La storia e le idee

PAOLO PASQUALUCCI

INTRODUZIONE

      

ALLA METAFISICA DELL'UNO

 

prefazione di Antimo Negri

 

 

Antonio Pellicani Editore

 


 

La storia e le idee

2

Collana diretta da Antimo Negri


 

 

 

PAOLO PASQUALUCCI

INTRODUZIONE ALLA METAFISICA DELL'UNO

Prefazione di Antimo Negri

Antonio Pellicani Editore


 

© Copyright 1996 by Paolo Pasqualucci

© Copyright 1996 by Antonio Pellicani Editore

00199 Roma, via Piediluco 1/a

Tel. 06/8845595 Fax 06/8559626


 

 

INDICE GENERALE

Prefazione di Antimo Negri

Pag.

7

I.                  Metafisica del tutto

1. Il tutto è indi viso e quindi è l'uno

Pag.

17

2. Il tutto non può accrescersi in quanto tutto

Pag.

20

3. Il tutto, in quanto uno, è infinito.

Pag.

24

4. Natura contraddittoria del tutto

Pag.

26

5. La definizione dell'uno

Pag.

35

6. La definizione dell'uno si applica solo a Dio

Pag.

40

7. Dire che l'uno è Dio non significa affermare che Dio è unico

Pag.

44

II. Metafisica della parte

8. Il tutto come semplice somma di parti

Pag.

52

9. Definizione della parte: il problema

Pag.

63

10. La parte e l'ente

Pag.

74

11. La definizione della parte non è unitaria

Pag.

89

12. Quali sono le parti del tutto

Pag.

92

13. Il tutto come Sostanza

Pag.

97

III. Analitica delle parti in nuce

14. Spazio, corpo, simultaneità

Pag.

119

15. Il pensiero

Pag.

138

 



PREFAZIONE

 

Sono felice di ospitare questo libro di Paolo Pasqualucci nella collana "La storia e le idee" da me diretta per Antonio Pellicani Editore in Roma. Né la mia felicità vien meno per il fatto che io non possa condividere fino in fondo l'assunzione perentoria dell'autore che l'unica "visione del mondo teoreticamente sana" sia quella "metafisica". Mi spiego subito. In una stagione speculativa che si dice "postmoderna" ed anche "post-metafisica", nella quale l' ''essere'' si tende spregiudicatamente a vedere in un suo rapporto indissolubile con il "tempo" (dico la cosa nel ricordo del celebre ed emblematico Sein und Zeit di Heidegger), ed il "lavoro filosofico" si divide, come ogni lavoro, nell'intricata mappa delle filosofie della specificazione (dalla filosofia della storia a quella dell'arte, poniamo, e dalla filosofia del diritto a quella del linguaggio), questo libro è destinato, proprio in quanto assume a tema la "metafisica dell'uno" che "si riferisce esclusivamente all'Essere perfettissimo di Dio", a tingersi dei colori dell’"inattualità". Ma si sa che, quella dell'"inattualità", è la grande, affascinante, provocatoria categoria di un Nietzsche tutt'altro che disponibile a bruciare conformisticamente incenso sull'altare del "dio del tempo".

E mi chiedo, intanto, se questa decisa e coraggiosa opzione teoretica di Pasqualucci non esprima, nel suo essere "inattuale", il bisogno, non spento in un'epoca di trionfo di quelle che l'autore dice «false filosofie», di restituire il pensiero alla considerazione, impervia ma insopprimibile, degli "invidiosi veri" relativi, appunto, all'uno, all'Essere e a Dio.

Conosco Pasqualucci da molti anni. Confrère et collégue accademico, ordinario di Filosofia del diritto, egli ha avuto modo di mostrare le sue doti di studioso eccellente di Hobbes, Rousseau e Kant. Ma la sua grande dimestichezza con i testi classici (Parmenide, Eraclito, Platone, Aristotele ecc.), cristiani (Agostino, Tommaso ecc.),


moderni (Cartesio, Bruno, Spinoza, Leibniz, Hegel, Schelling ecc.), nonché il contatto autottico con il pensiero scientifico dei protagonisti della fisica teorica (Einstein, Schrödinger ecc.), ne hanno messo in moto il cervello fino a fargli sentire ben presto stretto lo stivaletto della ricerca specialistica, pur condotta con perizia filologica, con misura critico-storiografica e con finezza d'analisi. La sua vocazione irrinunciabile si è rivelata quella del teoreta e del metafisico, poco tenero verso l'escursione culturalistica ed inindulgente ad un discorso filosofico che non fosse rigorosamente logico, benché, talvolta anche piuttosto visceralmente polemico nei confronti di mode speculative a tendenza imma­nentistica o nichilistica.

Non che, avviando il discorso sull'uno, in quanto "si riferisce esclusivamente all'Essere perfettissimo di Dio", Pasqualucci si sradichi del tutto dal terreno della riflessione del filosofo del diritto che egli, per dir così, professionalmente è. Ed una delle sue prime argomentazioni è questa: «dal punto di vista della definizione rigorosa dell'uno, va detto che nella concezione del popolo, della società, del potere sovrano e del genere umano come l'uno, sono presenti (dal punto di vista teoretico) tutte le difficoltà e le aporie fin qui messe in rilievo» (p. 39). Quali difficoltà, quali aporie? Quelle che si registrano non appena "l'uno" si fa coincidere con un "tutto" costituito, nel tempo e nello spazio, di "parti", senza le quali non potrebbe esserci, allo stesso modo in cui queste stesse non potrebbero esserci, se non ci fosse il "tutto". L’"uno" che ha bisogno delle "parti" per essere non è un autentico "uno".         L'''uno'' autentico, non bisognoso di parti, indivisibile come l’essere parmenideo", solo questo è effettivamente pensabile e, se è pensabile, lo è unicamente come Essere, come Dio. L’"uno", l'Essere, Dio è concepibile solo indipendentemente dalle parti, la somma delle quali può costituire solo un "tutto", assolutamente non confondibile con 1' "uno".

È, questo, uno dei nodi più complessi dell'argomentazione metafisica di Pasqualucci. Le ragioni di fondo di quest'argomentazione? Senza mezzi termini, Pasqualucci: «Se il tutto in sé e per sé non può esser concepito come l'uno, bisogna allora ammettere, per logica conseguenza, che il concetto dell'uno non potrà determinarsi in relazione a quello del tutto. L'antica identificazione del


tutto con l'uno, vessillo di ogni forma di immanentismo e panteismo, non si può accettare a causa della ambivalenza del tutto, che permette di ricomprenderlo solo in parte nel concetto dell'uno. Ma il tutto non può essere l'uno solo a metà: o lo è o non lo è. Ne consegue che l'uno dovrebbe definirsi solo in relazione a se stesso, senza tentare di identificarlo con il tutto» (p. 35).

Ma che significa, poi, più propriamente, questa insistenza sulla non identificabilità dell' "uno" e del "tutto"? Una volta riferito l’ "uno" in maniera esclusiva all'Essere perfettissimo che è Dio, ed una volta, come è possibile, configurato il "tutto" come universo spazio-temporale, il significato dell'insistenza accennata può configurarsi come quella che esclude decisamente ogni panteistica o immanentistica riduzione di Dio alla realtà spazio-temporale: come l’ "uno" ' è sempre al di là del "tutto", così Dio è sempre al di là della realtà spaziale (fisica) e della realtà temporale (storia).

La cifra metafisica e/o metastorica è quella di un "uno" trascendente il "tutto" o di un Dio trascendente il mondo fisico e storico. Mantenuta ferma l'identità dell’"uno" e di Dio, si finisce col trovare caratterizzata da "ambiguità" anche l'affermazione plotiniana (Enn. VI, 9, 6), secondo la quale «l'uno è più di Dio». Ma non è ciò che più importa, forse, nella riflessione metafisica di Pasqualucci. È vero, infatti, che, una volta esclusa l'identità di "uno" e "tutto" o di "Dio" e "mondo", naturale e/o storico che sia, scatta la possibilità di confinare l’"uno" o "Dio" nell’"in sé". Si fa strada l'idea dell’"uno" o di Dio come Substantia. L’"uno" altro dal "tutto", Dio altro dalla natura e dalla storia. Certo, salta in aria qualsiasi possibilità di appellarsi alla spinoziana divisa, quella più criticamente attaccata, in quanto formula atea e materialistica, Deus sive natura, ed anche la divisa, più o meno hegelianamente esprimibile, come Deus sive res gestae. Il "totalitarismo" materialistico/naturalistico e storicistico si palesa come l'obiettivo polemico di fondo di un pensiero metafisico e metastorico che, necessariamente, poi intoppa nell’"in sé" dell'" uno", dell’"essere", di Dio.

Lo stesso che l'''essere'', quest’"uno" o questo Dio, allora? Ma Pasqualucci deve fronteggiare le obiezioni hegeliane, significativamente rivolte già all' ''essere parmenideo": è vero "essere" quest’"uno" in sé, questo Dio in sé, che non conosce la "pazienza del divenire"?

 

Pasqualucci ben conosce queste obiezioni. Per Hegel, l' ''essere in sé", l' ''essere'' che non ha il fremito del "divenire", è l' ''essere indeterminato", fatto coincidere con il "nulla". Ma Pasqualucci ritiene che, qui, ci si trova solo di fronte all' «escamotage speculativo di trasformare la differenza in negazione e la contrapposizione in contraddizione» (p. 80). E la "negazione", si intende, investe, secondo Pasqualucci l' ''uno'', l' ''essere'', "Dio", rispetto al quale il "tutto", il "divenire", il mondo non costituisce "contraddizione", ma solo "contrapposizione".

Pure, dalla "contrapposizione" dei termini bisogna uscire, perché non ci si trovi unicamente di fronte ad un "uno", un "essere", un Dio "in sé". Se l’"uno",l’ ''essere'', Dio rimanesse "in sé", non si spiegherebbe il "tutto", il "divenire", il mondo. Dal punto di vista metafisico, antimaterialistico, antistoricistico, antipanteistico, antimmanentistico, Pasqualucci ha perfettamente ragione di escludere ogni identità o identificazione dei termini. Ma è vero, poi, che, se vuole spiegare il "tutto", il "divenire", il mondo, non può che ricorrere all'idea di un "Dio creatore", che rimane sempre in una situazione di alterità rispetto alla "creazione". E chi non ricorre a questa idea? È a questa domanda che inchioda, da ultimo, con il suo sottile "locizzare", il metafisico Pasqualucci. Inchioda anche me, si capisce, appartenente alla cerchia di quelli che pur sanno che «non possiamo dimostrare nulla, empiricamente parlando» e che «possiamo solo credere» (p. 139).

Né Pasqualucci si limita a sferrare il suo attacco critico all'immanentismo di tipo materialistico. C'è, sì, anche un immanentismo idealistico, gnoseologistico, in forza del quale si pretende che «la conoscenza altro non è che la proiezione delle categorie mentali del soggetto nei confronti dell'oggetto». Oppone Pasqualucci: « Se la conoscenza fosse solo questo, non arricchirebbe mai il soggetto ( ... ) si avrebbe un pensiero senza un vero e proprio oggetto cui applicarsi» (p. 142-3). Pasqualucci opta, coerentemente, per un «realismo che nega il primato del pensiero sull'essere» (p. 147). E, non c'è dubbio, anche questo realismo è schiettamente antimmanentistico: l' ''essere'' trascende sempre il pensiero, come l' ''uno'' trascende sempre il "tutto", l' ''essere'' sempre il "divenire", Dio sempre il mondo. E, nell'occasione, all'autore viene in mente anche Parmenide, la cui affermazione «il pieno infatti è pensiero» (fr. 16), una volta fatto coincidere il "pieno" con l' ''essere'', dà luogo, proprio in seno all'idealismo, ad una lettura immanentistica, in forza della quale "essere" e pensiero si identificano.

Questo libro di Pasqualucci è, sì, da ultimo, una sorta di "specchio di vera penitenza" teoretico vuoi del materialista che dell'idealista che aboliscono o abolirebbero l'orizzonte della trascendenza. E non è che di questo orizzonte non finisca con l'avere un po' di nostalgia chi, non accontentandosi della pensabilità dell’"essere", dell’"uno", di Dio, lo divide in parti come se fosse lo stesso "divenire", lo stesso "tutto", lo stesso mondo, assunto come oggetto non di pensiero, ma di conoscenza. Questa nostalgia non tace neppure nella nostra "post-modernità" o "post-metafisicità" speculativa. Ed il merito maggiore di questo libro è di riaccenderla anche in chi è più lontano da quella che Pasqualucci ritiene sia l'unica «visione del mondo teoreticamente sana». Per lo meno, esso suggerisce questa domanda: ma perché, oggi, siamo teoreticamente "malati"? Perché abbiamo perso contatto con l’"uno", perché "obliamo" l'''essere''? perché abbiamo fatto "morire" Dio? E qualche risposta forte a queste domande dal libro di Pasqualucci vien data. Conviene ascoltarla.

ANTIMO NEGRI

Convento di San Francesco, Lugnano in Teverina, marzo 1996


                       


 

 

 

γ  καὶ   πατρ 

ἕν σμεν (Ioan., 10,30)


 

I. Metafisica del tutto

Il tutto è indiviso e quindi è l'uno

Il tutto non può accrescersi in quanto tutto

Il tutto, in quanto uno, è infinito

Natura contraddittoria del tutto

La definizione dell'uno

La definizione dell'uno si applica solo a Dio

Dire che l'uno è Dio non significa affermare che Dio è unico


 

METAFISICA DEL TUTTO

1. Il tutto è indiviso e quindi è l'uno

a. Dall'esperienza deduciamo che la realtà è il tutto composto di parti, anche se non riusciamo a determinare quante siano le parti né quali siano con esattezza. Infatti, non possiamo sapere quante siano numericamente tutte le parti del tutto, dalla più grande alla più piccola, né quali siano, in relazione alla loro natura di parte, se cioè anche realtà indeterminate dal punto di vista della quantità (come lo spazio, il tempo, il pensiero) facciano parte del tutto (vedi infra, § 9). Non ci riusciamo, dal punto di vista del giudizio fondato sull'esperienza. Inoltre, non riusciamo a stabilire dove inizi e dove finisca il tutto o se abbia un inizio ed una fine. Non esiste quindi per noi né una prima né un'ultima parte del tutto, né una parte intermedia: e il tutto non ha infatti per noi una forma determinata, in quanto tutto. Il tutto ci appare allora indeterminabile.

Se non possiamo dare una forma al tutto - il suo aver forma risulta per noi sempre dalla forma delle parti - il tutto ci appare però determinato di contro al divenire delle sue parti. Le parti sono e non sono (nascono e periscono) mentre il tutto si mantiene. Esso mostra il carattere determinato dell'essere di contro all'indeterminatezza del non-essere. La parte che si toglie dal tutto, svanendo dalla realtà sensibile, cade infatti nel non-essere rispetto al tutto, e questo non-essere è l'indeterminato in sé, quindi l'indeterminabile per eccellenza, perché impossibile ad ogni forma e contenuto. Il divenire delle parti non è quindi per noi ipso facto un divenire del tutto, che sembra invece contrapporsi a questo stesso divenire, come ciò che è e resta, immutabile ed eterno.

Per tal motivo, concetto tradizionale della metafisica è che il tutto sia l'uno perché, nonostante risulti di parti, non può esser diviso, nello spazio e nel tempo. Infatti, se fosse diviso nello spazio, il tutto e la grandezza da cui è diviso, non occuperebbero lo stesso spazio (sarebbero in due luoghi diversi) e vi sarebbe uno spazio non occupato dal tutto, che allora non sarebbe più tale. Inoltre, il tutto e la grandezza da cui è diviso, sarebbero contemporanea­mente: allora il tutto esisterebbe accanto ad una grandezza minore o maggiore od uguale e sarebbe parte, uguale o maggiore o minore, del tutto formato da esso stesso e dalla grandezza dalla quale è diviso. Ma ciò è assurdo perché il tutto non può essere parte del tutto.

Se il tutto fosse diviso nel tempo, bisognerebbe ammettere una realtà anteriore al tutto, che era quando il tutto non era. Allora il tutto risulterebbe da ciò che gli è anteriore ed avrebbe avuto un'origine da qualcosa che non è il tutto perché è ciò che da esso è diviso, venendo prima nel tempo. Ma anche questo è un assurdo, se il tutto costituisce il tutto, vale a dire se è tutta la realtà, la realtà con tutte le sue parti e in tutta la sua estensione e durata, nello spazio e nel tempo. Se fosse diviso nel tempo, bisognerebbe ammettere per il tutto un prima e un dopo e quindi un tempo in cui il tutto stesso non era.

Non ci sono allora nel tutto un prima e un dopo, che siano il prima e il dopo del tutto in quanto tale. Il tutto è perciò eterno ed increato come l'esse­re, secondo l'immanentistica intuizione metafisica originaria dell' essere: "inizio l'illimitato ... secondo necessità", a cui tutte le cose ritornano "secondo l'ordine del tempo"1. Nel suo essere sempre uguale a se stesso, nel suo non invecchiare mai rispetto alle parti, il tutto è come l'àpeiron, l'illimitato ed indeterminato da cui ogni cosa proviene ed a cui ogni cosa ritorna, secondo un ordine immutabile stabilito nel tempo, che è l'ordine stesso dell'essere. Come l'essere, il tutto è quindi "uno, continuo"2 perché la sua persistenza nel divenire delle parti che lo costituiscono, ci si mostra come durata sempiterna di ciò che è e sempre sarà, senza soluzione di continuità.

b. La realtà non può come tale essere divisa. Secondo la constatazione più antica, l'essere è infatti l'indivisibile perché "tutto intero è uguale"3 in quanto "tutto intero è pieno di essere"4. Togliendo via le parti non giungiamo infatti al nulla, alla annihilatio del tutto in quanto tale, ma sempre a nuove parti da togliere o a quelle che non si possono togliere (lo spazio e il tempo) onde l'essere si mantiene per noi come il tutto sempre uguale a se stesso e sempre pieno e presente a se stesso. (E la stessa annihilatio mundi è pensabile solo come distruzione di ciò che è nello spazio e nel tempo ma non di questi ultimi in quanto tali). Diciamo perciò di dividere ciò che è nel tutto ma non il tutto in sé per sé, poiché la durata e l'estensione non sono divise in

 

1 ANAXIM., B, 3 (tr. it. Pasquinelli, ne I Presocratici. Frammenti e testimonianze, I (unico uscito), Torino, 1958, p. 44).

2 PARM., fr. 8,6: "ν, συνεχές " (ed. Reale-Ruggiu, Milano, 1991, p. 99).

3 Op. cit.,fr. 8,22: " ἐπεὶ πν έστιν μοον" (ed. cit., p. 103).

4 Op. cit.,fr. 8,24: " πν δμπλεόν έστιν ‘εόντος" (ivi., p. 103).

 

se stesse né reciprocamente ma solo divisibili all'infinito. Ma ciò che è divisibile senza per questo separarsi, dividersi effettivamente (dividendo lo spazio abbiamo sempre lo spazio e dividendo il tempo sempre il tempo, né possiamo separare l'uno dall'altro), rimane ciò che è, senza mutarsi mai nel suo opposto, nel non-essere del tempo e dello spazio. Se il tutto non viene mai ad esser separato e diviso in se stesso (pur essendo divisibile), costituisce allora un' unità: l'indiviso non può che essere unitario in se stesso. Il tutto è dunque sempre l'essere perché dividendolo mediante misurazione e separazione delle sue parti non solo non lo si separa dalle sue parti ma si procede all'infinito senza mai giungere al nulla.

Se poi si vuole affermare che il tutto, se è tale perché indiviso, sarebbe dato solo dalla durata e dall'estensione (dal tempo e dallo spazio) poiché solo questi non possono effettivamente dividersi, si viene a negare che il corpo o ente che dir si voglia, poiché è effettivamente divisibile, faccia parte del tutto. Infatti, se la realtà nella sua completezza è l'indiviso, come potrà farne parte ciò che viene effettivamente diviso? Ma ciò è come dire che le parti del tutto costituite dalla materia non possono essere ricomprese nel tutto, che quindi non sarebbe tale, mancandogli la materia. Affermare che il tutto è l'uno perché indiviso costringerebbe allora a negare il tutto stesso come rappresentazione coerente della realtà perché costringerebbe ad escludervi ciò che si divide, il quale tuttavia continua ad essere: e se continua ad essere non può non far parte del tutto.

L'unità del tutto, dipendendo dalla sua indivisione, implicherebbe la continuità e la contiguità del tutto a se stesso. Ma l'esistenza delle parti come enti determinati, tra loro separati nello spazio e nel tempo, dimostrerebbe che nel tutto c'è anche la discontinuità. Allora, o il tutto non è uno (perché è discontinuo) oppure la rappresentazione del tutto non è (di nuovo) coerente, dovendosi ammettere in esso contemporaneamente la continuità e la discontinuità. Ci si chiede quindi se l'affermazione che il tutto sia l' indiviso (e quindi l'uno) non sia contraria all'esperienza, nel senso che tale affermazione deve necessariamente prescindere dall' esistenza (empiricamente provata) della parte, che è nel tutto proprio in quanto è effettivamente distinta dalle altre parti e quindi separabile da esse e dal tutto stesso.

Tuttavia, se noi paragoniamo il rapporto tra la parte e il tutto a quello fra il pieno e il vuoto troviamo un elemento comune, dato dall' estensione. Infatti, il corpo nello spazio e lo spazio occupato da esso non sono altro che la medesima estensione5.  Perciò, la discontinuità del pieno nel vuoto  (del corpo nello spazio e quindi delle parti nel tutto) nulla toglie alla continuità

5 CART., Princ. Phil., pars II, § X ss.

dell'estensione in quanto tale, che è sempre identica a se stessa sia nel pieno che nel vuoto e misura allo stesso modo il corpo e lo spazio da esso occupato, come se fossero l'idem et identicum. Il tutto è quindi indiviso perché l'estensione che lo costituisce unifica sia il pieno che il vuoto, il discontinuo nel continuo, senza negare l'esperienza (su ciò infra, § 10f e § 13c).

Se il tutto è l'uno, lo è quindi grazie alla indivisione che lo caratterizza, anche se in tal modo non sappiamo ancora cosa sia l'uno in sé. Si potrebbe infatti credere che stabilendo l'unità del tutto ci si impossessi anche del significato autentico dell'uno. Ma l'impossibilità di dividere il tutto e la conseguente unità del tutto con se stesso sono qualità del tutto. Possiamo dire che esse rendano il tutto partecipe della natura dell'uno? Rispondendo di sì, ricaveremmo la natura dell'uno da quella del tutto, come se l'unità con se stesso di ciò che ha parti costituisse in pari tempo il concetto stesso dell'uno. Ma il concetto di quell'unità non esprime l'uno in sé bensì solamente il tutto, in quanto sia concepibile come uno, ossia in quanto possa costituire un'unità nonostante le sue parti. L'uno in sé dovrà invece comprendersi nel concetto di qualcosa che è in se stesso indiviso, a prescindere dal fatto che il tutto possa essere come tale indiviso. Non può valere il principio di analogia, se cerchiamo di definire queste realtà nella loro natura. L'indivisibilità dell'uno in quanto tale non può infatti esser la stessa del tutto, altrimenti si negherebbe la possibilità stessa di pensare l'uno in sé e per sé, come concetto di una realtà completamente indipendente dal tutto. E ciò è tanto più vero se si pone mente al fatto che l'unità del tutto risulta da una sorta di coincidenza degli opposti nella quale l'unità stessa appare in effetti provvisoria (vedi infra, § 4).

2. Il tutto non può accrescersi in quanto tutto

Se il tutto è l'indiviso, non può nemmeno accrescersi, in quanto tutto6. Infatti, se aumentasse in estensione, espandendosi come tutto, verrebbe ad occupare uno spazio in cui esso stesso (il tutto) non era. Ma ciò significherebbe che il tutto non era il tutto, se accanto ad esso esisteva uno spazio da esso non occupato, che non era parte del tutto (e nel quale il tutto ora si espande). Del resto, se si crede che il tutto si espande, bisogna ammettere l'esistenza (contemporanea a quella del tutto) di uno spazio vuoto in cui il tutto possa espandersi, poiché l'accrescersi e l'espandersi risultano da movimenti che per

 

6 MELIS., B, 7 (ed. Pasquinelli, cit., p. 291; MELISSO, Testimonianze e frammenti, ed. Reale, Firenze, 1970, pp. 384-5).

 

aver luogo hanno bisogno di uno spazio, sia quest'ultimo interamente vuoto od occupato da materia meno densa e quindi penetrabile da ciò che si espande. Naturalmente, i movimenti che hanno luogo nelle parti degli enti (cioè all'interno dei corpi) non necessitano di uno spazio vuoto, dal momento che possono prodursi per alterazione e mescolanza all'interno del corpo, nel pieno della materia che già esiste. La natura ci mostra, infatti, che "è possibile che il pieno muti"7, vale a dire che si alteri restando com'è e dov'è: pieno e nel medesimo luogo. I mutamenti che hanno luogo nei corpi derivano quindi da movimenti interni, che non necessitano del vuoto, anche semplicemente di un vuoto interno. Non è quindi vero, come sostenevano alcuni, che il movimento in generale implichi sempre l'esistenza del vuoto, dato che per natura "il pieno è incapace di ricevere checchessia", perché non può essere penetrato o percorso8. Tuttavia, se il soggetto del moto, il mobile, non è un ente determinato nel tutto ma il tutto stesso in quanto tale (identificato dai Fisici con l'universo), si dovrà ammettere che questo movimento, se consiste in un accrescimento ed un'espansione, può aver luogo solo se c'è uno spazio vuoto al di fuori del tutto, dato che il tutto non può esser concepito come parte di qualcosa, allo stesso modo dell'organo di un corpo o della sezione di una superficie. Se poi si vuole concepire ogni moto non come traslazione di un corpo nello spazio, secondo traiettorie che subiscono l'attrazione e la repulsione di forze che agiscono nello spazio, ma unicamente come l'accrescersi anisotropo della densità di un'onda di energia, si dovrà pur sempre ammettere che ciò che si accresce, quale che sia la sua dimensione, durata ed intensità, non è lo spazio ma qualcosa che è nello spazio, cioè la materia-energia.

La densità e l'estensione della materia non sono infatti la stessa cosa, per cui i mutamenti della prima non possono considerarsi per ciò stesso mutamenti dell'estensione in quanto tale. La modifica dell'estensione di ciò che si muove, ossia il suo mutamento di luogo, non è infatti il moto ma sua conseguenza: in termini euclidei, una modifica che ha luogo nell'estensione e non una modifica dell'estensione. Questa maniera di concepire il moto, tipica dei Fisici, non distingue tra moto in un corpo (moto interno) e moto nello spazio, come se tutto il movimento degli enti nell'universo non fosse altro che un movimento interno. Essa vìola il senso comune, che non può esser sempre impunemente disatteso, perché è come se si affermasse per esempio che la crescita del lievito è in pari tempo una crescita dello spazio occupato dal lievito, spazio che invece né cresce né diminuisce. Se lo spazio è la stessa

 

 

7ARIST., Phys., 214 a (ARIST., Fisica, tr. it. A. Russo, Bari, 1968, p. 97).

8 Op. cit., 213 b (tr. it. cit., p. 94).

cosa di ciò che cresce in esso, ritirandosi il lievito (rientrata la crescita) dovrebbe ritirarsi anche lo spazio da esso precedentemente occupato, il che è assurdo. Quando ciò che si muove si mescola o si decompone dovrebbe allora produrre la mescolanza o la decomposizione dello spazio in cui si è mosso, visto che quest'ultimo si muove con esso, anzi è lo spazio questo stesso muoversi! E se neghiamo che si possa dire "lo spazio in cui si è mosso" perché bisogna invece dire sempre "lo spazio che si è mosso", non riusciamo più ad individuare chiaramente il soggetto che si muove, il mobile, qual esso sia.

Se il corpo in movimento è in realtà spazio in movimento, bisogna allora concluderne che il corpo in movimento crea il suo stesso spazio mentre si muove, per cui, una volta cessato il moto, verrebbe meno anche lo spazio creato (cioè percorso), per cui tra l'inizio e la fine del moto di un corpo ci sarebbe il nulla: infatti, annichilendosi lo spazio stesso man mano che viene percorso, cosa resterebbe alla fine se non il nulla? Ma anche questa conclusione, pur necessaria rispetto alle premesse, è del tutto assurda perché lo spazio, sia quello percorso che quello da percorrere, è una realtà fisica e quindi non può essere il nulla. Questa dottrina porterebbe quindi a negare la possibilità di ogni moto di contrazione, se l'espansione lo è dello spazio stesso e non di ciò che in esso si trovi, perché una volta che lo spazio in quanto tale si sia mosso, secondo logica non può esser rimasto nello stesso luogo di prima lo stesso spazio, come se non si fosse mosso; spazio che permette il ritorno cioè la contrazione di ciò che si era mosso. Dovrebbe esserci il nulla, cioè la annihilatio dello spazio evacuato, ma questa non ha luogo (altrimenti non ci sarebbe la contrazione), e allora lo spazio non è mai andato via, è rimasto sempre . Se è possibile l'avanti e indietro, il sopra e sotto, l'espansione e la contrazione, lo spazio deve esser rimasto sempre immobile (da vero ricettacolo degli enti) altrimenti nessun moto potrebbe ripetersi nel suo contrario.

Poiché dunque non possiamo ammettere che il tutto, nel suo supposto movimento, crei lo spazio in cui si espande, dobbiamo dire che lo spazio in cui tale espandersi avrebbe luogo deve concepirsi come contemporaneo al tutto, ossia che esiste contemporaneamente a questo tutto che deve ancora espandersi in esso. Ma se lo spazio in cui il tutto ancora non è, è contemporaneamente al tutto, allora il tutto è diviso nello spazio: ma se è diviso nello spazio non è il tutto (come si è detto nel § 1). Se il tutto è veramente tale, non può dunque esservi alcuna realtà esteriore che non sia ricompresa in esso, che non faccia parte del tutto. Ergo, il tutto non ha al di fuori di sé una realtà esteriore in cui possa espandersi come tutto e chi afferma che l'universo, in quanto coincida con il tutto, "è in espansione", attribuisce al tutto un movimento che può essere invece solo dei o di corpi celesti che si trovano nell'universo fisico; un movimento che - se ha luogo - non è del tutto ma nel tutto, senza far muovere il tutto in quanto tale al di fuori di sé. Dovremmo altrimenti accettare il principio appena criticato, secondo il quale lo spazio si muove e si accresce allo stesso modo di ciò che è nello spazio, come se lo spazio fosse un ente determinato, una cosa, annullando la distinzione tra lo spazio e ciò che è in esso, tra l'estensione priva di forma e l'ente o il corpo che con la sua forma determinata la occupa. Del resto, perché i Fisici dicono che il tutto "si espande"? Perché ritengono aumentino le distanze fra le sue parti, cioè fra gli enti che sono nel tutto, a causa del cosiddetto moto di remissione delle galassie, che sembrano allontanarsi da noi e fra loro a velocità fantastica. Ma questa fuga verso gli abissi del cosmo in nessun modo dimostra che sia il tutto stesso ad espandersi, dal momento che l'aumento della distanza tra gli enti è provocato dal loro stesso movimento, non dal movimento dello spazio che li separa. Né si può opporre la constatazione che gli enti in questione (le nebulose) non sono separati da uno spazio vuoto, dato che vi sarebbe per ogni dove materia intersiderale, cioè quella massa di gas che suggerisce l'idea dell'universo come una nube cosmica e non solo dell'universo ma addirittura dello spazio che l'universo occupa. La nube cosmica, comprensiva delle galassie, e degli spazi tra esse, non sarebbe tanto l'universo fisico (l'insieme di tutti i corpi celesti nello spazio) quanto invece lo spazio stesso. In realtà il moto di espansione di un gas abbisogna di un volume da occupare e quindi di uno spazio che non è la stessa cosa della nube di gas; e ciò allo stesso modo (su di un piano generale) di un corpo solido che penetri nel vuoto o in una massa di densità nettamente inferiore alla propria. Affermando che le galassie si distinguono dallo spazio intersiderale solo per una maggiore densità della loro materia non perché vi sia una contrapposizione effettiva di vuoto (lo spazio suddetto) a pieno (le galassie), non si fa altro che semplificare l'immagine dell'universo senza risolvere il problema. Infatti, se al posto di tante galassie separate dal vuoto abbiamo invece un'unica incommensurabile "bolla di gas" in espansione che comprende e rivolge tutte le galassie, bisognerà pure ammettere che questa bolla dovrà espandersi in uno spazio capace di accoglierne il movimento: non potrà perciò essere, questa "bolla", lo spazio stesso che si espande. Se poi l'universo si dilata in tutte le direzioni, come una gigantesca bolla di gas, come fa ad apparire ad ogni possibile osservatore posto sulle altre galassie, simile a come lo vediamo noi dalla nostra? Questo postulato esprime il noto principio cosmologico di Einstein, che sembra avere un senso solo sul presupposto che il caos si debba sostituire all'ordine, nella visione dell'immagine dell'universo, perché solo delle circonvoluzioni informi di una mostruosa "bolla" cosmica di gas (che sarebbe lo spazio) si può dire che debbano apparire sostanzialmente identiche da qualsiasi punto di osservazione (Su ciò, infra, § 14 a).

 

3. Il tutto, in quanto uno, è infinito

Sulla base dei ragionamenti ora visti, molti pensano poi che il tutto deve essere infinito perché, se fosse finito, sarebbe parte di qualcosa e non sarebbe più il tutto. Il concetto dell' infinito e quello della parte si escludono a vicenda, dal momento che tutto ciò che è parte di qualcosa è necessariamente finito. Infatti, se è parte, vuoi dire che ha un inizio e una fine in un punto ed in un momento determinati, risulti ciò da divisione o accrescimento, vale a dire sottraendo da una quantità anteriore o aggiungendosi ad essa. L'impossibilità di dividere e di aumentare il tutto significa quindi impossibilità di determinare il suo inizio e la sua fine, che appaiono addirittura inconcepibili, e questo è proprio dell'infinito9 Chi ritiene che il tutto sia l'uno, perché indiviso ed immutabile, deve quindi considerare il tutto infinito.

 

a. Se l'affermazione del carattere finito dell'accrescersi sembra poi ad alcuni meno dimostrabile del carattere finito della divisione (perché l'accrescersi non ha per noi un termine ad quem) va tuttavia considerato che ciò che si aggiunge a qualcosa è sempre parte del tutto cui si aggiunge e non è mai il tutto in quanto tale, altrimenti si dovrebbe dire che sarebbe possibile aggiungere il tutto al tutto o un nuovo universo all'universo che già è, il che è assurdo. Perciò, se il tutto potesse espandersi, il suo accrescimento sarebbe dato (come si è detto al § 2) da una quantità finita e il tutto finirebbe dove e quando essa finisse. Se il tutto è infinito, lo è dunque proprio perché non può dividersi e non può espandersi, perché nell'un caso e nell'altro il tutto verrebbe alla fine a far parte del tutto, il che è inammissibile.

