Nota
Come preannunciato, ristampo qui anche il famoso articolo del 1946 di P.
Garrigou-Lagrange sull’involuzione modernistica della teologia, che egli
definiva “nuova”, aggettivo che le è rimasto appicciato, ad indicarne la natura
eterodossa. Quattro anni dopo, nel 1950, apparve l’Enciclica Humani generis
con la quale Pio XII individuava e censurava gli errori filosofici e teologici
di questa “nuova teologia” che si stava insinuando nel clero, soprattutto in
quelle sue componenti apertamente succubi del pensiero contemporaneo,
affascinate dallo spirito del Secolo.
* *
GARRIGOU-LAGRANGE,
Réginald:
Dove
va la Nuova Teologia? Ritorna
al modernismo♣
[Redazione e “Note di
commento” di Paolo Pasqualucci]
Si ripropone qui l’importante testo di R. Garrigou-Lagrange OP
pubblicato mesi fa [su Chiesa e Postconcilio] nell’originale francese con le
“note di commento” in italiano di P. Pasqualucci [qui]. L’attualità dell’articolo dell’insigne
teologo ci sembra fuori discussione, così come la sua capacità di fornire
utilissimi spunti di riflessione. La
riproponiamo pertanto in versione italiana, effettuata ad opera della nostra
Redazione. Le “note di commento” sono state riviste e modificate dall’Autore, in particolare la n.
4. È stata aggiunta una “nota” interamente
nuova, la n. 7, dedicata alla confutazione di chi vuol negare il concetto della
sostanza per poter poi respingere il dogma della transustanziazione.
* * *
In un recente libro di Padre Henri Bouillard, Conversion et grâce
chez saint Thomas d’Aquin,
1944, p. 219, si legge: “Quando lo spirito evolve, una verità immutabile
si mantiene solo grazie a un’evoluzione simultanea e correlativa di tutte le
nozioni, che preservi lo stesso rapporto tra di esse. Una teologia non
attuale sarebbe una falsa teologia”[1].
Ora, nelle pagine
precedenti e in quelle successive sostiene
che la teologia di San Tommaso, in molte delle sue parti importanti, non è più
attuale. Per esempio, San Tommaso ha
concepito la grazia santificante come una forma (principio radicale di
operazioni sovrannaturali che hanno come principio prossimo le virtù infuse e i sette doni): “I
concetti utilizzati da San Tommaso non sono
altro che concetti aristotelici
applicati alla teologia” (Ibid., p. 213 ss.).
Qual è la conseguenza?
“Rinunciando alla Fisica aristotelica, il pensiero moderno ha abbandonato i
concetti, gli schemi, le opposizioni dialettiche che avevano senso solamente in
funzione di essa” (p. 224). Esso ha dunque abbandonato la nozione di forma.
Come potrà evitare il
lettore di concludere che la teologia di San Tommaso non essendo più attuale, sia una falsa
teologia?
Ma allora, come mai i Papi
ci hanno raccomandato così spesso di seguire la dottrina di San Tommaso? Come
afferma la Chiesa nel Codice di Diritto Canonico, [del 1917], can. 1366, n. 2:
“Philosophiae rationalis ac theologiae studia et alumnorum in his disciplinis
institutionem professores omnino pertractent ad Angelici Doctoris rationem,
doctrina, et principia, eaque sancte teneant”a.
Inoltre, com’è possibile
che “una verità immutabile” sussista, se i due concetti che essa unisce
con il verbo essere sono essenzialmente mutevoli?
Un rapporto immutabile è
concepibile solamente se vi è qualcosa d’immutabile nei due termini che esso
raccorda. Altrimenti, sarebbe come affermare che una gabbia di ferro possa
immobilizzare le onde del mare.
Indubbiamente, i due
concetti
che vengono uniti in
un’affermazione immutabile vengono in primo luogo confusi e poi distinti, come
il concetto di natura, di persona, di sostanza, di accidente, di
transustanziazione, di presenza reale, di peccato, di peccato originale, di
grazia, etc. Ma se nella loro essenza fondamentale questi concetti non fossero
immutabili, come potrebbe essere immutabile l’affermazione che li unisce
tramite il verbo essere? Come si potrebbe sostenere che la presenza reale della
sostanza del Corpo di Cristo nell’Eucaristia richieda la transustanziazione, se
tali concetti fossero essenzialmente mutevoli? Come si potrebbe sostenere che
il peccato originale che è in noi dipende da
una colpa volontaria del primo uomo, se il concetto di peccato originale fosse
essenzialmente instabile? Come si potrebbe sostenere che il giudizio
particolare dopo la morte sia irrevocabile per l’eternità, se tali concetti
sono destinati a cambiare? E infine, come si può sostenere che tutte queste
proposizioni siano immutabilmente vere, se la stessa nozione di verità
dovesse cambiare, e se fosse necessario sostituire la definizione tradizionale
della verità (la conformità del giudizio alla realtà extramentale e alle sue
leggi immutabili) con quella proposta negli ultimi anni dalla filosofia
dell’azione: la conformità del giudizio con le esigenze dell’azione o della
vita umana che evolve continuamente?
***
1.
Le stesse
formule
dogmatiche conservano la loro immutabilità?
Il padre H. Bouillard, op. cit., p. 221,
replica: l’affermazione che si esprime in esse rimane. Ma aggiunge, ibid.:
“Probabilmente ci si chiederà forse se sia ancóra possibile considerare
contingenti i concetti implicati nelle definizioni conciliari. Ciò non
significherebbe forse compromettere il carattere irrevocabile di tali
definizioni? Il Concilio di Trento, sess. 6, cap. 7, can. 10, per esempio, ha
impiegato il concetto di causa formale nel suo insegnamento sulla
giustificazione. Per questo stesso fatto, esso non ha forse consacrato questo
uso e conferito al concetto di grazia formale un carattere definitivo? Niente
affatto. Non era certamente intenzione del Concilio quella di canonizzare
un concetto aristotelico, e nemmeno un concetto teologico concepito sotto
l’influsso di Aristotele. Esso voleva semplicemente affermare, contro i
protestanti, che la giustificazione è un rinnovamente interiore… A questo scopo ha utilizzato dei concetti comuni nella
teologia del tempo. Ma essi possono essere sostituiti con altri, senza
modificare il senso del suo insegnamento”. (Il corsivo è nostro.)
Indubbiamente il Concilio
non ha canonizzato il concetto aristotelico di forma insieme a tutte le sue
relazioni con gli altri concetti dello Stagirita.
Ma l’ha approvata come un concetto umano stabile, nel senso in cui tutti
definiscono ciò che costituisce formalmente una cosa (in questo caso la
giustificazione)[2].
In questo senso, esso distingue la grazia santificante dalla grazia attuale,
affermando che essa è un dono sovrannaturale, infuso, inerente all’anima e
tramite il quale l’uomo è formalmente giustificato (cfr. Denzinger, 799, 821).
Se i Concili definiscono la fede, la speranza, la carità come virtù infuse
permanenti, il loro principio radicale (la grazia abituale o santificante)
dev’essere anch’esso un dono infuso permanente, e pertanto distinto dalla
grazia attuale o da una mozione divina transitoria.
Come si può sostenere il senso
di questo insegnamento del Concilio di Trento: “la grazia santificante è la
causa formale della giustificazione”, se “si sostituisce il concetto
di causa formale con un altro”? Non dico “se lo si sostituisce con un
equivalente verbale”;
dico,
seguendo il ragionamento del padre H. Bouillard, “se lo si sostituisce con un
altro”.
Se è un altro, non è
più il concetto di causa formale: quindi, non è più vera
l’affermazione del Concilio: “la grazia santificante è la causa formale della
giustificazione”. Bisogna accontentarsi di dire: la grazia è stata concepita
all’epoca del Concilio di Trento come causa formale della giustificazione, ma
oggi è necessario concepirla diversamente; questo concetto passato non
è più attuale e quindi non è più vero, perché una dottrina che non è
più attuale, si è detto, è una falsa dottrina[3].
Si ribatterà: si può
sostituire il concetto di causa formale con un altro equivalente. Qui si gioca
con le parole (insistendo in un primo momento su un altro e poi su equivalente),
dal momento che non si tratta solamente di equivalenza verbale, ma di un
altro concetto. Cosa diventa, in tal modo, il
concetto stesso di verità?[4]
Dunque si riaffaccia di
nuovo una
questione
molto grave: la proposizione conciliare è mantenuta come vera “per conformitatem cum ente
extramentali et legibus eius immutabilibus, an per conformitatem cum exigentia
vitae humanae quae semper evolvitur”b?
È palese il pericolo insito
nella nuova definizione della verità, non più adaequatio rei et intellectus,
ma conformitas mentis et vitae. Quando Blondel, nel 1906, propose questa
sostituzione, non ne aveva previsto tutte le conseguenze nel campo della fede.
Con tutta probabilità, egli stesso ne sarà stato successivamente spaventato, o
per lo meno molto turbato[5]. A quale
vita ci si riferisce in questa definizione: “conformitas mentis et vitae”? Alla
vita umana. E come evitare la proposizione modernista: “Veritas non est
immutabilis plusquam ipse homo, quippe quae cum ipso, in ipso et per ipsum
evolvitur”c (Denz. 2058)? Si comprenderà ora perché
Pio X abbia detto a proposito dei modernisti: “aeternam veritatis notionem
pervertunt”d (Denz. 2080).
È molto pericoloso
affermare: “i concetti cambiano, le affermazioni restano”. Se il concetto
stesso di verità cambia, le affermazioni non rimangono più vere allo stesso
modo, né mantengono lo stesso senso. Quindi il significato di ciò che è
stabilito nei Concili non è più conservato, come
si pretende.
Disgraziatamente, la nuova
definizione della verità si diffonde tra quanti dimenticano ciò che aveva detto
Pio X: “Magistros autem monemus, ut rite hoc teneant Aquinatem vel parum
deserere, praesertim in re metaphysica, non sine magno detrimento esse. Parvus
error in principio, sic verbis ipsius Aquinatis licet uti, est magnus in
fine”e. (Enc. Pascendi.)
A maggior ragione se si
disprezza ogni metafisica, ogni ontologia, e se si tende a sostituire la
filosofia dell’essere con quella del fenomeno, o con quella del divenire, o con
quella dell’azione.
Quella che si può trovare nella nuova definizione della
teologia non è forse una nuova definizione della verità: “La teologia non è
nient’altro che una spiritualità o un’esperienza religiosa che ha trovato la
sua espressione intellettuale”? Cosa dovremmo dunque pensare di
affermazioni come la seguente: “Se la teologia ci può aiutare a comprendere la
spiritualità, quest’ultima a sua volta sconvolgerà in molti casi i nostri
quadri teologici, e ci costringerà a concepire diversi tipi di teologia... Ad
ogni grande spiritualità è sempre corrisposta una grande teologia”. Ciò vuol
forse dire che due teologie possono essere vere, anche se si oppongono contraddicendosi
sulle loro tesi capitali? Si risponderà di no, se si conserva la definizione
tradizionale della verità. Si risponderà di sì, se si adotta la nuova
definizione del vero concepito non in rapporto all’essere e alle sue leggi
immutabili, ma in rapporto a differenti esperienze religiose. Ciò ci avvicina
singolarmente al modernismo.
Si ricorderà che il 1º
dicembre 1924 il Sant’Uffizio condannò dodici proposizioni estratte dalla
filosofia dell’azione
[di Blondel];
tra di esse era inclusa, al n. 5, la nuova definizione della verità: “Veritas
non invenitur in ullo actu particulari intellectus in quo haberetur conformitas
cum obiecto, ut aiunt scholastici, sed veritas est semper in fieri,
consistitque in adaequatione progressiva intellectus et vitae, scil. in
motu quodam perpetuo, quo intellectus evolvere et explicare nititur id quod
parit experientia vel exigit actio: ea tamen lege ut in toto progressu
nihil unquam ratum fixumque habeatur”f.
L’ultima di queste proposizioni condannate è la seguente: “Etiam post fidem
conceptam, homo non debet quiescere in dogmatibus religionis, eisque fixe et
immobiliter adherere, sed semper anxius manere progrediendi ad ulteriorem
veritatem, nempe evolvendo in novos sensus, immo et corrigendo et quod credit”g [6].
Molti ritornano oggi a
questi errori, senza alcuna cautela.
Ma allora, come si può
sostenere che la grazia santificante sia essenzialmente soprannaturale,
gratuita, per nulla dovuta alla natura umana o a quella angelica?
Ciò è ben chiaro per San
Tommaso, che alla luce della Rivelazione ammette questo principio: le facoltà,
gli “habitus” e i loro atti sono specificati dal loro oggetto formale: ora,
l’oggetto formale dell’intelligenza umana e persino quello dell’intelligenza
angelica sono immensamente inferiori all’oggetto proprio dell’intelligenza
divina: la Divinità o la vita intima di Dio (cf. Iª, q. 12, a. 4). Ma se
si trascura ogni metafisica per accontentarsi dell’erudizione storica e
dell’introspezione psicologica, il testo di San Tommaso diviene incomprensibile[7]. Da
questo punto di vista, cosa si potrà conservare della dottrina tradizionale sulla
distinzione non contingente ma necessaria dell’ordine della grazia e
di quello della natura?
Su questo soggetto, nel
recente libro del padre H. de Lubac [1896-1991], Surnaturel (Études
historiques), 1946, p. 164, a proposito della probabile impeccabilità degli
angeli nell’ordine naturale, si legge: “Niente annuncia in San Tommaso la
distinzione che forgerà più tardi un certo numero di teologi tomisti, tra ‘Dio
autore dell’ordine naturale’ e ‘Dio autore dell’ordine sovrannaturale’... come
se la beatitudine naturale... dovesse risultare, nel caso degli angeli, da
un’attività infallibile, impeccabile”. Item, p. 275.
Al contrario, san Tommaso distingue spesso
il fine ultimo sovrannaturale dal fine ultimo naturale[8], e per
quanto riguarda il demonio afferma, De malo, q. 16, a. 3: “Peccatum
diaboli non fuit in aliquo quod pertinet ad ordinem naturalem, sed secundum
aliquid supernaturale”h. Item,
Iª, q. 63, a. 1, ad 3.
In questa maniera, si arriva a
disinteressarsi completamente delle pronunciata maiora della dottrina
filosofica di San Tommaso, vale a dire delle ventiquattro tesi tomiste
approvate nel 1916 dalla Sacra Congregazione degli Studi.
Non solo, ma il padre
Gaston Fessard S.J., in Les Études del novembre 1945, p. 269-270, parla
del “felice assopimento che protegge il tomismo canonizzato, ma anche, come
diceva Péguy, ‘seppellito’, mentre sopravvivono i pensieri votati, nel suo
nome, alla contraddizione”.
