, p. 57);
dall’altro lo lodava come “testo vigoroso, che risponde bene agli errori
attuali”, testo che tuttavia lui avrebbe riscritto da cima a fondo (ivi, p. 63:
“Mais il eût fallu tout refaire et composer autrement”). Il “rifacimento” sarebbe stato per l’appunto
la Gaudium et spes. Mi
chiedo: se il testo dello schema era “vigoroso”
e “rispondeva bene agli errori attuali”, che bisogna c’era di riscriverlo? Non sarebbe bastato qualche ritocco?
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