Se però alcuni ritengono che il carattere infinito del tutto debba intendersi nel senso che il tutto è nello stesso tempo infinitamente grande ed infinitamente piccolo, sì da rendere impossibile la determinazione di una sua origine e di una sua fine, non potremmo allora avere un'idea dell'infinito che ammetta la divisione e l'accrescimento10? Infatti, ciò che è infinitamente grande è la grandezza al di là della quale ne è concepibile una sempre maggiore, mentre l'infinitamente piccolo è la grandezza al di qua della quale se ne dà sempre una minore. Ora, l'idea dell'infinitamente grande sembra potersi applicare allo spazio in quanto pura estensione, in quanto grandezza priva di quantità; l'idea dell'infinitamente piccolo, alla materia-energia in quanto sia nello spazio, abbia cioè un luogo e quindi una quantità determinata.

 

 

9Ivi, 204 b: "ᾄπειρον δὲ τὸ ἀπεράντωνs διεστηκόs" (tr. it. cit., p. 67: "ciò che è esteso senza limite").

10 Ivi, 206 b; tr. it. cit., p. 73.

Ma l'infinitamente piccolo non rappresenta una contrazione e diminuzione dell'infinitamente grande poiché in esso non si mostra la divisione dello spazio ma di ciò che è in esso. Allora il tutto resterebbe indiviso, rimanendo indiviso lo spazio nel quale la materia-energia si divide in quantità infinitesimali e rimanendo indiviso il tempo, poiché il tempo dell'infinitamente grande e dell'infinitamente piccolo è necessariamente il medesimo (sono infatti contemporaneamente, senza potersi in alcun modo succedere).

b. Concepire il tutto ad un tempo infinitamente grande ed infinitamente piccolo, significa in realtà affermare che il tutto è misurabile secondo quantità che possono essere tanto piccole e tanto grandi per quanto è possibile alle capacità di calcolo della mente. E questa possibilità si estende all'infinito, perché se ne dà sempre un'altra dopo ogni misurazione, ma secondo quantità che sono finite (una misurazione con una quantità infinita non è infatti una misurazione). Il che dimostra che non è possibile giungere alla fine e all'inizio del tutto, e il tutto sarebbe per l'appunto infinito, però secondo il concetto tradizionale dell'infinito: ciò che non ha né inizio né fine perché "al di fuori di esso si dà sempre qualcosa"11. Del resto la divisione all'infinito del tutto non ne dimostra come tale la natura infinita, perché non solo ogni grandezza ma anche ogni quantità è divisibile all'infinito, anche il punto più piccolo, che è certamente finito. La divisibilità all'infinito non dimostra dunque come tale la natura infinita della grandezza cui si applica ma solo la possibilità che essa venga misurata in parti sempre più piccole, senza che si possa giungere mai ad una parte così piccola da rappresentare l'ultima quantità prima del nulla.

Ciò che è allo stesso tempo infinitamente piccolo non per questo dunque si divide e si espande, perché qui il più piccolo e il più grande non sono due grandezze cui corrispondano due quantità diverse ma due modi di misurare un'unica grandezza, in sé indivisa ed immutabile, poiché in nessun punto è più piccola o più grande che in qualsiasi altro punto, né sembra poterlo diventare in relazione alla sua durata. E ciò, si ritiene, è proprio dell' uno. Del resto, come capacità di far percepire la grandezza reale, il rapporto fra l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo è fallace e indefinito: infatti, noi non possiamo dire, dal nostro punto di vista empirico, se l'universo nel quale ci troviamo sia come tale infinitamente grande o infinitamente piccolo, e quindi (il che è lo stesso) se il tutto sia finito o infinito12.

 

 

11 Ivi, 207 a; tr. it. cit., p. 74.

12 "Un espace infini, égal au fini" (PASCAL, Oeuvres complètes, ed. Chevalier, Paris, 1954, p. 1226).

Naturalmente, vale qui del pari quanto detto al § l di questo lavoro e cioè che l'unità è qui concepibile solo se si annulla la differenza tra il pieno e il vuoto (la quantità e la grandezza) in una visione puramente geometrica dell'estensione.

 

 

4. Natura contraddittoria del tutto

 

a. I caratteri dell'infinitamente grande e dell'infinitamente piccolo, se riferiti al tutto in sé e per sé, non dimostrano quindi né che il tutto sia infinito né che sia finito. Non è infatti la divisibilità all'infinito del tutto ma il suo esser indiviso a farlo ritenere infinito, dato che questo esser indiviso risulta per noi dal mantenersi inalterato del tutto nel continuo accrescersi e dividersi delle sue parti, nel continuo nascere e perire di ciò che pur lo costituisce. Se il tutto è l'uno, bisogna allora ammettere che il tutto è uno nonostante le parti che lo costituiscono. Infatti, se è l'unità indivisa di tutto ciò che è, ed è quindi l'uno, non può esserlo grazie alle parti, poiché queste ultime, nel loro essere e nel loro divenire mostrano il continuo dividersi e riunirsi del molteplice. Le parti sono e non sono mentre il tutto, invece, non cessa mai di essere.

Esse nascono e periscono secondo un ordine immutabile che è per l'appunto l'ordine del tutto e non delle parti in quanto tali, che appaiono invece sottoposte a quest'ordine e alle sue leggi. Il molteplice rispetto al tutto non può quindi esser concepito che come parte poiché il molteplice è la semplice esteriorità reciproca di ciò che è determinato e finito, l'esteriorità del numero o dell'uno empirico, che non dà ragione della realtà come un tutto ma unicamente come somma o divisione di parti. Il molteplice è la totalità di ciò che è diviso, in quanto effettivamente diviso, nell'estensione e nella durata, nella quale l'ordine e il disordine coesistono.

b. Il tutto esprime per noi l'idea dell'ordine universale, grazie al quale il molteplice costituisce un'unità retta da leggi immutabili; il molteplice all'opposto l'idea di una coniunctio accidentale di enti in cui l'ordine è confrontato dal disordine, il più dal meno, l'armonia dalla disarmonia, la vita dalla morte. Il concetto del tutto come uno implica quindi quello di un'antitesi fra il tutto e il molteplice, dal momento che l'unità dell'uno non può essere quella della semplice coesistenza degli enti che chiamiamo molteplicità, perché in essa hanno vigore sia la legge dell'ordine che quella del disordine. La molteplicità è il regno degli opposti e dei contrari, senza conciliazione, che non sia temporanea e apparente. Ma l'antitesi ripugna alla mente, che vorrebbe poter stabilire nell'universalità del concetto quell'armonia e quell'ordine che l'esperienza ci fa intuire solo parzialmente

 

nella realtà (l'esperienza ci spinge infatti in due direzioni opposte, quella dell'ordine e quella del disordine). Ma il rigore del ragionamento non può sottrarsi all'antitesi ed anzi può imporci di condurla sino all'aporia vera e propria. Infatti, perché si è costretti ad ammettere che il tutto, se è l'uno, è nonostante le parti? perché, se è indiviso nello spazio e nel tempo ed infinito, non può essere la stessa cosa del molteplice, le cui parti sono finite, nello spazio e nel tempo: sono sempre ciò che è stato diviso e che, dopo essersi temporaneamente unito, tornerà a dividersi. Se il tutto è infinito come può risultare di parti in sé finite? e se esprime l'ordine, come può contenere il disordine?

Il tutto è quindi qualcos' altro rispetto alla molteplicità delle sue parti, dalle quali però non può prescindere, altrimenti non sarebbe. Qui l'antitesi travalica per l'appunto nell'insanabile aporia, sì da far apparire il concetto del tutto come intrinsecamente contraddittorio. Dobbiamo infatti ammettere che, se le parti non sono il tutto, sono però nel tutto. Esse non possono essere concepite come una realtà esterna al tutto, che invece costituiscono perché senza le sue parti il tutto non sarebbe. Infatti, di cosa sarebbe composto, da che cosa sarebbe costituito, se non avesse parti? Inoltre, non esiste uno spazio delle parti e uno del tutto: il tutto e le parti sono contemporaneamente nello stesso spazio, mentre sono, cioè sempre ed il tempo che le misura è il medesimo (se lo spazio è il medesimo, come può non esserlo anche il tempo?). Tra il tutto e le parti vi è dunque una reciproca interiorità (che è più dell'esser contiguo) occupando essi sempre il medesimo luogo, quando luogo vi è che sia stato occupato. Non possono essere esteriori l'uno alle altre più di quanto possano esserlo le parti della realtà alla realtà stessa. Quando le parti cessano di esser parti del tutto, scompaiono dal tutto: non sono più nel tutto solo a condizione di non esser più in quanto parti.

Se le parti sono dunque nel tutto possiamo dire che esse non facciano sì che il tutto sia ciò che è? Naturalmente, non in relazione all' origine del tutto ma alla sua durata e all'estensione, che sono quelle di un'unità di parti sempre rinnovantesi. La contraddittorietà con cui si presenta alla mente il concetto del tutto risulta dunque dal fatto che si è costretti ad ammettere che il tutto è contemporaneamente condizione dell'esserci delle parti (è loro "anteriore per natura") e da esse condizionato quanto al suo stesso essere13. Ciò è come dire che il tutto è contemporaneamente l'uno e il molteplice, i quali si escludono a vicenda, secondo il loro concetto, poiché rappresentano il finito e l'infinito. Ma ciò è come dire che il tutto, se è nello stesso tempo l'uno e il molteplice, è e non è, poiché è nello stesso tempo in modo opposto.

 

 

13 ARIST., Pol., 1253 a (ARIST., Politica, tr. il. R. Laurenti, Bari, 1966, p. 9).

L'aporia cui il pensiero giunge nel determinare il concetto del tutto è dunque la seguente: che la proposizione "il tutto è grazie alle sue parti" è vera, per il concetto del tutto, allo stesso modo di quella ad essa opposta: "il tutto è nonostante le sue parti". Come ha detto Hegel: "Ma il tutto è per l'appunto questo, di essere opposto a se stesso: da un lato come tutto è semplicemente lo stesso delle parti, e dall'altro lato le parti sono lo stesso che il tutto, in quanto nel loro insieme sono esse a costituirlo"14.

In ogni caso, quale che sia l'esatta determinazione della natura del tutto, è evidente che quest'ultima non può esser concepita secondo il concetto dell'uno. Infatti, si è concepito il tutto come l'uno proprio per coglierne l'essere immutabile ed infinito al di là del divenire delle parti, mostrando di intendere l'uno come il concetto di quella realtà che in sé non dipende in alcun modo dall'esistenza di parti e dai loro reciproci rapporti. Se l'uno è il tutto in quanto immutabile nel divenire delle parti, non può essere anche il tutto delle parti che mutano: se l'uno indica il tutto nell'immutabilità del suo essere non può indicarlo contemporaneamente anche nel mutare delle sue parti. Allora il tutto, in quanto sia l'essere immutabile, è l'uno; in quanto il divenire delle sue parti, non è l'uno. L'essere immutabile e il divenire sono contemporaneamente, per cui, se l'essere immutabile è l'uno, dovrebbe essere contemporaneamente il suo contrario, il che è assurdo. Possiamo quindi dire: grazie alle parti il tutto è, ma, grazie alle parti, non è l'uno.

 

c. Ma i Panteisti e gli Immanentisti affermano che l'uno risulta necessariamente dalla dialettica di essere e divenire perché solo grazie ad essa le parti si compenetrano nel tutto. La coincidenza dei contrari e degli opposti, invece di negare l'uno ne rappresenterebbe perciò l'essere stesso, "atteso che l'ordine della natura apporta che l'uno contrario sussista, viva et si nutrisca per l'altro mentre l'uno viene affetto, alterato, vinto et si converte nell'altro"15. Perciò "li contrarii sono ne li contrarii" e "ogni cosa è di ogni cosa"  senza che si alteri l'ordine del cosmo  "immenso et infinito"  nonché

 

 

 

 

14 HEGEL, Lezioni sulla storia della filosofia, II, Dai Sofisti agli Scettici, ed. Michelet, tr. it. E. Codignola e G. Sanna, Firenze, 1932,3" rist. 1973, p. 546. Sull'aporia intrinseca alla determinazione del rapporto fra il tutto come "intiero" e le "parti", cfr. ARIST., Phys., 185 b: "se la parte e l'intero siano uno o più e in che modo uno o più; e se più, in che modo ... "(tr. il., cit., p. 6) nonché PLATONE, Parm., 145 B-E (tr. it. M. Migliori in PLATONE, Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Milano, 19923, pp. 395-6).

15 BRUNO, De l'infinito universo et mondi, a cura di D. W. Singer in DOROTHEA W. SINGER, Giordano Bruno, tr. it. L. Scalero, Milano, 1957, pp. 247-472; p. 390.

 

"eterno" e "uno"16; ordine che anzi riposa sull'universale ed infinita compenetrazione e mescolanza dei contrari: della materia e della forma, degli elementi, della vita e della morte. In questa prospettiva, la morte dell'esistente viene negata in quanto dissolversi nel nulla di una parte determinata del tutto: si deve infatti dire che ciò che si dissolve con la morte è solo la forma degli enti, mai la loro materia, immutabile ed identica a se stessa in quanto sostanza universale. La materia, sostanza che si mantiene con immutata "potenza" nel corso del divenire, è infatti concepita essa stessa come "potenza" che si riproduce dal proprio interno, senza mai subire diminuzioni nell'alternarsi delle sue forme. Essa è allora "principio" e "fondamento" del tutto in quanto uno17

Con la morte si ha dunque un dissolversi della forma cioè dell'ente (l'individuo determinato) i cui elementi ritornano al tutto della materia dal quale hanno preso un giorno forma. La negazione della morte come fatto sostanziale, capace di incidere in maniera effettiva sulla composizione del tutto, è necessaria per poter affermare che il tutto è uno, nonostante le antitesi rappresentate dal continuo alternarsi dei contrari. Il perno di questa filosofia è dato dal diverso modo di concepire la materia, rispetto alla tradizione metafisica che risale alle limpide rappresentazioni di Aristotele. Per quest'ultimo, come è noto, la materia non è ciò che fa le forme ma ciò di cui le forme sono fatte. Essa è del tutto passiva: non produce le forme ma è ciò mediante cui esse sono prodotte. Il pensiero moderno l'ha invece concepita come un principio attivo, rovesciando del tutto la nozione aristotelica. In conseguenza di ciò, ha scisso il rapporto tra materia e forma dall'idea di scopo, rendendo quest'ultima di fatto incomprensibile. Infatti, esso ammette (quando lo ammette) un intelletto o anima mundi o logos che plasma la materia secondo una forma; tuttavia, questo "agente" è interno alla materia stessa, non la crea dal nulla, non la trascende per nessun motivo e alla fin fine non se ne distingue affatto. Il fine del principio attivo è allora solamente quello di far sì che la materia si realizzi in forme determinate: esso non realizza le forme per uno scopo ma ha come unico scopo quello di realizzarsi in forme, già contenute in potenza nella materia. E ciò costituisce un paradigma per l'agire causale in generale: "ogni agente che opra secondo

 

 

16 Op. cit., pp. 391-2; 395-7; nonché De la causa, principio et uno, ed. Aquilecchia, Torino, 1973, p. 142 SS.

17 De la causa, principio et uno, p. 108 SS. nonché JACOBI, Ueber die Lehre des Spinoza in Briefen an den Herrn Moses Mendelssohn, in ID., La dottrina di Spinoza. Lettere al signor Moses Mendelssohn, tr. it. F. Capra, Bari, 19692, p. 170 ss. (dove si ha il III paragrafo della Appendice I dell'opera, che contiene Della Causa, del Principio e dell'Uno, Estratto da Giordano Bruno di Nola).

 

la regola intellettuale, non procura effettuare, se non secondo qualche intenzione, e questa non è senza apprensione di qualche cosa, e questa non è altro che la forma de la cosa che è da prodursi"18.

Se si nega che il soggetto agente si determini per un fine, trascendente rispetto alla sua volontà e all'oggetto immediato della sua azione, si dovrà per forza di cose affermare che "la forma de la cosa" (e non il fine per la quale è prodotta) è unicamente ciò che muove "l'intenzione" ad agire. Ciò appare però del tutto arbitrario. Nessun essere razionale si determina ad agire in questo modo, cioè senza possedere un vero scopo, dal momento che la produzione di un oggetto o l'azione in quanto tale, un comportamento, non sono mai fine a se stessi ma per un fine. Ragionando secondo le categorie aristoteliche, è come se si dicesse che l'artefice della coppa, nel farla, non ha mai un fine diverso da quello rappresentato da questo fare stesso. Invece esiste sempre un fine determinato, che è la molla segreta dell'azione: per diletto, per guadagno, per l'arte, per la religione, per la Patria, per la famiglia, per la donna amata, per odio, per vendetta, per paura... Nella visione immanentistica della realtà, l'azione è dunque fine a se stessa, ha se stessa a proprio oggetto, così come il volere vuole se stesso e il pensiero pensa se stesso. E questa indistinzione vale sia per l'uomo che per la natura. Nella natura non vi è allora uno scopo che ne giustifichi l'essere e le leggi, ed il rapporto di materia e forma è fine a se stesso, cioè privo di un vero significato: la natura non è vista, infatti, che come materia riproducentesi all'infinito nelle sue forme, senza altro fine che non sia quello di questo stesso riprodursi. La natura diventa così qualcosa di cieco, essa è niente altro che l'oscura vitalità della materia, fine a se stessa; immedesimandosi in essa, il pensiero sprofonda nell'intuizione di un uno che è in realtà nient'altro che il caos cosmico dell'organico e dell'inorganico. Così il pensiero regredisce dall'intelletto capace di distinguere ad una intuizione visionaria della materia come Uno-Tutto infinito, in cui si annulla la differenza tra la parte e il tutto, la causa e l'effetto, il principio e la materia, la materia e la forma. La realtà stessa diventa qualcosa di indeterminato, un disordine di forme, una notte in cui si esaltano gli "eroici furori" della coscienza che crede di aver conquistato in queste tenebre una libertà infinita.

Di fronte a ciò, il senso comune, convinto che dal "furore" non possa nascere una buona filosofia, per quanto geniale essa possa essere, si sente legittimato a mantenere il proprio punto di vista, speculativamente rappresentato dalla tradizione aristotelico-tomistica, giusta la quale l'unità dei contrari è un'unità apparente o comunque temporanea e quindi una mera coesistenza.  Più che un'unione, essa sembra essere una divisione che di

 

18 BRUNO, De la causa, principio et uno, cit., p. 70.

continuo si rinnova, in modo da far apparire una privazione o una perdita, una diminuzione del tutto e non invece una trasformazione che lasci immutata la quantità precedente (e quindi il tutto). La sostituzione di una parte con un'altra del tutto - di un individuo vivente con un altro, uomo, animale, pianta - non sembra affatto un ritorno di ciò che è stato tolto dal tutto ma una nuova produzione, la quale non può risultare dalla materia e dalle forme scomparse (visto che non ci sono più) ma solo da ciò che mantiene la materia e la forma nella reciproca e temporanea compenetrazione rappresentata da ogni vivente determinato.

 

E diciamo "ciò che mantiene" e non " il mantenersi" della materia e della forma perché non possiamo dare per dimostrato ciò che deve ancora esserlo: e cioè che la forma (l'individuo determinato, l'ente) altro non sia che il risultato di un processo impersonale, uno sviluppo organico ad un tempo determinato ed indeterminato, grazie al quale la materia si mantiene in eterno emanandosi, per così dire, nelle molteplici e caduche ma sempre rinnovantesi forme della realtà. Ma ne è possibile una dimostrazione? vogliamo dire: una dimostrazione che non sia un semplice atto di fede da visionari? Se la materia, identificata con il tutto e quindi con la natura, contiene in se stessa il principio attivo o causa che la fa essere ciò che è, se è quindi essa stessa causa sui; se "la natura non è il semplice prodotto di un'incomprensibile creazione ma è essa stessa questa creazione"; se "non è tanto l'apparenza e la rivelazione dell'eterno quanto proprio quest'eterno in sé e per Sé"19; questo principio in quanto intrinseco o immanente, non può separarsi dal vivente, nemmeno per un solo istante e un solo punto: esso deve essere in tutta la materia, per tutta la sua durata ed estensione. Come potremmo, infatti, situarlo in un luogo invece che in un altro, in un punto invece che in un'ellissi o in un grumo invece che in una galassia? E come potremmo dire che nel tempo esso è e non è, dato che nello stesso tempo si hanno la vita e la morte?

Se la materia pone da se stessa il suo esser il vivente, il suo esser una materia in cui è la vita (la nascita, la crescita, il movimento, il prender forma); se dunque pone se stessa come sostanza infinita che si riproduce all'infinito, non possono esserci delle parti o dei momenti della materia - nella durata ed estensione della sostanza che è la materia - nei quali questa vita non ci sia; una durata ed un'estensione in cui la materia abbia cessato di essere, in cui ci sia privazione o annihilatio materiae. Altrimenti si dovrebbe

 

 

19 SCHELLING, Ueber das Verhältniss des Realen und Idealen in der Natur, in SCHELLING, Ausgewählte Werke (Schriften von 1794-1798), rist. anast. dell'ed. Cotta del 1856, Darrnstadt, 1967, pp. 413-32; 413-5, 432.

 

dire che il principio attivo, interiore alla materia, l'anima mundi o logos che dir si voglia, ha cessato di essere, per quelle parti e quei tratti di tempo. Ma se il principio è in modo discontinuo nella materia (perché con la morte esso è radicalmente negato sì da interrompere la continuità spazio-temporale della materia e quindi del tutto), allora non può esser concepito come principio immanente alla materia stessa. Se la materia è sostanza che è causa sui perché è increata e produce le sue forme dal proprio interno, allora non può avere soluzioni di continuità, altrimenti saremmo costretti ad ammettere che la causa sui lo è contemporaneamente anche della sua negazione, rappresentata dalla discontinuità cioè dalla morte, da quell'evento in cui la materia viene distrutta e scompare. Ciò che per noi (per gli Immanentisti) si è posto ab aeterno come causa sui, onde tutto il vivente è causa sui, non può poi porsi nello stesso tempo come negazione (con la morte) di quella causa sui che lo fa esser ciò che è. Se la causa sui è ab aeterno, allora contiene ab aeterno la propria negazione (nella morte) e quindi ab aeterno avrebbe dovuto non essere, dato che ab aeterno è stata confrontata dalla propria negazione, dal suo stesso non-essere.

Né si può dire che la distruzione e il dissolvimento della materia di cui è composto l'individuo concreto rappresentino un semplice ricadere della materia nell'inestensione (τὸ ἂμέγεϑεs ὕληѕ) senza che il suo essere venga meno, una sorta di condizione latente caratterizzata dal μὴ εἶναι e non dallo ούκ εἶναι; cioè secondo la reinterpretazione schellinghiana, dall'esser quel "non esistente in cui c'è ancora la possibilità di essere esistente", quel non - essere che conserva ancora la possibilità di essere, di contro all' inesistente in senso assoluto (ούκ ὄν), il nulla vero e proprio, il quale non ha la possibilità di essere e quindi non potrà mai essere20. Questa caduta nell'inesteso non può esserci perché la materia che si è dissolta con la morte non ritorna nell'organico, nel vivente. Con la morte, da un punto di vista fisico, ciò che era non è nascosto nell' inesteso ma è diventato completamente inesistente: i miseri resti mortali, animali, vegetali si dissolvono nel vero e proprio nulla della polvere, dell'aria, dell'acqua o del processo di digestione universale.

 

 

20 SCHELLING, Darstellung des philosophischen Empirismus, in ID., Lezioni monachesi sulla storia della filosofia moderna ed esposizione dell'empirismo filosofico, tr. it. G. Durante, Firenze, 1950, pp. 241-311, pp. 306-7. (Cfr. PLOT., Enn. II,4, 11 ss.; ed. Faggin, Reale, Radice, Milano, 19922, p. 245 ss.; Enn. III, 6,7, tr. it. cit., p. 447). Sulla vacuità di questa distinzione: S. THOMAE, Summa Theol., Ia, q. 4,5, a. 1: "Idem autem est nihil quod nullum ens. Sicut igitur generatio hominis est ex non ente quod est non homo, ita creatio, quae est emanatio totius esse, est ex non ente quod est nihil".

 

 

d. Se fosse vero che la materia si trasforma, mantenendosi però eternamente immutata, allora, in una sorta di "eterno ritorno dell'uguale", dovremmo poter riavere il legno o la carne dalle ceneri in cui entrambi sono stati ridotti dal fuoco: quel legno e quella carne (altrimenti, che senso ha parlare di un ritorno dell'uguale, se si tratta di una semplice metafora?). Ma quell'albero e quell'animale, in quanto enti, se ne sono andati in fumo e cenere, e la loro trasformazione negli elementi è in realtà una perdita definitiva perché essi non torneranno mai più ad esser gli stessi enti, composti di quella stessa materia. L'individuo scomparso non ritorna affatto ma viene sostituito da un altro, così come si riempie un vuoto, e quest'ultimo non risulta composto della medesima materia che se ne è andata agli elementi con la morte del primo, non risulta esser ciò che è, per trasformazione della materia di un individuo precedente. lo non sono la materia di mio padre e di mia madre o dei loro genitori o di alcuni tra quelli che sono morti prima di me: sono composto di una materia del tutto nuova, che è solo mia, e che si è sviluppata da un seme che conteneva già la mia forma: io, quest'individuo concreto, sono costituito di una carne completamente nuova rispetto a quella che non c'è più! Dov'è qui la trasformazione della materia? La nascita avviene mediante un processo di sviluppo dalla fecondazione di un seme, per crescita, e non per trasformazione di un'identica quantità precedente. Non dobbiamo allora dire che io sono, esisto in conseguenza dell'azione di un principio attivo che si serve della materia per dar vita alla forma voluta? E questo principio, come può operare senza dar luogo a quella che chiamiamo creazione? In questo caso non dal nulla ma da quei semi che la Causa Prima, cioè Dio, ha posto nella materia, affinché essi, sviluppando le proprietà loro conferite in potenza, costituiscano la materia nelle sue forme, secondo l'ordine stabilito per un fine voluto da Dio stesso.

Per gli Immanentisti, il ritorno del nostro corpo agli elementi, a causa della morte, non può essere dunque inteso come il "polvere sei, polvere ritornerai" pronunciato da Dio onnipotente nei confronti dell'uomo, per ricordargli che Egli lo ha tratto dal nulla, che dall'inesistente, per volontà divina, è venuto l'uomo. Essi sono convinti che con la morte ognuno di noi ritorni nel tutto, acquistando l'eternità nelle supposte trasformazioni infinite della materia e sostengono che nell'accettazione di questo fatto la coscienza individuale dovrebbe vincere la paura della morte, fino al punto di sentirsi addirittura pervasa da una sorta di entusiasmo per l'abisso ed il labirinto che un giorno l' inghiottiranno! Ma alle visioni tenebrose dei profeti e maghi dell' anima mundi già si può opporre il sano realismo dei Poeti, ossia la meditatio mortis del principe di Danimarca:

 

 

Imperious Caesar, dead and turn'd to clay,                                               Might stop a hole to keep the wind away21

 

Il mio corpo, ridotto a misera creta buona per tappare un buco nel muro, o svanito nel nulla in pallide ceneri, o inghiottito dai pesci, quale cospicuo contributo di materia offre alle generazioni sopravvenienti, affinché esse possano esser considerate una semplice trasformazione della materia preesistente? Nutrendo il pesce, avrò nutrito l'uomo che lo mangerà e in tal modo partecipando all'universale processo di digestione mi sarò acquistato l'eternità? Concepire l'uno come l'universo pieno ed infinito, il cui principio vitale non è altro che la materia increata ed infinita, la quale da se stessa si mantiene e si riproduce, trasformandosi immutata nel movimento dei contrari, perché "ente impartibile e fuor di qualsivoglia dimensione"22, significa in definitiva fare della resurrezione dei morti la regola del vivere quotidiano, e ciò è proprio di una visione magica del mondo. Invece la resurrezione è un miracolo: essa non mostra alcun ritorno ma una nuova creazione da parte di Dio. È l'onnipotenza di Dio che ci trae dal nulla della morte, dal nulla in cui la materia di cui siamo fatti cade con la morte23.

L'immanentismo è costretto a negare la realtà della morte, la sua presenza fisica, risolvendola in un momento logicamente necessario del processo vitale della materia, intesa come sostanza eterna ed increata; un momento che rappresenta il contrario o l'opposto, "l'opposizione" grazie alla quale ciò che è - il tutto, la natura - si mantiene come causa sui24. La morte, come evento fisico, non è dunque il dissolversi nel nulla di una parte determinata del tutto ma un ritorno al tutto, che sarebbe uno proprio grazie a questo ritorno, perché con esso si dimostrerebbe che le parti del tutto non vengono mai effettivamente meno ma si rinnovano in eterno grazie alla compenetrazione dei contrari, al loro reciproco trasformarsi l'uno nell'altro. Ma il ritorno della parte e dell'ente al tutto ossia l'affermazione che la morte è mera trasformazione di ciò che non muta (la sostanza universale) senza che nulla vada mai perduto, per cui la parte non viene affatto distrutta in quanto parte della sostanza universale; questo ritorno deve esser inteso come un fatto, anzi come il fatto per eccellenza, perché è quello che permette di concepire il tutto come l'uno. Ma questo fatto, che non può essere empiricamente provato, dovrebbe dimostrare l'eternità della materia mentre

 

 

21Hamlet, act IV, sc. I.

22BRUNO, De la causa, principio et uno, cit., p. 127, ad esposizione del concetto plotiniano della materia.

23Ezech., 37,1-10; I Cor., 15,52.

24 SCHELLING, Esposizione dell' empirismo fil., tr. it. cit., p. 275.

in realtà la presuppone come postulato o atto di fede: poiché la materia è eterna ed increata, allora la morte non può essere altro che un mantenersi della materia nel rinnovarsi delle sue forme. Di conseguenza, il fatto del ritorno al tutto mediante la morte, risulta esso stesso da un atto di fede, è in realtà un atto di fede omologo a quello nell'eternità della materia. Già per questo motivo, la concezione opposta, secondo la quale la materia sembra sempre la stessa, nell'equilibrio di un ordine universale, non perché ritorni e quindi resusciti dopo ogni morte ma perché viene di nuovo creata ogni giorno, in adempimento alle leggi che la Causa Prima ha posto nella natura, quando l'ha creata dal nulla; questa concezione conserva tutta la sua legittimità.

 

5. La definizione dell'uno

Se il tutto in sé e per sé non può esser concepito come l'uno, bisogna allora ammettere, per logica conseguenza, che il concetto dell'uno non potrà determinarsi in relazione a quello del tutto. L'antica identificazione del tutto con l'uno, vessillo di ogni forma di immanentismo e panteismo, non si può accettare a causa della natura ambivalente del tutto, che permette di ricomprenderlo solo in parte nel concetto dell'uno. Ma il tutto non può essere l'uno solo a metà: o lo è o non lo è. Ne consegue che l'uno dovrebbe definirsi solo in relazione a se stesso, senza tentare di identificarlo con il tutto.

Ma come definiremo l'uno? È possibile una sua definizione intrinseca? E possibile definire l'uno in sé? Una definizione dell'uno, che risulta per inferenza da quanto finora detto e nello stesso tempo si colloca nel solco della tradizione, è per noi la seguente: l'uno è ciò che non ha parti e non è parte, eppure è25. Se l'uno avesse parti, sarebbe come il tutto ed il suo concetto incorrerebbe nella medesima aporia. E l'uno non può nemmeno esser parte di qualcosa altrimenti sarebbe finito e non sarebbe più l'uno ma parte, uno del numero od empirico, forma del molteplice. Del tutto, possiamo dire che non è parte di nulla, altrimenti non sarebbe il tutto, mentre dobbiamo dire che consta necessariamente di parti, senza le quali non sarebbe. Si vede allora, di nuovo, come l'uno differisca dal tutto proprio in ordine alla necessità del risultare composto di parti, cosa che per l'uno deve esser negata per definizione. Ma tutto ciò che è, come può non esser parte di qualcosa? E quindi, se l'uno è, come può sfuggire all'esistenza delle parti? Non sembra infatti possibile che ciò che è sia tale da non constare di parti o da non esser parte di qualcosa.

 

 

25Per tradizione intendiamo gli elementi del concetto dell'uno, così come sono stati elaborati dalla metafisica occidentale, in special modo nel platonismo e nel neoplatonismo.

La definizione dell'uno, quale si ricava per esclusione da quella del tutto, sembra quindi rendere l'uno incomprensibile perché vuole attribuire il predicato dell'essere a ciò che, non avendo parti e non essendo parte di nulla, sembra non potersi trovare in nessun luogo. E senza l'estensione, come pos­siamo concepire l'essere? Ché tutto ciò che esiste è parte della materia o dello spazio in quanto tale.

 

a. Per sfuggire a questa difficoltà, si potrebbe allora ricondurre il con­cetto dell'uno a quello del tutto nel seguente modo: se l'uno non è il tutto, ep­pure è, allora è nel tutto, perché ciò che è, se non è il tutto, non può comun­que non essere nel tutto. Ciò che fa parte dell'essere, è parte del tutto, poiché l'essere non può essere al di fuori del tutto. Ma dire che, se l'uno è, è neces­sariamente nel tutto, altro non significa se non affermare una verità riferibile solo all'uno empirico, cioè alla parte: con uno empirico o uno del numero, definiamo infatti la parte, in quanto sia ente determinato, nello spazio e nel tempo. L'uno del numero è l'ente determinato, che è parte del tutto (cfr. § 9). Anche inteso come puro numero, l'uno è sempre la quantità di un tutto, perché l'esser-numero risulta dal potersi aggiungere o sottrarre, moltiplicare o dividere: dall'esser una quantità determinata, che concorre a formare un intero. Né si può ritenere che l'atomo sia l'uno per via della sua indivisibilità. Se si ritiene che esista una quantità ultima della materia, quella che non può ulteriormente dividersi, perché rappresenta il minimo in senso assoluto, siffatta quantità è pur sempre quella di una parte, di qualcosa che è nel tutto ed il cui movimento concorre a formare gli enti che sono nel tutto. Si può pensare di togliere all'atomo la qualità ma non può esser concepito come una grandezza priva di quantità. E questa quantità è necessariamente determinata, differenziata rispetto a quella degli altri atomi e del tutto. Non può perciò esser l'uno.

Affermare che l'uno, se è, è giocoforza nel tutto, non risolve perciò il nostro problema, che nasce dalla negazione (per manifesta contraddittorietà) della proposizione speculativa che identifica il tutto con l'uno. È evidente che siffatta identità non è dimostrata dall'asserzione che l'uno, se partecipa dell'essere, poiché l'essere non può separarsi dal tutto, deve concepirsi all'interno del tutto. In tal modo, ridurremmo infatti l'uno ad una parte del tutto, perché ciò che è nel tutto non può identificarsi con il tutto in quanto tale. Ma, come si è detto, l'uno non può esser parte di qualcosa, senza negarsi in quanto uno.