Nel numero di aprile 1946
della stessa rivista, si dice che il neotomismo e le decisioni della Commissione
biblica sono un “argine, ma non una risposta”. E
cosa viene proposto in luogo del tomismo, come se nell’enciclica Aeterni
Patris Leone XIII si fosse sbagliato e
come se nell’enciclica Pascendi Pio X, rinnovando questa stessa
raccomandazione,
fosse andato fuori
strada? Dove va a parare questa nuova teologia con i nuovi maestri ai quali s’ispira? Dove, se non nello scetticismo, nella stravaganza e nell’eresia? Sua Santità Pio
XII ha affermato recentemente, in un discorso pubblicato dall’Osservatore
romano del 19 settembre 1946: “Plura dicta sunt, at non satis explorata
ratione, ‘de nova theologia’, quae cum universis semper volventibus rebus, una
volvatur, semper itura, nunquam perventura. Si talis opinio amplectenda esse
videatur, quid fiet de nunquam immutandis catholicis dogmatibus, quid de
fidei unitate et stabilitate?”i.
***
2. Applicazione dei
nuovi princìpi alle dottrine del peccato originale e dell’Eucarestia.
Qualcuno dirà che
esageriamo, ma anche un piccolo errore sulle nozioni prime e sui primi principi
ha delle conseguenze incalcolabili, non previste dagli erranti. Le conseguenze delle nuove tesi di cui abbiamo appena parlato devono
andare dunque ben al di là delle previsioni degli autori che abbiamo citato.
Sarebbe difficile non riuscire a vedere tali conseguenze in alcuni fogli
dattilografati che vengono distribuiti (alcuni a partire dal 1934) al clero, ai
seminaristi, agli intellettuali cattolici: vi si trovano le asserzioni e le
negazioni più singolari sul peccato originale e sulla presenza reale.
Prima di menzionare queste
novità si avvisa il lettore dicendogli che per quanto esse di primo acchito
possano sembrare folli, a guardarle da più vicino non sono prive di
verosimiglianza; inoltre, sono ammesse da più persone. Le intelligenze
superficiali vi si lasciano sedurre, e la formula “una dottrina che non è
più attuale non è più vera” si fa strada. Alcuni sono tentati di
concludere: “la dottrina dell’eternità delle pene dell’inferno non è più
attuale, a quanto sembra, e perciò non è più vera”. È scritto nel Vangelo che
un giorno la carità di molti si raffredderà e che molti saranno sedotti
dall’errore.
Rispondere è uno stretto
obbligo di coscienza per i teologi che difendono la Tradizione della Chiesa. In
caso contrario, essi mancherebbero gravemente al loro dovere, e ne dovrebbero
rendere conto di fronte a Dio.
***
Nei fogli ciclostilati
distribuiti in Francia in questi ultimi anni (almeno a partire dal 1934, a
giudicare da quelli che abbiamo sotto mano) si insegnano le dottrine più
stravaganti e false sul peccato originale.
In essi, l’atto di fede
cristiana non è più concepito come un’adesione sovrannaturale e infallibile
alle verità rivelate propter auctoritatem Dei revelantisj, ma come un’adesione dello spirito a
una prospettiva generale dell’universo. È la percezione di ciò che è possibile
e più probabile ma non dimostrabile. La fede diviene un insieme di
opinioni probabili. Da questo punto di vista,
Adamo sembra essere non l’individuo da cui discende il genere umano, ma
piuttosto una collettività.
Quindi non si vede più come
si possa mantenere la dottrina rivelata del peccato originale così come viene
spiegata da San Paolo, Rom 5, 18: “Sicut per unius delictum in omnes
homines in condemnationem, sic et per unius iustitiam in omnes homines
in justificationem vitae. Sicut enim per inobaedientiam unius peccatores
constituti sunt multi, ita per unius oboeditionem iusti constituentur
multi”k. Tutti i Padri e la Chiesa, interprete
autorizzata della Scrittura, tanto nel suo magistero ordinario come in quello
solenne, hanno sempre inteso che Adamo sia stato un individuo, come Cristo, e
non una collettività[9]. Quel
che ci si propone ora è di prendere in considerazione una tesi contraria
all’insegnamento dei Concili d’Orange e di Trento (Denz. 175, 789, 791, 793)[10].
Oltretutto, da questo nuovo
punto di vista l’incarnazione del Verbo sarebbe un momento dell’evoluzione
universale.
L’ipotesi dell’evoluzione
materiale del mondo viene estesa all’ordine spirituale: il mondo sovrannaturale sarebbe in evoluzione verso
l’avvento plenario del Cristo.
Il peccato in quanto realtà che colpisce l’anima è qualcosa di
spirituale e quindi atemporale. Poco importa agli occhi di Dio, dunque, che
esso abbia avuto luogo al principio della storia dell’umanità o nel córso dei
secoli.
Il peccato originale non
sarebbe più, dunque, in noi, un peccato che dipende da una colpa volontaria del
primo uomo, ma proverrebbe dalle colpe degli uomini che hanno influito
sull’umanità.
In questo modo si vuole
cambiare la natura stessa della teologia – non solo il suo modo
d’esposizione; e ancor più quella del
dogma, che non è più considerato dal punto di vista della fede infusa nella Rivelazione
divina, interpretata dalla Chiesa nei suoi Concili. Non si prendono più in
considerazione i Concili stessi, ma si adotta qui il punto di vista della biologia,
integrata dalle elucubrazioni più stravaganti, che ricordano quelle
dell’evoluzionismo hegeliano, il quale a sua volta dei dogmi cristiani non
conserva più altro che il nome.
Così facendo si seguono i razionalisti e si fa ciò
che i nemici della fede desiderano: si riduce la fede stessa a un insieme di
opinioni in costante cambiamento e che non hanno più alcun valore. Cosa resta
della parola di Dio data al mondo per la salvezza delle anime?
In questi fogli, intitolati
Comment je crois [Come io credo], si legge, a p. 15: “Se noi cristiani
vogliamo conservare al Cristo le qualità che fondano il Suo potere e la nostra
adorazione, non potremmo far altro o miglior cosa che accettare fino in fondo i
concetti più moderni dell’Evoluzione. Sotto la pressione combinata della
Scienza e della Filosofia, il Mondo s’impone sempre più alla nostra esperienza e
al nostro pensiero come un sistema interconnesso di attività che si elevano
gradualmente verso la libertà e la coscienza. L’unica interpretazione
soddisfacente di questo processo è quella di considerarlo irreversibile e
convergente. Così si delinea davanti a noi un Centro cosmico Universale
in cui tutto termina, tutto si comunica,
tutto si integra. Ebbene, a mio avviso è in
questo polo psichico dell’Evoluzione universale che è necessario porre e
riconoscere la pienezza del Cristo... Scoprendo un vertice del
mondo, l’Evoluzione rende il Cristo possibile, esattamente come il Cristo,
dando un senso al Mondo, rende possibile l’Evoluzione.
“Sono perfettamente
cosciente di cosa ci sia di vertiginoso in questa idea... ma immaginando una
simile meraviglia, non faccio altro che trascrivere in termini di realtà
psichica le espressioni giuridiche in cui la Chiesa ha racchiuso la sua fede... Mi sono
lanciato per conto mio, senza esitare, nell’unica direzione verso cui mi sembra
possibile far progredire e quindi salvare la mia fede.
“Il cattolicesimo mi aveva
deluso, a prima vista, per le sue rappresentazioni ristrette del Mondo e per la
sua mancanza di comprensione del ruolo della Materia. Ora riconosco che,
seguendo il Dio incarnato che esso mi rivela, non posso essere salvato in altro
modo che formando un’unità con l’universo. In un sol colpo vengono soddisfatte,
rassicurate e guidate le mie aspirazioni ‘panteiste’ più profonde. Il Mondo
intorno a me diventa divino...
“Una convergenza
generale delle religioni verso un Cristo universale, che, nel fondo, le
soddisfi tutte; questa mi sembra essere l’unica conversione possibile per il
Mondo e la sola forma immaginabile per una Religione dell’avvenire”[11].
Quindi il mondo materiale
si sarebbe evoluto verso lo spirito, e il mondo dello spirito evolverebbe
naturalmente, per così dire, verso l’ordine sovrannaturale e verso la pienezza
del Cristo. Così, l’Incarnazione del Verbo, il corpo mistico, il Cristo
universale sarebbero delle tappe dell’Evoluzione, e – secondo questo punto di vista
– di un progresso costante sin dall’origine; non sembra che si sia verificata
una caduta all’inizio della storia dell’umanità, ma un progresso costante del
bene che trionfa sul male secondo le leggi stesse dell’evoluzione. Il peccato
originale sarebbe in noi la conseguenza delle colpe degli uomini che hanno
esercitato un’influenza nefasta sull’umanità.
Ecco cosa rimane dei dogmi
cristiani in questa teoria che si allontana dal nostro Credo nella misura in
cui essa si avvicina all’evoluzionismo hegeliano.
Nei fogli citati si afferma: “Mi sono
lanciato nell’unica direzione verso cui mi sembra possibile far progredire e
quindi salvare la mia fede”. La fede stessa si salverebbe dunque solo se
progredisce, e cambierebbe così tanto che non si potrebbe più riconoscere
in essa la fede degli Apostoli, dei Padri e dei Concili. Si tratta di un modo
di applicare il principio della nuova teologia: “una dottrina che non è più
attuale, non è più vera”, e per alcuni è sufficiente che essa non sia più
attuale in certi àmbiti. Ne segue che la verità è sempre in fieri,
mai immutabile. Essa è la conformità del giudizio non con l’essere e con le sue
leggi necessarie ma con la vita che evolve continuamente. Si vede bene dove ci conducono le
proposizioni condannate dal Sant’Uffizio il 1º dicembre 1924, e che abbiamo
citato qui sopra: “Nulla propositio abstracta potest haberi ut immutabiliter
vera”l. “Etiam post fidem conceptam, homo non
debet quiescere in dogmatibus religionis, eisque fixe et immobiliter adhaerere,
sed semper anxius manere progrediendi ad ulteriorem veritatem, nempe
evolvendo in novos sensus, immo et corrigendo id quod credit”m. Cfr. Monitore ecclesiastico,
1925, p. 194.
***
Troviamo un esempio di simile deviazione a proposito
della Presenza reale in alcuni fogli dattilografati che circolano da qualche
mese all’interno del clero. Vi si afferma che fino ad ora il vero problema
della Presenza reale non è stato bien posto: “Per rispondere a tutte le
difficoltà che ci si è creati, si è detto: il Cristo è presente a modo di
sostanza... Questa spiegazione evita il vero problema. Aggiungiamo che,
nella sua chiarezza ingannevole, essa sopprime il mistero religioso. A dire il
vero, non v’è più qui un mistero, ma solo un prodigio”.
Sarebbe stato dunque San
Tommaso a non aver saputo porre il problema della presenza reale, e la sua
soluzione: praesentia corporis Christi per modum substantiae [presenza del Corpo di
Cristo al modo della sostanza], sarebbe illusoria; la sua chiarezza sarebbe una chiarezza
ingannevole.
Ci si avverte che la nuova
spiegazione proposta “implica evidentemente che, come metodo di riflessione, si
sostituisca il metodo scolastico con quello cartesiano e spinoziano”.
Un po’ più avanti si legge:
per quanto riguarda la transustanziazione, “questo termine non è
privo d’inconvenienti, come anche l’espressione ‘peccato originale’. Esso
corrisponde al modo in cui gli scolastici concepiscono questa trasformazione, e
la loro concezione è inammissibile”.
Qui non è più solo da San
Tommaso che ci si allontana, ma dal Concilio di Trento, sess. XIII, cap. 4 e
can. 2 (Denz. 877, 884), poiché esso ha definito la transustanziazione una
verità di fede, ed ha persino detto: “quam quidem conversionem catholica
Ecclesia aptissime transubstantiationem appellat”n. E oggi questi nuovi teologi vengono a dirci: “questo termine non è
privo di inconvenienti... risponde a una concezione inammissibile”.
“Secondo il punto di vista della Scolastica, la realtà della cosa è
‘la sostanza’; la cosa non potrà pertanto mai cambiare realmente se
la sostanza non cambia... per mezzo della transustanziazione.
Secondo la nostra prospettiva attuale... allorquando, in virtù dell’offerta che
ne è stata fatta secondo un rito stabilito dal Cristo, il pane e il vino
sono divenuti il simbolo efficace del sacrificio del Cristo, e di conseguenza
della sua presenza spirituale, il loro essere religioso è cambiato”, non la
loro sostanza[12].
E si aggiunge: “È questo ciò che possiamo designare col termine di
transustanziazione”.
Ma è chiaro che non si
tratta più della transustanziazione definita dal Concilio di Trento, “conversio
totius substantiae vini in Sanguinem, manentibus duntaxat speciebus panis et
vini”o (Denz. 884). È evidente che il significato stabilito dal Concilio non viene
mantenuto dall’introduzione di queste nuove nozioni. Il pane e il vino sono
diventati solamente “il simbolo efficace della presenza spirituale del Cristo”. [Sono intesi come il
simbolo di una presenza spirituale, non c’è più la presenza reale].
Ciò ci avvicina
singolarmente alla posizione modernista, che non afferma la presenza reale del Corpo
di Cristo nell’Eucarestia. Essa si limita a dire, da un punto di vista
pratico e religioso: abbi nei confronti
dell’Eucarestia
lo stesso atteggiamento che hai nei confronti dell’umanità del Cristo.
Negli
stessi fogli, il mistero dell’Incarnazione viene inteso in modo simile: “Nonostante il Cristo sia veramente Dio, non
si può affermare che per mezzo di lui vi fosse una presenza reale di Dio nella
terra di Giudea... Dio non era presente in Palestina più di quanto non lo fosse
altrove. L’unica
cosa che possiamo affermare è che il segno efficace di tale presenza divina si è manifestato in
Palestina nel primo secolo della nostra era”[13].
Si aggiunge infine:
“il problema della causalità dei sacramenti è un falso problema, generato da
una maniera equivocata di porre la questione”.
* *
*
Non crediamo che gli
autori di cui abbiamo appena parlato abbiano abbandonato la dottrina di San
Tommaso: semplicemente, essi non vi hanno mai aderito e non l’hanno mai compresa
adeguatamente. Ciò è doloroso e inquietante.
Con questo modo
d’insegnare, cos’altro si può fare se non formare degli scettici? Infatti, non
viene proposto nulla di stabile per rimpiazzare la dottrina di San Tommaso. E
poi si pretende di essere sottomessi alle direttive della Chiesa; ma in cosa
consiste tale sottomissione?