 

b. Si potrebbe poi sostenere, secondo un'opinione non meno tradizionale della precedente, che la definizione dell'uno in sé, separato dal tutto, è in realtà la definizione dello spazio, perché dello spazio in quanto tale, volendone cogliere il concetto, dobbiamo dire che non ha parti e non è parte di alcunché. Lo spazio in sé, la pura estensione o grandezza senza quantità, è infatti sempre uniforme ed uguale a se stesso, e non risulta né costituito né contenuto da qualcosa. Il concetto dell'uno si applicherebbe allora a quello dello spazio. Tuttavia, se è evidente che lo spazio in quanto tale non ha parti, che appaiono in esso come luoghi ad opera degli enti contenuti nello spazio - e se non fosse così, lo spazio non potrebbe contenere ogni possibile forma; meno evidente è affermare che lo spazio è parte del tutto. Ma va detto che, se non si può concepire il tutto al di là dello spazio, tuttavia lo spazio non è il tutto, perché in quest'ultimo vi sono (per limitarci alla realtà sensibile) anche la materia, l'energia e gli enti secondo la loro forma determinata.

Sono proprio queste realtà, assieme allo spazio, al tempo, al pensiero, a costituire il tutto: il solo spazio non è il tutto ma solo uno spazio vuoto. Di tutto ciò che ha un corpo non diciamo che è spazio ma che è nello spazio: il pieno e il vuoto concorrono a costituire il tutto in modo diverso anche se complementare, come parti ben differenziate. Quindi, se da un lato lo spazio coincide con il tutto, come pura estensione, dall' altro ne è parte, perché l'estensione ha natura diversa - è appunto lo spazio - da quella dei corpi che pur contiene e in sé e per sé ci dà un'immagine parziale del tutto, come spa­zio vuoto. Il non-esser parte di alcunché, sia pure nel modo che si è detto, non si può perciò considerare valido per la definizione dello spazio, che per questo aspetto non può coincidere con quella dell'uno. Va inoltre considerato che, se si dice che l'uno è in realtà lo spazio, dal momento che lo spazio è sui generis parte del tutto, si deve sostenere che l'uno è parte del tutto, il che è contraddittorio con la definizione dell'uno, sia in sé che in relazione a quella del tutto. E ciò che vale per lo spazio, vale qui, mutatis mutandis, anche per il tempo (vedi infra, § 10). Va poi ricordato che lo spazio è una realtà fisica (se non l'avesse, non l'avrebbe nemmeno il corpo che è in esso) mentre l'uno è al di là di questa realtà, se ha l'essere senza avere l'estensione.

 

c. Se la definizione dell'uno non può esser risolta in quella dello spazio, un'ulteriore obiezione alla sua validità, alla sua capacità di costituire la defi­nizione di una realtà effettivamente esistente ed indipendente, può venire da chi sostiene che ciò che non ha parti e non è parte, non è. Vale a dire: se ciò che non ha parti e non è parte, non è in nessun luogo, allora non è in assoluto, perché se ciò che non ha un luogo, non è nello spazio, come può far parte della realtà? e se non fa parte della realtà, come può partecipare dell'essere? Se non può partecipare dell'essere, allora non è.

La definizione dell'uno conterrebbe quindi l'indicazione di una realtà inesistente rispetto all'essere.

E ci si potrebbe anche chiedere se essa non mostri addirittura una definizione del nulla in assoluto: non del non-essere rispetto a ciò che già esiste ma del non-essere in assoluto. Se ciò fosse vero, la definizione dell'uno sarebbe allora del tutto assurda, perché invece di indicare ciò che esiste in maniera perfetta, indicherebbe invece il non-esistente in senso radicale, l'inesistente, il nulla. Senza discutere qui se l'idea del nulla sia legittima nella sua pensabilità (vedi infra, § 8a), ci limitiamo in questa sede alla seguente notazione: come si dimostra che ciò che non ha parti e non è parte, non è? La dimostrazione sarebbe implicita perché risulterebbe in modo autoevidente dalla proposizione stessa: dire che qualcosa che è, non ha parti e non è parte di nulla, significa in realtà affermare che non è: se fosse, avrebbe parti e sarebbe parte. Ma queste affermazioni si basano su di un postulato: che tutto ciò che è debba essere nello spazio, che l'estensione coincida con tutto l'essere, che insomma ciò che esiste sia solo la realtà sensibile, determinata in un luogo. Solo sulla base di questo postulato possiamo infatti dire che ciò che non ha un luogo, non è.

Se ciò fosse vero, dovremmo dire che questo stesso pensiero che concepisce lo spazio e il luogo, non dovrebbe essere, dal momento che, non avendo l'estensione, non dovrebbe avere l'essere. Tuttavia, il pensiero che pensa l'estensione, indubbiamente è, pur non occupando alcun luogo, dal momento che gli organi che mi permettono di pensare, non sono il pensiero. Senza il luogo concreto della mia testa non penso, però questo stesso pensiero non è determinabile secondo un luogo, non solo perché è invisibile ma anche perché non è concepibile secondo una forma, un limite. Tant'è che noi non concepiamo una prossimità spaziale per i pensieri ma solo una loro successione temporale: se i nostri pensieri hanno un luogo, l'hanno nel tempo ovvero non ce l'hanno perché il luogo appartiene allo spazio. Dunque essi hanno luogo, esistono, ma nella successione temporale e fanno parte del tutto, anche se sono inestesi. Non possiamo infatti concepire che il pensiero sia il tutto perché altrimenti dovrebbe avere l'estensione, ed estendersi sino a coincidere con il tutto. Quanto è grande o quanto è piccolo un nostro pensiero? Queste domande ci paiono prive di senso poiché dei nostri pensieri possiamo determinare solo la qualità (se sono giusti o errati, belli o brutti, e così via). E ogni riferimento quantitativo circa la brevità o la lunghezza del pensiero, concerne non lo spazio ma il tempo, la durata: un pensiero breve, fulmineo, prolungato, ripetuto. Ma tutto questo dimostra che non tutto ciò che è ha l'estensione, che vi è una parte dell'essere che non è estesa. Viene dunque meno il presupposto in base al quale affermare che ciò che non è parte e non ha parti, non può essere.

 

d. Ci si chiede allora se la definizione dell'uno non si applichi in realtà

al pensiero stesso, dato che il suo essere non coincide con quello della realtà sensibile.

Possiamo forse dividere il pensiero in parti? Anche il concetto di un pensiero singolo non è facilmente determinabile, stante la difficoltà di separare il pensiero dal pensare, il contenuto del pensiero dalla capacità di pensare, il pensiero pensato dal pensiero in atto. Il pensiero è dunque per noi qualcosa di indiviso. Tuttavia noi non possiamo pensare due cose contemporaneamente ma solo in successione, il che è come dire che il pensiero che si attua è una realtà discreta. Ma ciò significa che i nostri pensieri sono i momenti tra loro separati di una successione nella quale si trovano come la parte nel tutto. Dunque: se il pensiero non ha parti è però parte, nella successione temporale dei pensieri. Dovendo considerarsi parte, ancorché della sola realtà temporale, il pensiero non può allora rientrare nella definizione dell'uno.

 

e. Una trattazione a parte meriterebbe poi la tesi, in vari modi formulata dal pensiero moderno, secondo la quale l'uno sarebbe il mondo umano, con­siderato come il risultato di se stesso. Il popolo, la società o lo Stato, il potere sovrano sarebbero via via "l'uno-tutto"; oppure il genere umano, l'umanità costituirebbero quell'unità che è propria dell'uno. Dal punto di vista della definizione rigorosa dell'uno, va detto che nella concezione del popolo, della società, del potere sovrano o del genere umano come l'uno, sono presenti (dal punto di vista teoretico) tutte le difficoltà e le aporie messe fin qui in rilievo a proposito dell'identità di tutto e uno. Il popolo, la società, lo Stato, il potere sovrano, il genere umano, se appaiono costituire al loro interno un'unità, nello stesso tempo la negano, perché sono composti di parti e (tranne il genere umano considerato in astratto) fanno sempre parte di qualcosa. Senza gli uomini e i cittadini non esistono, ma questi uomini e cittadini sono gli stessi che distruggono l'unità del tutto cui appartengono, quando non è il tutto a distruggere loro stessi.

All'idea di un tutto puramente umano e terreno si è fin dall'inizio rivolto il pensiero moderno, concependo il tutto in generale come uno, secondo una prospettiva immanentistica, cioè come sintesi di pensiero ed estensione, una sintesi esistente ab aeterno, increata e perpetua (quella sintesi che Spinoza chiama "Deus sive natura"). L'unità così postulata si è venuta poi a dividere, come sappiamo, nei due opposti versanti del materialismo e dell'idealismo, i quali hanno creduto di poter fondare l'unità stessa dal loro proprio punto di vista. Ma l'esame di un simile, spurio concetto dell'uno, è subordinato alla dimostrazione della pensabilità effettiva dell'uno in sé, ovvero alla determinazione di quale realtà venga effettivamente implicata quando noi po­stuliamo l'esigenza speculativa dell'uno. Per meglio dire: per quale realtà è legittima la pensabilità stessa dell'uno?

 

 

6. La definizione dell'uno si applica solo a Dio

 

Nella definizione dell'uno si dà solo l'Uno, cioè Dio. Infatti, ciò che co­stituisce il contenuto specifico di questa definizione è l'affermazione che si ha l'essere, pur senza aversi l'estensione, l'estensione in senso assoluto, e quindi non solo di ciò che ha parti ma neanche di ciò che è parte. E quest'idea dell' essere senza l'estensione si può applicare all' idea che noi abbiamo della Divinità. Anzi, solo alla natura divina rettamente intesa conviene l'essere prima ancora degli attributi dell'essere, quali l'estensione e la materia-energia, se Dio non può concepirsi che come "l'essere perfettissimo", cioè come l'essere, ma in quanto sia privo di limiti ed imperfezioni, a cominciare dalla finitezza delle parti, delle forme, delle sostanze, degli enti, degli attributi. Dio può essere limitato da tutto questo o non ne è necessariamente al di là? Quindi, se Dio è l'essere nella pienezza della sua perfezione, si potrà ben dire che non solo non ha parti ma anche che non è parte di alcunché. Ora, l'essere di Dio, se è perfetto, e quindi indiviso e infinito, non può che concepirsi come anteriore all'estensione ossia alla realtà intesa nella sua deteminazione fondamentale e primigenia, che è quella dello spazio. Se, infatti, l'estensione è una realtà fisica, non può esser pensata che come successiva all'essere di Dio, poiché un Dio che non precedesse la realtà sarebbe la stessa cosa di quest'ultima, risolvendosi nel tutto composto di parti, nella natura e nel suo ordine-disordine, come ne fanno fede, tra gli altri, i panteismi di Bruno e Spinoza.

La res extensa non può perciò concepirsi come predicato necessario all'essere di Dio: necessario, perché senza di esso Dio non sarebbe pensabile. Infatti, si verrebbe in tal modo a negare la perfezione dell'essere divino, poiché si concepirebbe come necessaria alla sua pensabilità da parte nostra, l' imperfezione rappresentata dall' esistenza spazio-temporale, ossia dall' esistenza di ciò che, come tutto, appare dominato dalla contraddizione del contemporaneo essere e non-essere delle sue parti (e proprio per questo non può concepirsi come uno).

Se l'essere di Dio deve pensarsi come assolutamente primo rispetto all'universo, ciò non significa comunque separare Dio e mondo in modo da rendere impossibile il concetto di una libera creazione del mondo, di tutta la realtà da parte di Dio. La realtà è imperfetta poiché in essa nascita e morte di ciò che la compone si implicano a vicenda ovvero l'essere e il non-essere sono contemporaneamente, senza che la realtà dia in quanto tale ragione di tale contrapposto e contraddittorio permanere (onde essa ci appare nello stesso tempo finita e infinita). Inoltre, la realtà non dà ragione nemmeno di ciò che in essa appare del tutto privo di contraddizione, come lo spazio. Non possiamo dire, infatti, che lo spazio sia contraddittorio in se stesso, che vi domini l'antitesi che governa la molteplicità, dato che esso deve esser concepito come un'estensione sempre identica, in quanto estensione.

Però lo spazio è in sé una realtà fisica ed in cui non appare alcun principio intrinseco come forza creatrice o motrice. Come può allora dar ragione di se stesso ossia, per esprimerci in altri termini, essersi posto da se stesso? Può il vuoto creare qualcosa, compreso se stesso? Dunque, anche lo spazio è una parte del tutto che non è autosufficiente dal punto di vista del concetto, rimandando ad altro, a qualcosa che lo trascende.

Se quindi, a causa della separatezza della realtà da Dio e della sua imperfezione e mancanza di ragion d'essere, diciamo che essa non è stata creata da Lui, come se Dio non potesse di per sé colmare l'abisso tra il Suo essere e l'essere della realtà, le attribuiamo un' esistenza eterna: non potendo esser venuta dal nulla (perché "dal nulla nulla viene") e non essendo stata creata, se ne deve concludere che esiste da sempre. Così però attribuiamo alla res extensa il carattere dell'infinito e la comprendiamo nel concetto di una realtà perfetta: l'infinito è infatti proprio di ciò che è perfetto, come l'uno, in quanto essere che è senza le parti e senza essere parte. Ma come è possibile attribuire il carattere della perfezione a ciò che è in sé contraddittorio? o che non dà ragione di se stesso? E difatti, chi ha dichiarato "per realitatem et perfectionem idem intelligo"26, ha potuto farlo solo dopo aver identificato Dio con la natura, dopo aver attribuito alla sostanza divina la necessità intrinseca dell'attributo dell'esistenza del mondo, come se ciò che è causa sui potesse esser vincolato ad esistere da ciò che per definizione non può mai esser causa sui, da ciò che può esserne solo un effetto.

Se la definizione dell' uno in sé, che si ricava per esclusione da quella del tutto, sembra dunque incomprensibile perché, escludendo le parti dall'uno sembra escludere quest'ultimo dall'essere, essa risulta tuttavia chiara e distinta se applicata alla definizione di Dio, come essere perfettissimo, la cui esistenza non può come tale esser quella della realtà spazio-temporale. Perciò, quando noi pensiamo il tutto come uno, pensiamo qualcosa di indistinto poiché il tutto contiene sia l'affermazione che la negazione dell'uno. Se invece separiamo il concetto dell'uno da quello del tutto e lo riferiamo a Dio, otteniamo una definizione chiara, in relazione alle premesse.

Tale chiarezza non sembra offuscata dalla constatazione che la definizione dell'uno, se è un concetto in senso proprio, ossia se esprime la natura o l'essenza della cosa, indipendentemente dalla rappresentazione della stessa, sembra contraddirsi nel momento in cui viene riferita a Dio. Infatti, mediante il concetto dell'uno definiamo l'essere di Dio ma non la sua

26SPINOZA, Ethica, II, Defin, VI.

 

essenza: affermiamo che, mediante quel concetto, Dio è pensabile nel Suo essere, senza poter determinare come questo essere sia in se stesso poiché l'idea dell'essere perfettissimo ci indica solo l'esistenza di Dio (in che modo dobbiamo pensarla) e non ancora la Sua natura od essenza. E quindi, il concetto non verrebbe qui a stabilire la natura della cosa (Dio nella Sua essenza) ma solo la Sua semplice esistenza, in quanto pensabile da parte della mente in un concetto determinato, quello dell'uno come concetto dell'essere perfettissimo. Ma un concetto che si limitasse a mostrare la pensabilità del proprio oggetto, senza riuscire a coglierne la sua natura od essenza, non sarebbe veramente tale, perché per suo tramite verremmo semplicemente a sapere che una cosa è pensabile senza sapere ancora se sia, esista né come sia. Un tale concetto indicherebbe la pensabilità e quindi la possibilità della cosa, non ancora la sua realtà.

A questa difficoltà rispondiamo che non ci si propone qui di elaborare un surrogato della prova ontologica dell'esistenza di Dio, ma più semplicemente di mostrare come il concetto dell'uno, rettamente inteso, non possa riferirsi ad altro che al concetto di Dio, concepito come essere perfettissimo. Si tratta di delineare l'esatto ambito di applicazione di un concetto. Quando affermiamo che il concetto dell'uno può applicarsi solo all'essere di Dio, non intendiamo perciò sostenere che questa applicabilità (se così possiamo dire) dimostri come tale l'esistenza di Dio; come se dicessimo: poiché abbiamo il concetto dell'uno, ed esso si può applicare solo all'essere di Dio, allora Dio esiste. Noi abbiamo anche il concetto del nulla o del non-essere ma non per questo è dimostrato che il nulla o il non-essere esistano. In realtà noi presupponiamo già la definizione di Dio quale essere perfettissimo della tradizione metafisica cattolica, l'unica che a nostro avviso abbia sempre cercato - nei suoi rappresentanti ortodossi, dai Padri della Chiesa a S. Tommaso - di definire la Divinità in se stessa, per ciò che Essa è in sé e non per il Suo rapporto con la cosa creata, con il mondo o con il pensiero dell'uomo autodivinizzatosi nel Logos.

E che quella tradizione sia giunta a pensare Dio come l'ente di necessità anteriore a tutta la realtà come tale, è fuor di dubbio. S. Agostino scrive, a proposito della creazione: "neque in universo mundo fecisti universum mundum, quia non erat, ubi fieret, antequam fieret, ut esset"27. Dio non ha

27 S. AUGUSTINI, Confess., XI, V. In tal modo si risponde alla domanda "E allora dove si trovava Dio prima che esistesse l'universo?" (GREGORIO NAZIANZENO, Oraz. 27,9 ne ID., I cinque discorsi teologici, tr. it. C. Moreschini, Roma, 1986, p. 68). Si trovava presso di sé, senza bisogno di uno spazio fisico, come se quest'ultimo fosse da ritenersi necessario alla Sua esistenza di essere perfettissimo.

 

creato il mondo già dal mondo, ossia non ha creato l'universo da un dove che fosse già l'universo o nell'universo. E quindi: il dove di Dio non può essere quello dello spazio: Dio è anteriore allo spazio e non lo si può concepire in altro modo. Non ha avuto bisogno dello spazio per creare lo spazio. La nozione stessa di quantità, la quantità delle tre dimensioni, riferita a Dio, è quella di una quantitas virtualis, che non si lascia ridurre alle dimensioni dello spazio, in quanto realtà fisica28.

Il concetto enunciato da S. Agostino sembra risentire del neoplatonismo, avendo Platino detto che l'uno "non ha luogo, poiché non gli occorre un fondamento, come se non potesse sostenere se stesso"29. Tuttavia Platino, non riconoscendo un Dio creatore dal nulla, non esce dall' ambiguità per ciò che riguarda il rapporto tra il concetto dell'uno e quello di Dio. Se afferma che dell'uno si può dire solo che è e se sembra identificare l'uno con il divino, non esita del pari a sostenere che "l'uno è più di Dio"30. Ma l'uno non può essere "più di Dio". Invece, il vero concetto dell'uno si applica senza contraddizione a quello dell'essere perfettissimo ed anzi solo a quello: tale è la nostra convinzione e con essa vorremmo riuscire a ribadire e, se possibile, arricchire (anche solo indirettamente) la definizione di Dio della vera tradizione cattolica.

Il concetto cui la mente giunge, partendo dall'analisi della definizione del tutto come uno, non è dunque quello di Dio ma dell'uno, definito nella sua essenza come ciò che è, senza aver parti né esser parte. Ma questo essere è nello stesso tempo pensabile come essere di Dio, dal momento che la sua definizione esclude a priori l'attributo dell'esistenza sensibile,                spazio - temporale. Nel concetto dell'uno troviamo allora una definizione di Dio, che però non può ancora darci né la dimostrazione dell'esistenza di Dio (prova ontologica) né il concetto di Dio. Infatti, nel concetto dell'uno non sappiamo ancora come sia Dio in sé (quid sit), nella Sua essenza, ma solo che Egli è (an sit), in quanto pensabile come l'essere perfettissimo31 . Nel concetto dell'uno abbiamo un concetto che ci offre la pensabilità dell' essere di Dio, come qualcosa di legittimo. (E oggi si nega anche questa pensabilità perché si ritiene che l'esistenza di Dio sia indimostrabile, sia cioè impossibile a determinarsi come esistenza necessaria da parte della recta ratio - e questo lo si pensa perché in verità si nega l'esistenza stessa della recta ratio, equiparando l'uomo all'animale).

 

 

 

28 Summa Theol., Ia ,q. 3,l.

29 PLOT., Enn. VI,9,6, tr. it. cit., p. 1351.

30 Op. cit., p. 1349: "πλέον ἐστί"; nonché Enn. V,3,14; 5,6.

31 Summa Theol., Ia , q. 2,2.

Al compiuto concetto di Dio possiamo poi giungere solo mediante l'apporto di Dio stesso (se così possiamo esprimerci) che integra con la Rivelazione la nostra definizione metafisica, limitata alla pensabilità del Suo essere: infatti la natura di Dio può esserci resa nota solo da Dio, anche se di per sé non si distingue e non si separa in alcun modo dall'essere di Dio32.

 

 

7. Dire che l'uno è Dio non significa affermare che Dio è unico

 

Dobbiamo poi chiarire un altro punto. Quando diciamo che l'uno è Dio, nel senso fin qui illustrato, non intendiamo affermare che Dio è "uno" ossia "unico", così come sostengono i monoteismi non cristiani, dal momento che quest'ultima affermazione ha, come è noto, un significato non metafisico ma teologico, poiché con essa non si vuole esprimere la pensabilità dell'esistenza ma il quid sit, la natura di Dio, così come Egli (secondo questi monoteismi) ce l'avrebbe rivelata, vale a dire in modo da escludervi la possibilità stessa della Sua Trinità. Con quella affermazione, al contrario, si vuole mostrare che l'unico significato che il concetto dell'uno in sé può avere per la mente, in quanto puro concetto, è quello di contenere la definizione dell'essere perfettissimo di Dio e proprio a causa dell'impossibilità di applicarlo all'essere in quanto determinato nell'esistenza e nella materia, ovvero al tutto in quanto composto di parti. Tale concetto esprime quindi - ripetiamo - la pensabilità dell'essere di Dio senza dirci ancora nulla sul mistero numinoso della Sua natura, che possiamo conoscere solo per quanto di esso sia piaciuto a Lui rivelarci, e in definitiva non contraddice in nulla una Rivelazione in cui l'unità della natura di Dio sia stata testimoniata nel mistero delle Tre Persone uguali e distinte, nella Santissima Monotriade.

La disputa circa la vera natura o essenza di Dio è quindi un confronto tra vera e falsa rivelazione: è una disputa religiosa, nella quale la metafisica può solo stabilire determinati presupposti teoretici. Così essa potrà senz'altro ribadire la distinzione tra metafisica e teologia, indispensabile alla chiarezza delle definizioni e dei concetti, e cercare di mostrare fin dove il pensiero possa spingersi per stabilire l'esistenza di Dio, in quanto contenuto necessario di un concetto, cioè in quanto pensabile. Infatti, la convinzione che la natura unica di Dio sia tale da escludere a priori la trinità consustanziale delle persone divine non può essere dedotta dal concetto di Dio come lo può concepi­re la ragione, se è vero che con questo concetto non possiamo far altro che postulare l'esistenza di Dio quale esistenza necessaria dell' ente perfettissimo.

 

 

32 Op. cit., ivi, q. 3,4.

La negazione della S.ma Trinità non può perciò avvenire per via metafisica, come ha tentato di fare Spinoza nella sua difesa dell’unicità della natura divina. Commentando l’assioma “non esistono più dèi” egli afferma che se un ente, a causa della sua perfezione, implica la sua esistenza come necessaria, quest'esistenza è per ciò stesso unica perché non può porsi contemporaneamente come esistenza di altri enti, costituiti dagli altri dèi, ugualmente perfetti33. La perfezione di Dio deriva da Dio stesso e non può essere altrimenti. Se si ammette che esistono più dèi, si ammette l'esistenza di "più enti sommamente perfetti", il che è assurdo. Dovendo tutti esser onniscienti, verrebbero infatti a conoscere anche gli altri enti perfetti. La perfezione di ciascun Intelletto divino non dipenderebbe allora solo da se stessa ma anche da quella degli altri, entrando così in contraddizione con se stessa. Se esistessero più dèi, "l'ente perfettissimo" sarebbe perciò "imperfetto". Esiste quindi "un unico Dio"34.

L'unicità di Dio vuoi essere per Spinoza il presupposto della Sua unità35 intese entrambe come concetti, non come dati offerti dalla Rivelazione. Ma il ragionamento di Spinoza, se può valere contro il politeismo, non vale contro il dogma cristiano perché le tre persone della S.ma Trinità né si pongono né sono concepite come enti ma per l'appunto come persone che partecipano allo stesso modo della medesima natura, che è quella divina dell'unico ente, cioè Dio. In tal modo la Chiesa ha ritenuto di definire il dogma, ossia la verità rivelata da Dio in ordine al mistero della Sua natura, una verità dapprima adombrata nell' Antico Testamento e poi manifestata apertamente, in modo sensibile, nel Nuovo, ma pur sempre infinitamente eccedente le limitate capacità di comprensione e definizione della mente umana. Per il Cristianesimo, cioè per la S. Chiesa, Dio è certamente unico, perché la Rivelazione ci mostra che non esistono né potrebbero esistere altri dèi36; ma questa unicità di Dio ci si mostra nello stesso tempo (sempre ad opera della Rivelazione) secondo il mistero di una natura divina che si sostanzia nelle Tre Persone uguali e distinte.

 

33 Principia Phil. R. Cartesii, I, XI propos., in BENTO DE SPINOZA, Emendazione dell'intelletto, Principi della filosofia cartesiana, Pensieri metafisici, tr. it. E. De Angelis, Torino, 1962, pp. 144-5.

34 Cogitata Metaph., Il, cap. II, tr. it. in BENTO DE SPINOZA, Emendaz. dell'intelletto, etc., cit., pp. 264-5.

35 Op. cit., ivi.

36 Rom., 3,29 SS.: "An Iudaeum Deus tantum? Nonne et Gentium? Immo et Gentium. Quoniam quidem unus est Deus, qui iustificat circuncisionem ex fide, et praeputium per fidem"; 16,27: "soli sapienti Deo, per Iesum Cristum, cui honor, et gloria in saecula saeculorum".

 

Questo sostanziarsi nelle Tre Persone non è un dividersi dell'ente unico in più enti ma il modo di essere dell'unico ente, quel modo di essere per il quale le Persone sono consustanziali all'Ente stesso.

Ma l'uso di questi concetti - l'ente, la sostanza, il modo di essere - è applicazione di categorie della mente, elaborate per cogliere la verità dell'essere, a ciò che Dio ci ha voluto rivelare della Sua natura, un uso giustificato dallo sforzo di comprendere e definire nel miglior modo possibile (e quindi secondo concetti) la Verità Rivelata, contro gli eretici ed i nemici della fede. Non si tenta perciò in alcun modo di dedurre da essi concetti la natura o l'essenza di Dio, trascurando la verità rivelata, che è invece l'unica che possa effettivamente illuminarci in proposito. Correlativamente, la negazione della validità di questi concetti per ciò che riguarda la loro capacità di farci comprendere il mistero della natura divina a noi rivelatasi, vale a dire la negazione del dogma della S.ma Trinità, non può aver luogo contrapponendo concetto a concetto, una metafisica ad un'altra, ma solo contestando l'interpretazione delle Sacre Scritture da un lato e la verità dei fatti testimoniati nel Nuovo Testamento dall'altro. Si tratta quindi di una disputa essenzialmente religiosa (come si è detto), in cui la vera e le false religioni si contrappongono, così come la verità all'errore, sulla base della vera e della falsa interpretazione di ciò che è stato testimoniato nelle Sacre Scritture, cioè nell' Antico e nel Nuovo Testamento. (E parliamo di vera e falsa interpretazione perché le tre grandi religioni monoteistiche, escludendosi a vicenda nelle loro verità fondamentali, per ciò che riguarda e il dogma e la morale, non possono essere tutte e tre vere: per la contraddizione che non lo consente, una sola lo sarà).

I limiti rispettivi della metafisica e della teologia ci sembrano quindi sufficientemente definiti in relazione al loro oggetto. La prima può solo dimostrarci la necessità razionale di dover ammettere l'esistenza di Dio. A questo proposito, il concetto dell'uno, come concetto dell'ente che è, pur non avendo parti e non essendo parte di nulla, ci può fornire, come si è detto, un concetto il cui significato può esser proprio quello di ammettere per noi la pensabilità dell'esistenza dell'ente perfettissimo, cioè di Dio. Se invece tale concetto vuole andare oltre i propri limiti; se con esso non ci si vuole fermare alla pensabilità dell'esistenza di Dio come κατηγορειν cui la ragione non può sottrarsi; se si vuole invece andare oltre, per il desiderio di riuscire a dedurre metafisicamente la natura stessa, l'intima essenza della Divinità, allora si rischia di cadere nello spinozismo, perché in sede filosofica il tentativo forse più ardito di concepire l'unicità di Dio quale concetto della natura stessa una di Dio (cioè come contenuto di una mera deduzione metafisica) viene proprio da Spinoza, dal pensatore nel quale le componenti gnostiche dell'Ebraismo si manifestano e si affinano nella forma più radicale, contribuendo a quell'immanentismo rigoroso proprio del vero ateismo. E per componenti gnostiche intendiamo la propensione ricorrente nell'Ebraismo a negare la creazione del mondo dal nulla ed a confondere Dio con il mondo, non solo nell'idea di un Messia che realizzi il regno di Dio in terra ma anche nel modo stesso di intendere l'etica, quale insieme di principi sottoposti ad un'applicazione rigorosa ma alla cui radice manca una netta distinzione tra il naturale ed il sovrannaturale.

Riprendendo nell'Ethica il concetto dell'unicità di Dio, Spinoza scrive: "Hinc clarissime sequitur: I° Deum esse unicum, hoc est (per Defin. 6) in rerum natura non nisi unam substantiam dari, eamque absolute infinitam esse"37. Da dove traiamo la conseguenza, logicamente ineluttabile, che Dio è "unico"? Dalla constatazione che nella realtà può esserci una sola "sostanza infinita". Ma questa "sostanza" non è Dio come ente, la cui perfezione lo fa essere ciò che è, indipendentemente dal mondo e prima di esso. La "sostanza infinita" nel senso di Spinoza non può prescindere dal mondo ossia dall'estensione: essa consta di pensiero ed estensione, dei due termini o modi del dualismo cartesiano, che Spinoza vuole ricondurre ad unità, di contro ad ogni trascendenza. L'unicità di Dio è dunque l'unicità della realtà, cui viene riconosciuto un carattere infinito ed increato, perfetto. Spinoza non ritiene che l'unicità di Dio possa prescindere dall'estensione perché non ritiene che simile prescindere sia consono alla perfezione della sostanza infinita, che è causa sui. Se vuoi esser perfetta, la "sostanza infinita" non può non esser for­nita del predicato dell'estensione e ciò naturalmente senza bisogno di alcun atto di creazione. Ma se la realtà è un attributo necessario di Dio non si dirà allora che Dio ha dovuto crearla, ma, più semplicemente, che Dio altri non è se non la realtà ovvero la natura: "Ostendimus enim in Primae Partis Appendice, Naturam propter finem non agere; aeternum namque illud et infinitum Ens, quod Deum seu Naturam appellamus, eadem, qua existit, necessitate agit"38. Ma cosa è rimasto, in questa prospettiva, dell'unicità di Dio? dell'Uno trascendente e creatore? Assolutamente nulla: l'unicità di Dio è ora quella della Natura, la nuova divinità. A tale aberrazione giunge il pensiero quando si spinge al di là dei propri limiti e cerca di dedurre razionalmente, con le sue sole forze, la natura stessa di Dio. (Per la critica a Spinoza, cfr. il § 13 del presente lavoro).

 

 

 

37 SPINOZA, Ethica, I, prop. XIV, cor. I, nonché la Appendix alla prima parte.

38 Op. cit., IV, Praefatio.

 

 

 

 

 

II. Metafisica della parte

 

 

Il tutto come semplice somma di parti

Definizione della parte: il problema

 La parte e l'ente

La definizione della parte non è unitaria

 Quali sono le parti del tutto

Il tutto come Sostanza

 



 

METAFISICA DELLA PARTE

 

 

Muovendo dalla domanda, se sia lecito identificare il tutto con l'uno, il discorso ci ha condotto alla pensabilità dell'esistenza di Dio, quale conseguenza necessaria dalle premesse. Ragionando per esclusione, siamo infatti giunti alla conclusione che il concetto dell'uno ha un significato chiaro solo se in esso è contenuta la definizione di Dio, non nella Sua natura ma nella Sua semplice esistenza; non per come è, in sé, ma per il solo fatto di essere.

Questo punto di approdo può sembrare a molti lontano da quello di partenza; addirittura illegittimo a chi non riconosce alcun fondamento al concetto dell'uno. Un modo di risolvere gli ardui problemi posti da quel concetto può infatti consistere nel considerarlo un mero flatus vocis o una semplice chimera della mente. Così ragionano quelli per i quali il tutto deve concepirsi come semplice somma di parti, all'insegna di una concezione empirica e meccanicistica della realtà, che esclude a priori l'esistenza di un fine che operi nella natura trascendendo il tutto e quindi qualsiasi trascendenza metafisica dell'uno nei confronti del tutto. Per costoro il concetto dell'uno non è un concetto necessario, non risultando in alcun modo dall'esperienza, la quale non ci permette di andar oltre il finito e quindi oltre l'unità o unione delle parti del molteplice. Questi ultimi concetti sarebbero, infatti, il massimo di astrazione concesso alla mente per cogliere il significato delle parti in relazione al tutto, sulla base dell'esperienza.

Ma si tratterebbe sempre di un'unità empirica, che non presuppone né il tutto né l'uno come principio o idea di cui possa esser l'attuazione, un ' unità risultante dalla semplice somma e coesistenza delle parti. E se questa unità desse vita in quanto tale ad un'individualità compiuta, diversa dalle parti e anche dalla quantità rappresentata dalla loro somma; quell'individualità non potrebbe comunque contrapporsi, come qualità nuova e superiore, alle parti, restando invece vincolata ad esse da un rapporto di tipo puramente quantitativo.

All'estremo opposto di coloro che ritengono il tutto una semplice som­ma di parti, vi sono invece coloro che negano alla parte un'effettiva autonomia nei confronti del tutto. Si tratta delle visioni organiche della realtà, tipiche del panteismo e dell'immanentismo (contro le quali vedi già il § 4 c di questo lavoro) e comunque di quelle Weltanschauungen secondo le


quali ogni parte, e quindi ogni individuo, tutto ciò che è determinato nell'ente, deve considerarsi nient'altro che una semplice emanazione o rappresentazione temporanea del tutto, inteso come la sostanza o lo Spirito universali ed infiniti (pensiero autocosciente o Logos).

In questa seconda parte del nostro lavoro procederemo allora nel seguente modo: l) criticheremo la concezione empirica e meccanicistica del tutto, contrapponendo ad essa la 2) nostra concezione della parte, la metafisica della parte ovvero ciò che significhi l'esser-parte di qualcosa, per contrapporci infine 3) alla negazione dell'individualità della parte, tipica della filosofia della sostanza intesa come l'Assoluto eterno ed increato.

 

 

8. Il tutto come semplice somma di parti

 

Come si è detto, il tutto è l'unità delle parti che costituiscono per noi la realtà, indivisa come tutto ma divisa nelle parti, per cui il tutto è contemporaneamente nonostante le parti e grazie alle parti. Non si può dunque prescindere da questa affermazione paradossale: che il tutto (ossia la realtà) risulta della contemporanea esistenza dell'essere e del non-essere delle sue parti, dal momento che esse nascono e vengono meno contemporaneamente, in modo che il tutto non venga mai meno. Non sono mai le stesse parti ad essere e non essere contemporaneamente nel tutto: ma le parti di cui consta il tutto nascono e periscono (sono e non sono) onde si assiste a questa continua nascita e a questa continua morte degli enti finiti che costituiscono il tutto. La non esistenza del tutto potrebbe risultare solo dal venir meno di tutte le sue parti: finché rimane qualcosa si ha una diminuzione delle parti nel tutto ma non l'estinzione del tutto in quanto tale.

 

a. Il paradosso che siamo costretti ad ammettere per spiegare il rapporto tra le parti e il tutto ci obbliga quindi a negare che il tutto sia uno e che coincida con l'uno per definizione. Ma proprio per questo, secondo alcuni, invece di ammettere che l'idea dell'uno possa applicarsi solo a quella di Dio come essere perfettissimo, converrebbe sbarazzarsi dell' idea stessa, contentandosi di concepire il tutto come semplice somma o insieme di parti, come realtà finita che non presuppone alcun uno.

Infatti, una somma o insieme di parti non costituisce necessariamente un'unità che trascenda le parti stesse e per così dire vi si contrapponga. Del resto, quando noi pensiamo al tutto, non riusciamo a rappresentarci una realtà che abbia una forma determinata allo stesso modo del corpo umano o della terra. Se il tutto non è determinabile dal punto di vista quantitativo allo


stesso modo dell'ente, a maggior ragione non si potrà concepirlo come l'uno. Il tutto dovrebbe allora esser concepito come il risultato di una semplice somma, di una coesistenza di parti che, come tale, non rinvia ad alcuna realtà al di là di se stessa, mentre la spiegazione delle leggi che sembrano governarlo dovrà ricercarsi esclusivamente nei rapporti di tipo meccanicistico tra le parti.

L'unità del tutto che qui viene ammessa è dunque l'unità meccanica delle parti, in sé stesse finite e determinate. La parte è qui l'uno del numero o empirico, che è sempre "comparatum ad aliud"39 perché non esiste l'uno in sé ma Un uno in relazione ad un altro, che è il due, e così via. Poiché il tutto è composto di parti, non esiste nulla che non sia parte e quindi diviso e divisi­bile. Ma ciò significa che l'indiviso non esiste, che non esiste cioè la qualità essenziale per potersi concepire l'uno in senso proprio40. Il concetto dell'uno si può perciò ammettere solo in relazione a quello della parte: esso esprime l'idea che una quantità è separata dal rimanente, anche se solo mentalmente, perché non c'è - dal punto di vista della conoscenza - una differenza effettiva tra divisione e divisibilità. Si può perciò dire che il concetto dell'uno e quello della parte siano identici, salvo per la differenza rappresentata dal fatto che nell'idea della parte, oltre all'esser in relazione, c'è sempre l'esser-contenuto in uno spazio più grande. Perciò, la parte è un che di "comparatum cum alio, in quo ipsum continetur"41. La parte non sta mai da sola né lo potrebbe, perché allora non sarebbe ciò che è. E l'esser in relazione e l'esser-contenuto che si riscontrano nella realtà sono i medesimi che vengono posti nel pensiero ossia nel conoscere in quanto attività calcolante, che procede per somma e sottrazione. Infatti, "partes ergo facere", seu partiri, seu dividere spatium et tempus, nihil aliud est, quam in ipso aliud atque aliud considerare"42. "Considerare" la realtà significa distinguerla in se stessa e quindi dividerla in parti anche se solo ad opera del calcolo della mente: divisio non manuum sed mentis opus. Le parti del reale e le parti poste in esso dal pensiero sono in sostanza le stesse parti, anche se il pensiero può dividere a piacere il proprio oggetto, moltiplicando o diminuendo il numero delle parti reali. La libertà di calcolo del pensiero non incide perciò sul fatto che la divisione e la divisibilità si possono concepire come l'unum et identicum, stabilendo una sostanziale identità tra il pensiero e la realtà. Come la realtà, il tutto, è in sé nient'altro che una somma di parti; così il

 

 

 

 

39 HOBBES, De Corpore, 7, 12 (tr. it. con saggio introduttivo a cura di Antimo Negri, HOBBES, Elementi di Filosofia. Il corpo-L'uomo, Torino, 1972, pp. 151-2).

40 Op. cit., 7,6; tr. it. cit., p. 149.

41 Op. cit., 7,4; tr. it. cit., ivi.

42 Op. cit., 7,5; tr. it. cit.,ivi.

 

pensiero non fa altro che comporre e scomporre questa somma, è esso stesso questo continuo sommare e dividere. Il pensiero e la realtà si rispecchiano a vicenda come puro esser in rapporto di quantità determinate che si sommano e si sottraggono a causa del movimento della materia, il quale governa allo stesso modo la realtà e il pensiero.

Il tutto è dunque concepibile solo come somma di grandezze finite, al cui essere viene assimilato anche l'essere del pensiero. Occupando uno spazio, queste grandezze o corpi fanno sì che il tutto sia la somma dei luoghi, senza che si dia mai interruzione nella continuità e contiguità della materia. Dal punto di vista del tempo, il tutto è la somma degli istanti, cioè delle parti in cui è divisibile il moto, in quanto misura universale del tempo. Nel tutto non vi sono allora quantità indeterminate ma solo determinate e finite, calcolabili mediante addizione e sottrazione, il cui mutuo rapporto dipende dal movimento, dalle sue leggi e dal nesso di causalità.

Il tutto stesso, in quanto risultato di queste quantità, sarà necessariamente determinato e finito, anche se di durata infinita. In questa concezione si ha una sostanziale identità fra il tutto e le parti: "itaque totum et omnes partes, simul sumptae, idem omnino sunt"43 al punto che la causa del tutto "ex causis partium componenda"44. Il tutto non ha, in quanto tale, una causa sua propria, che lo faccia apparire uno rispetto alle parti di cui è composto: la sua causa, la sua ragion d'essere "si compone", è cioè costituita, dalle stesse cause delle parti. Solo conoscendo queste ultime si potrà conoscere il tutto: non si va dal tutto (come uno) alle parti ma da queste ultime al tutto.

 

b. Questa visione del tutto e del suo rapporto con le parti, che noi abbiamo richiamato nella forma particolarmente pregnante conferitale dalla metafisica hobbesiana, vuol eliminare ogni possibile contraddizione non solo tra l'idea del tutto e quella delle parti ma anche tra il pensiero e la realtà, ricorrendo al comune denominatore rappresentato dal movimento della materia. È questo movimento ad operare come ininterrotto disporsi e ricomporsi di parti in un tutto, e poiché il pensiero è pur esso qualcosa di materiale - è immagine prodotta dal movimento delle nostre parti interne a sua volta provocato dal movimento della materia all'esterno - anch'esso dovrà concepirsi secondo la caratteristica del moto della materia, che è quella del sommare e sottrarre ma­teria a materia, all'infinito ma per parti determinate.

 

43 Op. cit., 7,8; tr. il. cit., p. 150.

44 Op. cit., 6,2; tr. il. cit., p. 126.

A questa concezione, che costituisce uno degli archetipi della visione del mondo oggi dominante, al suo tentativo di risolvere l'antinomia tra il tutto e la parte in una sorta di immanentismo meccanicistico e aritmetico, possiamo opporre diverse osservazioni.

 

a. Innanzitutto, l'assimilazione del pensiero alla realtà mediante l'equiparazione della divisione alla divisibilità cancella la differenza tra ciò che è in potenza e ciò che è in atto e tra ciò che è possibile e ciò che è reale, il che non sembra corretto. Se la divisibilità possibile è la stessa cosa della divisione reale in atto, allora si dovrebbe poter giungere al nulla in atto perché si può benissimo pensare di dividere la realtà in parti sempre più piccole sino a giungere al nulla, al punto cioè in cui non c'è più nulla da dividere. Ma questo pensiero, questo calcolo mentale, è smentito dall'esperienza che ci mostra la dissoluzione delle cose (delle parti) nel continuo permanere del tutto. Ciò significa che la divisibilità in potenza non è mai la stessa di quella in atto e che il tutto non è la semplice somma delle parti, dal momento che il venir meno (l'esser sottratto) delle parti non fa venir meno il tutto, nemmeno in parte. L'identità così postulata tra il pensiero e la realtà sembra poi misconoscere il carattere specifico del pensiero, che è dato da una sua capacità intrinseca, autonoma rispetto alla realtà esteriore della materia, al modo di essere di quest'ultima. La capacità di sintesi del pensiero fa apparire una qualità e la qualità non si lascia certamente spiegare con le aggregazioni atomistiche di somme e sottrazioni: essa rinvia piuttosto all'idea di una disposizione ex natura, preesistente ad ogni esperienza e quindi ad ogni calcolo in atto (su ciò infra, § 10c, 12a).

b. Va poi osservato che, se le parti sono contenute nel tutto, l'idea della somma non rende il senso dell'esser-contenuto perché dove c'è un contenente ed un contenuto il primo è in genere anteriore al secondo e non è costituito da esso. E se questa anteriorità non si può stabilire nel tempo, in base ad un rapporto meccanico, quale quello della causa efficiente, la si deve ammettere ipotizzando l'idea di un fine trascendente le parti ed il tutto stesso, cioè l'idea di una causa finale. A riprova di ciò può valere la considerazione che nell'ente compiuto, per esempio l'uomo, la causa di ogni parte non ci permette di capire la causa del tutto. La "causa" del fegato o del cuore o di un piede, astratta dal corpo di cui essi fanno parte, ossia dall'ente che li comprende come un tutto, non ci dà assolutamente ragione della "causa" né del tutto in sé né della parte, considerata in sé e per sé. È muovendo dal tutto, invece, che comprendiamo la "causa" della parte, non in senso meccanicistico ma finale. Naturalmente, il punto di vista di Hobbes non è del tutto inaccettabile, nel senso che esso vale per giudicare compiutamente delle azioni (per esempio dei singoli che compongono la moltitudine, le quali possono essere "causa" dell'azione della moltitudine come un tutto) e delle funzioni (per esempio degli organi del corpo in quanto tali, che devono essere comprese anche nella loro individualità). Ma non serve per comprendere l'esistenza stessa di un qualsiasi ente, il suo venire in essere, perché non ne possiamo dar ragione individuando la "causa" di ciascuna delle parti di cui in genere consta: è invece la "causa" (finale) del tutto che può permetterci di comprendere il perché dell' essere delle parti, dato che esse vengono in essere per esser quelle parti in quel tutto (sul fine, cfr. § l0 c di questo lavoro).

g. La realtà è costituita quindi dal numero, inteso non come potenza di una quantità originaria che si riproduce secondo i rapporti e le proporzioni dei numeri ma come somma di quantità determinate. Ma dove c'è somma c'è sottrazione. Vale a dire: non c'è somma che non ammetta la sottrazione e quindi la possibilità del venir meno dell'insieme dato dalla somma, in tutto o in parte. L'esperienza in verità ci mostra che il tutto non viene mai meno: però questo nostro giudizio si basa solo sull'esperienza, onde non sappiamo se già domani la somma delle parti che costituisce oggi il tutto non si sarà scomposta e decomposta in modo tale da far venir meno il tutto in quanto tale, da lasciare al suo posto il nulla. Questa è un'ipotesi che una teoria, la quale concepisce tutta la realtà come mera somma di parti, non può certo escludere. Se, infatti, tutto ciò che è, non è altro che somma di parti di materia, sarà nello stesso tempo sottrazione di parti di materia: si dovrà riconoscere che la sottrazione delle parti dal tutto ha la medesima realtà della loro somma nel tutto. Ma, così come non si può fissare nessun limite alla somma, se non quello che risulti dall'esperiènza, cioè dal numero per noi infinito ma in sé finito delle quantità presenti nel tutto - se infatti noi ipotizzassimo un limite prestabilito all'esserci delle parti, dovremmo farlo dipendere da un principio che ha costituito il tutto in funzione di quel limite e saremmo con ciò già al di là dell'idea che il tutto è la semplice somma delle parti; allo stesso modo, non possiamo fissare alcun limite alla sottrazione, che non risulti dall'esperienza. Ma l'esperienza non è altro che la rappresentazione di ciò che è sempre accaduto, sino al momento della rappresentazione stessa. Non possiamo perciò escludere a priori la possibilità che un giorno la sottrazione delle parti dal tutto avvenga in maniera illimitata, ossia in modo tale da far venir meno il tutto e noi stessi in quanto sue parti. Perciò, l'idea che il tutto sia solo una somma di parti, non potendo escludere da questa somma la sottrazione, deve concedere che quest'ultima può in teoria giungere sino al nulla (allo zero assoluto, in quanto sottrazione) e che quindi questa somma, come qualsiasi somma, può non essere. Allora l'ipotesi dell'esistenza del nulla (per sottrazione di tutte le parti del tutto) deve esser ammessa da una concezione che, volendosi basare sull'esperienza più immediata, sostiene esser il tutto una semplice somma o coesistenza di parti.

L'idea del nulla non può naturalmente esser comprovata dall'esperienza, per ciò che riguarda il tutto. Essa è una deduzione di tipo metafisico dalle premesse, che mostra come la concezione in questione conduca di fatto ad una deduzione (metafisica) dell'idea del nulla, mettendosi così in contraddizione con se stessa, contraddizione dalla quale storicamente ha creduto di uscire con un atto di fede nell'eternità della materia e del moto, come se le continue somme e sottrazioni delle parli conferissero alla materia un equilibrio perenne, senza inizio né fine. Del resto, l'ipotesi della annihilatio mundi o rerum annihilatio (intesa correttamente e non alla maniera di Hobbes45, che lascia sussistere il soggetto che calcola con la mente) porta a separare le parti dal tutto e quindi conduce ad un vicolo cieco. Infatti, scomparendo tutte le cose, scomparirebbe tutta la materia; e scomparendo tutta la materia, resterebbe lo spazio vuoto, la pura estensione. Secondo molti46, il vuoto tenebroso, l'abisso sarebbe il nulla (cosa che non si può ammettere perché l'abisso è una realtà fisica - il vuoto è realtà fisica, non metafisica - e quindi non può essere il nulla cioè totalmente inesistente; e se è una realtà fisica che non dà ragione di se stessa, presuppone allora una realtà non fisica, una sovranatura, che ne giustifichi l'esistenza). Ad ogni modo, l'estensione vuota di ogni vita sarebbe il nulla perché il pensiero non può concepire il venir meno dell'estensione come tale: per noi, al di là dello spazio vuoto e privo di luce non c'è che il vuoto. Ma lo spazio, quando era pieno, non era parte del tutto? Ora che è vuoto, perché dovrebbe cessare di far parte del tutto? Cosa è mutato, nella sua natura spaziale? E difatti, non è venuto meno lo spazio ma tutto ciò che era in esso. Se lo spazio come tale non ha cessato di esistere, ciò significa che esso continua a far parte del tutto come prima. Ma allora il tutto viene identificato con lo spazio, che non ha parti ed è sempre uguale a se stesso, ed una sola parte (lo spazio), venute meno tutte le altre, è diventata il tutto. Ma, se una sola parte può diventare il tutto, il tutto non può essere la semplice somma delle parti. A meno che non si voglia escludere lo spazio dalla somma delle parti che costituiscono il tutto, ma questo è impossibile perché al posto dello spazio si dovrebbe ipotizzare il nulla.

δ. Va poi osservato che una concezione del genere finisce col dissolvere la nozione stessa di causalità. Il rapporto causale, infatti, viene ad esser

45 Op. cit., 7,1; tr. it. cit., pp. 145-6.

46 "'τὸ γὰρ κενεὸν οὐδέν ἐστιν": "infatti, il vuoto non è nulla" (MELISSO, Testimonianze e frammenti, ed. Reale, cit., pp. 386-7).

concepito in modo composito o circolare, come processo, perché esso viene posto come: "summa sive aggregatum accidentium omnium tam in agentibus, quam in patiente, ad propositum effectum concurrentium"47. La causa è somma di quantità di materia che subiscono l'attrazione o la repulsione reciproca, grazie al movimento continuo della materia stessa. Ma il sommarsi e il sottrarsi delle parti non è colto tanto nell'evento isolato, nell' atto, o nell' ente che lo pone in essere, facendolo risaltare nella sua individualità; quanto piuttosto nel processo che conduce ad un determinato effetto, un processo che consta di molteplici elementi, tanto da includere anche il soggetto (il "paziente") sul quale la causa efficiente agisce normalmente con il suo effetto. Infatti, la somma delle quantità di materia, lo è degli "accidenti" che si trovano "nell'agente e nel paziente", ovvero di tutto ciò che, come qualità o modo di essere (gli "accidenti"), si trova e in chi agisce e in chi subisce l'effetto dell'azione. Se ci sono tutti gli "accidenti" necessari, non può non prodursi l'effetto; se ne manca uno solo, l'effetto non si produce.

Se consideriamo per esempio la "causa della luce", gli "accidenti" che bisogna individuare per poterla definire sono: l. un oggetto che la generi (la fonte luminosa); 2. la trasparenza del mezzo; 3. la buona disposizione degli organi del corpo di chi la riceve (e questo "accidente" riguarda "il paziente", colui che riceve l'azione della materia o forza); 4. il movimento intrinseco dell'oggetto che produce la luce; 5. il movimento del nostro occhio, ossia come è recepito dal nostro occhio il movimento che proviene dall'oggetto48. Sommando tutti questi "accidenti", cioè la fonte luminosa, la natura del mezzo, la natura dei nostri organi e il moto, si ottiene la causa della luce: essa si ricava considerando sia il soggetto che sviluppa un movimento, sia quello che lo riceve. Siffatta nozione di causa sembra dunque essere composita, nel senso che è il risultato di una somma di elementi diversi ed anche disparati fra loro. Che cos'è, allora, che conferisce unità alla causa, così concepita? Il moto: il movimento è la vera causa. Precisa infatti Hobbes che la causa della luce "conflata erit ex moto continuo ab origine eius ad originem motus vitalis, cuius quidem motus vitalis a motu illo adveniente mutatio est ipsum lumen"49.

L'unità del processo causale risulta dunque dal "movimento continuo" che va dall'origine, con la quale si indica l'agente che opera come causa (efficiente) in senso stretto, all' origine del movimento nell'organo (l'occhio) che riceve il movimento che promana dall'agente. Che cos'è allora la luce? In

47 HOBBES, De Corp., 6,10; tr. it. cit., pp. 133-4.

48 Op. cit., ivi; tr. it. cit., p. 134.

49 Op. cit., ivi; tr. it. cit., p. 135.

 

termini generali, che possono spiegare qualsiasi nostra rappresentazione meccanicistica di un oggetto esterno, la luce è "il mutamento del movimento vitale che deriva da quel movimento"; è il "mutamento" del moto "vitale", cioè organico, interiore al corpo dell'essere vivente, originatosi dal movimento di materia che l'ha colpito dall'esterno, provenendo dalla fonte luminosa. Perciò la sensazione della luce è prodotta in noi dal nostro "movimento vitale", che è interno a noi, che ci colpisce dalla sorgente della luce (in termini moderni, mediante energia che si costituisce per noi in onde o corpuscoli od in entrambi). Perciò la luce, come nostra sensazione, è il modo in cui il nostro "movimento vitale" è mutato o modificato dal movimento che promana da una determinata origine esterna: essa non è altro che modificazione di un movimento.

Ma perché Hobbes non si limita a dire, in modo più semplice, che la causa della luce è la sorgente luminosa stessa? Perché sente il bisogno di inserire nella causa del fenomeno anche il "paziente", cioè anche il soggetto che lo registra come effetto, nella fattispecie l'occhio? Il "paziente" non è forse il soggetto che subisce l'azione della causa, dato che non è protagonista di un efficere ma si limita ad un pati? e quindi non dovrebbe esser visto solo come risultato del processo causale, che in esso si materializza come effetto, anziché esservi incluso? Il fatto è che lo scopo cui mira Hobbes con il suo concetto di causa, sembra esser quello di impedire quella regressio ad infinitum tipica della causalità, in particolare di quella efficiente, il cui punto d'arrivo viene fatalmente ad essere costituito, com'è noto, dall'idea di una causa prima come idea necessaria per dare un senso al tutto, cioè dall'idea di Dio come di Colui che deve necessariamente esser pensato all'origine del processo causale, quale "motore immobile" o creatore del tutto. Il nesso di causalità presuppone infatti che ciò che è causa sia sempre anteriore nel tempo a ciò che ne costituisce l'effetto, dando così vita ad un processo all'infinito - la ricerca della causa della causa - che può aver termine solo ammettendo l'esistenza di un Ente che può esser solo causa e non mai effetto: un "aliquod primum movens, quod a nullo movetur: et hoc omnes intelligunt Deum"50.

Una soluzione immanentista di questo problema (soluzione che non vuol ricorrere all'idea di una causa prima cioè di Dio creatore) consiste dunque nel concepire la causalità come un processo il cui protagonista è il movimento con le sue leggi: un protagonista sempre interno alla realtà data e alla realtà in generale. E difatti il movimento è concepito come l'unica causa vera, effettiva di tutto: "causa universalis", perché anche la "varietà di tutte le

 

50 Summa Theol., Ia, q. 2, a. 3.

figure" che si ritrovano nelle parti del tutto, le loro proprietà o qualità, non sono prodotte altro che dal moto, per cui "nec motus aliam causam habere intelligi potest praeter alium motum"51. Il moto è quindi causa di ogni evento particolare, di ciò che riconduciamo ad un'azione e quindi ad un movimento in senso proprio, ma anche del modo di essere (figura, forma, qualità, peso) degli enti o corpi. Così concepito, il moto si sostiene da se stesso e il principio della causalità, che su di esso si fonda, potrebbe definirsi di tipo circolare perché il moto che di tutto è causa, alimentandosi senza posa, ritorna sempre su se stesso. Sembra quasi di trovarsi di fronte ad un'affermazione ante litteram dell' idea di un "processo senza soggetto".

Ma il movimento in quanto tale - vien fatto di osservare - come movimento senza sosta della materia, che si risolve continuamente in altro movimento, è finito od infinito? Se esso, dato che la materia si suppone increata, è infinito, allora la catena delle cause non è destinata a restare aperta all'infinito? Se esso è invece finito, allora non è esatto affermare ripetutamente che "il moto non produce altro che moto": ci dovrà essere per forza di cose un momento ed un luogo in cui il movimento deve cessare.

Tuttavia, Hobbes nega realtà all'infinito52. Ma allora: se il moto è finito, deve fermarsi da qualche parte od originare da qualcosa che non è moto, cose queste che Hobbes non ammette. Se è infinito, la somma delle azioni e reazioni che chiamiamo causa, la causalità che si basa sul movimento, resterà aperta e quindi non si troverà mai, per così dire, un totale definitivo; il che è come dire che non ci si potrebbe mai fermare ad una causa determinata di qualcosa ma bisognerebbe risalire ogni volta alla causa prima, che per Hobbes viene di fatto ad essere il moto stesso, ovvero la materia che si muove in perpetuo (ché un moto senza qualcosa che si muove o che è mosso, è inconcepibile). In tal modo però il concetto della causa che produce meccanicamente l'effetto, grazie ad un'azione quantitativamente determinabile nello spazio e nel tempo, viene come a dissolversi nella contraddizione di una causa universale (il moto) che deve essere contemporaneamente finita ed infinita, senza poter essere, dal punto di vista di Hobbes, né l'una né l'altra cosa.

Questa concezione del principio causale vuole esprimere la causalità in generale, risolvendo in se stessa le quattro categorie aristoteliche tradizionali. Hobbes poi distingue al suo interno la causalità efficiente, che

51 HOBBES, De Corp., 6,5; tr. it. cit., p. 128.

52 HOBBES, Leviathan, chap. 3: "Whatsoever we imagine, is Finite. Therefore there is no Idea, or conception of anything we call Infinite" (ed. Macpherson, Harmondsworth, 1968, p. 99).

 

 

per lui assorbe anche quella finale53 e quella materiale, ribattezzando la categoria generale "causa autem simpliciter sive causa integra"54. La causa efficiente e quella materiale sono "causae partiales, sive partes causae illius quam proxime supra appellavimus integram"55. Entrambe sono sempre concepite come somma o aggregato di parti, e le parti sono sempre costituite dagli "accidenti". Si tratta di concetti che nulla hanno a che vedere con quelli di Aristotele, perché la causa efficiente è qui nient'altro che l'aggregato degli accidenti necessari alla produzione dell' effetto, che si trovano nell' agente stesso, mentre quella materiale è data invece dalla somma degli accidenti che si trovano nel paziente56.

Una volta prodottosi un determinato effetto, risaliti alla causa, noi dobbiamo scomporre e ricomporre tutte le parti del tutto, quelle che vediamo all'opera nella causa efficiente in senso stretto, nell' "agente", e quelle che si mostrano invece nel "paziente". Ma queste due cause sono a loro volta parti di una somma o aggregato costituito dal movimento della materia, che è la causa vera o "integra". Ora ci si deve chiedere: le somme degli accidenti nell'agente e nel paziente danno vita nel loro ambito ad un'individualità ben definita? In altre parole: l'agente ed il paziente costituiscono di per se stessi un' individualità, cioè un' entità che sia qualcosa di più della mera somma dei loro "accidenti"? Una qualità nuova che risulti per l'appunto dalle quantità che si sommano? La risposta deve essere negativa, se è vero che lo spirito della metafisica materialistica di Hobbes -come di ogni materialismo - è sempre nel senso di dimostrare che ogni qualità non è che quantità. Perciò, la qualità deve risolversi nella quantità, nella somma e sottrazione delle entità finite della materia - ma la quantità non può diventare qualità, dal momento che si ritiene che la qualità delle cose sia posta da noi, sia cioè mera apparenza, creata dal modo in cui il movimento della materia agisce sui nostri organi.

La causa efficiente e l'effetto vanno dunque parcellizzati nei loro "accidenti", nel tempo e nello spazio, sì da risolverli nel tutto rappresentato dalla successione o somma che essi pongono in essere. Né, a maggior ragione, la causa "simpliciter" o "integra", che risulta dalla somma della causa efficiente con l'effetto, può, come tutto, dar vita ad una qualità diversa da quella delle sue parti. Infatti, le quantità sono sempre le stesse perché gli accidenti sono sempre gli stessi: e gli accidenti sono gli stessi perché la causa è sempre la stessa, è il moto, nel cui ambito le cause parziali

53 De Corp., 10,7; tr. it. cit., pp. 179-80.

54 Op. cit., 9,3; tr. it. cit., p. 171.

55 Op. cit., 9,4; tr. it. cit., p. 172.

56 Op. cit., ivi.

rappresentano non una qualità specifica ma solo il risultato parziale di una somma. Il totale lo costituisce il moto nel suo complesso (la causa "integra"), come totale meramente numerico degli "accidenti" in cui via via trapassa. La categoria più generale della causalità, quella della causa "integra", appare allora del tutto pleonastica o descrittiva che dir si voglia, come è inevitabile per ogni entità che venga posta come il tutto e nello stesso tempo identificata con il mero aggregato delle parti che la compongono, senza avere un'individualità propria, una sua qualità.

I due momenti concettualmente essenziali di ogni rapporto causale - la causa e l'effetto - perdono in tal modo la loro autonomia, la loro capacità di costituire un principium individuationis dell'accadere. Il principio di causalità diventa un modus del movimento della materia, che non ha né inizio, né fine, né scopo, dissolvendosi nell'indistinto ed indeterminato, allo stesso modo che nelle filosofie organicistiche e panteistiche. La causalità diviene un modo di essere puramente immanente alla realtà, senza che si possa determinare con esattezza né il modo né il momento in cui ciò che è causa sia tale rispetto all'effetto, perché nella continuità universale del moto non è separabile alcun luogo né alcun momento come effettivo inizio di qualcosa, anche nel regno dell'empirico-immediato. Nella somma di parti che Hobbes chiama causa non si mostra alcuna causa finale, alcuna intenzione, alcuna volontà, alcun nesso effettivo di causalità (quell' ingranarsi reciproco della causa e dell'effetto che non si comprende senza l'idea del fine), ma solo l'alternarsi di somma e sottrazione. Infatti, il venir meno di un effetto o il non venire in essere di una causa, Hobbes li spiega con il venir meno o il non esserci di uno solo degli accidenti dalla somma che deve costituire la causa "integra": li spiega quindi ricorrendo all'idea puramente quantitativa della sottrazione57. Mai a quella del fine, dato che egli, come si è detto, risolve la causa finale in quella efficiente, privando così di effettivo significato anche l'attribuzione di "proposto" che conferisce all'effetto, nella definizione della causa.

In questa metafisica materialistica l'idea della somma delle parti è con­siderata il comune denominatore di tutti gli aspetti del reale. Difatti il tutto è la somma delle parti ma il rapporto causale, che dovrebbe costituire l'elemento dinamico all'interno del tutto, è anch'esso - come si è visto - nient' altro che somma di parti (onde sorge spontanea la domanda: la causalità in che cosa si distingue, allora, dal mero esistere?). E l'operare del pensiero non è altro che calcolare ovvero sommare e sottrarre.

Aspetti tra loro assai diversi e che riguardano ora la materia ora lo

57 Op. cit., 6,10; 9,3-5, cit.; tr. it. cit., p. 133, pp. 171-2 cit.

spirito, vengono tutti ricondotti ad un unico schema, ad un'unica sempiterna quantità. Per comprendere la realtà (ogni realtà) bisogna quindi scomporla in parti le quali, però, non sono tenute insieme da una forma e per un fine: solo il movimento è ciò che le fa essere come parti di un tutto; il movimento, cioè una realtà puramente materiale. Ma questa somma dove inizia e dove finisce? Parti del tutto che sono pura quantità: sono l'uno del numero senza distinzione fra diviso e divisibile; senza possibilità che questo uno dei molti atomistico e separato possa esser ulteriormente determinato, perché ogni determinazione è a sua volta divisibile in parti e quindi dissolta nella divisione e nella somma con cui il pensiero la coglie; questa totalità di parti come mero aggregato che il movimento aggiunge e sottrae all'infinito, è essa stessa qualcosa di indefinito, un frazionarsi senza scopo. Non solo il principio di causalità ma il tutto stesso, come realtà fornite di un significato, si dissolvono. Perciò ogni forma si risolve in una somma di parti mentre ogni parte è a sua volta somma di parti e tutto diventa indeterminato (ἄπειρον) e perennemente molteplice, confondendosi in esso l'estremamente piccolo e l'estremamente grande perché, a causa del continuo κερματίζειν, del continuo suddividere e sgranellare, anche ciò che si prende come "il più piccolo possibile" diviene in realtà "enorme", a causa delle parti in cui può essere all'infinito diviso58 . Tali sono dunque alcune tra le principali conseguenze negative, quando si considera il tutto come semplice somma di parti, sul presupposto che l'uno non è.

 

 

9. Definizione della parte: il problema

 

La visione del mondo appena considerata non si limita a separare il concetto del tutto da quello dell'uno ma mira a render superfluo il secondo dopo aver tolto ogni fondamento, che non sia meramente quantitativo ed empirico, al primo. Tuttavia essa non ci dice quali siano le parti del tutto ma solo che è composto di parti, sì da esserne la semplice somma. Ciò che non è riconducibile ad una quantità determinata, alla somma infinitesimale dei luoghi e dei corpi che li occupano, non fa parte del tutto e quindi non è. Ma la logica del discorso richiede che si determinino quali sono effettivamente le parti del tutto. Quali sono e non quante sono, perché l'esser-parte, in relazione al tutto, è una qualità che concerne determinate grandezze o quantità anche se tra loro incommensurabili, perché possono esprimersi nel numero e nella molteplicità (come la materia-energia) o invece prescinderne (come lo spazio, il pensiero).

Così diciamo, per chiarire il nostro punto di vista con un esempio, che

58 PLATONE, Parm., 164 D (tr. it. cit., pp. 414-5).

gli astri e gli uomini sono allo stesso titolo parti del tutto, senza poter sapere quanti siano effettivamente gli astri e quanti gli uomini. L'impossibilità di conoscere il numero in cui la quantità determinata si divide, l'impossibilità di conoscere il numero di tutte le parti del tutto, non fa venire meno la nostra capacità di determinare la parte nel suo concetto. Cercheremo quindi di definire la parte, per vedere poi quali (e non quante) siano quelle realtà parziali che costituiscono il tutto.

 

a. In prima approssimazione, diciamo che l'esser parte di qualcosa è proprio di una grandezza che sia ricompresa in una maggiore. Su ciò concordano il senso comune ed i pensatori più diversi. Così la definizione sopra vista di Hobbes, secondo la quale la parte è ciò che viene "comparatum cum alio, in quo ipso continetur" sembra uno sviluppo di quella aristotelica, per la quale la parte, nel senso più generale del termine, è "ciò che si toglie da una quantità in quanto tale", come ad esempio nel caso del due rispetto al tre59. La definizione hobbesiana è rimarchevole per la sua concisione: esprime non solo il carattere finito della parte, mediante l'immagine dell'esser-contenuto, ma anche il suo esser in relazione con ciò che la contiene. La parte, infatti, non può stare da sola, altrimenti non sarebbe tale: lo è sempre di qualcosa, con cui si trova perciò in una determinata relazione e per questo viene sempre ad essere un che di "comparatum cum alio". Sulla natura di questo "alium" la definizione non si pronuncia: esso può essere il tutto in generale (tutta la realtà in quanto tale) o un ente che, rispetto alla parte, si pone come un tutto e quindi come l'intero di cui la parte è parte.

L'esser-contenuto e l'esser-in-relazione sono due modi di essere che esprimono una realtà ben determinata, finita. Di ciò che è contenuto in altro possiamo infatti dire di conoscere l'inizio e la fine o meglio il limite, costituito dall'inizio dell'estensione della grandezza maggiore. Questo limite è contemporaneamente esteriore ed interiore poiché separa la parte dal rimanente e quest'ultimo dalla parte: delimita quindi la parte dall'esterno e nello stesso tempo la individua dall'interno, perché dove c'è il limite si compie la forma di quella parte della realtà che il limite racchiude. La parte ci appare quindi una grandezza determinata mediante la contiguità e la continuità con la grandezza di cui è parte. E questo suo carattere determinato risulta poi nell'aver essa necessariamente una forma, senza la quale non potremmo distinguere ciò che è maggiore da ciò che è minore, nessuna parte da un'altra né cose uguali tra loro.

59 Met., 1023 b: "'τὸ αϕαιρούμενον τοῦ ποσοῦ ἧ ποσοῦ" (tr. it. in ARISTOTELE, Metafisica, a cura di A. Carlini, Bari, 19654, p. 198).

La discontinuità è invece propria di ciò che non fa parte di qualcosa e se ne sta per conto suo senza che una forza lo mantenga in un rapporto organico con ciò da cui si è separato. Ma ciò vale per i rapporti tra gli enti non per quello tra gli enti e il tutto, di cui sono necessariamente parti.