Un professore di
teologia ci scrive: “In effetti è sul concetto stesso di verità che verte il
dibattito e, senza che ce ne si renda ben conto, si giunge al modernismo tanto
nel pensiero come nell’azione. Gli scritti di cui Lei mi parla sono molto letti
in Francia. Essi esercitano una grande influenza, è vero, sugli spiriti
mediocri: le persone serie non abboccano. Bisogna scrivere per coloro che hanno
il sincero desiderio di essere illuminati”.
Secondo alcuni, la
Chiesa avrebbe riconosciuto l’autorità di San Tommaso solamente nel campo della
teologia, e non direttamente in quello della filosofia. Al contrario,
l’enciclica Aeterni patris di Leone XIII parla soprattutto della
teologia di San Tommaso. Anche le ventiquattro tesi tomiste proposte nel 1916
dalla Santa Congregazione degli Studi sono di ordine filosofico, e se queste pronunciata
maiora di San Tommaso non fossero certe, cosa potrebbe valere la sua
teologia, che vi ha costantemente fatto ricorso?
Infine, come abbiamo
già ricordato, Pio X ha scritto: “magistros autem monemus, ut rite hoc teneant
Aquinatem vel parum deserere praesertim in re metaphysica non sine magno
detrimento esse. Parvus error in principio magnus est in fine”p.
Da dove provengono queste
tendenze? Un sagace osservatore mi scrive: “si raccolgono i frutti della
frequentazione senza precauzioni dei corsi universitari. Si vuole frequentare i
maestri del pensiero moderno per convertirli e ci si lascia convertire da loro. Si accettano poco a poco le loro idee, i loro metodi, il
loro sdegno della scolastica, il loro storicismo, il loro idealismo e tutti i
loro errori. Se questa frequentazione è utile per degli spiriti già formati, è
sicuramente pericolosa per gli altri”.
C o
n c l u s i o n e
Dove va la nuova
teologia? Torna al modernismo. Perché ha accettato la proposta
che le è stata fatta: quella di sostituire la definizione tradizionale della
verità, adaequatio rei et intellectus, come se fosse chimerica, con la
definizione soggettiva adaequatio realis mentis et vitae. Ciò viene
espresso più esplicitamente nella proposizione sopra citata, estratta dalla
filosofia dell’azione e condannata dal Sant’Uffizio il 1º dicembre 1924: “Veritas
non invenitur in ullo actu particulari intellectus in quo haberetur conformitas
cum obiecto ut aiunt scholastici, sed veritas est semper in fieri,
consistitque in adaequatione progressiva intelletctus et vitae, scil. in
motu quodam perpetuo, quo intellectus evolvere et explicare nititur id quod
parit experientia vel exigit actio : ea tamen lege ut in toto progressu nihil
unquam ratum fixumque habeatur”q
(Monitore ecclesiastico, 1925, t. I, p. 194).
La verità non è più
la conformità del giudizio col reale extramentale e con le sue leggi
immutabili, ma la conformità del giudizio con le esigenze dell’azione e della
vita umana che evolve continuamente. Si sostituisce la filosofia dell’essere o
ontologia con la filosofia dell’azione che definisce la verità in funzione non
più dell’essere ma dell’azione.
Si sfocia così nella
posizione modernista: “Veritas non est immutabilis plus quam ipse homo, quippe
quae cum ipso, in ipso et per ipsum evolvitur”r
(Denz. 2058). Per questo Pio X affermava dei modernisti: “aeternam veritatis
notionem pervertunt”s (Denz.
2080).
È ciò che aveva
previsto il nostro maestro, padre M. B. Schwalm, nei suoi articoli sulla Revue
thomiste, 1896, p. 36 ss., 413; 1897, p. 62, 239, 627; 1898, p. 578, a
proposito della filosofia dell’azione, del dogmatismo morale del padre
Laberthonnière, della crisi dell’apologetica contemporanea, delle illusioni
dell’idealismo e di quanto queste minaccino la fede.
Ma molti, pensando
che il padre Schwalm esagerasse, hanno poco a poco dato diritto di cittadinanza
alla nuova definizione della verità ed hanno più o meno cessato di difendere la
definizione tradizionale del vero: la conformità del giudizio con l’essere
extramentale e con le sue leggi immutabili di non contraddizione, di causalità,
etc. Per loro, il vero non è più ciò che è, ma ciò che diviene e
cambia continuamente.
Ora, cessare di
difendere la definizione tradizionale della verità, permettere che si affermi
che essa sia chimerica, che bisogna sostituirla con un’altra
vitalista ed evoluzioniata, porta al relativismo più completo, e questo è un
grave errore.
Inoltre – e questo è
un fatto su cui non ci si sofferma mai – ciò porta a
dire esattamente quel che i nemici della Chiesa vogliono sentir dire. Quando si
leggono le loro opere più recenti, la contentezza che essi ne traggono è
evidente, ed essi stessi propongono interpretazioni dei nostri dogmi, in
materia di peccato originale, del male cosmico, dell’Incarnazione, della
Redenzione, dell’Eucarestia, della reintegrazione universale finale, del Cristo
cosmico, della convergenza di tutte le religioni in un centro cosmico
universale[14].
Si comprende pertanto
perché il Santo Padre, nel suo recente discorso riportato dall’Osservatore
Romano del 19 settembre 1946, si sia espresso in questi termini a proposito
della “nuova teologia”: “Si talis opinio amplectenda esse videatur, quid
fiet de numquam immutandis catholicis dogmatibus, quid de fidei unitate et
stabilitate?”t.
D’altra parte, poiché la Provvidenza permette il male solamente per un bene
superiore e poiché si può osservare in molti un’eccellente reazione contro gli
errori che abbiamo appena sottolineato, ci si può aspettare che queste
deviazioni saranno l’occasione per un vero rinnovamento dottrinale e per uno
studio approfondito delle opere di San Tommaso, il cui valore spicca sempre di
più, quando lo si compari alla deriva intellettuale contemporanea[15].
Note di commento, di Paolo Pasqualucci
Queste “note”
riguardano solo alcuni punti dell’articolo di Garrigou-Lagrange.
1. La necessaria
aggiunta nel titolo.
La frase “elle
revient au modernisme”, di cui al titolo dell’articolo, non si trova nel titolo
originale ma nel testo, ove il concetto che essa esprime è ribadito più volte.
L’ho aggiunta al titolo al fine di render subito chiaro il contenuto
dell’articolo.
2. La nuova
traduzione italiana dell’importante libro di Garrigou-Lagrange sul “senso
comune”.
Ricordo che l’opera sua propria citata
dall’autore alla nota n. 2, ossia “Le Sens commun, la philosophie de l’être et
les formules dogmatiques”, è stata di nuovo tradotta in italiano nella Biblioteca
di Sensus communis, n. 10, fondata e diretta da mons. Antonio Livi:
Réginald Garrigou-Lagrange, Il senso comune, la filosofia dell’essere e le
formule dogmatiche, Nuova edizione italiana a cura di Antonio Livi e Mario
Padovano, Casa Editrice Leonardo Da Vinci, Roma, 2013, pp. 296, € 23,00. Si tratta di un testo importante,
essenziale per coloro che vogliono partecipare con cognizione di causa alla
lotta in corso per la difesa del dogma della fede. Nella Nota editoriale del
volume, mons. Livi sottolinea opportunamente quanto segue: “Il dogma – sostiene
giustamente l’autore di questo trattato – è una formulazione della verità
rivelata che implica la verità del senso comune (perché la rivelazione divina
si rivolge all’intelletto di ogni uomo) e allo stesso tempo adopera
necessariamente le categorie concettuali della metafisica. Di conseguenza,
l’unica ermeneutica corretta delle “formule dogmatiche” è quella che non adotta
schemi concettuali incompatibili con il senso comune, quali sono – e qui
Garrigou-Lagrange si limita
a indicare quei
sistemi filosofici che ai suoi tempi inficiavano la riflessione teologica e
mettevano a rischio l’ortodossia – l’agnosticismo kantiano, l’idealismo
hegeliano, il pragmatismo e l’intuizionismo bergsoniano” (op. cit., pp. 7-9; p.
8; vedi anche, più estesamente, il Saggio introduttivo di Mario
Padovano, ivi, pp. 11-23). A quei “sistemi”, dobbiamo oggi aggiungere le
variegate e sempre più deteriori forme dello scientismo contemporaneo e
dell’esistenzialismo, promotrici di un risorgente e sempre più
aggressivo ateismo.
3. L’errore del
falso ecumenismo appare già diffuso negli scritti anonimi dei neomodernisti
degli anni Trenta del XX secolo.
L’articolo
dell’illustre teologo prende in esame il fenomeno, al tempo evidentemente
diffuso, dei ciclostilati anonimi che venivano divulgati ad arte tra il
clero, fin nei seminari, per diffondervi dubbi e tesi eterodosse di ogni tipo,
propalate in tono più accorto nei lavori a stampa dei vari Bouillard, de Lubac,
Teilhard de Chardin. Era la vecchia e consolidata tecnica di infiltrazione dei
modernisti, di qualche decennio prima: stroncati da san Pio X, stavano
rialzando la testa. Ma di chi potevano essere i ciclostilati in questione? Uno
dei maggiori indiziati era Teilhard de Chardin, facilmente riconoscibile per il
carattere peculiare delle sue “visioni” sul “Cristo cosmico”, diffuse da alcuni
di quei ciclostilati. Riconducibili in parte, quelle visioni, al “pancristismo”
di Blondel, cioè al Cristo eone cosmico che, con l’Incarnazione, avrebbe
già salvato tutti senza bisogno di conversione alla Chiesa cattolica. L’errore
pazzesco del “Cristo cosmico” sembra anche preludere alla falsa dottrina
rahneriana dei “cristiani anonimi”: se il Cristo, incarnandosi, ha per ciò stesso
già salvato tutti, allora si può dire che nasciamo tutti “cristiani” senza
saperlo. Questo singolare errore, che annullava la distinzione tra natura e
Grazia (tra il Sovrannaturale e la natura), rendendo superflua l’esistenza
stessa della Chiesa visibile e gerarchica, ora anzi ostacolo da abbattere,
faceva strame, oltre che del Nuovo Testamento e dell’insegnamento della Chiesa,
anche del senso comune dal momento che attribuiva la salvezza a priori
all’intero genere umano, a prescindere (quale assurdità!) dal libero arbitrio,
dall’intenzione, dalla volontà e dalla condotta di ciascuno. In tal modo, il
Cattolicesimo diventava una cosa poco seria: non più l’austera e grandiosa
religione del vero Dio, Uno e Trino, che ci concede la salvezza e la vita eterna
dopo averci messo alla prova nella lotta quotidiana contro noi stessi e aver
sorretto con la Grazia il nostro intelletto e la nostra volontà in questa
terribile lotta, ma una religiosità-pappa-del-cuore, incline perciò ad ogni latitudinarismo e sentimentalismo, ad ogni sorta di falsa misericordia, alla democrazia universale e ai “diritti umani”, alla realizzazione in
qualche modo di una sorta di regno di Dio in terra, con la partecipazione di
tutte le religioni.
Altri indiziati degli
scritti anonimi dovevano ritenersi lo stesso de Lubac e comunque tutti coloro
che propalavano dottrine errate sul significato dei Sacramenti, diffuse in
particolare nel Movimento Liturgico tra le due guerre. Nelle esternazioni
anonime di Teilhard de Chardin compare dunque il principio del falso
ecumenismo professato oggi dalla Gerarchia cattolica, a partire dal pastorale
Vaticano II ossia dall’indirizzo “pastorale” imposto al Concilio dal “buon
Papa Giovanni”, elevato da poco alla gloria degli altari non si sa con quali
criteri, visto che né risulta una sua particolare santità di vita né che si
possa attribuirgli alcun miracolo, per tacere del ruolo nient’affatto positivo
da lui svolto nella fase iniziale del Vaticano II, in quanto supremo defensor
fidei. Il principio del falso ecumenismo risulta nella frase
dell’anonimo che recita: “Una convergenza generale delle religioni verso un
Cristo universale, che, al fondo, le soddisfa tutte; tale mi sembra essere la
sola conversione possibile per il Mondo e la sola forma immaginabile di una
Religione dell’avvenire”. Era l’aspirazione esaltata dei modernisti ad una
Chiesa cattolica che, senza più
convertire nessuno, si identificasse per
l’appunto con l’umanità e si dissolvesse in essa e nella democrazia universale,
ad esser qui riproposta. Teilhard de Chardin innestò l’evoluzionismo darwiniano
sul pancristismo di Blondel: da qui le demenziali sue esternazioni sull’umanità
in marcia unitaria verso il “punto omega” di una cosiddetta “noosfera”,
rappresentato il punto dal “Cristo cosmico”. L’attuale Gerarchia postconciliare
usa un linguaggio meno esplicito, in questo senso, ma l’utopia (non cattolica)
di un’unità del genere umano da realizzarsi all’insegna del cosiddetto “Cristo
universale”, pur vi compare, anche se in una forma linguistica che rinvia alle
utopie millenaristiche del passato. Ciò già risulta dalla Allocutio
‘Gaudet Mater Ecclesia’, con la quale Roncalli inaugurò il Concilio, l’11
ottobre 1962. Proponendosi di realizzare l’unità tra i cristiani, non esitò
egli a dire, il Concilio “quasi prepara e consolida la via verso quell’unità
del genere umano, che si richiede quale necessario fondamento,
perché la Città terrestre si componga a somiglianza di quella celeste”
(AAS, 54, 1962, pp. 786-795; p. 793-794. Corsivi miei. Si veda anche l’art. 1
della costituzione conciliare Lumen Gentium sulla Chiesa.). Il Vaticano
II sarebbe stato la Nuova Pentecoste che avrebbe aggiornato la
missione della Chiesa, indirizzandola, invece che alla conversione delle anime,
alla realizzazione dell’unità del genere umano, nella pace e nella fratellanza
universali!
4. Il pensiero di
san Tommaso sistematicamente deformato dai neomodernisti. Colpiscono le ripetute deformazioni del
pensiero di san Tommaso da parte di questi neomodernisti, colte implacabilmente
da Garrigou-Lagrange. È difficile dire se si trattasse di ignoranza o malafede.
In ogni caso il loro pregiudizio verso la Scolastica e Aristotele appare tipico
di chi non vuol capire perché animato dall’odio inguaribile dell’eretico per
la verità rivelata e (conseguentemente) per la metafisica basata sulla
recta ratio e il senso comune, donatici dal Creatore affinché potessimo, tra le
altre cose, comprendere le verità da Lui rivelate, per quanto possibile al
nostro intelletto sorretto dalla Grazia.
Come preannunciato,
elenco qui la traduzione dei passi
tomistici riportati da Garrigou-Lagrange alla nota n. 8, nei quali si distingue
nettamente tra fine naturale e sovrannaturale delle creature. Ia, q.