Il contenere e l'esser contenuto fanno dunque apparire una realtà determinata in una forma. Ma la forma determinata della parte, ci permette poi di separare la parte dal tutto in cui è, non materialmente ma per via d'astrazione, come se non fosse più in relazione con esso. In tal modo la parte diviene unità di misura: τὰ καταμετροῦντα60. Quest'ulteriore modo di concepire la parte - non dal lato della sua natura ma da quello della sua funzione - possiamo vederlo implicitamente anche nella già citata definizione hobbesiana, nella quale il "venir paragonato a ciò in cui è contenuto" può benissimo valere come definizione di un'unità di misura, le cui unità ripetute nella misurazione si rapportano al misurato come la parte che è contenuta nel tutto, al tutto.

Concepire ora la parte come unità di misura significa porre in primo piano un altro elemento rispetto a quello dell' esser-contenuto e cioè l'esser­diviso. La parte esprime la divisibilità dell'essere, la sua possibilità di esser diviso in unità uguali, mediante le quali misurare l'essere nelle sue parti. In quanto è ciò che è contenuto, la parte rappresenta la divisibilità di ciò che la contiene, non l'effettiva separazione (che può naturalmente aver luogo); in quanto (mentalmente) separata dall'intero o dal tutto, concepita come la forma di una quantità astratta, diventa a sua volta ciò che divide in parti, diventa cioè unità di misura che si applica dall'esterno, suddividendo il misurato nella somma e sottrazione delle unità di misura. L'esser in relazione della parte al tutto viene così rovesciato: da interno diviene esterno. Quando la parte è ricompresa nel tutto, allora quest'ultimo è ciò che misura la parte e l'esser in relazione col tutto è una forma che caratterizza la parte in quanto tale. Quando la parte è astratta dal tutto, divenendone l'unità di misura, è essa a misurare il tutto, dividendolo per astrazione (per calcolo mentale) in tante parti, quante sono date dalla ripetizione di se stessa entro i limiti prestabiliti dalla cosa da misurare.

Come unità di misura, la parte è dunque parte in senso figurato o per astrazione perché non fa parte di qualcosa, non è contenuta o ricompresa in niente ma è la grandezza la cui quantità è astratta da ogni contenuto e le cui unità - sommandosi e sottraendosi - permettono di misurare ogni contenuto. Essa è l'uno del numero non in senso empirico (concreto) ma in senso proprio, cioè come uno che è e può essere solo numero, ossia un'entità la cui

60Met., ivi; tr. it. cit., ivi.

grandezza è concepita come sempre identica a se stessa e non all'oggetto cui possa applicarsi (o di cui possa essere il segno). Infatti, quest'uno non è l'uno della molteplicità ma quello dell'unità di misura, cioè di una grandezza che è sempre identica nella sua molteplicità perché la molteplicità è qui la ripetuta applicazione di se stessa cioè dell'unità nella misurazione e non invece, come nella realtà, la semplice coesistenza di enti e parti uguali o disuguali per grandezza, quantità e qualità. Questo uno, in quanto numero, non ha quindi bisogno dell'altro per esser pensato: di un altro uno in quanto numero ossia del due, come ritengono coloro secondo i quali "ja die eine Eins fordert dann die andere Eins"61. L'altro, il due, è in realtà lo stesso ossia è l'uno che si ripete; è sempre la stessa unità che si moltiplica nella misurazione dando luogo ad una molteplicità che risulta dalla perfetta ripetizione dell'uguale (della quantità inizialmente costituita ad unità di misura).

La suddivisione del tutto secondo parti che risultano da unità di misura non è quindi una suddivisione reale ma solo pensata, che non corrisponde alle parti effettive del tutto, le quali sono e restano parti perché sono in sé ciò che sono (perché ricomprese effettivamente nel tutto secondo la loro forma) e non perché corrispondano all'unità di misura creata dalla mente. E infatti, il variare delle unità di misura è indipendente dal variare delle parti del tutto cui si applicano, dal variare dell'oggetto. Come unità di misura, la parte è dunque una parte separata dal tutto e ciò è in contraddizione con la definizione stessa dell'esser-parte: qui la parte è diventata ciò che divide e riunifica misurando c non è ciò che è contenuto. Ma la parte, non lo è sempre del tutto? "τὸ μέροs που ὅλου ἐστιν", così come è vero che il tutto è ciò "cui non manca alcuna parte"?62 Concepire l'unità di misura come parte, non significa allora separare la parte dal tutto o, il che è lo stesso, contrapporre al tutto reale un tutto solo pensato, costruito calcolando la somma delle parti-unità di misura? E un tutto solo pensato, perché composto di parti che risultano solo dal calcolo del pensiero, non è un tutto irreale? Ma, se l'unità di misura non è parte, che cos'è? Tuttavia, come può l'unità di misura non esser la parte in senso assoluto, l'assolutamente separata, la grandezza che si definisce nell'unità che riduce il tutto alla misura di se stessa? Esiste allora una parte del tutto ed una che invece la misura, in cui si esprime l'idea di una grandezza separata dal tutto. Ma può una grandezza non esser parte del tutto? Non può, se tutto ciò che è, è nel tutto. Ma questa grandezza è, in quanto calcolata, pensata. Bisogna dire, allora, che essa fa parte di un intero costituito dalle misurazioni: la somma universale delle misure costituisce

61RICKERT, Das Eine, die Einheit und die Eins. Bemerkungen zur Logik des Zahlbegriffs, Tübingen, 19242, p. 28.

62 PLAT., Parm., 137 C; tr. it. cit., p. 387.

il tutto al quale appartiene l'unità di misura.

b. Nel definire il concetto della parte, Aristotele sembra servirsi di fatto di due categorie: le parti di ciò che ha quantità e di ciò che non ha quantità. Quest'ultima categoria ricomprende "le parti in cui è divisibile la forma", la pura forma (εἶδοs), "senza la quantità"63. E in questo senso "le specie sono parti del genere"64. Similmente, anche il concetto (λόγοs) è divisibile in parti, quel concetto mediante il quale "si definisce ciascuna cosa", nel cui ambito ora il genere è parte della specie ora quest'ultima lo è del genere65. Ciò significa allora che esiste un tutto costituito di quantità, dalla quantità, ed un tutto costituito di qualità, dalla qualità. La categoria di ciò che ha quantità, oltre alla parte in senso stretto - ciò che si toglie o si divide da una quantità qualsivoglia - e alla parte come unità di misura, comprende anche "ciò di cui è costituito l'intero" anche se di natura diversa, come nel cubo di bronzo il bronzo stesso e l'angolo che esso forma66. Ma l'unità di misura può esser effettivamente considerata parte di ciò che ha quantità? Si è visto che essa è in realtà il risultato di un far astrazione dalla parte ricompresa nel tutto come quantità. Ma non per questo essa diviene una qualità. Diciamo allora che la quantità si sdoppia in una reale ed una pensata, che diviene l'unità di misura, per cui accanto al tutto delle parti reali esiste un tutto delle parti pensate. Questo sdoppiamento della quantità implica a sua volta uno sdoppiamento del tutto, in due tutti o in due parti? Due tutti non possono darsi, bisogna allora affermare che il tutto si sdoppia per noi in due parti, una visibile ed una invisibile, cioè pensata. E quest'ultima non è al di fuori del tutto, se il pensiero è, a sua volta, parte del tutto.

Attraverso lo sdoppiamento e la divisione si riafferma dunque l'unità nel senso di poter concepire ciò che è parte sempre all'interno del tutto, sia come parte della quantità reale che come parte della quantità pensata, che come parte della qualità. Naturalmente, ciò è possibile sul presupposto che il pensiero sia parte del tutto (cfr. § 5 d di questo lavoro), allo stesso modo della quantità e della qualità. L'articolazione e la suddivisione delle definizioni aristoteliche non fanno venir meno il punto essenziale e cioè che la parte, quantità o qualità che sia, lo è sempre di un tutto67 Anche la materia, in generale, è concepita come parte:  '' ἡ γὰρ ὓλη μέροs "68 : non tanto come

63 Met., 1023 b, cit., ivi; tr. it. cit., ivi.

64 Op. cit., ivi.

65 Op. cit., ivi.

66 Op. cit., ivi.

67 Cfr. Phys., 187 b e 214 b; tr. it. cit., pp. 12-3 e 97-8.

68Met., 1032 b; tr. it. cit., p. 249.

parte di qualcosa ma come sostanza che si dà sempre secondo una divisione di parti, senza la quale non sarebbe possibile spiegare il divenire che si mostra nella materia stessa. Il divenire presuppone che la materia "preesista" ed "esista in" una parte che si sviluppa in un risultato69. La parte della quantità è perciò nella materia come nel suo tutto.

Il problema del rapporto fra la parte ed il tutto, che si riflette poi anche nella definizione della parte, è dato dal nesso fra sdoppiamento e ricomposizione. Vale a dire: quando cerchiamo di determinare quali siano le parti del tutto, ciò dovrebbe avvenire senza che si crei una nuova parte, cioè una parte che - dal punto di vista logico - non si lasci ricomprendere nel tutto già dato, mettendo così in discussione la capacità di chiusura del tutto (come concetto) ed aprendo un processo all'infinito (perché la nuova parte rimanda ad un nuovo tutto che a sua volta implica nuove parti, e così via). Ma che ciò sia possibile non è detto.

 

c. Questo problema è stato di fatto posto da Platone, nel Parmenide, proprio all'inizio della seconda ipotesi sull'uno, quella che non considera più l'uno in quanto uno (l'uno in sé e per sé, separato dall'essere) ma in relazione all'essere. L'uno in quanto uno è infatti concepito da Platone in maniera negativa, come qualcosa di cui né si può dire che è uno né che è70 : e questo proprio in conseguenza del fatto che, secondo il suo concetto, l'uno in quanto uno non ha parti, non è in altro e non è un tutto71. Questo non esserci delle parti nell'uno e questo non esserci dell'uno come parte in un tutto fanno sì che dell'uno non si possa determinare alcun predicato: perciò esso non ha forma, non è né in sé né in altro, né in quiete né in moto, né identico né diverso, né simile né dissimile, né Uguale né disuguale, e non è nel tempo72. Tutti questi predicati o modi di essere presuppongono infatti la divisibilità in parti e la loro connessione in un tutto. L'aver i predicati della forma, del luogo, del moto, etc. è proprio dell' essere, che quindi non è la stessa cosa dell'uno in quanto uno. Se si vuol uscire dall'indefinibilità e inconoscibilità dell'uno in quanto uno, bisogna allora considerarlo in rapporto all'essere, cioè in quanto "partecipi dell'essere"73.

69 Op. cit., ivi; tr. it. cit., ivi. Nella Fisica, 207 a, Aristotele specularmente: "μόριον γὰρ ἠ ὕλη τοῦ ὃλου", "la parte infatti è la materia dell'intero" (tr. it. cit., p. 75).

70 PLAT., Parm., 141 E.

71 Parm., 137 C-D.

72 Op. cit., 137 E -141 D.

73 Op. cit., 142 C; tr. il. cit., p. 392.

Lasciatici alle spalle l'uno in sé o l'uno in quanto uno, per così dire anteriore all'essere, bisogna dunque affrontare l'uno "che partecipa dell'essere"74.

Ma subito ci si imbatte nel problema rappresentato dal rapporto fra le parti e il tutto ossia dalla duplicazione o sdoppiamento in infinitum di questo rapporto. Infatti, la prima conseguenza dell'affermazione che "l'uno è", nel senso di "avere l'essere" o "partecipare dell'essere", è data dal dover ammettere che esso "consta di parti"75. E per quale motivo? Non per il motivo più semplice, come potremmo intenderlo noi, ragionando in questo modo: poiché l'uno partecipa dell'essere e l'essere deve ammettere le parti, l'uno allora dovrà concepirsi come composto di parti. La visione di Platone è invece più complessa e muove dalla constatazione che l'uno che partecipa dell'essere (l'uno essente o l'uno che è) ha come sue parti costitutive sia l'uno che l'essere e quindi deve esser concepito come un tutto composto di parti76. Come a dire: l'uno che partecipa dell'essere e l'essere partecipato non sono la stessa cosa ma due parti di una stessa cosa, di una medesima realtà. Ci si aspetterebbe, in verità, che essi costituissero una medesima realtà (un unico ente) senza esserne le due parti; ci si sarebbe aspettati, infatti, di veder proclamata - dopo l’asserita nientificazione del concetto dell'uno in quanto uno - l'identità assoluta dell'uno e dell'essere. Se infatti l'uno può esser pensato solo come avente (partecipante) l'essere - l'essere determinato nelle parti e nelle forme che costituiscono un tutto - questo essere dovrebbe esser la stessa cosa dell'uno e non una sua parte. Correlativamente, come potrebbe l'uno esser parte di questo essere? Sarebbe come dire che ciò che coincide con il tutto dell'essere (perché ne "partecipa") è nello stesso tempo parte di questo tutto: ma ciò che coincide con il tutto può essere solo tutto.

Invece Platone si preoccupa di mettere in rilievo che l'uno e l'essere che si partecipano sono entrambi parti; che il pensiero non può non considerarli come parti, come se il dualismo di uno ed essere si mantenesse anche all'interno della loro "partecipazione". Infatti, quando diciamo che l'uno partecipa del1'essere, sia all'uno che all'essere predichiamo ciò che contraddistingue l'altro termine. Diciamo infatti che l'uno ha l'essere e che l'essere è l'uno (non ha ma è l'uno). Tuttavia non si ha qui un'identificazione perché l'uno e l'essere in quanto tali non si sono mutati l'uno nell'altro, sparendo l'uno nell'altro, dando vita a qualcosa di nuovo e diverso; ci si è

74 Nella traduzione di Schleiermacher: "das Eins das Sein an sich hat" (PLATON, Werke, Griechisch und Deutsch, testo de Les Belles Lettres e trad. di Schleiermacher riv. da D. Kurz, a cura di G. Eigler, WBG, Darmstadt, 1983, V, p. 247).

75 Parm., 142 C; tr. it. cit., p. 392.

76 Op. cit., 142 C; tr. it. cit., pp. 392-3.

limitati ad attribuirli all'uno concepito non in sé ma come fornito del predicato dell'essere77. L'uno che è non è perciò semplicemente l'essere, senza ulteriore determinazione, ma una realtà che consta per il concetto e dell'essere e dell'uno i quali, allora, mantengono la loro individualità speculativa. Quando diciamo che l'uno è non facciamo altro che riunire due predicati, che possono perciò esser considerati parti della realtà cui si riferiscono. Si dovrà quindi intendere "l'uno stesso che ha l'essere come tutto, del quale l'uno e l'essere sono parti"78. Ma le parti non sussistono senza un tutto, sono sempre parti "del tutto"79. La suddivisione in parti implica l'esistenza del tutto e contemporaneamente l'esigenza logica della ricomposizione della suddivisione stessa nel tutto. In ogni caso, abbiamo accertato che l'uno che partecipa dell'essere è un tutto costituito di parti, anche se le parti sono solo due80. Ma l'idea dell'uno (per la verità dell'uno in sé) vuol esprimere quella di unità nell'assenza completa delle parti: la presenza di queste ultime mette quindi in discussione l'unità dell'uno. Perciò, una volta stabilito il principio della divisione in parti come principio operante nell'uno-essente o uno-che-è, si potrà stabilire un limite alla divisione stessa? Non si potrà, perché la divisione è una suddivisione che va all'infinito, facendoci qualificare come ἅπειρον l'uno che ha il predicato dell'essere81. Infatti, secondo il loro concetto, queste parti si dividono al loro interno cioè si suddividono82, perché non possono concepirsi come respingentisi a vicenda, come se l'uno stesse tutto da una parte e l'essere tutto dall'altra; come se l'uno si separasse andandosene con l'uno e l' essere andandosene con l'essere. Se si ammettesse questo tipo di suddivisione - come la rottura di un nucleo - si negherebbe la partecipazione proclamata.

Bisogna allora dire che "ciascuna delle parti implica (festhält secondo Schleiermacher) sia l'uno che l'essere", per cui "la parte viene ad esser costituita per lo meno di due parti"83. Dunque: le due parti del tutto in cui si costituisce l'uno provvisto dell'essere sono l'uno e l'essere ma ciascuna a sua volta è costituita dall'uno e dall'essere. Si apre così un processo all'infinito perché, quale che sia la parte considerata, ogni volta che ci troviamo di fronte ad essa ed in generale a ciò che definiamo come parte, esso contiene

77 Op. cit., ivi.

78Ivi.

79Ivi.

80Ivi.

81 Op. cit., 143 A; tr. it. cit., p. 393.

82 Op. cit., 142 E, p. 393.

83 Op. cit., ivi; tr. Schleierm. cit., p. 249.

sempre "queste due parti", cioè l'uno e l'essere84. E questa suddivisione che sempre si rinnova fa sì che "ciò che diviene sempre due, non sia mai uno"85. L'uno diventa in tal modo "una molteplicità infinita"86, una molteplicità infinita di parti.

Ma come si dimostra che né l'uno né l'essere che si partecipano a vicenda costituiscono un che di reciprocamente separato? Con la constatazione che ciò sarebbe in contraddizione con l'idea stessa della "partecipazione"? C'è in realtà anche una deduzione logicamente necessaria dalle premesse. Se ciascuna delle due parti, a causa del μετέχειν, non può separarsi dall'altra nemmeno per diversificarsi, allora in ognuna c'è anche l'altra; e se in ognuna c'è anche l'altra, ciò significa che ogni parte viene ad esser costituita di due parti: se stessa e l'altra. Ciò che vale per la partecipazione - ossia che una parte partecipa dell' altra - vale anche per ciascuna delle due parti partecipanti in sé considerate, dato che in ciascuna il partecipare che le ricomprende, lo σχμα, si riproduce esattamente allo stesso modo, cioè come l'aver luogo di un tutto costituito da due parti.

L'uno che ha l'essere è quindi un tutto costituito da infinite parti perché in ogni sua parte si hanno l'uno e l'essere, sì che ogni parte è in realtà due parti. Ma in tal modo ogni parte non solo è nel tutto ma si rivela essere un tutto perché, sdoppiandosi, appare come ciò che contiene e l'uno e l'essere. Se il processo è pensabile all' infinito, bisogna allora dire che la partenogenesi concettuale non si limita a produrre e riprodurre una moltitudine indifferenziata di parti. Dato che le parti lo sono solo nel tutto, ad ogni suddivisione si implica nuovamente il tutto come l'intero delle parti di quella suddivisione. Ma ciò è come dire che le parti e il tutto si implicano vicendevolmente all'infinito, senza che la catena trovi mai il suo anello terminale. Chi può chiudere l'uno e l'essere nel loro reciproco rapporto, senza che il diviso sia più divisibile? Non bisogna presupporre un uno assolutamente trascendente, il cui essere non è l'essere del tutto costituito di parti (che ha forma, luogo, figura, e il non essere del divenire) ma è l'essere perfettissimo, alla cui sostanza nulla toglie e nulla aggiunge l'esserci o meno della realtà che noi chiamiamo l'essere?

 

a. Va quindi notato che, per Platone, la realtà, in quanto semplice tutto composto di parti, defluisce nello ἄπειρον, nell'indistinto rappresentato da un suddividersi all'infinito delle parti. E questa conclusione, gravida di conseguenze, può esser mantenuta, ai fini del nostro discorso, nonostante le

84 Op. cit., ivi.

85 Op. cit., 143 A; tr. it. cit., p. 393.

86 Op. cit., ivi.

osservazioni che si possono opporre al ragionamento platonico. La principale delle quali sembra essere la seguente: che i due termini del μετέχειν sono posti come equivalenti mentre in realtà non lo sono. Infatti, l'ipotesi è: se l'uno partecipa dell'essere, non se l'essere partecipa dell'uno. Il partecipare in sé sembra mettere i due termini sullo stesso piano. Ma ciò è puramente formale ed ingannevole per questo semplice motivo: che se noi attribuiamo l'essere all'uno non possiamo attribuire allo stesso modo l'uno all'essere. Questa seconda attribuzione deve considerarsi implicita, nel senso che essa è il significato della prima. È come se si dicesse: attribuendo all'uno l'essere, il significato dell'essere è ora quello di coincidere con l'uno. Poiché l'uno è, l'essere è allora l'essere dell'uno e questo è il suo unico significato, in quanto natura che esprima l'essenza e la verità di qualcosa. In tal modo, però, l'essere, come parte nel senso sopra visto, verrebbe a dissolversi perché il significato di qualcosa non può esser considerato parte di questa stessa cosa. Se diciamo che il significato dell'uomo, creato a simiglianza di Dio, è quello di essere simile a Dio, dovremo considerare questo significato come parte dell'uomo? O non esprimerà esso la natura dell'uomo, ciò che è proprio dell'uomo nella sua essenza, in tutta la sua pienezza? Esprimendosi in altri termini, si può allora sostenere che l'uno e l'essere sono due parti disuguali del tutto, non dal lato della quantità ma della qualità, per cui il tutto verrebbe ad esser formato da una parte reale (l'uno che ha l'essere) e da una pensata come suo significato, dall'essere che esprime l'uno (senza identificarsi in esso). E come lo esprime? nelle parti, nel numero, nel moto, etc., in tutte le determinazioni fondamentali dell'essere. Ma allora si può addirittura affermare che l'essere sia qui, nella sua molteplicità, l'unità di misura dell'uno, così come la parte lo è del tutto, nel senso messo in rilievo da Aristotele (vedi sopra, sezione a di questo paragrafo).

 

b. Va inoltre osservato che quando Platone ricorda che la molteplicità rivelantesi nell'uno che è contraddice l'unità dell'uno, egli si serve in realtà dell'idea dell'uno in quanto uno, dell'uno in sé. Si è visto, infatti, che ciò che si suddivide sempre "in due" non può "mai essere uno"87. Quale "uno" non può qui avere "l'essere"? Non può trattarsi dello ἕν ὄν, dell'uno che è, perché la sua caratteristica è proprio quella di sdoppiarsi, riproducendosi all'infinito nel nesso delle parti con il loro tutto. In questo riprodursi, l'uno è, anche se non è in unità con se stesso. L'uno che non è, allora, sarà proprio quello che deve esser pensato in unità con se stesso. E questo uno, come si è visto, è

87 Op. cit., 143 A: "μηδέποτε ἕν εἶναι ", "niemals eins ist" (tr. Schleierm., cit., p. 249); tr. it. cit., p. 393.

l'uno in sé, l'uno in quanto uno. Quest'uno costituisce allora il punto di riferimento o parametro per giudicare della conformità con se stesso dell'uno che è, cioè della sua conformità all'idea dell'uno in quanto uno. Ma quest'ultimo non era stato dichiarato da Platone stesso inconoscibile e addirittura non esistente88? Come può allora costituire il punto di riferimento dell'uno che ha il predicato dell'essere, l'idea di un'entità che si è dichiarata inconoscibile al punto da far ipotizzare una sua inesistenza?

 

d. Prescindendo da queste considerazioni, notiamo come, in base a quanto finora esposto, il concetto della parte non si caratterizzi in modo univoco. Infatti, esso è visto ora in relazione al tutto, ora separato da esso. Secondo Platone, la parte è sempre parte di un tutto. Inoltre, ogni parte è due parti, perché in essa partecipano l'uno e l'essere. La parte è perciò sia parte del tutto sia il tutto stesso, se essa è sempre pensabile come un uno di due. La parte è per così dire sempre il contrario di se stessa, sul piano logico, dal momento che è pensabile contemporaneamente come parte e come tutto. Il tutto è infatti per definizione l'opposto della parte: se quest'ultima è sempre un tutto (in quanto uno di due) allora è sempre l'opposto di se stessa.

In Aristotele, invece, come si è visto, la parte non è definita in quanto appartenente al tutto ma in quanto separabile da esso: è ciò che si può togliere e, in quanto separabile, costituisce l'unità di misura del tutto. In Aristotele prevale quindi l'idea dell'esser-separato per determinare la parte nella sua natura specifica, mentre Platone si richiama costantemente al fatto che la parte non può uscire dal tutto, tanto da ricrearlo in se stessa per trasposizione (se così possiamo dire). In Aristotele c'è anche una considerazione della funzione che la parte può assumere, in quanto unità di misura, e la distinzione tra la divisibilità in parti della quantità e della qualità, vista quest'ultima come "forma" e come "concetto". Rispetto alla quantità, questi ultimi appaiono infatti qualità. Anche la qualità è allora parte del tutto, in quanto modo dell'essere, e può suddividersi in parti. Che cos'è dunque la parte: ciò che si può concettualmente isolare dal tutto e che può addirittura misurarlo o ciò che è comprensibile solo nel tutto e che anzi è sempre uno di due? Ciò che oltre ad aver quantità, ha anche qualità perché comprende non solo le suddivisioni della materia ma anche le loro qualità (come parti della materia) ed il loro significato? E non solo il significato o valore di ciò che appartiene all'essere caduco della materia ma anche l'aver significato e valore in quanto tali, come realtà puramente spirituali?

88 Op. cit., 141 E: " οὔτε ἔστιν "; tr. it. cit., p. 393.

La risposta a siffatti quesiti può poi esser tale da esprimere un concetto univoco, unitario della parte ossia capace di farci comprendere, senza dar luogo a contraddizioni, quali siano le parti del tutto?

 

10. La parte e l'ente

 

a. La parte fa dunque onore al suo nome, manifesta cioè già nel nome una natura concettuale duplice perché esser parte si dice di ciò che partecipa di un tutto e far parte a sé, invece, di ciò che se ne separa. La parte è quindi sia ciò che è ricompreso in un'entità più grande sia ciò che se ne toglie o ne vien tolto. In se stessa, poi, essa costituisce sempre un tutto perché consta a sua volta di parti. Può infatti esistere qualcosa che non sia divisibile in parti? Se l'atomo è divisibile, non lo è allora anche il punto? Sappiamo infatti che per Euclide "punto è ciò che non ha parti"89. Esso è inoltre "l'estremo di una linea"90. Questa seconda definizione non è diversa dalla prima ma ne rappresenta un' applicazione. Infatti, il punto non è privo di parti solo quando è l'estremo di una linea; all'opposto, poiché è in sé privo di parti, permette di configurare l'estremità della linea come punto. La linea può naturalmente esser divisa in parti ma la sua divisibilità si arresta dove essa finisce, in quel punto che perciò non può esser considerato una parte da dividere ulteriormente. Per quanto si divida, ci dovrà sempre essere un punto che costituisce un limite tra la cosa che si divide (la linea) e il resto dello spazio, un punto che in quanto limite ultimo è insuperabile, come se si trattasse di un'entità indivisibile. In quanto estremità di una linea, il punto mostra dunque il limite della figura geometrica, quello in cui non si ha più alcuna possibilità di avere parti perché la figura finisce, riducendosi ad un punto.

Euclide non dice che il punto sia indivisibile ma il non avere parti è inteso in genere come sinonimo di indi visibilità o come una qualità che necessariamente la implica, come per l'Uno in sé: "Or là, ou il n'y a point de parties, il n'y a ni étendue, ni figure, ni divisibilité possible"91. Tuttavia il punto non è solo l'estremo della linea ma anche ciò di cui la linea è costituita, perché oltre che in parti (segmenti) essa può esser divisa in punti. La linea retta infatti è "quella che giace ugualmente rispetto ai punti su di essa"92 ovvero, possiamo intendere, in modo che la perpendicolare condotta

 

 

89 EUCL., Elem., Def. I: "σημεῖον ἐστιν οὗ μέροs οὐϑέν "; ed. Heiberg-Stamatis, Leipzig, 19692, p. I (tr. it. Gli Elementi di Euclide, a cura di A. Frajese e L. Maccioni, Torino, 19772, p. 65).

 90 Op. cit., Def. III, p. 1; tr. it. cit., p. 66.

91 LEIBNIZ, Les principes de la philosophie ou la Monadologie. ed. Robinet, Paris, 19863, 3, p. 69.

92 EUCL., Elem., cit., Def. IV; p. 1; tr. it. cit., p. 66.

 

 

per ogni suo punto formi sempre con essa un angolo retto. Allora: i punti non hanno parti, costituiscono però le parti più piccole in cui ci si può rappresentare la divisione della linea. Non è questo un paradosso? Se i punti non hanno parti e tuttavia costituiscono la linea, bisognerebbe infatti dire che la linea è composta di elementi indivisibili e che quindi non si può mai dividere in parti. Del resto, ciò che si può dividere in parti, come può risultare di elementi che non hanno parti? Ogni segmento in cui la retta può esser divisa non dovrebbe allora calcolarsi da un punto ad un altro della retta ma da uno spazio fra un punto ed un altro ad un altro spazio fra un punto ed un altro (fra due punti). Sarebbe improprio affermare che la divisione comincia in un punto e finisce in un altro. Ma tutto ciò è chiaramente inaccettabile perché porterebbe ad ammettere che tra i punti devono esserci degli intervalli, divisibili ma non in punti.

In realtà, anche se si ammette che il punto "non ha parti", non vi è contraddizione nel riconoscere che esso è parte di una grandezza e figura qualsiasi, dalla retta alla superficie alla circonferenza. Del resto, non solo la retta ma ogni superficie e volume si possono immaginare composti di punti. Onde si può affermare che il punto è in realtà la parte più piccola di ogni possibile figura geometrica e della realtà in quanto tale, così piccola da non poter più esser considerata come composta di parti. E diciamo che questo è vero ma solo dal punto di vista dell'esperienza comune: è infatti impossibile determinare le parti di un punto. Ciò non significa però che esso non le abbia, come dimostra l'esistenza di una struttura atomica e subatomica in entità molto più piccole di un punto visibile ad occhio nudo. Più che un'entità priva di dimensione, il punto sembra essere la forma più piccola possibile della dimensione, quella in cui l'estensione si contrae nel massimo della piccolezza, un massimo non predeterminabile. Si potrebbe perciò sostenere che il punto è una sfera infinitamente piccola allo stesso modo della nostra terra, piccolissimo punto nell'immensità dell'universo di cui è parte.

 

b. Anche i punti sono dunque parte del tutto; e nel tutto, quale che sia e come che sia divisibile, vi sono sempre parti: non c'è nulla in esso che non sia divisibile, anche se attualmente indiviso. Perlomeno, nulla di ciò che consideriamo appartenente all' essere determinato nella forma, figura, quantità, etc. I primi elementi possibili di una definizione della parte sono dunque i seguenti. In primo luogo l'esser ricompreso nel tutto, l'inclusione in un'entità sempre maggiore di quella inclusa. In secondo, l'esser separato dal tutto, l'esclusione da ciò che pur ricomprende la parte. Giusta la prima caratteristica, la parte mostra una relazione di inclusione con il tutto; di esclusione, con la seconda. La parte è dunque in un rapporto di inclusione o


di esclusione con il tutto (ma non è questo stesso rapporto). I due rapporti suddetti si configurano come opposti e contrari. Tuttavia essi non sono speculari. Infatti, nel rapporto di inclusione si ha che la parte è nel tutto come realtà il cui significato (l'esser nel tutto) non è in contraddizione con il Dasein stesso della parte, perché il significato di questo rapporto concorda con il dato di fatto in esso rappresentato, costituito dall'aver concretamente luogo nel tutto come sua parte. Ma nel significato dell'esser parte, c'è anche quello di esser parte per sé, cioè di distinguersi, nella propria individualità, dal tutto di cui si partecipa. Perciò la parte, inclusa spazialmente e temporalmente nel tutto, oltre al significato di esser parte del tutto, ha anche quello opposto di esser parte per sé. E ce l'ha ipso facto, per il fatto stesso di essere ciò che è, senza bisogno di separarsi effettivamente dal tutto. Perciò la parte deve considerarsi concettualmente separata dal tutto già per il suo significato intrinseco, che la distingue dal tutto come sua parte (quella parte) quand'è ancora ricompresa in esso. Per esser qualcosa di distinto rispetto al tutto, la parte non ha allora bisogno di esserne effettivamente tolta, dal momento che la sua individualità già la separa concettualmente dal tutto di cui è parte, le conferisce il significato di un far parte per sé. L'esser separato della parte è allora da intendersi in modo duplice perché risulta da una separazione effettiva (quando c'è, sia pure da un tutto a sua volta determinato come ente o parte) o meramente concettuale, data cioè dal significato dell'esserci della parte (senza bisogno di un suo atto specifico). Se poi si ritiene che la parte si trovi sempre in un tutto (che possa mutare solo da un tutto ad un altro) e che comunque sia sempre nel tutto della realtà intesa nella sua totalità spazio-temporale, bisogna allora dire che la separazione della parte dal tutto, in senso assoluto è pensabile solo come significato della parte e mai come sua realtà effettiva e quindi come il differenziarsi intrinseco alla sua individualità di parte.

Ma allora la parte, per il solo fatto di essere inclusa, si esclude? perché, se è parte in quanto è nel tutto, proprio in quanto parte, nello stesso tempo se ne differenzia? Allora il significato della parte in quanto parte è sì quello di essere parte del tutto, di esser cioè come appare secondo l'esperienza; ma nello stesso tempo, il significato della parte in quanto parte è quello di esser per sé. Ma non può esser per sé, perché astratta dal tutto non-è; tuttavia, nel momento stesso in cui è, partecipando del tutto, è per se stessa, è come individualità che si distingue dal tutto e quindi non-è in quanto parte del tutto. E così via all'infinito, con questa dialettica negativa della parte e del tutto: negativa, perché essa mira a costruire il loro rapporto sulla contraddizione e quindi sul non-essere (e un esempio di essa lo abbiamo già trovato, a ben vedere, nel Parmenide).

Questa possibile contraddizione o antinomia tra le parti e il tutto ricorda quella vista in precedenza a proposito della natura contraddittoria del tutto, il quale è a causa delle parti e nonostante le sue parti (cfr. § 4 b del presente lavoro). In modo simile si potrebbe infatti sostenere che la parte è tale a causa del tutto e nonostante la sua appartenenza al tutto. Infatti, senza appartenenza al tutto non è, ma il significato di questo suo essere è anche l'esser per sé in quanto parte, l'individualità che concettualmente si separa e contrappone in quanto entità compiuta e determinata. Nonostante il suo esser nel tutto, la parte mostra perciò l'individualità dell'esser per sé. Così quando diciamo che la testa fa parte del corpo mettiamo in rilievo il fatto che senza il corpo non esisterebbe la testa; che il corpo come un tutto permette alla testa di essere ciò che è - la sua testa - possedendola come parte. Ma nello stesso tempo individuiamo quella parte del corpo come testa, e con ciò la distinguiamo, separandola per il suo significato intrinseco dal resto del corpo e da tutte le altre sue parti, sì da non confonderla con nessun'altra. Nel primo caso la parte è ciò che è, solo perché appartiene al tutto; nel secondo solo perché se ne distingue. E non è diventata altro da sé, ma si è mostrata nella sua individualità specifica nonostante la sua appartenenza al tutto.

Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, dove stiano l'astratto e il concreto. Se cioè sia l'appartenenza al tutto l'elemento concreto, confermato dall'esperienza, il dato di fatto, mentre il significato di questa appartenenza sarebbe l'astratto, un che di meramente pensato che non incide sulla realtà di fatto, perché la separazione che esso vuol far apparire tra la parte e il tutto si risolve nella mera contrapposizione di una figura concettuale, secondo il modo di procedere della dialettica, non di un'entità reale ad un'altra.