23, a. 1: “Il fine al quale le cose create sono ordinate da Dio è duplice. Il
primo eccede la proporzione della natura creata e le sue facoltà: questo fine è la vita eterna, che consiste
nella visione divina; cosa al di là della natura di qualsiasi creatura, come si
è detto sopra Ia, q. 12, a.4.
L’altro fine, invece, è proporzionato alla natura creata, nel senso che
la cosa creata può realizzarlo secondo le capacità [sec. virtutem] della
sua natura”. Del pari: Ia IIae, q. 62, a.
1: “Esiste infatti una doppia
beatitudine o felicità nell’uomo, come si è già detto, q. 3, a. 2 ad 4; q. 5.,
a. 5. Una proporzionata alla natura
umana, alla quale cioè l’uomo può pervenire seguendo i principi della sua
natura. L’altra, è quella che eccede la natura umana”. Ed infine:
de Veritate, q. 14, a. 2:
“Infatti il bene ultimo dell’uomo è duplice. Uno è proporzionato alla natura…si tratta
della felicità della quale hanno parlato i filosofi…L’altro è un bene che
eccede la proporzione della natura umana”.
Assurda appare poi
l’accusa (vedi supra, nota n. 7 ) mossa da Bouillard a san Tommaso di
non servirsi della “causalità reciproca” quando spiega il concetto della
giustificazione, causalità della quale si era invece sempre servito nelle opere
precedenti. Il termine “causalità
reciproca” può apparire oscuro. Ma, come
spiega Garrigou-Lagrange nella stessa nota, essa indica le quattro forme
interconnesse (reciproche) della causalità, messe in rilievo da Aristotele
(vedi nota di commento n. 7, cit).
5. Il falso
concetto di verità dei neomodernisti, derivato dalla “filosofia dell’azione” di Blondel.
È evidente come i neomodernisti traessero
ispirazione dalla “filosofia dell’azione” di Blondel, la cui condanna, pur
firmata dal cardinale Merry Del Val, restò confinata a fonti di secondaria
importanza. Non posso qui dilungarmi sulla filosofia dell’azione di Blondel. Mi
corre tuttavia l’obbligo di sottolineare la superficialità e la vaghezza del concetto
di verità proposto da quel filosofo. Egli accusa il tradizionale concetto
aritostelico-tomistico della “adaequatio rei et intellectus” di essere
“chimerico”. Non “chimerico” ed invece “realistico” sarebbe, al contrario,
quello da lui proposto: “adaequatio realis mentis et vitae”. Ora, se c’è un
concetto esemplarmente “chimerico” nella sua ondivaga vaghezza è proprio quello
di “vita”. Che vuol dire? Ci si può far rientrare di tutto. La “vita” sarebbe
poi soprattutto “azione”, per Blondel. Ma “azione”, come? Come comportamento
razionale secondo princìpi morali che trascendono l’azione stessa, rispondente
ai canoni della causalità, del principio di contraddizione e di ragion
sufficidente, o come “slancio vitale” che produce il proprio principio
ispiratore per il fatto stesso del suo “slancio” e quindi sulla base del
sentimento, del cuore, dell’indeterminato accavallarsi delle passioni e degli impulsi?
La “filosofia dell’azione”, in quanto fondata sulla categoria della “vita”, sul
“vitalismo”, appare del tutto irrazionale. Rimanda alla “filosofia della vita”
di pensatori come Schleiermacher, al tendere indeterminato e narcisistico dei
Romantici verso l’indefinibile Assoluto. In Germania, tra fine Ottocento ed
inizio Novecento, fu articolata in particolare da pensatori come Wilhelm
Dilthey, che costruì il concetto dello spirito come “vita” nel senso di
“esperienza vissuta” (Erlebnis) dalla coscienza individuale, da
interpretarsi sempre storicamente e quindi secondo lo spirito del proprio
tempo, la temporalità nella quale il soggetto si trova sempre immerso.
Da ciò un concetto storicistico di verità, sempre condizionata dal proprio
tempo, le esigenze del quale si riflettono nell’esperienza vissuta, nella
“vita” appunto. Tale concezione risulta chiaramente incompatibile con l’idea
stessa di una verità rivelata da Dio, in quanto tale immutabile, perché
le verità religiose e morali che essa annunzia (per esempio, l’indissolubilità
del matrimonio) non possono per definizione esser sottoposte alla temporalità,
ossia al giudizio che ne possa dare, nel tempo storico determinato, la mutevole
coscienza dell’esperienza vissuta dal soggetto.
Si può dire che, storicamente,
le filosofie della “vita”, dello “slancio vitale”, dell’azione abbiano
rappresentato una reazione inevitabile contro i dogmi angusti e superficiali
del positivismo dominante a fine Ottocento, con il suo scientismo, il
suo materialismo, il suo determinismo, la sua irreligiosità, la sua
generalizzata aridità spirituale. Tuttavia, al di là di un’azione di rottura,
cosa offrivano esse di costruttivo, soprattutto per il cattolico? Nulla, a ben
vedere. Non rifiutavano il mito positivista del progresso, lo rinverdivano in
una spiritualità confusa, narcisistica e sincretistica, incompatibile con il
vero spirito religioso. Inoltre, contribuivano ad inquinare la giusta
concezione della verità, sia metafisica che religiosa, dissolvendo l’una e
l’altra nell’irrazionale dello “slancio vitale” fine a se stesso e quindi nel soggettivismo
del sentimento, ivi incluso il “sentimento religioso”, in nome di una
spiritualità fasulla che azzerava tutte le religioni, riducendole a mere
istanze del sentimento individuale della “vita”.
Va ribadito, invece,
ad ulteriore sostegno degli ottimi argomenti di Garrigou-Lagrange, che il
concetto del vero come “adaequatio “ o “concordantia rei et intellectus” ha un
valore universale, immutabile, paradigmatico. Nella scienza, esso resta
fondamentale. Albert Einstein non ha avuto il premio Nobel per la sua teoria
della relatività ma per la sua teoria (all’epoca rivoluzionaria) sulla
trasmissione della luce in pacchetti di energia o “fotoni”, presenti nel treno
d’onde elettromagnetiche che pur costituisce il raggio di luce. E questo,
perché? Perché la sua ipotesi sull’esistenza dei fotoni è stata
sperimentalmente comprovata mentre la teoria della relatività è rimasta una
teoria, per quanto geniale e stimolante anche per chi non la condivida. È
mancata per quest’ultima la conferma sperimentale ossia “la concordanza tra
l’intelletto [l’ipotesi] e la cosa [qui la realtà esteriore, in una sua
determinata configurazione]”.
Noi applichiamo
questo concetto del vero (nel quale la res, quale essa sia, rappresenta
una realtà oggettivamente diversa dal pensiero che la indaga e della quale esso
deve dimostrare l’effettiva natura) nella vita di tutti i giorni, nella nostra
filosofia pratica, nelle previsioni contenute nei giudizi con i quali ci
conduciamo nei negozi quotidiani, verificate o meno queste previsioni dal loro
avverarsi o meno secondo lo schema causale adoperato dal nostro intelletto: “se
A, allora B”. Secondo uno schema causale che considera sempre e la causa
efficiente (chi l’ha fatto questo, cosa l’ha prodotto) e quella
finale (perché, a qual fine). Non secondo un’idea indeterminata
di “vita”, cioè di realtà in continuo e magmatico progresso, posseduta da un
movimento che l’intelletto sia sempre costretto a rincorrere, registrandone
magari a caso ciò che via via vi appare, come se costituisse l’unico vero da
esso conoscibile. E questo falso concetto di verità, che rende il nostro
intelletto del tutto passivo di fronte alla cosiddetta “vita”, dominata dalle
forze dell’azione, comprese le più oscure, si dovrebbe applicare anche
alle verità di origine sovrannaturale della nostra religione!
Ma valga il vero: la
concezione evolutiva della verità, che la concepisce come un riflesso della
“vita” in (supposta) perenne evoluzione, comporta per logica conseguenza il
rifiuto di accettare il carattere immutabile del dogma e quindi, a ben
vedere (magari anche senza rendersene conto) il dogma in quanto tale,
dato che per quella concezione l’esistenza del dogma non impedisce affatto la
ricerca costante del soggetto verso una “verità ulteriore”, che contenga “nuovi
significati” e pertanto la possibilità di continue rettifiche. Si è
visto che la dodicesima delle proposizioni della filosofia dell’azione
condannate, recitava: “Anche se possiede la fede, l’uomo non deve adagiarsi nei
dogmi della religione, e aderirvi in modo fisso ed immobile, ma darsi sempre
pena di progredire ad una verità ulteriore, sia facendo evolvere verso nuovi
significati sia correggendo ciò in cui crede”. Ora, i modernisti affermavano in
genere la loro fede nei dogmi insegnati dalla Chiesa e tuttavia li volevano
mantenere aperti alla possibilità di “nuovi significati”, da esplorare
con il contributo del pensiero moderno, forte delle sue metodologie
scientifiche. Ma un dogma che ammetta, da parte di teologi e fedeli, la ricerca
continua di una “verità ulteriore” rispetto a quella da esso proclamata, non
è più un dogma. I modernisti non sembravano rendersi conto dell’intima
contraddizione nella quale erano caduti, irrisolvibile per chi aveva fatto
causa comune con il soggettivismo e l’immanentismo del pensiero moderno, nemico
del principio di identità e non-contraddizione. Essi si trovavano anche
disarmati di fronte all’empirismo brutalmente positivista della scienza
moderna, che dovevano subire acriticamente, rifugiandosi nell’irrazionale (si
pensi alla popolarità che godeva presso di loro quella torbida manifestazione
della “vita” rappresentata dalla teosofia).
Oggi, AD 2015, l’errato concetto di verità come semplice adattamento alla “vita” e
quindi ai costumi del Secolo miscredente, anche i peggiori, viene professato
dalla parte deviata della Gerarchia cattolica (non si saprebbe quale
altro aggettivo attribuirle) in modo solo in apparenza differente. Infatti, non
si parla di adottare nuovi concetti o di ricavare “verità ulteriori” dai dogmi;
anzi, si proclama l’intangibilità della dottrina. Tuttavia, si invoca
l’applicazione di una pastorale che la contraddice apertamente, come è
evidente nel caso clamoroso della recente proposta di amministrare la S.
Comunione ai divorziati risposatisi, cioè a fedeli viventi consapevolamente ed
apertamente in una situazione di peccato mortale e di pubblico scandalo, in
spregio al Vangelo e agli insegnamenti del Magistero, situazione dalla quale
non intendono uscire e che vogliono anzi veder riconosciuta proprio
mediante atti quali la somministrazione della Comunione. Concedere la Comunione
a costoro vorrebbe dire disconoscere nei fatti l’indissolubilità del
matrimonio, stabilita ipsis verbis da Nostro Signore Gesù Cristo, legittimare
il tradimento e l’adulterio, violare la dottrina cattolica sul Sacramento della
Comunione, che prescrive l’aver ricevuto l’assoluzione dei propri peccati nella
confessione auricolare, prima di accostarsi all’Ostia consacrata, se non si
vuol commettere sacrilegio. Ora, invocare una pastorale che contraddice
apertamente la dottrina della fede, che altro è se non proporre una nuova
dottrina, svincolata dal dogma e ad esso contraria? La nuova dottrina è
già nell’infame proposta! E questa nuova dottrina che altro è se non una
“perversione della nozione dell’eterna verità”, come spiegava san Pio X a
proposito dei modernisti da lui giustamente condannati e cacciati dalla Chiesa?
6. Il tentativo di
eliminare il concetto di “causa formale” dalla definizione del dogma della
giustificazione.
Si è visto che
Bouillard dichiarava apertamente nel 1944 potersi ed anzi doversi sostituire la
nozione aristotelico-tomistica di “causa formale”, impiegata dal Concilio di
Trento nella definizione del dogma della giustificazione (sess. 6, capp. 6, 7 e
can. 10).
“Forse per il fatto
stesso – scriveva – dell’impiego di questo termine, il Concilio di Trento ha
conferito un carattere definitivo alla nozione di grazia come forma [à la
notion de grâce-forme]?” In nessun modo, rispondeva. E perché? Perché “non era certamente
intenzione del Concilio canonizzare una nozione aristotelica e nemmeno una
nozione teologica concepita sotto l’influenza di Aristotele. Esso voleva
solamente affermare, contro i protestanti, che la giustificazione è un
rinnovamento interiore [mentre per gli eretici essa resta esteriore,
dipendendo solamente dalla nostra fede nei meriti della Croce, senza che ad
essa consegua il nostro rinnovamento interiore, ritenendo erroneamente Lutero
esser l’uomo irrimediabilmente corrotto dal peccato originale]”. Perciò il
Concilio di Trento, continuava il Nostro, si era limitato ad “utilizzare
nozioni comuni alla teologia del tempo. Ma ad esse se ne possono sostituire
delle altre, senza modificare il senso dell’insegnamento del Concilio”.
Dunque, l’uso di
nuovi concetti (che sono sempre quelli del “proprio tempo”, come percepito
nell’esperienza “vitale” del soggetto) non modificherebbe il senso
dell’insegnamento e quindi non inciderebbe sul dogma. Si tratterebbe di
cambiare la forma senza incidere sul contenuto, il rivestimento esteriore non
la sostanza della dottrina, per esprimermi nel posteriore linguaggio
della roncalliana Allocutio, sopra ricordata (essa propugna anche
quest’ulteriore e pericoloso, non cattolico principio, come tutti sanno).
Bouillard riteneva evidentemente possibile trovare dei nuovi concetti
teologici, svincolati dalla metafisica classica, che non modificassero il senso
dell’insegnamento.
La concezione di
Bouillard implicava chiaramente una concezione evolutiva della verità,
da applicarsi al dogma. Perché proponeva il cambiamento di concetti? Perché –
questo era il suo principio generale – ogni definizione dogmatica si esprime
sempre secondo concetti del proprio tempo: ne consegue, allora, che il Concilio
di Trento ha usato la categoria aristotelica in questione solo perché era
corrente al suo tempo, non perché volesse dare un “carattere definitivo” alla
sua definizione. Ma far intendere una cosa del genere, non è come dire –
osservo – che non esiste un concetto di verità che sia indipendente dalle
necessità e dalle idee dominanti al proprio tempo e quindi che possa esser
definito in modo da acquistare un “carattere definitivo”? E se non può mai
acquistare tale carattere, allora la verità è perpetuamente in evoluzione.
Dovremmo poi ritenere che anche i Padri di Trento fossero convinti del fatto
che il concetto del vero è sempre figlio delle necessità del proprio tempo e
quindi non può acquisire mai un carattere “definitivo”, dal momento che essi
hanno usato della categoria aristotelica solo perché era ancora in voga
a quell’epoca? Sembrerebbe di sì, dalle parole di Bouillard.