Ed è noto che le negazioni della dialettica vengono stabilite come significati dei fatti per poi essere considerate come fatti, dei quali i fatti concreti diventano a loro volta la negazione. Il fatto concreto diventa così il significato di un significato, anzi, per esser più precisi, il significato del suo stesso significato originario, in quanto ad esso contrapposto. In siffatta ragnatela, al rapporto lineare tra fatto e suo significato (in relazione al fine) si sostituisce quello circolare di una doppia negazione: il significato del fatto è la negazione, che il pensiero deve scoprire e dichiarare; questa negazione è allora il fatto che permette di concepire il fatto concreto come negazione del suo significato e di stabilire il rapporto altrimenti semplice e convergente tra fatto e suo significato come rapporto affatto semplice ma contraddittorio perché costituito dalla negazione reciproca. Grazie a questa negazione, sia la differenza che la convergenza tra fatti e loro significati si oscurano e vengono rovesciate e tutta la realtà sprofonda nel caos di un gigantesco caleidoscopio speculativo in cui la negazione (la dialettica del negativo) è il motore di un continuo divenire. Ma è il divenire della negazione stessa. E il


pensiero, come dimostra in modo incontrovertibile il punto d'approdo nietzscheano, si dissolve nelle categorie del Negativo.

 

c. A giustificazione apparente di questa dialettica, di questa pretesa del pensiero di "distruggere il finito" offertoci dall'esperienza svelandone il negativo ossia mettendolo in contraddizione con se stesso (con il significato di cui è portatore) sta la constatazione che il significato di qualcosa non è il qualcosa stesso. Vale a dire: una cosa è il fatto o l'ente, un'altra cosa il suo significato. Questa separazione non impedisce però che ciò che accade (il fatto) o ciò che è (l'ente) sia già secondo un suo significato o valore che dir si voglia. Ed il significato deriva proprio dall'aver luogo o dall'essere dell'ente secondo un fine. L'aver significato e l'essere secondo un fine sono come le due facce di una stessa medaglia, che non si possono separare nella realtà concreta dell'essere e dell'accadere, perché senza un fine niente è o accade e quindi niente ha un significato93 . Nessuna azione umana è comprensibile se non si tiene conto del fine in essa perseguito e quindi dell'intenzione dell'agente. Tant'è vero che gli uomini, da quando esistono, per giudicare gli altri o per esserlo, non ammettono altro criterio che quello del respice finem. (E la natura stessa è comprensibile senza l'idea di un fine per il quale è stata creata?).

La distinzione tra il fatto e il suo significato sembra posta unilateralmente dal pensiero poiché è il pensiero che sembra attribuire un significato alle cose: in realtà esso è colto dal pensiero come parte effettivamente esistente dell'essere. Infatti, la quantità (l'essere o l'accadere degli enti) appare intrinsecamente dotata di una sua qualità (il significato) così come, per fare un esempio, il fiore ha sempre un colore, che ne appare una qualità, modo di essere della quantità (o entità o ente determinato) che chiamiamo fiore. Il colore, in sé e per sé considerato, è cosa ben diversa dal fiore (tant' è vero che non si ritrova solo nel fiore) e non possiamo dire che questa diversità sia posta dal pensiero, che si limita invece a riconoscerla. Altrimenti tra l'essere e il modo di essere, tra una cosa e le sue qualità non ci sarebbe differenza e non si distinguerebbero la sanità e la malattia in quanto modi diversi e contrapposti di un medesimo essere, i quali, per potersi distinguere tra loro, devono distinguersi concettualmente dall'essere cui ineriscono. Quando diciamo che un uomo è malato non intendiamo certo dire che l'esser uomo sia la stessa cosa dell'esser malato. E nemmeno lo intendiamo quando diciamo che un uomo è sano, altrimenti non potremmo poi riferire l'esser malato all'uomo.

93 ARIST., Met., 994 b; tr. it. cit., p. 69.

L'esser uomo è dunque quell'essere dell'ente che va distinto dagli stati o modi nei quali si attua, stati o modi che non sono tuttavia posti dal pensiero (che non crea né la salute né la malattia, né il colore né il sapore) ma da esso acquisiti come qualità delle cose e riconosciuti nella loro individualità.

E se la qualità o il modo di essere (quale che sia la spiegazione che se ne dà, se meccanicistica o meno) è riconosciuto come appartenente ex natura all'oggetto, ciò significa che il pensiero coglie la diversità (cioè l'esser per sé della qualità) nell'unità, cioè nel suo inerire ontologico all'oggetto come parte al tutto. Difatti, così come il colore è sempre unito al fiore in quanto fiore (pur essendo in sé altra cosa dal fiore), unito intrinsecamente, per natura (e non ad opera del pensiero), allo stesso modo lo è la qualità in generale all'ente o essere di cui è qualità. Il pensiero coglie perciò nel medesimo ente sia la differenza che l'unione, secondo un rapporto assimilabile a quello della parte al tutto. Né si può affermare che il colore sia in contraddizione con il fiore e più in generale la qualità con la quantità cui inerisce, se non muovendo dal pregiudizio teoretico che ciò che è non è: non è, non perché sia in contraddizione con il fine per cui è, ma per il solo fatto di essere! Non è: ovvero rappresenta sempre il contrario di se stesso, opponendosi e negandosi già nelle parti che, come tutto, lo costituiscono. In quest' ottica, l'essere è mera apparenza perché contiene il non-essere: "denn Schein nennen wir das Sein, das unmittelbar an ihm selbst ein Nichtsein ist"94. Ma questo essere "che immediatamente è in se stesso un non-essere", e quindi scade a mera "apparenza" del divenire, non è un essere particolare, un aspetto dell'essere, una sua parte decaduta, ma è l'essere in quanto tale, che è quindi condannato a non esser altro che apparenza95 . L'essere in sé, che ci appare come "l'immediato indeterminato", non è "in realtà altro che il nulla"96 qualcosa che deve sparire nel divenire, che anzi è già tramontato ("zeitlos vergangene"), nel momento in cui è.

Ora, come è possibile stabilire il concetto della contraddizione, prescindendo dall'idea del fine? Vogliamo dire che non si può definire l'esser o meno in contraddizione di qualcosa, se non in relazione al fine per cui qualcosa è o agisce. Senza l'idea del fine manca il punto di riferimento o addirittura il fulcro, lo Schwerpunkt, per poter affermare che si è in contraddizione. Infatti, posso dire che la natura o l'uomo sono in contraddizione con se stessi o fra di loro solo se ho una nozione del fine per

94 HEGEL, Phaenom. d. Geistes, ed. Hoffmeister, Hamburg, 19526, p. 110 (il passo è nel cap. III, Kraft und Verstand).

95 HEGEL, Wissenschaft der Logik, ed. Lasson, Hamburg, 19342, 1963, lI, pp. 3-5,7 ss. (Die Lehre vom Wesen, Introduzione e primo cap., A e B).

96 Op. cit., ivi, A.

cui essi sono, in se stessi e reciprocamente. Altrimenti, perché si afferma che l'azione malvagia pone chi la fa in contraddizione con la propria umanità, che viene così negata nei suoi propri fondamenti? Perché evidentemente essa contraddice al fine per il quale l'uomo è stato creato, che consiste nel ricercare ed attuare coscientemente il bene con tutte le sue forze. E perché si comincia a percepire l'odierna, impressionante attività di trasformazione e manipolazione della natura come un'attività che va contro l'ordine della natura, dato che crea squilibri, anomalie e mostruosità sempre più gravi, al punto da esser sentita come una negazione della natura e delle sue leggi? Perché, se non per il fatto che essa viola il fine per il quale la natura è, esiste con il suo ordine, impostole dal Creatore? I Fisici negano che si possa attribuire un fine alla natura e comprenderla secondo quest'idea. Ma essa si impone malgré eux già nel momento in cui ci accorgiamo che l'attività di trasformazione della natura fondata sulla scienza e da essa ispirata, invece di realizzare un nuovo ordine della natura ne stravolge il precedente. E quest'ordine che ci dimostra ogni giorno la sua insopprimibile esistenza, come può essere senza un fine? Può un ordine nascere dal caso e lasciarsi vivere dal caso?

Affermare che l'essere, per il solo fatto di essere, è la stessa cosa del nulla, perché domani è già mutato e quindi contiene già il non-essere di ciò che oggi è, significa dunque affermare che l'essere, per il solo fatto di mostrare in se stesso un divenire, si contraddice e si nega. Ma ciò vien detto senza cercare di comprendere il fine ed appare alla stregua di un'affermazione gratuita. Del resto, l'essere sarà pure per un fine che ne giustifichi il divenire secondo un ordine, altrimenti bisognerebbe ammettere che la realtà in quanto tale non ha senso. Se noi non indaghiamo il fine, non possiamo perciò affermare che ciò che è contiene una contraddizione. Ma una delle caratteristiche del pensiero moderno è proprio questa: di concepire la contraddizione e l'antitesi esclusivamente nell'ambito della relazione, cioè di quell' esser-in-relazione di parti e di esse con il tutto, che costituisce la realtà come realtà, data però solo da questo stesso esser-in-relazione, senza riferimento alcuno alla causa prima e finale. Da qui la mancanza di senso perché la nostra immagine del reale viene ad essere quella di una realtà in contraddizione con se stessa non perché devii dal fine ma per il solo fatto di esistere e quindi senza motivo.

A ben vedere, l'immanentismo radicale di questa concezione dovrebbe addirittura render impossibile 1'idea stessa della contraddizione. Si ricorre perciò all'escamotage speculativo di trasformare la differenza in negazione e la contrapposizione in contraddizione. La qualità, come qualità sensibile della cosa o come suo significato, diventa allora negazione dell'essere immediato della cosa stessa: la sua differenza con la cosa, che la distingue e contrappone concettualmente ad essa, diventa negazione che trasforma la contrapposizione in contraddizione. E ciò che vive di un'intima contraddizione, può essere veramente? È chiaro che no, che è apparenza e quindi non è.

Ma tutto ciò è arbitrario, un vero e proprio salto mortale speculativo, perché la differenza non può come tale esser concepita come negazione. La differenza è infatti un modo di essere nel quale si rivela la diversità degli enti

o negli enti. Essa non si limita a far venire in essere "il limite della cosa" perché "sie ist da, wo die Sache aufhört, oder sie ist das, was diese nicht ist"97, bensì individua "la cosa" nella sua qualità specifica; esprime una relazione che ci permette di cogliere l'essere nell'ente determinato, l'ente la cui individualità permette la relazione della differenza. Per noi essa è il risultato di un paragone che si fonda su di un giudizio di fatto, un giudizio di conformità all'esistente, perché la differenza tra Paolo e Giovanni o tra l'uomo e il cavallo o tra il colore e il fiore o tra il bene e il male, esiste indipendentemente dal pensiero che la riconosce. La negazione, invece, implica un atto della volontà e la volontà non opera senza la rappresentazione del fine, la quale a sua volta comporta un giudizio di valore. Affermando che la qualità della quantità che è l'ente è come tale diversa dall'ente, così come la parte lo è nei confronti del tutto, non si fa altro che riconoscere una semplice verità di fatto. E ciò che vale per il colore rispetto al fiore (per la qualità sensibile rispetto alla quantità), vale allo stesso modo per il significato in quanto tale, che si distingue in sé da ciò di cui è il significato, rappresentandone la qualità spirituale specifica, che ha il medesimo essere dell'ente di cui è l'attributo. E che il significato o valore abbia una vita propria rispetto agli enti cui inerisce, lo dimostra il fatto che si continua a tributare un determinato significato o valore a fatti o ad uomini anche dopo lungo tempo. La persona o il fatto non sono più, sono stati, ma il significato di ciò che hanno fatto o sono stati, resta immutato nel tempo ed è tuttora presente. La memoria non conserva solo il fatto ma anche e soprattutto il suo significato, che sembra mantenersi più a lungo degli esatti contorni del fatto.

Il significato della cosa, allora, si distingue dalla cosa pur coincidendo con essa, allo stesso modo del colore nei confronti del fiore cui inerisce. Ma in ciò non vi è affatto contraddizione perché sia l'uno che l'altra (il significato e la cosa) concorrono al medesimo fine e sono uniti a causa del fine per il quale l'ente è ciò che è (un fine che è diverso per l'uomo e per il fiore). Si può allora affermare che anche il significato di qualcosa è un fatto,

97 Phaenom. d. Geistes, cit., Vorrede, ed. cit., p. 11.

come lo è in generale tutto ciò che ha qualità o la qualità stessa di qualcosa, anche quando abbia perso ogni connotato quantitativo (presente nelle qualità sensibili delle cose) e sia invece il puro significato o valore di qualcosa. Su questo fatto c'è in genere minor accordo di quanto ce ne sia sull' esistenza stessa della cosa: il significato concerne infatti l'essenza o natura della cosa non il semplice accertamento della sua esistenza. È una verità di ragione che, in quanto è, esiste ed appartiene al regno dei fatti, come tutto ciò che esiste (essa è perciò anche verità di fatto). E se così non fosse, bisognerebbe dire che il pensiero stesso non è un fatto e quindi non ha realtà, non esiste, perché le verità da esso proclamate, che pure esistono, non appartengono all'ordine dei fenomeni. La verità di ragione non ha minor realtà di quella di fatto: l'unica differenza è che la sua realtà è nel regno del pensiero e della qualità. E chi può negare l'esistenza della qualità come esistenza obiettiva di una realtà a sé? Chi nega ciò, nega l'esistenza stessa del pensiero oltre a quella del significato e del valore delle cose.

Che poi vi siano diverse interpretazioni di un significato, ciò non cambia nulla a quanto detto, poiché i diversi modi di intendere il significato o valore di qualcosa partono tutti dal presupposto che un significato vi sia, come caratteristica ontologica dell'ente o del fatto. Si tratta solo di riuscire a stabilire quale esso sia veramente, secondo la natura della cosa che in esso si esprime. Il pensiero non crea perciò il significato dal nulla ma si sforza di coglierlo nella sua verità, come verità di qualcosa che esiste indipendentemente dal pensiero, ed in quanto vero è fatto proprio dal pensiero.

L'astrazione nel pensiero non consiste quindi nell'attribuire un determinato significato all'esistente (cosa che l'uomo non può non fare perché l'esistente è già di per sé costituito secondo un significato), ma nell'attribuirgliene uno non conforme, in tutto o in parte, alla natura delle cose. E in questo errore cadrebbe chi volesse contrapporre la parte al tutto in base al ragionamento che l'unico significato della parte qua parte sia quello di esser qualcosa che nella sua individualità è separato rispetto al tutto e in modo tale che il rapporto tra l'uno e l'altra sia contraddittorio. Come se il fatto dell'esser compreso nel tutto non avesse anch'esso un suo significato specifico, non contraddittorio con il significato di ciò che viene ricompreso. Quando Aristotele scrive che, una volta distrutto il tutto, non avremo più "né piede né mano se non per omonimia"98 per cui la mano da sola, separata dal corpo, non è che una mano "di pietra"99, egli sembra voler dire che il significato di ciò che è incluso nel tutto è quello di avere solo nel tutto il proprio significato.

 

98 ARIST., Pol., 1253 a; tr. it. cit., pp. 9-10.

99 Op. cit., ivi.                                                                                         

Per cui, scomparso il tutto, la parte eventualmente superstite non ha più alcun significato e se ne sta in maniera del tutto inutile nella propria individualità, come qualcosa di morto ("di pietra"). Si potrebbe dire, quindi, che l'esser incluso nel tutto ha il suo significato proprio, non meramente descrittivo, in conseguenza del quale la parte che si separi diventa priva di qualsiasi significato o, se si preferisce, lo muta in senso completamente negativo, poiché è diventata qualcosa di morto. Non è allora la parte ricompresa nel tutto ad esser in contraddizione con il tutto, ma quella che se ne separa, dato che il suo significato è ora quello di essere qualcosa che rappresenta l'antitesi del tutto in quanto tale.

Il rapporto di inclusione della parte nel tutto non è quindi intrinsecamente contraddittorio perché concepibile nello stesso tempo come rapporto di esclusione, dato che la parte deve pur conservare la sua individualità e l'individualità la differenzia e la contrappone al tutto di cui è parte, negandolo rispetto ad essa. Nel rapporto tra la parte e il tutto, invece, la differenza e l'unità coesistono e si integrano in quanto concorrenti al fine, senza il quale né il tutto né la parte sarebbero. Nel suo rapporto con il tutto, la parte non è quindi in contraddizione né con il tutto né con se stessa. Non è l'essere di un non-essere, a meno che non voglia esserlo; né è ciò che è, solo perché è in relazione con il tutto.

 

d. Dopo aver visto la parte nella sua relazione con il tutto, secondo i vari aspetti della relazione dell'esser-incluso e dell'esser-separato; dopo aver visto i primi elementi della sua definizione, consideriamola ora in se stessa, come realtà determinata, nella sua natura di ciò che è parte di qualcosa, tenendo presente che il nostro obiettivo ultimo è sempre quello di arrivare a stabilire quali siano le parti del tutto. Si è detto che l'esser parte di qualcosa è proprio di una grandezza che sia ricompresa in una maggiore (cfr. § 9 a di questo lavoro). Quest'ultima può esser a sua volta parte di un tutto o il tutto, un tutto compiuto, come nel caso in cui la parte risulti per esempio della metà esatta di una grandezza (perché qui la metà, cioè la parte, non è contenuta nell'altra metà, ossia nella grandezza che rappresenta l'altra parte, ma nel tutto).

La definizione appena ricordata è conforme all'esperienza e si adatta alle realtà più diverse. Se poi si vuol riguardare la parte non come ciò che è ricompreso ma come ciò che è tolto (vedi supra, § 9 a, cit.), non ci si allontana da quanto appena detto perché ciò che viene tolto deve prima esser stato ricompreso nel tutto da cui si toglie. Nel togliersi, reale o mentale, della parte viene in primo piano la sua individualità, che tuttavia già esisteva: essa non viene creata dal nulla ma semplicemente riconosciuta o tradotta in atto, come nel caso della statua, che non era parte (se non per metafora) del blocco di marmo da cui è stata tratta, ma della mente dello scultore (in effigie). Ad ogni modo, quel che è certo è che, quale che sia il lato dal quale la si consideri (se dall'esser-ricompreso o tolto), la parte in senso proprio non può non esser concepita che come una grandezza finita. Infatti, ciò che è nel tutto e ciò che se ne toglie è comunque una realtà finita, di cui si conoscono l'inizio e la fine e quindi il limite. Grazie al limite tra la parte e ciò che essa non è (le altre parti e il tutto) la parte mostra la sua forma. Esiste una forma infinita? Senza pretendere di poter rispondere a questa domanda, diciamo che tutto ciò che è finito ha sicuramente una forma, grazie alla quale esso è per noi una realtà determinata e distinta da ciò che esso non è.

L'esser della parte è perciò caratterizzato dalla finitezza, dalla forma, dal limite: dall'esser una realtà in se stessa determinata, che rappresenta quindi l'esatto contrario sia dell'indeterminato che dell'infinito, dell' ἄπειρον in entrambi i sensi nei quali la tradizione lo ha sempre inteso. Nell'esser-parte abbiamo poi anche la relazione come esser in relazione di due grandezze, una delle quali non determina l'altra ma è da essa determinata. Non si può dire, infatti, che ciò che è ricompreso determini ciò che lo ricomprende. La grandezza determinata è dunque la parte in senso proprio. Ma la grandezza può avere quantità come non averla. La grandezza è la stessa cosa dell'estensione in sé e per sé, senza alcun corpo o ente: il vuoto privo come tale sia di materia che di energia. La quantità è invece una grandezza che ha un volume, è ciò che come materia ed energia occupa l'estensione (anche se per l'energia sembra improprio parlare di volume). La quantità corrisponde al pieno, la grandezza al vuoto. Perciò, se ogni quantità possiede una grandezza non ogni grandezza possiede quantità. E questo lo si applica allo spazio. Infatti, lo spazio ha questo di particolare: che, pur essendo una realtà fisica, è una grandezza senza quantità (e non, senza qualità), perché l'estensione in quanto tale non ha quantità, pur non potendo non essere una grandezza. Ma la grandezza senza quantità è indeterminata perché è misurabile non in base a ciò che essa è ma a ciò che in essa è, cioè alle quantità determinate che ricomprende, siano esse discrete o continue (sullo spazio vedi infra, § 14).

L'esser-determinato della parte in senso proprio implica dunque, come si è detto, la relazione della parte con ciò che la ricomprende. Ci si può chiedere se ciò che ricomprende la parte possa a sua volta esser considerato parte, pur essendo un tutto nei confronti della parte in esso ricompresa, sulla falsariga del ragionamento sviluppato nel Parmenide (vedi supra, § 9 c). Anche se si ammettesse ciò, la definizione della parte in senso proprio resterebbe immutata perché il tutto meno la parte determinata non sarebbe più solamente ciò che ricomprende ma ciò che è a sua volta ricompreso, nel nuovo tutto formato da se stesso mutilo della parte in questione e da questa stessa parte. Ma questo nuovo tutto non sarebbe in realtà altro che il tutto precedente.

Va poi detto che l'esser-in-relazione della parte con ciò che la determina non riguarda la definizione della parte in sé e per sé ma ne è piuttosto una conseguenza, dal momento che l'essere-in-relazione non permette come tale di cogliere la natura della cosa. Se diciamo che l'uomo è un ente in relazione con i suoi simili e il suo ambiente, non sappiamo ancora cosa sia l'uomo, in quanto individualità determinata da una natura specifica. Se l'esser-in-relazione costituisce non un mero e accidentale dato di fatto ma una vocazione dell'uomo, in quanto essere socievole, allora esso è un manifestarsi della natura dell'uomo, la quale deve perciò essere presupposta ad ogni possibile esser-in-relazione. Ché la relazione presuppone gli enti che la costituiscono e non è essa a costituirli in quanto tali (così come il moto non può preesistere ai corpi che lo attuano).

Io so di essere ciò che sono in relazione all'altro, ma ciò che sono, lo sono in sé, indipendentemente dall'altro e persino dalla coscienza che ne ho. Ciò che sono, lo sono perché sono, non perché in relazione con l'altro. Il sapere di me in relazione all'altro ha valore dichiarativo, non costitutivo di ciò che sono. So quindi che l'esser-in-relazione con l'altro mi serve per sapere, non per essere ciò che sono. Il mio essere, cioè la mia natura determinata secondo caratteristiche irripetibili, nella quale si svela e si attua un' essenza che esiste di per sé, indipendentemente dal mio pensiero (dalla conoscenza che ne ho), non è costituito dalla relazione con l'altro né si costituisce in questa relazione (come sostengono coloro i quali affermano che l'uomo non è altro che il suo farsi). È invece il mio essere a costituire la relazione, sia come premessa (l'esserci di me stesso come ente) sia come intenzione che si attua in un'azione per un fine. E se la relazione mi arricchisce o impoverisce, ciò dipende solo dal modo in cui la mia natura reagisce ad essa ossia dal modo in cui il mio essere si serve della relazione con l'altro per sviluppare la propria inclinazione.

 

e. Dopo aver precisato questo punto, riprendiamo la nostra analisi del concetto della parte in senso proprio, soffermandoci sulla grandezza che determina la parte in quanto tale. Questa grandezza, infatti, può essere a sua volta determinata; ma può essere anche indeterminata, dal punto di vista dell'estensione e della durata (e ciò si ha innanzitutto quando si tratti dell'estensione e della durata in quanto tali, ossia dello spazio e del tempo). Diciamo allora che la parte è una grandezza determinata da una grandezza che è a sua volta determinata o indeterminata se è data dallo spazio e dal tempo in quanto tali (della cui grandezza non si dà per noi né inizio né fine). Nel primo caso, alla grandezza corrisponde la quantità e la parte lo è dell'ente; nel secondo, del tutto, nella misura in cui sia la parte sia l'ente di cui è parte, sono compresi nel tutto e quindi parti di esso.


Il senso della definizione iniziale viene allora a mutare perché abbiamo ora due modi dell'esser-parte: in relazione a ciò che è determinato e a ciò che non lo è. Il primo, è quello di tutto ciò che è ricompreso in una quantità determinata, come per esempio la cellula nell'organismo o l'organo del corpo umano nel corpo stesso. Il secondo, di ogni ente, considerato nella sua individualità di quantità definita, poiché esso è posto nello spazio e nel tempo che lo contengono come se fosse parte di essi. Vediamo quindi che, se l'ente è composto di parti (sì da costituire un intero) in quanto ente è a sua volta parte dello spazio e dura nel tempo come ciò che è nel tempo e quindi ne è parte, per quanto ciò che è nel tempo possa essere parte del tempo. Né potremmo dire che l'ente coincida con tutto lo spazio esistente, anche se si sostiene che lo spazio non sia effettivamente vuoto, perché il pieno (la materia-energia secondo una distribuzione determinata) dovrebbe esser costituito in questo caso da un unico ente. Ma ciò è inconcepibile perché, se così fosse, non potremmo nemmeno dire che un corpo è nello spazio e che si muove (vedi supra, § 2).

Si comprende quindi come l'ente, pur essendo parte dello spazio, non sia la stessa cosa della parte, intesa come quella grandezza che è ricompresa in una grandezza, secondo una quantità determinata. Come definiremo l'ente, allora? l'ente è per noi, in prima approssimazione, quella grandezza definita in una quantità determinata, il cui limite esterno è costituito solo dallo spazio e dal tempo in quanto tali, ossia da una grandezza per noi indeterminata per­ché priva di quantità. L'ente è quindi un individuo, così come lo sono per esempio l'animale, l'uomo, il globo terrestre, le stelle, e così via. Di essi non si può dire infatti che siano determinati, per ciò che sono, da un'altra grandezza finita, mediante la contiguità e la continuità di ciò che ha quantità: ciò che li contiene è solo il continuum spazio-temporale, il quale, rispetto al pieno dell'ente, è vuoto ed uniforme. Ora, lo spazio e il tempo non si contrappongono all'ente come parte a parte, come la metà di un segmento all'altra metà. (Dividiamo con il nostro calcolo uno spazio ed un tempo determinati ma non lo spazio ed il tempo nella loro totalità: di essi non si può dare una simmetria perché si ignora il limite e quindi il centro). Perciò l'ente, come parte dello spazio e del tempo, lo è in modo improprio e comunque non come la parte in senso stretto. Diciamo, infatti, che l'esser-parte, in quanto essere di qualcosa, ha un inizio ed una fine dove sono e cominciano le altre parti (come la parte di territorio rispetto al resto del territorio od un organo del nostro corpo rispetto al rimanente del corpo), quando ci riferiamo ad una grandezza la cui quantità sia ricompresa e limitata da un'altra quantità determinata. Diciamo invece che l'esser-parte è determinato dallo spazio e dal tempo in quanto tali quando intendiamo l'essere dell'ente, nella sua


individualità di quantità determinata, che ci appare secondo una qualità parimenti determinata. Infatti, la sua finitezza di parte nel tutto non deriva dall'esser contiguamente circoscritto dagli altri enti (cosa che avviene solo per accidente) ma dall'aver un inizio ed una fine nel tempo e nello spazio, senza per questo far venire in essere o far cessare né il tempo né lo spazio. La qualità dell'esser parte è in sé ma anche in relazione al tutto: quella dell'ente solo in sé (perché il tutto è dato qui solo dallo spazio e dal tempo o da un'aggregazione che non incide sulla natura dell'ente, se non marginalmente).

 

f. L'esser-parte è quindi l'estensione ricompresa e delimitata, in sé stessa ed in relazione al tutto dell' ente e dello spazio e del tempo. In questa definizione, che riassume quanto finora detto, riusciamo a ricondurre ad unità la parte che lo è di una grandezza determinata (perché ha la quantità) e quella che lo è di una indeterminata? Si deve infatti dire che la parte in senso stretto, e cioè la parte di un ente, è parte dello spazio allo stesso modo dell'ente di cui è parte, perché occupano il medesimo luogo (vedi supra, § 1 e 3). Ed inoltre, il tempo sarà il medesimo per entrambi, dal momento che esso scorre allo stesso modo sia per il corpo (l'ente) che per le sue parti, dagli atomi alle cellule, agli organi (l'ora non batte allo stesso modo per il nostro corpo e per tutte le sue parti?).

Tuttavia, la parte in senso stretto è all'interno di un corpo (l'ente) mentre l'altra si situa invece all'interno dello spazio: l'uno è nel pieno, l'altra nel vuoto. Che l'estensione sia la medesima per il pieno e il vuoto; che cioè il corpo e lo spazio da esso occupato abbiano la stessa estensione (e la stessa durata) poiché non possono non essere contemporaneamente; tutto ciò nulla toglie alla differenza tra il pieno ed il vuoto, tant'è vero che solo il primo può essere concretamente diviso in parti, accresciuto, diminuito, ridotto a nulla. L'esser-parte come qualità finita di un ente è quindi diverso dall'esser-parte dello spazio (e del tempo) in generale, i quali ammettono la divisibilità senza mai poter però esser effettivamente divisi, né in sé, né reciprocamente. E difatti, ciò che è parte dell'ente, che è parte in senso fisico, si trova in una contiguità e continuità fisica o tattile con la grandezza che lo determina, cioè con il tutto dell'ente, che è per esso l'intero. Invece l'ente in quanto parte dello spazio non gode di tale continuità e contiguità, dato che esse non sono qui fisiche ma puramente geometriche o, per meglio dire, sono fisiche come possono esserlo le proprietà del vuoto. Tant'è vero che la stessa immagine dell'esser-ricompreso, del trovarsi all' interno di una grandezza, senza la quale non può aversi la parte di nulla, si può applicare solo impropriamente al rapporto fra l'ente e lo spazio. Infatti, non possiamo non dire che lo spazio ci ricomprende e che noi siamo e ci muoviamo al suo interno.


Tuttavia, non siamo all'interno dello spazio come all'interno di un corpo perché, se lo spazio è come una stanza vuota in cui potersi muovere liberamente, le pareti di questa stanza non si vedono mai e non sembrano nemmeno esistere. Ma una stanza senza pareti non è nemmeno una stanza, onde il nostro essere e muoversi nello spazio è per l'appunto un progredire nel vuoto, non un penetrare nel pieno, e lo spazio ci appare come il vuoto della stanza, senza la stanza (vedi supra, § 2).

Non possiamo quindi dire che l'immagine del trovarsi all'interno dello spazio sia sufficiente a farci comprendere appieno la natura del rapporto fra l'ente e lo spazio: infatti, come si può essere all'interno di qualcosa che non ha limiti, confini e che non è corpo? Si può pensare di essere all'interno della pura estensione? Per poter dire di essere all'interno di qualcosa, bisognerebbe scorgerne il limite e la forma, percepirne la dimensione, penetrarne la densità. Ma lo spazio non ha l'estensione bensì è l'estensione (o la grandezza) in quanto tale e l'estensione, senza ulteriori determinazioni, non ha né interiorità né esteriorità, per cui ciò che è nell'estensione è nel vuoto, e non è né interno né esterno al vuoto stesso.

L'ente è dunque posto nello spazio ed è parte di esso ma nello stesso tempo è come se non ne fosse parte perché lo spazio non lo limita in nessun modo, né dal lato della continuità né da quello della contiguità della grandezza. Infatti, se ciò che è parte di qualcosa può muoversi in esso indefinitamente, perché ciò che gli è contiguo è da ogni lato il vuoto, bisogna dire che non ne fa parte allo stesso modo della parte fisicamente delimitata e determinata, che non può assolutamente modificare la propria posizione e che gode (quando ne gode) di un movimento ricompreso entro limiti ben definiti dall'esterno, altrimenti andrebbe in ogni direzione, come l'acqua di un fiume i cui argini siano crollati. Così esser parte dello spazio non pregiudica la libertà di movimento, che non esiste per ciò che è parte dell' ente, del corpo.

Esser parte di una grandezza determinata e di una indeterminata non è perciò la stessa cosa, se non dal punto di vista puramente geometrico. Diciamo punto di vista geometrico perché i punti, le rette, le curve, gli angoli, i piani sono sempre identici, sia che siano concepiti all' interno di un solido sia che lo siano nello spazio ad esso esterno. Una retta o una curva che congiungano due punti, uno situato all'interno di una sfera ed uno al suo esterno, non mutano la loro natura, non cessano di essere una retta o una curva, per il fatto di passare dal pieno al vuoto, dal corpo allo spazio che lo circonda. Poiché sia il pieno che il vuoto sono ugualmente estesi (perché ciò che muta è la quantità ma non la grandezza) allora è come se il pieno non ci fosse, come se l'ente fosse un'astrazione, e tutto ciò che viene delimitato e diviso venisse a far parte solo della grandezza indeterminata.


Ma ad un uguale risultato, mutatis mutandis, giunge la concezione che nega l'esistenza del vuoto. Quest'ultima condivide con la precedente l'identificazione di corpo e spazio, spingendola però al punto da negare la possibilità stessa di uno spazio "indipendente", cioè vuoto, e di una geometria che non sia dei solidi e delle curve, che non sia cioè una descrizione delle proprietà che avrebbe il cosiddetto campo (vedi infra, § 14). Anche qui, la parte lo è solo di una grandezza indeterminata (il "campo") perché l'oggetto (l'ente) è concepito come una variazione di densità del campo cioè, secondo la nostra terminologia, come una quantità che solo provvisoriamente emerge dall'unicum della quantità-grandezza che costituisce lo spazio-campo. In questa prospettiva, la parte stessa, negandosi la distinzione fra il pieno ed il vuoto, viene ad essere qualcosa di indeterminato, in quanto momento transeunte dell'universale pieno del campo, punto (o "arco di cerchio") infinitesimo del suo spazio "curvo" (per la critica di tale concezione, vedi infra, § 14 cit.).

11. La definizione della parte non è unitaria

Se rifiutiamo quanto di arbitrario è nelle teorie dei Fisici, che si risolvono in una concezione indistinta del reale, e ci atteniamo invece a quanto sembra potersi dedurre legittimamente dall'esperienza e dalla necessità logica, e cioè che non è possibile eliminare la differenza tra il pieno ed il vuoto, né facendo astrazione dal vuoto né facendola dal pieno, dobbiamo allora convenire che la definizione della parte non solo ha una sua validità intrinseca ma deve anche esser concepita sia in relazione a ciò che per la parte è il suo tutto (l'ente) sia al tutto in generale. E ciò va mantenuto, anche se in tal modo diventa molto più difficile (anzi quasi impossibile) concepire la parte in modo unitario. Infatti, tale unità sarebbe possibile solo facendo astrazione dal carattere determinato od indeterminato della grandezza di cui si è parte, ossia eliminando, così come ha fatto quasi tutto il pensiero moderno, la natura indipendente del tempo e la distinzione tra il pieno e il vuoto. Ma il pieno e il vuoto non hanno la medesima natura perché, come si è detto, il vuoto è l'estensione mentre il pieno, la materia, è ciò che la occupa e quindi ha un' estensione.