Ma attribuir loro,
anche implicitamente, un’intenzione simile è palesemente assurdo, come ognuno
può ben capire. E difatti Garrigou-Lagrange ha buon gioco nel replicare che il
Tridentino non si preoccupava di canonizzare concetti aristotelici in quanto
tali. Invece, esso approvò l’impiego di quel concetto (della “causa
formale”) “come una nozione umana stabile, nel senso nel quale noi tutti
[senza saper nulla di Aristotele] indichiamo ciò che costituisce formalmente
una cosa: qui, la giustificazione. In questo senso il Tridentino parla
della grazia santificante [che è la causa formale della giustificazione]
distinta dalla grazia attuale, specificando che essa è un dono sovrannaturale,
infuso, che inerisce all’anima e per il quale l’uomo è formalmente
giustificato [cioè considerato alla fine giusto da Dio e accolto nel Suo
Regno: DS, 1529,1560]”. Se i Concili, prosegue Garrigou-Lagrange
“definiscono la fede, la speranza, la carità come delle virtù permanenti,
il loro principio radicale (la grazia abituale o santificante) deve anch’esso
esser inteso come un dono infuso permanente e pertanto distinto dalla grazia
attuale [che è temporanea] o da un influsso [motion] divino
transitorio”.
La replica di
Garrigou-Lagrange mi sembra ineccepibile. Il Tridentino non voleva certamente
mettersi a filosofare e tuttavia voleva giustamente servirsi di una “nozione
umana stabile”, non soggetta a mutamenti od evoluzione checchesia. E questa
nozione è quella di “ciò che costituisce formalmenteuna cosa”. Formalmente,
in che senso? Non nel senso di esteriormente, l’unico oggi attribuito
all’espressione, ma in quello della compiutezza di ciò che si configura come
esistente, si tratti di realtà sensibile o spirituale. E quindi, nel senso
di ciò che si costituisce secondo la sua forma specifica, quella che ne
esprime compiutamente la natura o essenza in relazione al suo fine. Come quando diciamo che la forma-uomo, nella quale si esprime la sua
natura di uomo, individua l’uomo rispetto a tutto il resto (forma dat esse
rei).
È stato Aristotele a
cogliere questo significato nel concetto della forma. Nelle celebri pagine
della Fisica nelle quali espone i quattro tipi di causalità, egli dice
che nella natura si ha sempre la “forma e il modello” grazie al quale ciò che è
nella natura è ciò che è[16].
La “forma” di una cosa è, pertanto, da un certo punto di vista, “causa” di una
cosa. Gli Scolastici hanno poi chiamato “causa formale” l’azione causale di
questa “forma”. Nell’esempio di scuola, la forma della coppa d’argento è
l’idea o modello in base al quale viene plasmato l’argento, che è causa materiale
della coppa stessa, essendone nell’esempio la materia da cui viene tratta.
La materia viene costituita in un ente od oggetto secondo una forma che è il
modello (qui, la coppa) su cui la materia si plasma, ad opera dell’artefice (causa
efficiente) per un determinato fine (causa finale). Essa è dunque
causa del fatto che l’argento assume quella determinata forma, la forma di quella
coppa.
La causa formale non
è qualcosa di secondario o accidentale, che può esserci o non esserci: la forma
è intesa qui nel senso dell’idea o modello, di quell’immagine in base alla
quale la materia viene organizzata (l’immagine o idea ha infatti
necessariamente una forma). Senza di essa la materia resterebbe appunto informe,
un caos senza capo né coda e non potrebbe nemmeno esser causa di nulla. La causa
formale è all’opera in tutta la realtà sia organica che inorganica ed opera
già dentro il mondo della materia. L’elettrodinamica quantistica ha rivelato la
straordinaria stabilità della materia (secondo precise simmetrie) anche
nel suo più intimo sostrato, costituito dal mondo delle particelle subatomiche,
stabilità che è il risultato di un ordine (una forma) che può originarsi solo
dall’azione di una causa formale e quindi dall’azione consapevole di un
Agente. Pertanto, possiamo dire che la realtà materiale, biologica, della
pianta implica l’idea o la forma ad essa anteriore della pianta; la realtà
fisica, biologica dell’uomo, l’idea dell’uomo. La materia necessita di una
forma determinata nella quale attuarsi e quindi di una causa formale che,
come tale, è qualcosa di diverso dalla materia stessa e la precede. Infatti,
una cosa è la materia di cui è fatta la coppa, altra cosa l’idea stessa della
coppa, per cui la coppa reale va concepita come una sintesi di materia e forma.
Tornando al nostro
argomento, la “materia “ è qui del tutto spirituale, è l’anima dell’uomo. Essa
deve assumere quella forma gradita a Dio, che è costituita dalla
perfezione interiore, se vuole esser giustificata e salvarsi. E come raggiunge
l’uomo questa forma, come riesce ad essere ciò che deve essere in
relazione al fine per il quale l’uomo è l’uomo? Ovvero in relazione al fine
della salvezza, che gli consente di godere per l’eternità della Visione
Beatifica? Con le sue sole forze? Impossibile, ci insegna la dottrina della
Chiesa (“Senza di Me non
potete far nulla”, Gv 15, 5).
L’ottiene mediante l’opera della “grazia santificante”, causa formale della
giustificazione. La Grazia santificante, inerendo gratuitamente alla
nostra anima, integra in modo decisivo l’azione del nostro libero arbitrio,
costituendoci formalmente come ciò che dobbiamo essere secondo la nostra
vera natura, di esseri creati da Dio per regnare un giorno con Lui “in patria”,
cioè in Cielo: costituendoci cioè come giusti, secondo la terminologia
tradizionale.
Ora, si chiede
Garrigou-Lagrange, come è possibile mantenere il senso di questo
insegnamento del Tridentino, cioè che “la grazia santificante è la causa
formale della giustificazione”, se “si sostituisce una diversa nozione a quella
di causa formale?”. Non è possibile. Lo possiamo ben confermare noi, dopo
cinquant’anni di interpretazioni pastorali del dogma, aggiornate alle
esigenze della “vita” ossia del sentimento e del pensiero del “proprio tempo”,
che è il sentire, il pensare moderno, improntato al principio d’immanenza,
notoriamente avido di ogni sperimentazione e novità, anche in campo etico: la
maggioranza dei cattolici crede oggi che il male non esista, che tutti gli
uomini siano già stati giustificati dall’Incarnazione di Cristo Nostro Signore.
Tutti salvati. Todos caballeros. La salvezza si è già realizzata per
tutti e l’Inferno (se esiste) è in realtà vuoto.
7. La ripulsa del concetto della “sostanza”
per eliminare quello della
transustanziazione dell’Ostia consacrata, sostituita dal simbolo di una
“presenza spirituale” e non più “reale”.
Si è visto che gli
anonimi diffusori di ciclostilati pieni di veleno contro la dottrina della
Chiesa non accettavano più il concetto della sostanza, perché di origine
aristotelica, appartenente quindi ad una filosofia da considerarsi
superata. Pertanto il pane e il vino
consacrati (“in virtù dell’offerta che ne è stata fatta”, dicevano gli anonimi)
non mutano la loro sostanza ma solamente il loro significato. Diventano
il “simbolo efficace” del Sacrificio di Cristo, ma simbolo della sua “presenza
spirituale”. Anzi, simbolo della sola
presenza spirituale, che non è certo quella (reale) definita a Trento come
“corpo, sangue, anima e divinità”.
Il termine “presenza
spirituale” è piuttosto vago ed è tipico degli eretici, applicato alla
Consacrazione; nel senso che essi, ove ammettano forme di consacrazione,
attribuiscono loro unicamente l’effetto di far acquistare al pane e al vino un
“significato” nuovo, meramente simbolico, della “presenza spirituale” di
Cristo o del suo Sacrificio. Queste
concezioni eretiche sono state riprese da tutte quelle teorie che in ambito
cattolico, dopo il Vaticano II, hanno tentato di reinterpretare la
transustanziazione in termini di “trans-significazione” e simili, applicandovi
nozioni correnti nel pensiero contemporaneo, tratte ad esempio dalla fenomenologia.
7.1 Transustanziazione e sostanza. Niente transustanziazione,
dunque. O comunque stravolta nel suo significato. Oggi, con la crisi delle fede che c’è, quanti
sono i sacerdoti che ancora vi credono effettivamente? Questa ripulsa della transustanziazione ha un
presupposto metafisico: la ripulsa dell
Scolastica perché legata alla metafisica e alla fisica di Aristotele. Distrutta completamente la seconda dalla
scienza moderna (così si crede), viene a cadere anche la prima. Viene allora a cadere anche il concetto della
sostanza, che appartiene alla fisica ma anche alla metafisica dello
Stagirita.
Perché la Chiesa ha
scelto ad un certo punto questo concetto di transustanziazione? È un parolone, di origine erudita, adottato
nel Medio Evo per spiegare ancor meglio (contro le eresie) il miracolo della
“conversione” totale del pane e del vino nel corpo e nel sangue, nell’anima e
nella divinità di Nostro Signore in conseguenza della Consacrazione delle sacre
specie operata dal sacerdote, agente in persona Christi grazie al potere
dell’Ordine di cui è investito, che gli permette di attuare la rinnovazione
incruenta del Sacrificio cruento del Calvario.
Se la parola sembra intimorire, il concetto che essa esprime è tuttavia molto
semplice e chiaro: il mutamento completo
della sostanza di una cosa, mutamente in questo caso non percepibile
dall’esterno. La “cosa” è qui il pane,
il vino. In seguito alla Consacrazione, pur mantenendo il loro aspetto
esteriore immutato, mutano tuttavia completamente la loro sostanza e
divengono “corpo, sangue, anima e divinità” ossia “presenza reale” di Nostro
Signore.
Questo mutare,
convertirsi in altro da ciò che si era, è un mutare di sostanza, un trans-mutare: un andare al di là (trans) sino al
punto da trans-sostanziare, se così posso dire, al punto da convertirsi
in un’altra sostanza. Ma sempre conservando la forma esteriore intatta, nel
nostro caso. L’avverarsi di questo fatto
ad ogni Santa Messa validamente celebrata, lo crediamo per fede. Ed è stato confermato da alcuni noti miracoli
eucaristici. Per capire il concetto
della transustanziazione, che spiega il fatto nella sua dinamica, non occorre
comunque aver studiato filosofia e tanto meno Aristotele. Anche nel parlar comune delle persone meno
colte si usa la differenza tra la sostanza e l’apparenza, sia in
senso proprio o materiale, che in senso figurato: “questo cibo è privo di vera
sostanza, anche se si presenta ben cotto”; “la sostanza della cosa è diversa da
come sembra”; “in sostanza, si tratta della stessa cosa, nonostante le
apparenze diverse”; e così via.
Considerando il
concetto della sostanza solo in relazione alle cose materiali, non v’è dubbio
che tra la sostanza e l’aspetto esteriore delle cose stesse noi stabiliamo ora
concordanza ora opposizione mediante l’indagine del nostro intelletto, che
sempre scruta, osserva, distingue ed unifica a seconda dei casi. Aristotele ha definito la sostanza degli
esseri (ousia, in greco) in se stessa e in relazione ai concetti di essenza,
sostrato materiale, materia, accidenti o qualità degli esseri o enti che dir si
voglia. Come definizione della sostanza
si cita in genere un passo della Metafisica: la sostanza “è ciò che è in sé e non in
altro” (Met., 1046 a 26). Vale a
dire ciò che trova in se stesso la sua propria ragion d’essere, non in
qualcos’altro. San Tommaso ha
approfondito il concetto in un noto passo della Summa: “Illa
enim subsistere dicimus, quae non in alio sed in se existunt” (Ia ,
q. 29 a 2c: “Diciamo infatti che sussistono
quelle cose che esistono in se stesse, non in altro”). Non la semplice esistenza delle cose ma il
loro esistere in quanto sussistenti
in loro stesse ; la loro sussistenza, concetto che rispecchia il sussistere della “sostanza” nel senso
aristotelico del termine; l’esser in sé che è la sostanza, come esser uno e
indipendente di quell’ente specifico, quale esso sia, è “ciò che esiste in sé”
come quella realtà che è solo sua e non si confonde mai con altro. Tale “sussistere” non è pertanto meramente
descrittivo, ma indica l’esistere di ciò che si pone come sostanza ossia realtà
in sé determinata ed indipendente, solo sua e non confondibile con altra. Il
“sussistere” delle cose è quindi l’esistere secondo la propria sostanza
specifica, grazie alla quale abbiamo le differenze qualitative tra tutti gli
enti esistenti. Nell’ambito materiale,
non possiamo infatti confondere tra loro uomini, animali, piante, insetti,
carne, sangue, etc. Il pane e il vino,
che qui ci interessano in modo particolare, sono il risultato di una
modificazione apportata dal lavoro dell’uomo a certi prodotti della natura, che
di per se stessi sono già degli enti o cose determinate secondo la loro natura
specifica, che si configura come la loro ousia o substantia, tale da non permettere di confonderli in nessun modo (l’uva, il
grano).
Del pane in quanto cosa finita e determinata dobbiamo dunque ammettere
che ha una natura che è solo sua, che è, in quanto pane, ciò che è in sé e
giammai in altro, per esprimerci alla maniera di Aristotele, e quindi sussiste individualmente in
atto secondo questo suo esser in sé ciò che è, nella sua specifica
individualità, per esprimerci alla maniera di san Tommaso. Il termine greco e ancor più quello latino
rinviano anche all’idea della sostanza come
sub-stans, sub-sistit rispetto
all’apparenza che pur si riscontra nella medesima cosa della quale la sostanza
è sostanza: la sostanza è ciò che sta sotto, ciò che costituisce l’essenza della cosa
stessa, la sua natura più profonda, e si mantiene inalterato pur nel mutare
degli “accidenti” (termine delle Scuole) o qualità esteriori che lo
caratterizzano in quanto ente concreto, in quanto individuo (uomo, animale,
pianta con i loro “accidenti” o qualità) o comunque in quanto realtà
determinata, indipendente, che può esser anche quella di un ente collettivo,
come la Chiesa, onde si parla di sostanza in senso spirituale, ma non per
questo meno reale (la sostanza della Chiesa consiste nell’essere il Corpo
Mistico di Cristo).
Come esempio dell’immutabilità della sostanza,
pensiamo all’essere umano. La sua natura profonda e sostanza specifica la
chiameremo humanitas: ciò
che fa esser l’esser umano uomo e donna e non animale, pianta, insetto, frutto,
minerale, etc.; e che non muta pur nel mutare degli accidenti o qualità
esteriori e persino interiori, onde diciamo che un vecchio, nonostante
l’indebolirsi (il mutare) delle sue capacità fisiche e mentali, non è certo
meno uomo di un giovane, perché la sua sostanza di uomo, la sua humanitas rimane inalterata. Ora, in questa costruzione concettuale che
cosa c’è di sbagliato, da doverla rifiutare, in nome della scienza
moderna? Si potrà dire che nel concetto
della sostanza resti qualcosa di indimostrabile, del quale lo stesso Aristotele era
perfettamente consapevole. Disse infatti che della sostanza “non si dà
dimostrazione” (Met. 997 a, 14).
E difatti, per restare al pane, come “dimostro” che la sostanza del
pane, ciò per cui esso è pane e non altro, è nient’altro che il semplice fatto
dell’esser pane? La “dimostrazione” è in
un certo senso nella cosa stessa, nel suo sussistere in
atto, individualmente determinata e distinta di fronte a me, direbbe un san
Tommaso, con le sue caratteristiche specifiche, uniche. La negazione dell’esistenza della sostanza mi
ricorda quella dell’esistenza dell’anima da parte dei materialisti dell’Ottocento:
facendo l’anatomia del corpo umano, dicevano, non si trova niente che possa
apparire come anima: l’anima dunque non
esiste.
7.2 La fisica contemporanea nega l’esistenza della
sostanza. Ma si può dire che tale
concetto sia insostenibile alla luce delle scoperte della scienza
contemporanea, che ne avrebbe dimostrato la falsità e comunque l’inutilità? E in ogni caso: quid ad nos?
Voglio dire con questo: qualsiasi
cosa la fisica contemporanea pensi della struttura della materia, non ci
impedisce di credere ad un evento soprannaturale come la transustanziazione,
che produce una trasformazione radicale della natura del pane e del vino
mediante una causa che agisce sovrannaturalmente all’interno della natura
stessa perché costituita questa causa (efficiente) da Dio stesso, che ha creato
la natura e le sue leggi.
La fisica contemporanea, costretta in gran parte dalle sue stesse
scoperte, è tornata a professare un sostanziale atomismo, dal momento che la
struttura intima della materia appare costituita dall’universo quantico, dal
mondo delle particelle subatomiche. Sin
dall’inizio del secolo scorso si è discettato sulla fine del concetto della sostanza
in fisica e sulla sua sostituzione con quello della “funzione”. Il neo-kantiano Ernst Cassirer scrisse nel
1910 un saggio al tempo importante su questo tema, intitolato proprio “Concetto
di sostanza e concetto di funzione”. Il
brillante matematico Hermann Weyl, uno dei tanti seguaci di Einstein, scrisse
nel 1923 un saggio (all’epoca molto citato) sulla natura della materia, nel
quale attaccava a fondo il concetto di sostanza in fisica, dichiarandolo ormai
tramontato, impossibile da applicarsi di fronte alla realtà svelata dal mondo delle
particelle, inquadrabile solo secondo il ben noto “principio di
indeterminazione” che rende praticamente impossibile applicare la categoria
della causalità al modo della fisica classica.
Anche se ciò, osservo, sembra dipendere più che altro dalla limitatezza
dei nostri strumenti: se determiniamo la posizione dell’elettrone non possiamo
simultaneamente coglierne la velocità e viceversa, ragion per cui dobbiamo
elaborare delle misurazioni su base statistica, che non sono false ovviamente,
ma solamente non precise come richiederebbero la meccanica classica e la natura
stessa della cosa.
In questa sede non posso addentrarmi in un’analisi
particolareggiata. Mi limito ad alcune
considerazioni di carattere generale, sperando che qualcuno le ritenga meritevoli
di approfondimento. Weyl, pur criticando
qua e là Aristotele, per il suo approccio metafisico, partiva da Kant, il quale,
pur scorgendo nella “movibilità” la caratteristica della materia, ancora
accettava pienamente il concetto della sostanza come permanere immutabile della
materia al di là del carattere mutabile dei fenomeni con i quali essa si
presenta a noi. Nella stabilità della materia la materia stessa
appariva come sostanza, che è per definizione l’immutabile essenza
dell’ente individualmente determinato. Ora,
scriveva Weyl, in tutte le concezioni della sostanza, sin dai tempi di
Aristotele, si nota questo schema concettuale:
si ammette un soggetto o ente “portatore” (Träger) di determinati fenomeni che resta sempre immutato pur nel variare dei
fenomeni. Il “portatore” sarebbe appunto
la “sostanza”, che mai non muta. Ma
questo “portatore”, si chiedeva Weyl, dov’è mai, se la materia è in realtà
composta di atomi ed anzi (diciamo oggi) di particelle subatomiche in perenne
movimento? Gli atomi, sottolineava Weyl,
“sono individui separati” sempre in moto, separati quantitativamente non per le
loro qualità, come se fossero sostanze.
Sono le combinazione di queste “quantità” a creare le qualità che appaiono nelle
cose. E come si può mantenere l’immutabilità
della materia (e quindi il concetto della sostanza) nel moto continuo delle
particelle che la costituiscono? Questo
mondo di particelle, che a noi appare anzi dominato dal Caso, si può spiegare
solo in termini di “funzioni”; funzioni matematiche, ricavabili dalle
rilevazioni statistiche delle proprietà del mondo quantico, grazie al calcolo
infinitesimale. Al posto della
“sostanza” allora la “funzione”, l’equazione che stabilisce matematicamente il
rapporto tra il quantum di energia e l’onda elettromagnetica che esso stesso
costituisce, le leggi statistiche dei “pacchetti di onde”. In conclusione: il neo-atomismo professato dalla fisica
contemporanea e confermato dalle scoperte, renderebbe impossibile il concetto
stesso della sostanza. Pertanto: basta con il dogma della transustanziazione, non
esiste una “sostanza” da “transustanziare”!
Questo il pensiero dei vari Teilhard de Chardin, de Lubac e compagnia
cantante. Weyl scriveva: “la materia non è sostanza che si è fatta
carne”[17].
Chiosava Cassirer, in un altro suo lavoro sulla filosofia della fisica
moderna: “che la materia non possa più
pretendere di essere “sostanza incarnata”, ciò risalta chiaramente [secondo
quest’impostazione] nel passaggio alla teoria del campo. Il campo
[elettromagnetico] infatti è un insieme di pure azioni, di pure relazioni fra
“linee di forza” [dell’energia] che non sono più legate necessariamente a un
substrato materiale, bensí definiscono l’accadere fisico quasi in libera
congiunzione reciproca. Nella teoria del
campo, come ha detto Weyl, in un certo senso il continuo spazio-temporale si è
addossato il concetto della sostanza”[18]. E questo era proprio il punto di vista dello
spinoziano Einstein, che (senza riuscirvi) cercò per tutta la sua lunga vita di
estendere il concetto del “campo” all’intera realtà fisica, in modo da poter
concepire quello che chiamiamo l’oggetto o l’individuo determinato, l’ente con
la sua sostanza e le relative qualità, come
un semplice aumento di densità dell’energia di campo, privo quindi di vera e
indipendente sostanzialità: una sorta di increspatura nello spazio curvo della
materia-energia illimitata ma finita che costituirebbe il cosmo.
Ma si può accettare l’idea che “il continuum spazio-temporale” ossia il
campo, nelle sue varie accezioni, dal campo elettromagnetico a quello
gravitazionale, si sostituisca al concetto della sostanza, sempre riferito alla
materia? È possibile “definire
l’accadere fisico” come “un accadere in libera congiunzione reciproca”? Libera “congiunzione” di che cosa? Delle sterminate energie del “campo”, che per
ogni punto delle “linee di forza” che costituirebbero l’universo, si incrociano
infinite estendendosi all’infinito con i loro pacchetti d’onde, determinabili
solo attraverso il calcolo di “funzioni” matematiche di enorme complessità ed
astrattezza? In questo modo, la realtà
fisica effettiva, quella corposa del nostro mondo e dello stesso universo, non
sembra perdere ogni connotato reale e scorrerci tra le dita come energia (è il
caso di dire) che si cerchi di afferrare con le mani?
7.3 La negazione della sostanza contraddice la
stabilità della materia e dell’energia Il
fatto è che, sostituendo “il campo” alla “sostanza” si rende la realtà empirica
incomprensibile. Concependo
gli eventi del mondo fisico come “libera congiunzione reciproca” delle onde di
energia o, più modernamente ancora, come “un mondo di avvenimenti, non di cose”[19], come
se le “cose” potessero scomparire, sostituite dall’avvenimento, un avvenimento che
però non lo è di una cosa [!], si
trascura il fatto che la stabilità della materia è una realtà
impossibile a negarsi. Essa si fonda a sua volta sulla stabilità
dell’energia. E dove c’è s t a b i l i t à c’è la sostanza, poiché solo ciò che sussiste
non dipendendo da altro per essere ciò che è (ossia la sostanza), può esser
stabile nel mutare dei suoi componenti o accidenti.
Nel suo libro autobiografico Fisica e oltre. Incontri con i protagonisti
1920-1965, dedicato agli “incontri” con gli scienziati protagonisti della fisica
contemporanea, Werner Heisenberg, a sua volta “protagonista”, mette in bocca
queste riflessioni a Niels Bohr, nel periodo 1920-1922, nell’ambito di una
discussione sulla “peculiare stabilità della materia quando venga esposta ad
agenti esterni”.
“Col termine ‘stabilità’ intendo indicare il fenomeno per cui le stesse
sostanze hanno sempre le stesse proprietà: cristallizzano sempre nello stesso
modo, reagiscono con altre sostanze secondo modalità sempre uguali…In altre
parole, un atomo di ferro, per quanto sottoposto ad ogni sorta di manipolazioni
e combinazioni, resta sempre un atomo di ferro, con le stesse proprietà…La
natura tende a produrre forme specifiche – naturalmente il termine ‘forme’ va
inteso nell’accezione più generale – e a riprodurre queste forme ogni volta che
esse vengono modificate o distrutte. È quanto avviene in biologia: pensi alla stabilità degli organismi viventi,
a come le strutture più complesse si riproducono sempre uguali, specie per
specie…Pensiamo invece alle strutture più semplici delle quali si occupano la fisica
e la chimica. L’esistenza di sostanze
uniformi e di strutture stabili – i corpi solidi, ad esempio – dipende dalla
stabilità degli atomi”[20].
Ora, se un atomo di ferro resta sempre tale nonostante le manipolazioni
che possa subire, ciò significa che un qualsiasi pezzo di ferro mostra di
possedere quella stabilità, derivantegli dalla coesione dei milioni di
atomi di ferro che lo compongono, che permette, sul piano del concetto, di
individuare l’esistenza della ferrinitas ossia della sostanza
del ferro in quanto tale. O, se si preferisce, l’esistenza del ferro come sostanza di un ente in sé e
per sé determinato, distinto da tutto il resto.
E per la stabilità della materia organica dovremmo forse ragionare
diversamente? Non si vede perché. Il
grano, l’uva, il sangue, la carne, il frutto, l’animale etc. per tutta la
durata del ciclo vitale cui è sottoposto l’organico (assai più breve
dell’inorganico) mantengono sempre la loro stabilità, che è quella delle
molecole e degli atomi che li
costituiscono: mantengono quindi la loro
sostanza, che ne individua e mantiene la differenza con ogni altro ente,
diverso da loro stessi.
Tuttavia, potrebbe osservare qualcuno, se si deve ammettere che la
materia è stabile, non dobbiamo forse ammettere che l’energia non lo è, a causa
del suo moto perpetuo, che a noi appare sottoposto al principio di
indeterminazione e in definitiva al Caso?
Ma il mondo delle particelle subatomiche, che a noi può sembrare caotico,
possiede anch’esso la sua stabilità.
Einstein teorizzò l’esistenza del “fotone” ossia della struttura
quantistica del raggio luminoso, ipotizzando che l’energia di ogni fotone fosse
inversamente proporzionale alla lunghezza d’onda, cosa poi dimostrata dalle
misurazioni. A partire dalla scoperta di
Einstein consideriamo la radiazione
luminosa come composta di “fotoni”. Ma
quale sarà il rapporto tra il tutto e la parte ossia fra il “treno d’onde”,
come si suol dire, e i singoli fotoni che lo compongono? Si tratta di un rapporto ordinato in un certo
e stabile modo: l’energia del treno
d’onde è sempre un multiplo di una quantità definita ovvero dell’energia di un
“singolo fotone”. I fotoni hanno massa uguale a zero e carica elettrica uguale
a zero, tuttavia possiedono energia, momento, spin di rotazione nella direzione
del moto. E come avviene l’interazione
fra queste particelle e i nuclei atomici? Avviene a un “quanto” alla
volta. Ciò si deduce dal fatto che la
luce di oggetti posti nello spazio a 10 miliardi di anni luce ci raggiunge
perfettamente. La trasmissione della
luce nello spazio mostra dunque la presenza di un ordine, di una stabilità
non inferiore a quella della materia, con le sue sostanze. Un altro esempio di ordine stabile nel mondo
dell’energia è il seguente: La densità
media della carica elettrica è zero in tutto l’universo. Se la terra e il sole avessero un eccesso di
cariche positive sulle negative e viceversa pari a una parte su 1036
[1 seguito da 36 zeri, 6 volte un milione], la repulsione elettrica tra di loro
sarebbe più grande dell’attrazione gravitazionale. Inoltre:
l’energia totale delle particelle che entrano in collisione si conserva
sempre, anche se ci può essere uno scambio di energia tra una particella e
l’altra[21]. Altri esempi si potrebbero addurre.
La materia e l’energia trapassano l’una nell’altra ma sono state
costituite entrambe secondo un ordine che permette di parlare per l’una e per
l’altra di una stabilità che sempre si mantiene. E per la materia la stabilità
ci conduce al concetto della sostanza, che pertanto conserva diritto di
cittadinanza in fisica.
E’ evidente che il neo-atomismo
impostoci dalla scienza contemporanea non ci obbliga a rinunciare al concetto
della sostanza e per logica conseguenza al dogma della transustanziazione, che
quel concetto presuppone. Ci obbliga a precisarne
ancor meglio il fondamento, servendosi proprio delle scoperte della scienza
moderna. Le quali dimostrano che è in
realtà impossibile rinunciare al concetto della sostanza; tale rinuncia provocherebbe
quella del concetto di “stabilità della materia”, con il risultato di rendere
incomprensibile la realtà, che si dovrebbe allora considerare nient’altro che
un coacervo caotico di particelle, senza capo né coda.