Ora, l'essere e l'avere sono forse identici? Ciò che io sono, in quanto ente, lo sono indipendentemente da ciò che ho: il mio carattere, la mia natura, non verranno a mutare a causa di ciò che io abbia, possieda e non abbia, non possieda. L'essere può esser mutato solo dall'essere cioè dall'azione interiore dell'intelligenza e della volontà, sostenute dalla Grazia: ma se l'idea della differenza sostanziale fra essere e avere viene considerata


 inapplicabile alla realtà fisica, non essendo quest'ultima una realtà morale, e quindi del tutto adiàfora al rapporto tra lo spazio e la materia, si deve tuttavia ammettere che il corpo non è mai il luogo che occupa ma è in, ossia ha questo luogo, finché lo occupa. Se così non fosse, mutando di luogo il corpo non lo lascerebbe vuoto ma addirittura non lo lascerebbe affatto, portandoselo con sé, e aprendo così una soluzione di continuità nello spazio. L'esperienza ci mostra invece che tale soluzione di continuità non esiste, non ha mai luogo, dal momento che il luogo occupato da un corpo può essere occupato da un altro o di nuovo dal primo e così via all'infinito, senza che nemmeno si richieda il mantenimento del medesimo stato della materia, dato che gli elementi si mutano gli uni negli altri (cfr. supra, § 2). Rispetto al corpo e al suo movimento lo spazio resta perciò immobile: è l'essere immutabile dell'estensione rispetto a tutto ciò che in essa ha luogo, nella quiete e nel moto. E proprio grazie a questa immutabilità, la materia e l'energia possono disporsi secondo il loro ordine. Nell'esprimere questa realtà, il linguaggio si serve a pieno titolo della differenza tra l'essere e l'avere, poiché essa è capace di indicare una realtà sostanziale, cioè una differenza non meramente verbale, come appunto quella tra l'essere immutabile e il suo modo, dato dal più e dal meno che caratterizzano l'avere.

Riandando poi a quanto detto al § 8, facciamo la seguente considerazione: come si fa a sostenere che il tutto è una somma di parti, finite e determinate, se l'esser-parte stesso (la definizione della parte) è ricavato facendo astrazione dal fatto che non si può esser parte allo stesso modo della grandezza determinata (il pieno) e di quella indeterminata (il vuoto)? E che nel tutto, accanto alle grandezze determinate (alle quantità definite), vi sono le grandezze indeterminate, come lo spazio e il tempo? Si è visto infatti che lo spazio e il tempo né sono fuori del tutto né sono il tutto, se con quest'ultimo si deve intendere la realtà con tutte le sue componenti (cfr. § 5). Se, dal punto di vista della quantità, la realtà consta per noi della materia-energia con la sua suddivisione in elementi ed enti; dal punto di vista della grandezza senza quantità, anche lo spazio, il tempo (ed il pensiero) devono esser considerati quali parti della realtà, se si tratta di realtà effettivamente esistenti. Si potrà obiettare che non è facile ricomprendere il tempo nella definizione di una grandezza indeterminata, allo stesso modo dello spazio. Infatti, il tempo risulta per noi da una misura che in sé stessa è sempre spazi aie e aritmetica e quindi ci è data mediante unità di misura finite: è perciò una misura determinata. Tuttavia, ciò che essa misura non è lo spazio ma il tempo ovvero quella grandezza che non indica uno spazio percorso ma per l'appunto il tempo impiegato a percorrerlo. E questo tempo esiste o non, indipendentemente da ogni misurazione, come grandezza indeterminata al pari dello spazio? Se se ne negasse la realtà, bisognerebbe ammettere che la nostra misurazione del tempo, solo perché spaziale nell'unità di misura, misura in realtà lo spazio e non il tempo. Ma questo sarebbe del tutto assurdo perché quando noi stabilia­mo per esempio il tempo impiegato dalla terra a compiere la sua orbita attor­no al sole, determiniamo una grandezza diversa da quella stabilita nella misu­razione della distanza percorsa. Il tempo impiegato a percorrere una distanza non è certo la stessa cosa della distanza percorsa. È in realtà una distanza di­versa, che ha una qualità diversa: il tratto di tempo. Ma ciò, dirà qualcuno, vale per il tempo in relazione al moto. E per l'immobilità? La durata è il tem­po non misurabile. Ciò che dura, è nel tempo. Anche lo spazio vuoto dura, dal momento che esiste, quindi ha un tempo ed è nel tempo, anche se per noi è impossibile misurarlo, mancando di punti di riferimento, dati dal moto dei corpi che in esso si trovano. (Se poi il tempo risultasse solo dal moto, come se la misurazione facesse venire in essere la realtà misurata, allora - conclu­sione assurda - durante la quiete non ci sarebbe più il tempo. Si cesserebbe di misurarlo, ma non per questo esso cesserebbe di essere).

Tutto ciò visto, ci chiediamo: come può una grandezza indeterminata, perché priva di quantità, esser parte del tutto? Ovvero: se il tutto è solo una somma di parti; se questa somma può esser determinata nei suoi elementi co­stitutivi (nelle sue parti) procedendo mediante scomposizione e ricomposizio­ne (somma e sottrazione) induttivamente dall'esperienza; ne consegue che la somma delle parti che costituisce il tutto dovrà esserlo solo di parti determi­nate, di quantità determinate: non potrebbero esserci grandezze senza quan­tità .. Ma se noi ammettiamo: 1) che anche lo spazio, il tempo, il pensiero, in quanto realtà effettivamente esistenti, devono far parte del tutto; e 2) che dob­biamo accettarli come grandezze senza quantità ossia indeterminate, dobbia­mo allora concludere 3) che il tutto (se è una somma) è contemporaneamente una somma di grandezze determinate ed indeterminate, il che è contradditto­rio con l'assunto iniziale. Infatti, se il tutto è concepito come una somma di parti determinate (finite) ma almeno una sola di queste è indeterminata, allo­ra questa somma è inficiata della contraddizione perché grandezze determina­te ed indeterminate non possono costituire una somma, non possono cioè sommarsi in modo da costituire un risultato delìnito. Ed una somma il cui ri­sultato non sia definito, che somma è? Non sarà una somma apparente? Se il suo risultato è definito, e quindi finito, definite e finite dovranno essere tutte le parti che lo costituiscono. Allora il tutto, quale semplice risultato della somma delle sue parti, è un risultato indefinito, se in esso devono esser ri­comprese anche le grandezze indeterminate dello spazio, del tempo e del pensiero. E se è un risultato indefinito, non è un vero risultato, ed il tutto non può allora esser concepito come semplice somma delle sue parti, in una pro­spettiva meramente meccanicistica, quantitativa e finita.

 

 

12. Quali sono le parti del tutto

Dobbiamo quindi ammettere che le parti del tutto non sono omogenee perché alcune sono determinate, altre indeterminate; alcune sono parti in sen­so proprio, altre non lo sono, pur essendo nel tutto. In quest'ultimo, vi sareb­bero perciò delle parti che non sono veramente parti, mancando esse della quantità e della determinatezza. La definizione della parte si imbatte quindi in una doppia aporia: l) perché si deve concepire l'esser-parte come parte an­che di una grandezza indeterminata (lo spazio, il tempo, il pensiero); 2) per­ché questa grandezza indeterminata deve esser a sua volta concepita come parte del tutto. Dunque: ciò che è parte, lo è anche di una grandezza indeter­minata (senza quantità) però quest'ultima non costituisce come tale il tutto ma ne è, a sua volta, parte. L'esistenza di questa difficoltà, che, come si è vi­sto, sembra decisiva per mettere in crisi l'idea del tutto come somma definita e finita di parti, meccanicamente chiusa in se stessa, non ci può naturalmente esimere dal tentativo di stabilire quali siano le parti del tutto, a prescindere dalla loro natura e dal loro reciproco rapporto, vale a dire senza doversi preoccupare del fatto che queste parti non siano tra loro omogenee.

Quali sono dunque le parti del tutto? In quanto siano determinate in una quantità sono costituite dalla materia-energia e dagli enti; in quanto indeter­minate: dallo spazio, dal tempo, dal pensiero. L'inclusione di quest'ultimo sembra giustificata da questa riflessione: come lo spazio e il tempo sono l'in­determinato fuori di noi, il pensiero è invece l'indeterminato in noi, perché, pur essendo, non solo non ha quantità ma nemmeno grandezza, nel senso dell'estensione (vedi supra, § 5, c e d). Con pensiero non intendiamo poi la sola facoltà intellettiva ma quell'insieme di attività spirituali -delle quali la facoltà intellettiva è parte -il cui fondamento ultimo è da ricercarsi nella no­stra anima. Va poi detto che la nozione di una materia-energia viene accetta­ta per convenzione cioè sul presupposto che sia valida l'equivalenza di mate­ria ed energia sostenuta dalla fisica moderna. Poiché però la validità di questo presupposto non è stata affatto dimostrata per tutta la realtà, sarebbe in effetti più corretto parlare di materia ed energia.

a. Sono queste tutte le parti del tutto? Ci si potrebbe chiedere, infatti, se, oltre alla quantità anche la qualità faccia parte del tutto e se, oltre all'ente, anche l'atto od evento ne faccia parte. Sappiamo infatti che la qualità inerisce all'ente allo stesso modo della quantità, dato che l'ente risulta allo stesso tempo di quantità e qualità. on qualità si intendono poi sia le sue caratteri­stiche sensibili, chiamate anche modi o accidenti, sia quelle spirituali, date dal significato o dal valore inerenti all'ente come tale. C'è la diffusa opinione


(diventata ormai tradizionale) che le qualità, sia sensibili che spirituali, non appartengano all'ente in sé ma siano poste dal pensiero del soggetto percipiente, all' insegna dell' apoftegma di uno dei padri dell'idealismo, Berkeley, per il quale, come è noto, esse est percipil00. Ma su questa opinione la visione meccanicistica e l'idealismo concordano, nonostante le loro reciproche differenze, perché per entrambi ciò che l'oggetto è in sé non è altro che ciò che esso è per noi . Ora, le qualità sensibili dell'ente (il colore, il sapore, l'odore, il peso, etc.) non possono esser separate dall'ente, nel senso che non possono occupare un'estensione maggiore o minore di quella dell'ente cui ineriscono. E a ciò nulla toglie l'interpretazione meccanicistica della qualità sensibile perché il misterioso processo chimico interno che trasforma una certa lunghezza d'onda luminosa nella nostra sensazione di un colore elabora un dato (l'onda con la sua lunghezza) che proviene dall'oggetto ed appartiene obiettivamente all'oggetto come sua qualità specifica. Questa qualità non è costituita da noi, visto che la lunghezza d'onda non proviene da noi, ma dalla natura per esser percepita dal nostro occhio come colore, e coincide con la quantità e l'estensione dell'oggetto stesso (anche se non necessariamente con tutta l'estensione e tutta la quantità). Essa è una grandezza determinata, in quanto parte qualitativamente determinata dell'ente: è ricompresa perciò nell'esser-parte dell'ente, come la parte lo è nel suo tutto determinato (mantenendo la propria individualità, che è qui il Dasein della qualità).

Se invece consideriamo la qualità in senso spirituale, ossia il significato e il valore dell'ente (il senso del suo esser in relazione ad un fine), dobbiamo ammettere che né un significato né un valore sono riconducibili ad un'estensione checche sia. Non avendo perciò né quantità né grandezza, non potrebbero esser considerati parti dell'ente di cui esprimono il valore. Il significato e il valore dell'ente (ad esempio perché l'uomo è uomo, qual è il senso del suo essere in quanto uomo) riguardano infatti tutto l'ente come tale, ne individuano l'essenza e si pongono come il suo ineliminabile modo di essere. Ora, il modo di essere dell'ente non può esser considerato come una parte dell'ente: esso è invece l'essere stesso dell'ente in relazione al suo valore e significato (come quando diciamo che il modo di essere dell'uomo è la sua humanitas, che ne è la sua qualità specifica, che non può esser concepita come parte ma solo come natura od essenza). In relazione al tutto, il significato e il valore ne sono parti in quanto inerenti all'ente come qualità invisibili (esprimendosi in essi il senso dell'ente in -relazione al fine). Si potrebbe dire che sono nel tutto allo stesso modo del pensiero: essi partecipano infatti di quella realtà di fatto inestesa ed invisibile, che, come si

100 BERKELEY, Of the Principles of Human Knowledge, Part I, §§ III, V, VIII.

è visto, è propria del pensiero. Ciò non vuol dire, però, che essi siano un mero prodotto del pensiero, senza connessione alcuna con la realtà dell'ente. Ma secondo molti, allo stesso modo delle qualità sensibili, essi sarebbero posti dal pensiero del soggetto, e non costituirebbero altro che il contenuto di un atto di pensiero. Sarebbero allora parti del pensiero, se così si può dire. Riducendoli a qualcosa di meramente pensato si crede di negar loro l'effettiva realtà. Ma questo non è, a ben vedere, esatto. Infatti, non si può negare che il pensiero, per quanto indeterminato come grandezza, esista, anche se di un'esistenza invisibile, e che esista come vera e propria realtà di fatto. Che io pensi, quale ne sia la causa effettiva, è una realtà di fatto, dotata cioè di un'esistenza obiettiva indipendentemente dalla consapevolezza che io ne possa avere. Perciò, il contenuto del pensiero viene ad avere un'esistenza reale, non meno di quella del mondo esterno al soggetto che pensa. Se si crede quindi che il significato e il valore sono unicamente attribuiti dal pensiero alle cose, non se ne nega a ben vedere la realtà, ma gliela si riconosce unicamente come contenuti o parti del pensiero. In tal modo li si rimuove dall'oggetto per attribuirli al soggetto pensante, senza poterne però dichiarare l'irrealtà poiché essi vivono comunque della stessa vita del pensiero del soggetto, per il quale pensare è una realtà di fatto, sia pure inestesa ed invisibile. In ogni caso, in relazione al nostro tema, bisogna dire che se si ritiene la qualità non-sensibile come qualcosa di posto dal pensiero, essa è ricompresa in esso come la parte nel tutto; altrimenti essa inerisce all'ente come sua qualità intrinseca. In nessun caso la qualità è allora parte del tutto come realtà indipendente perché essa è sempre qualità di qualcosa, si tratti dell'ente o del pensiero. E diciamo del pensiero perché, se si ritiene che il pensiero attribuisca agli enti delle qualità che essi non avrebbero per natura, ciò significa che quelle qualità, in quanto da esso unilateralmente poste, non sono dell'ente ma solo ed esclusivamente del pensiero, il quale avrebbe quindi la capacità di creare dal nulla il significato e il valore. Capacità che il pensiero sicuramente possiede (e se così non fosse, l'uomo non si sbaglierebbe mai) unitamente però a quella di riconoscere il significato e il valore come qualità inerenti all'oggetto o ente che dir si voglia. E difatti, anche nel parlare comune si distingue abitualmente tra il significato che è tale solo per il soggetto che parla e quello che questo stesso soggetto sente ed esprime come significato che appartiene all'oggetto in sé e per sé: il significato oggettivo, dal soggetto semplicemente riconosciuto. Ora, il vero problema in ordine alla verità della conoscenza non è quello di cercare di dimostrare che ogni pensiero (ogni concetto) non è altro che opinione del soggetto, perché si deve muovere dal presupposto (dal dogma)


che tutto è soggettivo (un presupposto contraddittorio in se stesso, dato che

deve valere a sua volta come verità assoluta); il vero problema consiste al contrario nel riuscire a stabilire quando il significato e il valore sono tali soggettivamente e quando lo sono invece oggettivamente: quando esprimono una mera opinione e quando invece la natura della cosa (sul pensiero vedi infra, § 15).

 

b. Ritornando ora al nostro problema (quali siano le parti del tutto) ci dobbiamo chiedere se, oltre all' ente, anche l'atto od evento sia parte del tutto. L'atto o evento è quell'accadere che si produce secondo un nesso causale; esso presuppone quindi l'esistenza di tutte le parti del tutto come condizione del suo esserci. Tutto ciò che accade, essendo parte di ciò che è, non fa parte del tutto? Tuttavia, l'atto o evento non sembra potersi qualificare, dal punto di vista della definizione, come una parte, concettualmente distinta ed indipendente dalle altre. Infatti, ciò che causa l'atto è o l'ente o il pensiero, che si manifesta mediante la volontà. Possiamo perciò dire che l'atto è una manifestazione, limitata nel tempo e nello spazio, dell'ente da solo (se l'azione è del tutto meccanica, indotta) o con il pensiero: l'atto si distingue per le sue conseguenze (per il risultato) ma non al punto tale da creare una nuova parte nel tutto. Nell'atto o evento c'è sempre un movimento, ed anzi esso non è nemmeno pensabile senza un movimento: bisognerebbe allora dire che il moto è una parte del tutto. Ma questo non è possibile perché la velocità è una grandezza che risulta dal rapporto fra lo spazio e il tempo, la cui quantità è la stessa del corpo che si muove. Il moto e la quiete, secondo l'opinione tradizionale, sono due stati dell'essere e riguardano non solo gli elementi e gli enti ma anche il pensiero nel suo rapporto con la realtà. Non sono concepibili come parti dell'essere, e quindi del tutto, ma solo come stati o modi, che non possono mai aver luogo contemporaneamente, dato che si escludono a vicenda. Il moto e la quiete fanno perciò parte del tutto non come parti vere e proprie ma come modi di essere della parte (dell'ente). Si è appena detto che la qualità non può esser concepita come parte rispetto alla quantità perché il modo o stato che in essa si esprime non può esser concepito come parte rispetto all'essere cui inerisce. E difatti il soggetto in quiete ed il soggetto in moto sono sempre lo stesso soggetto, mentre la quiete ed il moto sono inconcepibili senza il soggetto che li attui. Essi appaiono quindi come modi dell'essere del soggetto o ente.

Ma, se l'evento non è concepibile come una parte del tutto in senso specifico, non si rischia di dissolverne l'individualità, venendo così ad elidere la distinzione tra ente ed atto, che pure è fondamentale per una retta comprensione della realtà? L'atto, in quanto fatto, è ben distinto dall'ente che lo pone in essere, tant'è vero che un uomo è giudicato non come ente o soggetto, non per il solo fatto di essere ciò che è, ma per gli atti che compie. Rimanendo nell'ordine fisico, i cui principi non possono esser trasportati in quello morale, sembra legittimo attenersi alla seguente concatenazione logica: 1) il fatto od evento è opera del moto, altrimenti non è o è in potenza, nell'intenzione dell'agente; 2) il moto però, essendo un modo dell'ente, non può considerarsi parte indipendente del tutto perché i modi dell' ente non sono parti del tutto separatamente dall'ente; 3) ergo, il fatto, come risultato di un modo dell'ente (e quindi dell'ente), mentre avviene non si separa dal1'azione che lo pone in essere, ma, dopo esser avvenuto, è a sua volta un ente o comunque una modificazione della realtà che si attua in un ente (è quindi un ente che sia stato prodotto con quell'azione o che ne abbia solo subìto le conseguenze).

L'individualità dell'atto e delle sue conseguenze non viene quindi affatto negata, ed anzi, per il modo in cui è stata qui difesa potrebbe valere allo stesso modo per l'ordine fisico e per quello morale. Una concezione come la nostra, che nell'ordine fisico vuol distinguere tra il pieno ed il vuoto e tra la quiete ed il moto, non può certo esser accusata di voler dissolvere l'individualità fisica dell'atto e in campo morale la sua responsabilità. (Sappiamo infatti che se l'azione diventa indistinta nell' ambito fisico, diventa poi incerta in campo morale). Quel dissolvimento l'attuano invece i panteismi e gli immanentismi i quali, muovendosi all'insegna dell'idea che "il vero è il tutto", concepiscono il tutto come uno, come unità in cui l'individualità della parte non risalta, né nell' ordine fisico né in quello morale. Né diversamente da loro si è comportata, a questo riguardo, la visione meccanicistica del mondo (vedi supra, § 8). E l'immagine del mondo dei Fisici è in un certo senso la summa di tutti i meccanicismi, panteismi ed immanentismi perché essa identifica lo spazio con il campo della materia-energia, in perenne movimento e senza bisogno di un atto di creazione divino per essere ciò che è: un universo "curvo", che però "si espande" ed in cui l'individualità degli oggetti, degli enti, è solo apparenza. Contro questa concezione (e cioè contro quasi tutto il pensiero moderno) va ribadito invece che ogni atto, ogni azione presuppone l'agente ossia un ente capace di agire secondo un fine e secondo ben definiti rapporti spazio-temporali. L'atto che modifica la realtà presuppone quindi un soggetto capace di compierlo, il soggetto capace di agire. Non c'è azione che si ponga da se stessa, come un "processo senza soggetto", come un atto che non abbia bisogno di un soggetto agente, non c'è un farsi che non sia invece un fare od un esser fatto. Affermare tutto ciò è un'assurdità logica perché ciò che il pensiero è costretto a pensare come primo rispetto all'azione e come primo rispetto alla realtà stessa, dovrà essere qualcosa che contenga un principio attivo e quindi non potrà essere l'azione in quanto tale, dal momento che essa è sempre qualcosa di prodotto, causato, determinato, voluto; dovrà essere invece quel soggetto o ente per il quale l'azione sia un modo di essere, se lo vuole avere. Prima ancora che da un punto di vista religioso, è da quello logico che la massima goethiana "all'inizio era l'azione" (concepita in evidente antitesi al prologo del Vangelo di S. Giovanni) è del tutto errata. L'azione non è essa stessa pensiero (altrimenti bisognerebbe dire che la natura pensa) ma è diretta da un pensiero ed una volontà: essa presuppone perciò il pensiero del fine come pensiero del soggetto agente (che per la natura è il pensiero del Creatore, nel fine per essa voluto e senza il quale essa mai sarebbe esistita né continuerebbe ad esistere).

 

 

13. Il tutto come Sostanza

 

a. In questo ultimo paragrafo della seconda parte ci occuperemo brevemente (dati i limiti che il presente lavoro non può non porsi) di quel pensiero che nega l'individualità della parte rispetto al tutto, concepito come sostanza (vedi supra, p. 52). Tale pensiero muove dalla constatazione che la realtà sia perfetta in se stessa: "Per realitatem et perfectionem idem intelligo"101. La perfezione, infatti, va riferita a tutta la realtà non ad una sua sola parte. Se si riferisse ad una parte, la realtà verrebbe a trovarsi come divisa in due: quella perfetta e quella che perfetta non è. Avremmo quindi nella realtà la coesistenza di una parte perfetta e di una imperfetta, con la conseguente negazione (per intima contraddizione) del significato stesso della definizione in questione. La perfezione deve allora riferirsi, come suo attributo, alla realtà nella sua totalità, nessuna parte esclusa, ossia alla realtà intesa come un tutto. Ma questo tutto della realtà è in effetti il tutto e non può che essere altrimenti, per logica conseguenza dalle premesse: se non fosse il tutto, si riaffaccerebbe la divisione con la conseguente negazione della perfezione.

Per Spinoza dunque il tutto è perfetto. Quest'affermazione è, a prima vista, sconcertante perché la realtà, come sappiamo, ci offre la coesistenza dell'ordine e del disordine, della perfezione e dell'imperfezione, della vita e della morte. Che essa esprima una perfezione tendente a realizzarsi in un ordine nonostante il contrasto rappresentato dal disordine, questo pensiero ci viene dall'esperienza, soprattutto in considerazione del fatto che la realtà, proprio per l'ordine che mostra, deve avere un senso e quindi essere per un fine che la trascende, in quanto mera coesistenza di ordine e disordine. E questo fine non può essere a sua volta il disordine, altrimenti si dovrebbe dire che il fine della realtà è quello di non averne alcuno, il che è assurdo(se

101 SPINOZA, Eth., II, Def.  VI; V, Praef .

la realtà non è che disordine che si perpetua, perché mostra un ordine? può dal caos totale nascere per caso un ordine, anche parziale?). Ma in nessun modo l'esperienza ci autorizza a dichiarare che la realtà è come tale perfetta nel senso pieno della parola. Attribuire alla realtà sic et simpliciter questa qualità significa dissolverla in un'immagine arbitraria, alla maniera dei visionari, oppure definirla mediante un giudizio che non si basa sull'esperienza. Ed infatti, nel sistema di Spinoza, questa perfezione è il frutto di una deduzione, cioè delle conseguenze teoretiche che egli vuole trarre dal concetto della sostanza unica.

La sostanza è increata, eterna ed infinita perché è ciò che "in se est et per se concipitur: hoc est id, cuius conceptus non indiget conceptus alterius rei, a quo formari debeat"102. La sostanza è ciò che è, da se stesso, causa sui103, onde non necessita di nient'altro (del concetto di "un'altra cosa") per essere ciò che è. Ma esiste nella realtà "qualcosa" che, secondo il suo concetto, è esclusivamente per opera di se stesso, sì da non dover presupporre il concetto (la necessità logica) di un altro ente che lo formi? Se esiste, non può essere altri che Dio, il che è come dire che questo concetto della sostanza non sembra potersi applicare ad altri che a Dio. Ed infatti Spinoza, nella VI delle celebri "Definitiones" della I parte dell' Ethica, scrive che Dio è "l'ente assolutamente infinito" ossia "una sostanza che consta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime un'essenza eterna ed infinita"104. L'ente che è in senso assoluto causa sui è dunque Dio, il quale deve esser definito come sostanza, dotata di infiniti attributi. Questa sostanza, non prodotta né delimitata da alcunché (altrimenti sarebbe finita e non sarebbe più causa sui), eppur esistente, non potendo soffrire di alcuna limitazione né nel tempo né nello spazio, sarà infinita, eterna, increata. La sostanza spinoziana contiene dunque in sé per definizione il massimo della perfezione possibile. E del resto, identificandosi con il concetto di Dio, non può non contenere il massimo della perfezione, altrimenti bisognerebbe affermare che Dio non è perfetto, il che è assurdo.

Ora, ciò che è "causa sui" è ciò "cuius essentia involvit existentiam"105. Perciò la sostanza, essendo causa sui possiede un'esistenza che non può in alcun modo dipendere da una causa esterna. Altrimenti detto: l'esistere è intrinseco alla sostanza perché si pone da se stessa, è ciò che è senza bisogno di un atto specifico, un atto di creazione. Ciò che è causa sui è dunque increato ed esiste senza poter avere né inizio né fine e senza poter subire limitazione alcuna da ciò che è finito.

102 Op. cit., I, Def. III.

103 Op. cit., Def. I.

104 Op. cit., Def .VI.

105 Op. cit., Def. I.

Spinoza può perciò affermare che "ad naturam substantiae pertinet existere"106. Inoltre questa esistenza, essendo praticamente la stessa cosa dell'esser della sostanza in quanto tale, dovrà concepirsi come infinita. Se ne deduce che l'esistenza della sostanza è un' esistenza illimitata ed infinita, propria di una realtà in sé perfetta. Ma questa esistenza può esser allora anche quella della realtà sensibile, della natura? Poniamo la domanda perché la natura è dominata dalla finitezza (dalla contrapposizione di ordine e disordine di cui sopra) mentre non si può dimostrare in alcun modo che sia infinita, né nello spazio né nel tempo. A noi essa sembra esserlo, ma in realtà solo perché pensiamo che debba continuare ad esistere all'infinito così come esiste oggi, per noi illimitata nello spazio e nel tempo. In ogni caso la natura appare dominata dall'imperfezione, che è la caratteristica delle sue parti in senso proprio, ovvero di tutto ciò che è determinato secondo forma e figura (dato che la perfezione appartiene al modello, all'idea).

Ci si sarebbe allora aspettati che Spinoza intendesse, con il suo concetto dell' esistenza necessaria della sostanza, unicamente l'esistenza stessa di Dio in quanto esistenza perfetta (increata, illimitata, infinita); vale a dire l'esistenza di quell'essere perfettissimo il quale non si identifica mai (la sua stessa perfezione glielo impedisce) con l'esistenza della natura, dalla quale si differenzia non solo per via della Sua propria natura (divina) ma anche per via della Sua stessa esistenza, cioè per il solo fatto di esistere. L'esistenza di Dio non può essere l'idem et identicum dell' esistenza della natura proprio perché quest'ultima non mostra mai le caratteristiche dell'essere perfettissimo che è Dio, limitandosi invece a farne apparire come un'ombra, nella perfezione della forma (peraltro transeunte) degli enti e nelle leggi che reggono l'ordine, materiale e spirituale. In ogni caso, ci si sarebbe aspettati che Spinoza avesse separato l'esistenza della natura da quella della sostanza come causa sui, così come ciò che è contingente deve esser separato nel concetto da ciò che è necessario. Ma proprio questo vuole evitare Spinoza, il cui scopo è quello di dimostrare che la sostanza non può non comprendere, oltre al pensiero, anche la natura o res extensa, argomentando dal concetto dell' unicità della sostanza107 e da quello della perfezione. Sappiamo infatti che la sostanza non può essere altro che unica perché, se si dessero due sostanze, la sostanza non potrebbe più considerarsi infinita. Non essendo più infinita, non sarebbe più nemmeno causa sui. Se la sostanza è unica, allora la sua esistenza comprenderà il tutto, vale a dire avrà

106 Op. cit., l, prop. VII.

107 Op. cit., l, prop. V e VI.

anche l'attributo dell'estensione (con la quale si intende la realtà fisica nella sua totalità). L'unicità della sostanza implica non solo l'esclusione della possibilità di ogni realtà diversa da essa ma anche l'inclusione nella sostanza di tutto ciò che esiste, come suo modo o manifestazione. In tal modo, la realtà fisica ed il pensiero sono concepiti non come entità indipendenti dalla sostanza ma come attributi e come modi della sostanza. E poiché quest'ultima esiste necessariamente, come modi in cui la sostanza è (necessariamente) ab aeterno, senza bisogno dell'atto della creazione. E poiché la sostanza è Dio, ciò è come affermare che la natura e il pensiero non sono stati creati da Dio ma esistono necessariamente come suoi attributi sin da quando esiste Dio, cioè da sempre. Così essi vengono divinizzati108 mentre Dio viene mondanizzato (immanentismo) ovvero non si distingue più in alcun modo dalla natura109.

 

b. A tutto ciò dobbiamo opporre che dall' unicità della sostanza deriva solo la necessità della sua esistenza, non certo la necessità dell'esistenza di ciò che non è la sostanza; deriva la necessità dell'esistenza di un ente che deve essere infinito, illimitato, perfetto. L'esistenza che la sostanza deve necessariamente avere, in quanto causa sui, non potrà perciò essere altro che quella della sostanza stessa (e non sarà invece quella dei suoi attributi, che sono secondo Spinoza l'estensione ed il pensiero così come li concepiamo noi). Non si tratta di affermare qui una tautologia. Vogliamo semplicemente dire, invece, che l'esistenza della sostanza, nella sua necessaria unicità, non potrà comprendere in quanto tale l'esistenza di ciò che non è perfetto perché finito o indefinito. Se l'esperienza ci mostra quest'ultimo tipo di esistenza - di enti finiti ed indefiniti - allora bisogna dire che quest'esistenza non è quella della sostanza. L'esistenza della sostanza, in quanto assolutamente necessaria, non ha e non può avere anche i caratteri di quella della realtà sensibile, in cui nulla è causa sui e tutto viene invece da una causa esterna. Ma quest'esistenza così imperfetta - si potrebbe obiettare - contraddice al principio dell'unicità della sostanza perché ne viola la perfezione.

In realtà non v'è alcuna contraddizione, se si resta coerenti alle premesse, cioè alla definizione iniziale della sostanza. La sua unicità di causa sui non implica solo che "in rerum natura non possunt dari duae aut plures substantiae eiusdem naturae sive attributi"110; implica anche che ciò che concepiamo ab aeterno ed increato non può essere altro che la sostanza (cioè Dio), senza ulteriore qualificazione. Vogliamo dire che ciò che conta

108 Op. cit., V, prop. XXX, XXXI, XXXVI, sch., XL, sch.

109 "Deus seu Natura", cit., op. cit., I, prop. XVI; IV, Praef.

110 Eth., I, prop. V.

non è tanto stabilire che non vi possono essere due sostanze (due infiniti, due perfezioni), cosa che è in un certo senso implicita nel discorso, quanto ribadire che l'unicità dell'ente increato ed eterno è tale che non può trasmettere la necessità della propria esistenza a ciò che non è se stesso, a ciò che per il suo carattere transeunte appare addirittura destinato al non-essere. Ciò che è unico implicherà sempre, come esistenza necessaria, unicamente quella di se stesso. Ciò che esiste in maniera del tutto contingente non può perciò far parte della sostanza, come suo attributo, acquistando così la medesima perfezione della sostanza.

Bisogna perciò distinguere tra ciò che è necessario e ciò che è contingente (o se si vuole, tra il finito e l'infinito). Il monismo spinoziano non ammette distinzioni del genere, nel suo sforzo di cogliere l'uno come sostanza unica, che tutto comprende in se stessa ab aeterno. Ma proprio il concetto della sostanza unica è il bozzolo dal quale non si può uscire se non mediante la rottura rappresentata dall' atto di creazione di ciò che non è la sostanza. La sostanza, nella sua unicità, non può dunque uscire da se stessa, non può ammettere (come esistenza necessaria) altro che quella di se stessa: la sua natura non potrà implicare necessariamente l'esistenza di ciò che, in quanto finito, caduco, mortale, addirittura le si oppone. Il rapporto della sostanza con la realtà rimane necessariamente dualistico. L'esistenza di ciò che è imperfetto (la natura e il pensiero stesso) non può perciò ricondursi alla sostanza unica, nel senso di dover esser considerata come l'espressione increata della medesima necessità (della medesima perfezione) che il pensiero riconosce a quest'ultima. Si dovrà allora riconoscere che l'esistenza del contingente non può derivare dalla stessa necessità che presiede all'essere della causa sui perché sarà essa stessa contingente quanto alla sua causa (che non è sui ma aliena). Il che è come dire che non potrà concepirsi altro che come risultato di un libero atto o modo di essere della causa sui. Come potrebbe del resto il contingente risultare in modo necessario da ciò che è di per sé necessario? Allora non sarebbe più contingente. Solo un porsi non necessitato della causa sui, un atto della sua libera volontà, solo l'esistenza sempre attuale di quest' atto rende comprensibile l'esistenza di ciò che è contingente (Dio non ha dovuto creare il mondo bensì ha voluto crearlo).

Spinoza afferma poi che la perfezione esige l'esistenza della cosa. "Perfectio igitur rei existentiam non tollit, sed contra ponit; imperfectio autem contra eandem tollit; adeoque de nullius rei existentia certiores esse possumus, quam de existentia Entis absolute infiniti seu perfecti, hoc est Dei"111.

111Op. cit., I, prop. XI, sch.

La res della quale si parla qui non può esser altro che quella la cui essenza implica necessariamente l'esistenza: la sostanza infinita, Dio. E giustamente Spinoza nota che dell'esistenza di nessuna "cosa" possiamo esser più certi che dell'esistenza di Dio, che il pensiero deve riconoscere quale "Ente assolutamente infinito ossia perfetto": se perfetto, non può non esistere. Ma ciò significa, nello stesso tempo, che l'unica esistenza di cui possiamo essere razionalmente certi, perché unica esistenza necessaria, è solo quella dell'ente la cui natura implica necessariamente la propria esistenza. Ne consegue che non possiamo esser certi allo stesso modo dell'esistenza di quegli enti, la cui essenza non implichi l'esistenza. Esistono degli enti la cui esistenza non possa considerarsi affatto necessaria? Se esistono, essi saranno del tutto incommensurabili all'Ente "assolutamente infinito", cioè a Dio, perché enti in cui il predicato dell'esistenza è intrinseco (causa sui) ed enti in cui quel predicato è invece estrinseco, ossia non necessario in relazione alla loro natura (perché viene da una causa esterna), non possono certo ricomprendersi nel medesimo concetto. E questi enti indubbiamente esistono. Infatti, "Rerum a Deo productarum essentia non involvit existentiam"112, per cui "Ad essentiam hominis non pertinet esse substantiae, sive substantia formam hominis non constituit"113, altrimenti le cose e l'uomo dovrebbero esistere necessariamente, il che non si può ammetterei114.