Naturalmente, il discorso deve esser ulteriormente approfondito,
introducendovi (come fa giustamente Aristotele) il principio di causalità,
nelle sue varie forme, dal momento che “ciò che è in sé e non in altro”, lo è
sempre in conseguenza dell’azione di una causa efficiente che opera secondo un
fine e quindi in relazione ad una causalità finale, che in ultimo risale sempre
a Dio. La presente nota mi sembra comunque
sufficiente per una prima confutazione degli errori circolanti, che dalla
filosofia trapassano poi nella teologia, cadendo infine nell’eresia.
8. Domanda finale: perché l’autorità suprema
non ha saputo combattere il risorgente modernismo, di chi soprattutto la colpa?
Risposta: del successore di Pio XII, Giovanni XXIII.
Il lettore si
chiederà a questo punto: ma l’autorevole e documentata denuncia di
Garrigou-Lagrange è rimasta inascoltata? In realtà, non lo è stata. Il Papa
allora regnante, Pio XII, intervenne dopo qualche anno con la famosa enciclica Humani
generis, del 12 agosto 1950, definita da qualcuno (Romano Amerio) “il terzo
sillabo”. In essa, il Romano Pontefice denunciava “alcuni gravi errori contro
la fede cattolica, particolarmente dannosi se professati o insegnati da docenti
cattolici, nelle scuole cattoliche”. L’enciclica, come è noto, censurava
numerosi indirizzi del pensiero moderno e metteva sotto accusa, pur non
chiamandoli per nome, quei teologi che avevano l’errata ed assurda pretesa di
“esprimere i dogmi con le categorie della filosofia odierna, sia
dell’immanentismo, sia dell’idealismo, sia dell’esistenzialismo o di qualsiasi
altro sistema”. Riprovava inoltre altre storture che si professavano in campo
esegetico e liturgico. Invitava infine le autorità competenti a prendere gli
opportuni provvedimenti. E difatti, i vari de Lubac, Bouillard, Rahner, Congar,
Küng e sodali furono costretti al silenzio,
sospesi dall’insegnamento, le loro opere tolte dalla circolazione. Ma il
linguaggio dell’enciclica era moderato, non si pronunciavano condanne solenni,
non si facevano nomi, i provvedimenti contro i teologi fedifraghi furono in genere
presi in modo informale. Costoro si misero comunque a recitare la parte dei
perseguitati senza abiurare uno che fosse uno dei loro numerosi e gravi errori.
Tacquero ed attesero, forti delle protezioni di cui pur godevano presso ben noti cardinali
austro-tedeschi, alcuni dei quali poi esponenti di spicco della fazione
neomodernista al Concilio. E difatti le cose
cambiarono completamente con il pontefice successivo, Giovanni XXIII, l’uomo
del “dialogo”. Asceso al sacro soglio nell’autunno del 1958, nel gennaio del
1959 indisse il Concilio, in seguito, disse, ad un’improvvisa ispirazione dello
Spirito Santo. Ora, il concilio preparato in tre anni di duro lavoro dai
teologi della Curia, ascoltati i pareri di tutti i vescovi che avessero voluto
darli, sotto la supervisione del Papa, del cardinale Alfredo Ottaviani,
prefetto del Sant’Uffizio e del segretario di quella Congregazione, il gesuita
olandese P. Sebastiaan Tromp, non si contrapponeva di certo alla Humani
generis; anzi, ne ampliava e perfezionava l’impostazione. In almeno due
degli schemi di costituzione dogmatica, la condanna degli errori moderni, sui
quali faceva leva il risorgente modernismo, era ampia, articolata, netta e
radicale, anche se espressa con i toni sfumati imposti dall’irenismo professato
da Roncalli. E ugualmente netta era la censura delle deviazioni che si andavano
profilando nell’esegesi e nella teologia cattoliche. Si batteva in breccia
anche la corruzione dei costumi che cominciava a diffondersi nella società
consumistica (edonismo di massa e rivoluzione sessuale agli inizi). Se il
Concilio avesse potuto seguire il suo naturale e doveroso corso di concilio
dogmatico, ben preparato com’era stato dai migliori teologi ortodossi, sì
da potersi concludere con le opportune condanne solenni dei numerosi errori circolanti, per i neomodernisti sarebbe stata una disfatta
di proporzioni immani, forse definitiva. Invece essi, rappresentati in Concilio
dai ben noti cardinali della cosiddetta “Alleanza europea” (e più esattamente renana:
franco-belga-olandese-tedesca-austriaca) con appendici in
Italia (Montini, Lercaro), Sud America (Câmara) e Nord America; pur essendo una minoranza, riuscirono a rovesciare
la situazione grazie all’acquiescenza complice di Papa Roncalli. Ciò risulta
dai seguenti fatti, che espongo qui succintamente:
1. Giovanni XXIII
permise che nella fase preparatoria fossero inseriti tra gli esperti o
“consultores” della commissione che si occupava dello schema di costituzione
sulla riforma liturgica, proprio i teologi censurati e costretti al silenzio
sotto Pio XII per le loro cattive e mai ritrattate dottrine. Notò lo storico
Levillain: “La composizione di questa commissione faceva vedere che si era
praticata una larga apertura. Tra i consultori si notava la presenza dei Padri
Congar, de Lubac, Hans Küng etc. Tutta la squadra dei teologi condannati
implicitamente dall’enciclica Humani generis nel 1950 era stata chiamata
a Roma per volontà di Giovanni XXIII. Il Concilio si apriva in un’atmosfera di
riconciliazione…” [22].
Di “riconciliazione” con l’errore, bisognerebbe dire, visto che nessuno degli
erranti “riconciliati” si era pentito e pubblicamente ritrattato!
2. Lasciò che i cardinali
novatori, con una serie di iniziali e ben studiati colpi di mano
procedurali, alterassero illegalmente lo svolgimento del Concilio, riuscendo a
conquistare la maggioranza nelle dieci commissioni incaricate di redigere gli
schemi dei documenti da votare in aula. In tal modo furono mandati al macero
tutti gli schemi preparatori, tranne quello sulla liturgia perché parzialmente
gradito ai novatori, grazie anche alla massiccia presenza nella fase
preliminare della sua elaborazione della torva genìa appena menzionata qui
sopra, al § 1. Le nuove commissioni cominciarono a
riscrivere i documenti da votare secondo un’impostazione che rivelava
l’infiltrazione neomodernista. Cominciò così una dura, triennale battaglia
contro la minoranza “conservatrice”, mentre la palude, cioè la
stragrande maggioranza dei vescovi, stava a guardare, cercando di capire da
quale parte si sarebbe schierato il Papa. Paolo VI, proseguendo nel solco
tracciato da Roncalli, si schierò con i neomodernisti, dei quali per
temperamento e sensibilità faceva parte (era un devoto ammiratore di de Lubac,
come del resto Giovanni Paolo II, suo amico personale, che lo fece addirittura
cardinale). Tuttavia, come Papa e per salvaguardare almeno in parte il potere
che gli derivava (per diritto divino) dal primato petrino, Paolo VI dovette
intervenire più volte per temperare certi eccessi (anche se in genere questi
suoi interventi non erano spontanei ma provocati dalla pressione della
minoranza che difendeva il dogma). Alla fine, pur costretta a qualche
compromesso, vinse, come sappiamo tutti, la “nouvelle théologie” vanamente
denunciata a suo tempo da Garrigou-Lagrange, improntando di sé non solo lo
stile, l’atmosfera dei documenti conciliari ma anche le loro dottrine, ambigue
ed erronee su punti essenziali della nostra fede[23].
Tutti quelli che credono poter rinascere un
domani la Chiesa senza dover preliminarmente mettere in discussione e riformare
o cassare il pastorale Vaticano II; senza dover passare per le fiamme di
un’autentica e radicale purificazione dottrinale, errano grandemente.
Sono come il moscone che va a sbattere continuamente ed inutilmente contro
i vetri trasparenti della finestra chiusa che lo separa dalla libertà, non rendendosi conto della
loro esistenza.
♣ [NOTA DEL CURATORE: Si tratta del famoso e
fondamentale articolo apparso sulla rivista Angelicum, 23, 1946, pp.
136-154, nel quale il grande teologo domenicano (1877-1964), esponente di
spicco del neotomismo anche in campo filosofico, denunciava il riapparire
subdolo del modernismo fra i teologi, a partire dall’inizio degli anni Trenta del secolo scorso, in
libri a stampa e in ciclostilati che circolavano anonimi tra il clero,
seminando dubbi ed incertezze sulle verità di fede. L’attualità dell’articolo mi sembra fuori discussione. Le inserzioni tra parentesi quadre
sono mie. Le traduzioni dal latino sono riportate
in note contrassegnate da lettere: a, b, c, etc.
[1] Il corsivo è nostro. [Henri Bouillard,
gesuita, 1908-1981, esponente di rilievo della “nuova teologia” unitamente ai
confratelli Henri de Lubac, Teilhard de Chardin etc.].
a “Negli studi di filosofia
razionale e di teologia e nella formazione degli alunni in dette discipline i
professori seguano interamente il metodo, la dottrina e i princìpi del Dottor
Angelico, e vi si attengano religiosamente”.
[2] Lo abbiamo
spiegato più diffusamente in Le Sens commun, la philosophie de l’être et les formules dogmatiques, 4e éd., 1936, p. 362 ss.
[3] Del resto è
stato definito che le virtù infuse (soprattutto le virtù teologali), che
derivano dalla grazia abituale, sono delle qualità, sono princìpi
permanenti di opere sovrannaturali e meritorie; è necessario quindi che la
grazia abituale o santificante (tramite la quale siamo in stato di
grazia), da cui queste virtù procedono come dalla loro radice, sia essa stessa
una qualità infusa permanente e non una mozione come la grazia attuale.
Ora, la fede, la speranza e la carità sono state concepite come virtù infuse
molto prima di San Tommaso. Cosa c’è di più chiaro?
Perché perder tempo a mettere in dubbio le verità più certe e fondamentali con
il pretesto di far avanzare i concetti? È un indice della deriva intellettuale
del nostro tempo.
[4] MAURICE
BLONDEL [1861-1949] scriveva negli Annales de Philosophie chrétienne, 15
giugno 1906, p. 235: “Si sostituisce l’astratta e chimerica adaequatio rei et intellectus con
la ricerca metodica in questo senso: l’adaequatio realis mentis et vitae”. Definire “chimerica” la definizione
tradizionale della verità ammessa da secoli nella Chiesa e suggerire di
sostituirla con un’altra in tutti gli àmbiti, compreso quello della fede
teologale, implica una grande responsabilità. Le ultime opere di M. Blondel
correggono queste deviazioni? Si è visto che non lo si può affermare. Egli
scrive ancóra, L’Être et les êtres, 1935, p. 415: “Nessuna prova
intellettuale – nemmeno quella dei princìpi assoluti in sé, dotati
necessariamente di un valore ontologico – si impone con una certezza
spontanea e infallibilmente cogente”. Per ammettere il valore ontologico di
tali princìpi, bisogna operare una scelta libera. Prima di tale scelta, il loro
valore ontologico è quindi solamente probabile. Ma bisogna ammetterli per le
esigenze dell’azione secundum conformitatem mentis et vitae. Non
potrebbe essere altrimenti se si sostituisce la filosofia dell’essere o
ontologia con la filosofia dell’azione. La verità viene dunque definita non più
in funzione dell’essere, ma dell’azione. Tutto è cambiato. Un singolo errore
nel concetto primario di verità provoca errori a catena in tutto il resto. Vedi
anche: Blondel, La Pensée (1934), t. I, p. 39, 130-136, 347, 355;
t. II, p. 65 ss. op, 96-196.
b In conformità con la realtà extramentale e
alle sue leggi immutabili o in conformità con le esigenze della vita umana che
è in continua evoluzione?
[5] Un altro
teologo che citeremo più avanti ci invita a dire che all’epoca del Concilio di Trento si concepiva la transustanziazione
come il cambiamento, la conversione della sostanza del pane in quella del corpo
di Cristo, ma che oggi conviene concepire la transustanziazione senza tale
cambiamento di sostanza, concependo tuttavia che la sostanza del pane, che
resta, divenga il segno efficace del Corpo di Cristo. E si pretende ancóra di
voler conservare il significato dei dogmi definiti al Concilio?
c “La
verità non è immutabile più di quanto non lo sia l’uomo, poiché evolve con lui, in lui e per lui”.
d “Pervertono
il concetto eterno della verità”.
e “Ammoniamo coloro che
insegnano a persuadersi che l’allontanarsi anche di poco dall’Aquinate specialmente in questioni metafisiche
comporta un grave danno. Un piccolo errore nei princìpi, per utilizzare
le parole dello stesso Aquinate, implica grandi conseguenze”.
f “La
verità non si trova in nessun atto particolare dell’intelletto, nel quale si avrebbe la conformità
con l’oggetto,
come dicono gli scolastici, ma la verità è sempre in divenire e consiste
nella progressiva adeguazione dell’intelletto alla vita, ovvero in un certo moto perpetuo tramite il
quale l’intelletto
si sforza di spiegare ciò che l’esperienza
partorisce o ciò che l’azione
esige; in modo tale, però, che in tutto il progresso non ci sia nulla di definito
o stabile”.
g “Anche dopo aver
concepito la fede, l’uomo non deve
riposare nel dogma della religione e aderire ad essa fissamente e immobilmente, ma deve rimanere sempre ansioso di progredire verso
un’ulteriore verità, con l’evolvere verso nuovi significati, anzi anche correggendo quel che crede”.
[6] Queste proposizioni condannate si trovano
nel Monitore ecclesiastico, 1925, p. 194; nella Documentation
catholique, 1925, t. I, p. 771 ss. e nelle Praelectiones Theologiae
naturalis del padre Descops, 1932, t. I, p. 150, t. II, p. 287 ss. [L’ultima proposizione è la n. 12].
[7] Il padre H. Bouillard, op. cit., p. 169 ss.,
giunto al nucleo del suo argomento, afferma per esempio che San Tommaso Iᵃ IIᵃᵉ, q. 113, a. 8 ad Iᵐ,
circa la disposizione immediata alla giustificazione, “non fa più appello
alla causalità reciproca” come nelle sue opere
precedenti. Al contrario, risulta chiaro ad ogni tomista che è proprio di essa
che parla San Tommaso, ed è proprio essa a chiarire tutta la questione. Del
resto – ed è elementare – la causalità reciproca si verifica ogniqualvolta
le quattro cause intervengono, vale a dire in ogni divenire. Qui si dice: “Ex parte Dei
justificantis, ordine naturae prior et gratiae infusio quam culpae remissio. Sed si sumantur ea
quae sunt ex parte hominis justificati prius est liberatio a culpa quam
consecutio gratiae justificantis” [Dal punto di vista di Dio che giustifica, secondo
l’ordine della natura anche l’infusione della grazia viene prima della
remissione della colpa. Ma dal punto di vista dell’uomo giustificato, la
liberazione dalla colpa è anteriore alla conseguenza della grazia
giustificante”].
Qualsiasi studente di teologia che abbia ascoltato la spiegazione del trattato
della grazia di San Tommaso articolo per articolo deve considerare che ci si
trova di fronte a una verità che non è permesso ignorare.
[8] Cf. Iª,
q. 23, a. 1: “Finis ad quem res creatae ordinantur a Deo est duplex.
Unus, qui excedit proportionem naturae creatae et facultatem, et hic finis
est vita aeterna, quae in divina visione consistit: quae est supra
naturam cuiuslibet creatura, ut supra habitum est Iª, q. 12, a. 4. Alius
autem finis est naturae creatae proportionatus, quem scil. res creata
potest attingere sec. virtutem suae naturae”. Item Iᵃ IIᵃᵉ, q. 62, a. 1: “Est autem duplex homini beatitudo, sive
felicitas, ut supra dictum est, q. 3, a. 2 ad 4; q. 5, a. 5. Una quidem
proportionata humanae naturae, ad quam scil. homo pervenire potest per
principia suae naturae. Alia autem est beatitudo naturam hominis excedens”. Item de Veritate, q. 14, a. 2: “Est autem duplex hominis bonum ultimum. Quorum unum est proportionatum naturae... haec
est felicitas de qua philosophi locuti sunt... Aliud est bonum naturae humanae
proportionem excedens”. Se non si ammette più la distinzione classica
tra l’ordine della natura e
quello della grazia, si dirà che la grazia è il compimento normale e obbligato
della natura, ma nemmeno la concessione di un tale favore rimane gratuita –
come la creazione e tutto ciò che ne segue –, perché la creazione non era
affatto necessaria. A questa tesi il padre Descoqs S.J. risponde molto
giustamente nel suo piccolo libro Autour de la crise du Transformisme (Sulla
crisi del Trasformismo), 2ª ed. 1944, p. 84: “Questa
spiegazione ci sembra essere in opposizione manifesta con i dati più certi
dell’insegnamento cattolico. Essa suppone anche una concezione evidentemente
sbagliata della grazia. La creazione non è affatto una grazia nel senso
teologico della parola. Nella prospettiva secondo cui la grazia può essere
concepita solo come presupposto della natura, l’ordine sovrannaturale
sparisce”. [Con
“trasformismo” si intendeva l’evoluzionismo pre-darwiniano o anche
quest’ultimo. Per la traduzione di
questi testi tomistici, vedi le Note di commento, §
4].
h “Il peccato del diavolo non fu in qualcosa
che apparteneva all’ordine naturale, ma secondo qualcosa di sovrannaturale”.
i “Sono state dette molte cose, ma non con
sufficiente ponderatezza, circa una ‘nuova teologia’, che si evolverebbe parallelamente
al continuo evolversi di tutte le cose, e che sarebbe sempre in ricerca senza
raggiungere mai la meta. Se quest’opinione dovesse essere abbracciata, che
cosa ne sarebbe della perenne immutabilità dei dogmi cattolici? Che ne sarebbe
dell’unità e della stabilità della fede?”.
j Per autorità
di Dio rivelatore.
k “Come
dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la
condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si
riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà la vita [eterna]. Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così
anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti”.
[9] Cfr. L’Épître aux Romains,
del padre M. J. Lagrange O.P., 3ª ed., Commento del cap. V.
[10] Le difficoltà
sul fronte delle scienze esatte e della paleontologia sono esposte nell’articolo Polygénisme del Dict. de théol.
cath. Gli autori di questo articolo, A. e J. Bouyssonie distinguono
precisamente, col. 2536, l’àmbito della
filosofia, “in cui
il naturalista, in quanto tale, è incompetente”. Sarebbe stato auspicabile che
l’articolo avesse trattato la questione da tre punti di vista: quello delle
scienze esatte, quello della filosofia e quello della teologia, in particolare
riguardo al dogma del peccato originale. Secondo molti teologi, l’ipotesi
secondo cui sarebbero esistiti sulla terra, anteriormente ad Adamo, degli
uomini la cui razza si sarebbe estinta, non sarebbe contraria alla fede. Ma
secondo la Scrittura il genere umano che popola la superficie della terra
discende da Adamo, Gn, 111, 5.20, Sap 10, 1; Rom 5, 12.18.19; At 17, 26.
Inoltre, dal punto di vista filosofico, è stato necessario un intervento libero
di Dio per creare l’anima umana, e anche per predisporre il corpo a riceverla.
Un ente generatore di natura inferiore non può produrre tale predisposizione
superiore alla propria specie; il superiore discenderebbe dall’inferiore,
contrariamente al principio di causalità. Infine, com’è detto nell’articolo
citato, col. 2535, “per i mutazionisti (odierni) la nuova specie nasce
all’interno di un germe unico. La specie è inaugurata da un individuo
eccezionale”.
[11] Il corsivo è
nostro. Idee quasi altrettanto stravaganti si trovano in un articolo del padre
TEILHARD DE CHARDIN [1881-1955], Vie et planètes, apparso in Les
Études del maggio 1946, soprattutto pp. 158-160, e 168 – Vedi anche Cahiers
du Monde nouveau, agosto 1946: Un grand Evénement qui se dessine: la
Planétisation humaine, dello stesso autore. Si è citato recentemente un
testo dello stesso scrittore, estratto da Études 1921, t. II, p. 543, in
cui egli parla della “impossibilità per il nostro spirito – nel punto in
cui si trova – di concepire, nell’ordine fenomenico, un inizio assoluto”.
– A cui Salet e Lafont hanno giustamente risposto in L’Évolution regressive,
p. 47: “Non è forse la creazione un inizio assoluto?”. Ora, la fede ci
insegna che Dio crea quotidianamente anime di bambini, e che originariamente
egli ha creato l’anima spirituale del primo uomo. Del resto il miracolo stesso
è un inizio assoluto che non contraddice in nulla la ragione. Su questo punto,
cfr. il padre DESCOQS S.J., Autour de la crise du transformisme, 2ª ed.
1944, p. 85. Infine, come sottolinea lo stesso padre DESCOQS, ibid., p.
2 e 7, i teologi devono ormai smetterla di parlare tanto di evoluzionismo e di
trasformismo, adesso che anche i più grandi esperti, come per esempio il padre
Lemoine, professore al Museum, scrivono: “L’evoluzione è una sorta di dogma a
cui i suoi sacerdoti non credono più, ma che mantengono in piedi per il loro
gregge. Bisogna avere il coraggio di dirlo affinché gli uomini della prossima
generazione orientino le loro ricerche in un altro modo”. Cfr. Conclusion
del t. V della Encyclopédie Française (1937). Anche il Dr. H. Rouvière,
professore alla Facoltà di Medicina di Parigi, membro della Académie de
Médecine, scrive in Anatomie philosophique. La finalité dans l’Évolution,
p. 37: “Si è verificato un vero tracollo nella dottrina trasformista... La
maggioranza dei biologi si sono allontanati da essa perché i difensori del
trasformismo non hanno mai apportato la benché minima prova in appoggio alla
loro teoria e perché tutto ciò che si sa a proposito dell’evoluzione parla contro di essa”.
l “Nessuna proposizione
astratta può essere tenuta come immutabilmente vera”.
m “Anche dopo aver
concepito la fede, l’uomo non deve
riposare sui dogmi della religione e
aderire ad essi fissamente e
immobilmente, ma deve rimanere sempre ansioso di progredire verso un’ulteriore verità, con l’evolvere verso
nuovi significati, persino correggendo quel che crede”.
n “La quale conversione [del pane e del
vino] la
Chiesa definisce con molta esattezza transustanziazione”.
[12] Ci vien detto allo stesso punto: “Nella prospettiva
scolastica il concetto di cosa-segno si è smarrita. In un universo di
prospettiva agostiniana, in cui un oggetto materiale non è solo sé stesso, ma
anche un segno delle realtà spirituali, si può concepire come una cosa, che è
per volontà di Dio il segno di un’altra cosa, sia potuta diventare essa stessa un’altra
senza che la sua apparenza sia cambiata”. In realtà, nella prospettiva della Scolastica il concetto di
cosa-segno non si è
mai smarrito.
San Tommaso afferma, Iª, q. 1, a. 10: “Auctor S. Scripturae est Deus, in cuius
potestate est, ut non solum voces ad significandum accomodet (quod etiam homo
facere potest) sed etiam res ipsas [l’Autore della S. Scrittura è Dio, che ha il potere
di conferire significato non solo alla voce – come l’uomo – ma anche alle cose
stesse]”. Così,
Isacco che sta per essere immolato è la figura del Cristo e la manna è una
figura dell’Eucarestia. San Tommaso lo fa notare parlando di questo sacramento.
Ma attraverso la consacrazione eucaristica il pane non diviene solamente il
segno del Corpo di Cristo, e il vino solo il segno del Suo Sangue, come hanno
pensato i sacramentaristi protestanti, cfr. D.T.C. art. Sacramentario
(controversie, su); ma, come è stato
definito formalmente al Concilio di Trento, la sostanza del pane viene convertita
in quella del Corpo di Cristo, che è reso presente per modum substantiae
sotto le sembianze del pane. E non si tratta semplicemente qui del modo in cui
i teologi dell’epoca del Concilio concepivano la consacrazione: si tratta bensì
della verità immutabile definita dalla Chiesa.
o “La conversione di
tutta la sostanza del vino nel Sangue, mentre rimangono solo le apparenze del
pane e del vino”.
[13] San Tommaso aveva nettamente distinto tre tipi
di presenza di Dio: 1. La presenza generale di Dio in tutte le creature, che
Egli conserva in esistenza (Iª, q. 8, a. 1); 2. La presenza speciale di Dio nei
giusti per mezzo della grazia: Egli si trova in loro come in un tempio in
qualità di oggetto quasi sperimentalmente conoscibile (Iª, q. 43, a. 3); 3. La
presenza del Verbo nell’umanità di Gesù per mezzo dell’unione ipostatica. E
allora è certo che dopo l’Incarnazione Dio è stato più presente nella terra di
Giudea che altrove. Ma se si ritiene che San Tommaso non abbia nemmeno saputo
porre questi problemi, ci si lancia in ogni avventura possibile, e si giunge al
modernismo con la disinvoltura che si può osservare in queste pagine.
p Vedi nota e.
q Vedi nota f.
r Vedi
nota c.
s Vedi
nota d.
[14] Autori come Téder et Papus, nella loro esposizione della dottrina
martinista, insegnano un panteismo mistico e un neo-gnosticismo secondo il
quale tutti gli esseri scaturiscono da Dio per emanazione (vi è così una
caduta, un male cosmico, un peccato originale sui generis), tutti
aspirano a reintegrarsi nella divinità e tutti vi riusciranno. È
lo stesso concetto del Cristo moderno, della Sua pienezza di luce
astrale che si trova in molte opere occultiste recenti, in un senso che non
è più affatto quello della Chiesa e che ne è anzi la contraffazione blasfema,
poiché si tratta sempre della negazione panteistica del vero sovrannaturale, e
a volte persino della negazione della distinzione tra il bene morale e il male
morale, lasciando sussistere solamente quella tra il bene dilettevole o utile e
il male cosmico o fisico, che, con la reintegrazione di tutti senza
eccezioni, sparirà.
t Vedi
nota i.
[15] Ammettiamo senza dubbio che la vera esperienza mistica – che
nell’uomo giusto proviene dai doni
dello Spirito Santo, soprattutto da quello della saggezza – conferma
la fede, perché essa ci mostra che i misteri rivelati corrispondono alle
nostre aspirazioni più profonde e ne suscitano di più elevate. Vi è in questo,
lo riconosciamo, una verità di vita, una conformità dello spirito con la
vita dell’uomo di buona volontà, e una pace che è il segno della
verità. Ma quest’esperienza mistica suppone la fede infusa e l’atto di
fede suppone esso stesso l’evidente credibilità dei misteri rivelati. Allo
stesso tempo, come afferma il Concilio Vaticano, possiamo avere la certezza
dell’esistenza di Dio autore della natura tramite la luce naturale della
ragione. Ma per questo è necessario che i princìpi di queste prove, in
particolare quello di causalità, siano veri per conformitatem ad ens
extramentale, e che siano certi di una certezza oggettivamente
sufficiente (anteriore alla libera scelta dell’uomo di buona volontà) e non
solamente di una certezza soggettivamente sufficiente come quella della
prova kantiana dell’esistenza di Dio. Infine, la verità pratica della
prudenza per conformitatem ad intentionem rectam suppone che la nostra
intenzione sia veramente retta in rapporto al fine ultimo dell’uomo, e
il giudizio sul fine dell’uomo deve essere vero secundum mentis
conformitatem ad realitatem extramentalem. Cfr. Ia IIae , q. 19, a. 3, ad 2.
[16] Aristotele, La Fisica,
tr. it. note e introduz. di A. Russo, Laterza, Bari, 1968, p. 36, 194b, 25).
[17] Hermann Weyl, Was ist
Materie? Zwei Aufsätze
zur Naturphilosophie (1924), ora in ID., Mathematische Analyse des
Raumproblems, rist. anast. Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 1977,
pp. 1-88 della seconda sezione del libro; pp. 1-18, per la teoria della materia
come sostanza.
[18] Ernst Cassirer, Determinismo
e indeterminismo nella fisica moderna
(1937), tr. it. di G. A. De Toni,
present. di G. Preti, La Nuova Italia, Firenze, 1970, p. 193.
[19] Carlo Rovelli, Sette
brevi lezioni di fisica, Adelphi, Milano, 2014, p. 41.
[20] Werner Heisenberg, Fisica
e oltre, Mondadori, Milano, 2010, pp. 157-413; p. 200; pp. 204-205.
[21] Per tutti questi esempi,
dal fotone alla carica elettrica, alla collisione tra le particelle: Steven Weinberg, The First Three Minutes.
A Modern View of the Origin of the Universe, updated edit., 1993, Basic
Books, New York, pp. 53-54; p. 89; p. 93.
[22] Philippe Levillain, La
mécanique politique de Vatican II. La
majorité et l’unanimité dans un concile, con prefaz. di R. Rémond,
Beauchesne, Paris, 1975, p. 77.
[23] Per chi volesse approfondire sulle gravi responsabilità di Papa
Roncalli circa l’andamento anomalo del Concilio, mi sia consentito rinviare
a: Paolo Pasqualucci, Il Concilio
parallelo. L’inizio anomalo del Vaticano
II, Fede & Cultura, Verona, 2014, pp. 123. Il “Concilio parallelo” è quello che Roncalli,
nella decisiva fase iniziale, è riuscito ad imporre al Concilio preparato dalla
Curia, per soddisfare le esigenze di “aggiornamento” della fazione
neomodernista, da lui evidentemente condivise.
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