Ma perché diciamo che non possiamo esser certi dell'esistenza di questi enti? Forse che la loro esistenza non si constata empiricamente? Ma la certezza è qui esclusivamente razionale: si tratta di una deduzione necessaria in relazione alle premesse. Non è, infatti, in base ad un giudizio empirico che noi "siamo certi" dell'esistenza necessaria dell'Ente perfettissimo, dato che Dio non cade direttamente sotto i sensi. La certezza empirica non è di per sé assoluta come quella razionale, che appaia per esempio quale conclusione inevitabile di un sillogismo. La certezza empirica è post festum: siamo certi di ciò che è, perché ce lo troviamo davanti, perché esiste, senza che la sua esistenza ci mostri come tale una sua intrinseca necessità. Perciò, siamo certi dell'esistenza delle res singulares finché esistono ed in conseguenza di ciò non possiamo considerare la loro esistenza come necessaria. L'ulteriore conclusione che da tutto ciò si può trarre è che le res singulares non sono perfette. Infatti, se la loro essenza non implica necessariamente l'esistenza, ciò significa che possono non esistere. E tutto ciò la cui esistenza può esser tolta via, non è forse imperfetto, dal momento che "imperfectio existentiam tollit"?

112 Op. cit. , I, prop. XXIV.

113 Op. cit., II,prop. X.

114 Op. cit., ivi.

Come fa allora Spinoza ad affermare che la realtà è "la stessa cosa della perfezione"? Non si accorge di attribuire la perfezione sia a ciò la cui essenza implica l'esistenza (la sostanza unica) sia a ciò la cui essenza non implica affatto l'esistenza? E questo jato fra la perfezione della sostanza da un lato, e l'imperfezione delle res singulares dall'altro, come può esser superato se non ammettendo (di nuovo) l'idea della creazione? La realtà risulta divisa in due piani: da un lato ciò cuius essentia involvit existentiam, dall'altro ciò cuius essentia non involvit existentiam. Come unificarli? Esiste tra di loro un nesso diverso da quello rappresentato dall'atto della creazione? Se ciò che esiste non mostra alcuna necessità intrinseca alla sua esistenza, dovrà esser stato posto da qualcos'altro, dato che la mancanza di ogni intrinseca necessità ad essere implicherà anche la mancanza del fare e quindi di ogni possibile porsi.

Per la verità Spinoza sembra servirsi del concetto della creazione, però si tratta, come è noto, di una creazione immanente alla realtà, fondata su di un concetto di causa del pari immanente, dominato dall'idea di necessità, per cui Dio non è effettiva causa prima del tutto ma causa necessaria, perché è un Dio che non può esistere senza il mondo115. Abbiamo visto che le res singulares sono "prodotte" dalla divinità: Dio è causa di tutto ma nel seguente modo: "Deus est omnium rerum causa immanens, non vero transiens"116. Immanente, perché? Perché tutto ciò che è, lo si può considerare prodotto da Dio solo in quanto sia già in Dio, non perché Dio lo produca ex nihilo, con un atto specifico.

Poiché Dio è la sostanza unica, i modi della sostanza - che non possono esistere al di fuori di essa - sono modi della natura divina e possono esser concepiti solo "per ipsam solam". Perciò: "Quicquid est, in Deo est, et nihil sine Deo esse neque concipi potest"117. Tutto ciò che esiste (i "modi" della sostanza) non è tanto prodotto da Dio quanto "in Deo", ne fa parte come attributo o meglio modificazione cui si comunica la qualità dell'essere stesso della sostanza: l'eternità118. Dio è dunque il sostrato o la causa immanente: "Deus rerum, quae in ipso sunt, est causa"119. Dio non può essere causa di qualcosa che è fuori di esso perché al di fuori di Dio non c'è nulla. Non si può allora ammettere che Dio sia creatore perché, se ciò che è creato lo è dal nulla, prima di esistere in conseguenza della creazione non era, e quindi non era nemmeno in Dio. E nell'ottica immanentistica e panteistica, tutto ciò che

115 Op. cit., II, prop. III, sch.

116 Op. cit., I, prop. XVIII.

117 Op. cit., I, prop. XV e demonstr.

118 Op. cit., I, prop. XIX.

119 Op. cit., I, prop. XVIII, cit. e demonstr.

è, è da sempre, come attributo e modo dell'unica sostanza, cioè "in Dio"; quindi è allo stesso modo di Dio, senza esser mai stato creato: è eterno ed increato come Dio.

Il perno del ragionamento consiste nel principio che "omnia quae sunt, in Deo sunt", il quale si basa a sua volta sul concetto della sostanza unica, così come l'intende Spinoza. Il rifiuto dell'idea della creazione è perciò una conseguenza necessaria dalle premesse e conduce ad una contraddizione che ci sembra insanabile. E cioè: se gli enti sono tutti "in Deo" come suoi modi, non potranno concepirsi come finiti ma come infiniti ed eterni al pari di Dio120. Ma in tal modo Spinoza deve attribuire l'eternità, l'esser-increato e l'infinità a delle realtà la cui essenza (come egli stesso ammette) non implica l'esistenza, cioè a delle realtà che per definizione non sono perfette.

L'idea della perfezione viene allora ad applicarsi indifferentemente a ciò la cui essenza implica l'esistenza ed a ciò la cui essenza non la implica affatto, il che sembra del tutto assurdo. L'affermazione che la realtà è in quanto tale perfetta, appare allora priva di senso alla luce dei fondamenti stessi del sistema spinoziano. E ciò dipende, ci sembra, dalle conseguenze indebite che Spinoza vuoi trarre dalla definizione della sostanza unica, distorcendola in senso immanentistico. Come può essere eterno un ente la cui essenza non implica necessariamente l'esistenza? Come può esserlo la mente dell'uomo121 se essa non esiste necessariamente di per sé? Come può esserlo, se non ammettendo nella sostanza unica l'opera di una volontà che agisce per un fine, la cui onnipotenza detta la necessità senza lasciarsi in alcun modo condizionare da essa? E difatti Spinoza nega che Dio possa agire per un fine (il bene) perché altrimenti si porrebbe qualcosa (il fine) "al di fuori di Dio", e questo qualcosa "non dipenderebbe da Dio e Dio lo considererebbe come modello delle sue operazioni"122. Perciò attribuire un fine a Dio significa negarne la perfezione: "nam, si Deus propter finem agit aliquid necessario appetit, quo caret"123.

L'argomento è sempre il medesimo: non ci può essere nulla al di fuori di Dio, né nel pensiero né nella realtà: Dio è il tutto. La critica dell'idea del fine ha come suo presupposto l'identificazione di Dio e natura grazie al concetto immanentistico della sostanza unica. In realtà, non si comprende perché l'idea del fine, in quanto tale, debba togliere qualcosa alla perfezione divina., Anche in relazione all'uomo, non è certo quest'idea (perché "esterna" all'uomo) a dimostrarne l'imperfezione bensì lo è la sua insufficiente realizzazione impedita dalla cattiva volontà, dal peccato.

120 Op. cit., I,prop. XV, XIX, XXI.

121 Op. cit., V, prop. XVIII.

122 Op. cit., I,prop. XXIV, sch. II.

123 Op. cit., I, Appendix.

 

 

Anzi, nella retta idea del fine, di ciò per cui l'uomo è, l'uomo ha la perfetta conoscenza di ciò che è (creato da Dio a Sua immagine) e conseguentemente di ciò che deve fare. L'idea del fine non nega quindi la perfezione dell'uomo ma ce la rappresenta come modello per l'azione: imperfetta è l'azione, non la conoscenza che deriva dal modello (quando sia secondo il retto intendimento). Ora, in Dio, non c'è la differenza tra il pensiero e l'azione che riscontriamo nell'uomo, perché Dio è l'essere perfettissimo, l'ente che in atto è sempre ciò che deve essere. Il fine per il quale agisce non può allora esser concepito come qualcosa di estraneo o esterno all'essere divino. Queste connotazioni non possono comunque applicarsi al concetto di Dio, non perché Dio coincida con il tutto della natura, ma al contrario perché, essendo causa sui, esiste per definizione nella pienezza di ogni possibile perfezione, indipendentemente dalla natura e dal pensiero, per i quali solamente hanno significato i topoi di estraneo, esterno. Ed anzi, si diminuirebbe Dio se gli si negasse quella libera volontà e quell'agire per un fine che pur vediamo presenti nell'uomo! E difatti Spinoza li nega, dopo aver trasformato l'uomo in un attributo divino (in realtà della natura) nel modo contraddittorio che si è visto. (Se poi, come afferma Spinoza, l'estensione ed il pensiero fossero infiniti, non si comprende perché l'idea del fine dovrebbe trovarsi fuori di loro, inficiandone la perfezione di realtà infinite. Sarebbe loro esterna, se fossero finiti. Se l'infinito avesse qualcosa al suo esterno, non sarebbe più infinito. L'infinito, non comprende tutto al proprio interno? Perciò, se Dio, in quanto ente infinito, ha come attributi il pensiero e l'estensione124, come può l'idea del fine non essere in Dio? Non è un pensiero e, come pensiero, un attributo di Dio? E se è un suo attributo, non è in Deo? Dov'è allora la diminuzione della perfezione di Dio, anche considerando Dio dal punto di vista di Spinoza?).

 

c. Dall'identificazione della realtà sensibile (res extensa) con Dio, discende poi la negazione dell'esistenza effettiva delle parti del tutto. Come sappiamo, le res singulares, che potrebbero esser considerate come parti del tutto, sono infatti modi della sostanza, che è questo stesso tutto. Poiché la sostanza unica e il tutto sono la stessa cosa, e poiché i modi della sostanza sono la stessa cosa della sostanza, allora le res singulares, in quanto modi, non possono effettivamente esser considerate come parti e possedere un'autentica individualità nel tutto. Altrimenti sarebbe come dire che esse possono separarsi dalla sostanza. Da tutto ciò si ricava che la sostanza non si

124 Op. cit., II, prop. I e II.

può dividere in parti125 e che essa è indivisibile126. Scrive infatti Spinoza che possiamo fare solo due ipotesi: che le parti mantengano la "natura della sostanza" oppure che non la mantengano. Nel primo caso, ogni parte dovrebbe essere "infinita" e "causa sui" pur constando di un attributo ogni volta diverso (se l'attributo non fosse diverso, la parte non sarebbe parte). Ma allora si avrebbero molteplici sostanze, il che è assurdo127. Inoltre, queste parti "non avrebbero niente in comune con il loro tutto e il tutto potrebbe esistere ed esser del pari concepito senza le sue parti, il che non si può in alcun modo ammettere"128. Le parti non avrebbero nulla in comune perché sarebbero ognuna come la sostanza e nessuna sostanza può avere alcunché in comune con un'altra129. Ma nemmeno con il tutto avrebbero nulla in comune e si può immaginare il tutto sussistente "absque suis partibus"? Allora: se la sostanza potesse esser divisa in parti, le parti potrebbero conservare, ognuna di per sé, qualcosa della sostanza: però, non potendo avere nulla in comune nemmeno tra loro -perché la sostanza è sempre causa sui e se ne sta per sé -esse non potrebbero dar vita ad un tutto, non potendo avere nulla in comune nemmeno con esso. Si avrebbe così l'assurda conseguenza di ammettere le parti ma senza poter ammettere un tutto, di cui esse facciano parte.

Non resta che ammettere l'altra ipotesi e cioè che le parti non mantengano la "natura della sostanza"130. Ma questa, secondo Spinoza, è ugualmente assurda perché si dovrebbe ammettere che tutta la sostanza, una volta divisa in parti uguali, "naturam substantiae amitteret", il che è inconcepibile, dato che essa sparirebbe131. La sostanza, infatti, non può non esistere132. Non potendo essere divisa in parti, la sostanza è perciò indivisibile133, ivi compresa la "sostanza corporea"134. Alla fine, tutta l'argomentazione può riassumersi nel seguente concetto: che la sostanza può concepirsi solo come infinita, mentre le sue parti sarebbero finite: ma una "substantia finita" sarebbe una contraddizione in termini 135.

125 Op. cit., I, prop. XII.

126 Op. cit., I, prop. XIII.

127 Op. cit., I, prop. XII, demonstr.

128 Op. cit., ivi.

129 Op. cit., I, prop. III.

130 Op. cit., I, prop. XII, demonstr. cit.

131 Op. cit., ivi.

132 Op. cit., I, prop. VII.

133 Op. cit., I, prop. XIII.

134 Op. cit., ivi, coroll.

135 Op. cit., ivi, sch.

La dialettica di Spinoza batte di continuo sul medesimo concetto, provocando sempre la medesima replica. È evidente che la sostanza, unica e necessaria, non può esser divisa; ma questa indivisibilità si può evidentemente riferire solo a ciò la cui essenza implichi necessariamente l'esistenza. Ciò che esiste necessariamente ab aeterno non può esser costituito da una molteplicità di parti, dato che esse presuppongono un inizio ed una fine e quindi una finitezza che mal si accorderebbe con la natura infinita della sostanza. Invece la realtà esterna in quanto tale (la substantia corporea), poiché consta di enti la cui essenza non implica affatto la necessità della loro esistenza, contiene la divisione, ovvero le parti e gli enti (per esprimerci nel nostro linguaggio). Infatti, l'ente la cui natura non implica l'esistenza è un ente finito perché, se la sua esistenza non consegue necessariamente dalla sua natura, ciò significa che non dipende da essa ma da qualcosa che ne è anteriore e al di fuori e che, perciò stesso, la limita. Ma una natura che incorre in un limite, anche posto solo all'esterno, è una realtà finita. La realtà corporea, in quanto costituita di parti, è allora divisibile e finita. Naturalmente, noi sappiamo che la divisibilità si riferisce alle parti della realtà più che alla realtà in quanto tale, dato che la materia e gli enti, dividendosi, non ci fanno mai giungere al nulla. Ma non si può nemmeno escludere che la realtà in quanto tale, con tutte le sue parti Ce quindi anche con lo spazio, il tempo, il pensiero) sia divisibile, nel senso che queste parti possano esser separate un giorno le une dalle altre e ricostituite in una realtà completamente nuova, in cui non sia rimasto nulla di propriamente corporeo (la realtà della visione beatifica).

 

Tuttavia Spinoza afferma l'indivisibilità della realtà corporea in senso stretto, costituita dalla materia e dall'estensione, le cui nozioni sono ricomprese nell'idea del corpo. A ben vedere, questo voler fondare la supposta indivisibilità della realtà fisica sul concetto della sostanza unica, sì da poter affermare per questa via l'eternità della materia, costringe poi Spinoza a delle aporie. Infatti, la tesi prima vista, secondo la quale le parti, non avendo la natura della sostanza, estinguerebbero la sostanza136, non è attendibile per questo motivo: se le parti non hanno la stessa natura della sostanza, come possono suddividerla? Forse che la sostanza può essere affetta da un modo di essere ad essa totalmente estraneo, che ne violi la natura disintegrandola? Perciò, la suddivisione in parti, concernendo qualcosa che non ha la natura della sostanza Ce quindi che non è la sostanza) non può in alcun modo ridurre al nulla la sostanza.

136 Op. cit., I, prop. XII, demonstr. cit.

Questa impossibilità è a priori e quindi il problema della nientificazione della sostanza non si pone nemmeno. Se poi l'esperienza ci mostra che la realtà è divisa in parti, ciò vorrà semplicemente dire che le parti, e quindi la realtà fisica stessa, non appartengono alla sostanza e non ne sono in alcun modo un attributo che ci permetta di cogliere la sostanza nella sua essenza.

Va poi notato che il principio dell'individualità è costruito da Spinoza con riferimento alla sostanza in quanto causa sui e poi esteso alla sostanza corporea, cioè alla materia, a ciò che costituisce per noi l'esistenza sensibile. Quest'estensione (che a prima vista potrebbe sembrare indebita) è invece del tutto necessaria nel sistema di Spinoza, visto che in esso l'estensione è un at­tributo della sostanza. E l'attributo costituisce l'essenza della cosa137 . Gli attributi della sostanza sono il pensiero e l'estensione. Essi non possono concepirsi come se ne fossero due parti, altrimenti la sostanza sarebbe finita (perché ciò che è diviso è finito) e non sarebbe più unica. In realtà gli attributi, poiché costituiscono la natura da un lato ed il pensiero dell'uomo (la mens) dall'altro, non possono considerarsi modi di essere di ciò che è causa sui, dal momento che l'essere della causa sui dovrà pur considerarsi del tutto diverso e separato (come si è detto) dall'essere di tutto ciò che non è se stesso (altrimenti non sarebbe causa sui). E né la natura né il nostro pensiero si identificano con la sostanza unica ed infinita, non potendosi in alcun modo dimostrare che la loro esistenza è necessaria. (Come dimostriamo che la natura e l'uomo dovevano esistere? Con il semplice fatto della loro esistenza?).

Comunque sia, la negazione della possibilità stessa di concepire la parte è un'ulteriore conseguenza della negazione spinoziana dell'idea della creazione. Ammettere l'esistenza della parte significa separare l'essere della sostanza (cioè di Dio) dall'essere del mondo finito. Il nesso tra i due (tra l'essere contingente e quello necessario) dovrebbe esser dato dalla creazione come atto libero e unilaterale di Dio. Ma quest'idea viene respinta perché "incomprensibile". Infatti, Spinoza accusa i suoi avversari filosofici di negare la corporeità a Dio, separandolo dal mondo, salvo poi affermare che il mondo è creato da Dio138 Ma "ex qua autem divina potentia creari potuerit, prorsus ignorant"139. La creazione sarebbe qualcosa di incomprensibile per l'intelletto umano perché non si saprebbe rappresentare "da quale potenza divina" essa scaturirebbe La critica di Spinoza si basa perciò su due punti: l) si diminuisce la perfezione divina separandola dall'estensione per poi dichiarare che l'estensione, cioè il mondo, è creato da Dio; 2) l'idea della creazione è in sé incomprensibile.

137 Op. cit., I, Defin. IV.

138 Op. cit., I, prop. XV, sch.

139 Op. cit., ivi.

Ma contro queste critiche va in primis affermato che non è affatto contraddittorio separare Dio dal regno del finito, per poi attribuire quest'ultimo ad un atto di creazione da parte di Dio. Anzi, la "rimozione" della sostanza "corporea ossia estesa" dalla natura divina, costituisce la conseguenza necessaria di una corretta definizione della natura divina, la cui perfezione non può esser vincolata all'esistenza del mondo, finito e caduco. Dio, se è l'essere perfettissimo (in termini spinoziani, la sostanza unica) non può contenere come tale, cioè intrinsecamente, ontologicamente, una realtà imperfetta come quella del mondo. E poiché il mondo esiste, deve averlo per forza creato. La separazione dell' estensione, di tutto ciò che è corpo, dalla natura divina è perciò indispensabile ad un concetto di Dio che voglia definire Dio in sé e per sé, e non in relazione al mondo. Il concetto di Dio deve avere solo Dio a proprio oggetto, senza commistioni con la realtà sensibile. (L'immanentismo vincola l'essere di Dio a quello del mondo, rendendo Dio imperfetto e contraddittorio nel suo concetto).

Una definizione corretta della natura divina come l'Uno assolutamente separato in sé dalla realtà sensibile ci permette di comprendere la necessità della creazione, non come atto dovuto da parte di Dio per creare il mondo, ma come atto che ha dovuto accadere, dal momento che Dio aveva deciso di crearlo. E che Dio avesse deciso in tal senso risulta per noi dall'esistenza effettiva del mondo, del quale per grazia di Dio facciamo parte, e non dalla definizione della natura di Dio come natura di un essere perfettissimo, perché l'idea della perfezione di questo Ente è soddisfatta già con l'idea del carattere necessario della sua esistenza, ohne weitere Bestimmung. E a quanto detto, nulla toglie la constatazione che la creazione, in quanto manifestazione dell'onnipotenza divina, è del tutto incomprensibile alla mente umana, nel senso che essa eccede del tutto le limitate capacità di comprensione del nostro intelletto, sia come atto che come disegno complessivo. "Con quale potenza", ossia in che modo Dio abbia potuto creare l'universo, questo noi non possiamo nemmeno tentare di comprenderlo. Ben diverso è invece affermare la necessità della creazione, non in relazione a Dio ma al mondo esistente.

 

d. Se il mondo è increato, esso non ha parti; un mondo increato non può dunque essere divisibile. L'esistenza delle parti, così come ci appare dai sensi, sarà allora il frutto di un'illusione o dovrà spiegarsi in un altro modo, vale a dire risolvendo le parti nei modi: le parti dovranno esser colte non tanto "realiter" nella materia quanto "modaliter"140.

140 Op. cit., ivi.

 

La visione immanentistica della realtà comporta dunque un'interpretazione immanentistica della parte come modus della sostanza. In tal modo, la parte si dissolve. Essa cessa di essere qualcosa di specifico, di determinato, un'individualità precisa per diventare invece una modificazione dell'infinito, essa stessa infinita. L'infinito, infatti, non può risultare di parti finite: "la quantità infinita non è misurabile e non può esser composta di parti finite"141. Questo principio è già posto come vero e proprio dogma nella proposizione XII, da noi sopra criticata. L'estensione è dunque una "quantità infinita" ed ugualmente lo è la "sostanza corporea". Ma non si tratta di due realtà diverse: l'estensione è la sostanza corporea, cioè l'attributo della sostanza quatenus res extensa. L'estensione, nel linguaggio della metafisica del tempo, non solo comprende sia il vuoto che il pieno, sia lo spazio che il corpo, senza soluzione di continuità: vuol addirittura esprimere il concetto che nella realtà si dia solo il pieno142. E difatti Spinoza scrive che devono negare la legittimità di ogni divisibilità dell'estensione in parti soprattutto coloro "qui negant dari vacuum"143. Ma perché proprio loro? e perché Spinoza, per concepire infinita l'estensione, deve negare l'esistenza di uno spazio vuoto? Un motivo c'è. Se ammettesse l'esistenza del vuoto come spazio assoluto nel quale la materia si muova in ogni direzione, dovrebbe già ammettere la divisibilità del tutto per il solo fatto dell'esistenza del pieno e del vuoto, che possono concepirsi come due parti della realtà, già per il fatto di non mostrare le medesime proprietà. Così solo il pieno, cioè la materia, ha la capacità del moto, esterno ed interno ai corpi, ad un punto tale da potersi annullare per degenerazione o distruzione, svanendo dallo spazio stesso.

Ma gli argomenti specifici che Spinoza porta contro l'effettiva esistenza del vuoto, sono due. Se la sostanza corporea potesse effettivamente dividersi "ut eius partes realiter distinctae essent", allora "una sola parte potrebbe esser distrutta, lasciando tutte le altre nella medesima connessione di prima"144, il che non sembra concepibile. Inoltre, le parti della sostanza corporea "ita aptari debent, ne detur vacuum"145: devono sempre disporsi in modo da non ammettere il vuoto tra di sé.

Questi due argomenti sembrano fondarsi sull'esperienza. Essa sembra mostrarci, infatti, che una sola parte non può staccarsi da un tutto organico, senza alterarlo in maniera decisiva. Ma ciò non è vero in assoluto. Lo è, ad esempio, nel caso di un organo vitale del nostro corpo, la cui corruzione o asportazione provocherebbe la nostra morte. Tuttavia il discorso non vale per

141 Op. cit., ivi.

142 CART., Princ. Philos., cit., pars II, §§ X-XVI.

143 SPIN., Eth., I, prop. XV, sch., cit.

144 Op. cit., ivi. 145 Op. cit., ivi.

quelle parti di un corpo che possano perdersi senza pregiudizio dell'esistenza del corpo stesso, come nel caso della mutilazione o perdita di un arto. Vi sono dunque delle parti la cui distruzione lascia le altre nella "connessione di prima", e ciò sembra sufficiente per togliere universalità al ragionamento spinoziano. Che poi le parti di un tutto debbano disporsi sempre in modo da non lasciare alcun vuoto all'interno di questo tutto, nemmeno si può dire. Vi sono spazi all'interno del corpo animale che sono costruiti proprio come cavità, come spazi vuoti, al fine di permettere determinati fenomeni organici. Ed il fuoco che dal centro della terra erompe nei vulcani, non ha bisogno di spazi vuoti da percorrere? E se in questi spazi c'è aria essa c'è proprio perché sono vuoti. Solo un vuoto interno permette all'aria e all'acqua (alla materia allo stato gassoso o liquido) di costituirsi come spazio occupato dentro di noi o dentro la terra. La funzione di questi spazi, nell'ordinamento del tutto, è proprio quella di esser vuoti. Senza il vuoto, il processo organico che consta di mescolanze e svuotamenti all'interno dei corpi non potrebbe aver luogo.

Ma l'argomentazione spinoziana non vuoi essere di tipo organi cistico. La "sostanza corporea" non è per lui qualcosa di determinato in un processo od in un ente specifico, quale un corpo separato da un altro, ma la materia nella sua qualità di elemento indeterminato dal punto di vista della forma e dell'ente (dell'individuo) e quindi dell'estensione in senso stretto. Infatti "materia ubique eadem est"146. La materia è la stessa ovunque, la materia (aggiungiamo) come elemento primordiale (se così possiamo dire). In questa materia "non si possono distinguere parti, se non quando la concepiamo affetta in diversi modi, per cui le sue parti si distinguono secondo una differenza modale e non reale"147. Spinoza si richiama alla natura dell'acqua che "generatur et corrumpitur" ma nello stesso tempo non si presenta come divisa in parti148. Dappertutto, l'acqua è sempre la stessa. In effetti, la forma occasionale dell'acqua dipende da ciò che la contiene e non dalla forma delle sue parti, come invece accade per un corpo. Tuttavia, se noi possiamo separare i due elementi costitutivi dell'acqua, l'idrogeno e l'ossigeno, possiamo dire allora che l'acqua consta di due parti, le quali, a certe condizioni, se ne possono andare per conto proprio. L'acqua è quello stato della materia che non è divisibile come il corpo (come la materia allo stato solido); tuttavia, se "si genera e si corrompe", può esser divisibile. E se non si divide, perché l'acqua che evapora, piove e rifluisce nei mari è (in ipotesi) sempre la stessa; se si mantiene sempre indivisa, ciò accade perché è in

146 Op. cit., ivi.

147 Op. cit., ivi.

148 Op. cit., ivi.

 

natura indivisibile o perché il fine della creazione è di mantenerla indivisa, sino ad un certo momento del tempo? Non fu detto: et mare iam non est149? Ciò che ci sembra indiviso lo è in sé o in relazione al fine per cui è? La semplice constatazione empirica non ci permette di pronunciarci.

In ogni caso, l'acqua non è la sostanza corporea, ma una sostanza corporea, e già per questo è parte della sostanza corporea, ossia del tutto, in quanto costituito dalla sostanza corporea. Non è quindi la materia ma uno degli stati della materia e quindi è parte della materia. Dire che la sostanza corporea non è contenuta nell'estensione indivisibile ed infinita ma che è la stessa cosa di quest'ultima, significa affermare che gli elementi costitutivi della sostanza non hanno l'estensione ma sono l'estensione, cosa del tutto inaccettabile (vedi supra, § 2).

Del resto, ogni elemento della sostanza non occupa tutta l'estensione della sostanza, altrimenti bisognerebbe dire che in ogni punto della sostanza vi sono sempre acqua, aria, terra, fuoco, il che è manifestamente assurdo. E poiché l'estensione della sostanza è lo stesso che l'estensione in generale, ovvero il tutto, ne conseguirebbe che in ogni parte dell'universo si dovrebbe avere la medesima commistione, il che è del pari assurdo. Ma se ogni elemento non occupa tutta l'estensione della sostanza, ossia tutta la res extensa possibile ed immaginabile, allora l'elemento, non coincidendo con la sostanza corporea se non in parte, ne è una parte. E ne è parte realiter e non semplicemente modaliter perché il suo esser parte deriva dall'avere una minore quantità rispetto al tutto rappresentato dalla quantità di tutta la sostanza corporea. All'interno della materia si danno dunque le parti anche se queste parti, cioè gli elementi, sono ovunque (cioè dove sono) le stesse: il fuoco che brucia su di noi o nel sole o in una stella lontana è sempre lo stesso fuoco.

L'identità della materia, il suo esser "sempre la stessa" in quanto materia, non può perciò riferirsi alle diverse qualità e proprietà che essa mostra nei suoi elementi e stati fondamentali. La natura della materia non è infatti univoca ma mostra qualità diverse nell'acqua, nel fuoco, etc. E queste qualità sembrano ora mescolarsi ora starsene per conto proprio, in un luogo separato nello spazio da un altro luogo, occupato dalla medesima materia o da altro. Onde l'antico problema della commistione degli elementi150 e cioè dell'intima connessione e del trapassare reciproco degli elementi e degli stati della materia l'uno nell'altro, viene risolto da Spinoza solo per astrazione:

149 Apoc., 21,1.

150 ARIST., Phys., 189-90; De gen. et corr. A, 317-8, 327-8.

 

 

non mediante una effettiva dimostrazione (bisognerebbe riuscire a dimostrare che gli elementi si riducono ad uno solo) ma mediante la superimposizione di un vero e proprio postulato. E quest'ultimo consiste nell'affermazione che dappertutto vi sia sempre e da sempre il pieno, sì che la materia (non per la natura o qualità che possiede ma come mera quantità cioè per il solo fatto di essere) in quanto estesa, sia identica all'estensione e perciò indivisibile, perché la sua divisibilità comporterebbe quella dell'estensione, il che è assurdo. La quantità della materia, cioè la sua esistenza in quanto cosa, res, non si distingue dunque dall'esistenza dell'estensione: non è ciò che presuppone l'estensione (lo spazio vuoto) per poter essere, avere un luogo e muoversi, ma l'estensione stessa.

Ma quest'identificazione non può esser dimostrata ed anzi viene smentita dalla considerazione che l'indivisibilità della materia è negata dai rapporti tra i suoi elementi, che sono ora di attrazione ora di repulsione; è negata cioè dalla natura della materia, che incessantemente si divide e si riunisce, senza che si possa dimostrare esser sempre identica la quantità che si divide e che si riunisce (dato che per questo supposto esser identico si pone poi il problema del ritorno della medesima materia distrutta dalla morte - vedi supra, § 4 c). L'esser identico a sé della materia non riguarda perciò la sua natura (la sua qualità) ma piuttosto la sua quantità, il fatto cioè che, per il solo fatto di esistere, sia identica all'estensione; che tra di essa e lo spazio non si possa ammettere differenza alcuna. Infatti, la natura della materia ci mostra già una divisione in atto (e quindi una presenza di parti) perché gli elementi in cui si presenta non possono confondersi l'un l'altro, altrimenti bisognerebbe dire che tra il fuoco, l'aria, l'acqua, la terra, non c'è differenza alcuna; per cui sarebbe la stessa cosa (quanto alle conseguenze) mettere il dito nel fuoco o metterlo nell'acqua o infilarlo nella terra. L'impossibilità di poter dichiarare l'identità assoluta degli elementi tra loro, dimostra, a nostro avviso, che la materia non coincide in quanto tale con l'estensione: al contrario, la occupa senza averne la stessa natura. E quando Einstein afferma che il vuoto non esiste perché bisogna supporre che in ogni parte dell'universo la densità della materia sia sempre superiore allo zero, costituendo tale densità non materia nello spazio ma lo spazio stesso, il quale sarebbe perciò "curvo" a causa della densità medesima; più che darci un'effettiva descrizione della realtà proclama un postulato, il postulato fondamentale delle geometrie non euclidee o meglio la sua applicazione all'immagine fisica dell'universo. E in questa immagine si sente l'ombra di Spinoza.

Il concetto della parte come modus della res extensa respinge dunque da sé l'idea che la parte possa concepirsi come una realtà finita. Il che significa estinguere la possibilità stessa del concetto della parte. La realtà, secondo Spinoza, in quanto di per sé sia già perfetta, perché attributo infinito dell'infinita causa sui, cioè della sostanza unica, è una realtà senza parti. E quindi: senza differenze, senza individualità, senza gerarchia, senza veri rapporti causali. Ma senza tutto ciò, non può esservi un ordine nel tutto. Il tutto stesso della realtà si dissolve nell' indeterminato. Diventa una massa informe, in cui i contorni dell'ente (dell'oggetto) sfumano e si perdono.

Parallelamente, anche nell' etica di Spinoza non si ha alcuna individualità determinata, alcuna volontà guidata dall'intelletto in base alla percezione dell'idea del fine e di chiari rapporti di causa ed effetto, alcuna possibilità di distinguere il bene dal male, ridotti a forme o modi dell'utile. Il soggetto agente (centro di ogni etica) è invece qualcosa di indistinto, in quanto soggetto: si dissolve nella res cogitans, di cui è un modo infinito, così come la parte si dissolve nella res extensa. E la libertà dell'uomo non è, infatti, per Spinoza, altro che un sapere della mente "in Dio", cioè un contemplarsi eterno della sostanza unica nel modo rappresentato dalla nostra mens individuale, che per questa via crede di acquisire l'eternità: dissolvendosi secondo necessità nel tutto, alla maniera di Bruno, dato che per Spinoza l'anima non esiste.




 III. Analitica delle parti in nuce

Spazio, corpo, simultaneità

Il pensiero


 


ANALITICA DELLE PARTI IN NUCE

 

Dati i limiti del presente saggio, che vuole essere una introduzione alla metafisica dell'Uno, procederemo ora, per maggior compiutezza dell'insieme, ad alcune considerazioni sull'inadeguatezza dell'immagine del mondo - un vero e proprio tutto informe - elaborata dal pensiero contemporaneo, convinto che il tutto sia l'uno e che non sia necessario ammettere l'esistenza di un Dio creatore, cioè dell'uno in senso proprio, della Monotriade. L'esposizione si limiterà a mettere in rilievo alcuni punti essenziali, avanzando il dubbio sulla legittimità di alcune pretese fondamentali, oggi dominanti, circa il modo d'intendere le parti che costituiscono il tutto, a cominciare dall' idea dello spazio.

 

14. Spazio, corpo, simultaneità

a. Nell'indagare la negazione dell'individualità della parte ad opera di quella filosofia che concepisce il tutto come sostanza eterna ed increata (Deus sive natura), abbiamo visto che un punto essenziale è rappresentato dall'identificazione della materia con l'estensione. Crediamo di aver dimostrato che, degli argomenti apportati da Spinoza a favore di questa identificazione, nessuno sia decisivo. Un forte ostacolo è rappresentato dalla presenza nella materia di elementi che non si lasciano affatto ridurre gli uni agli altri. Quando l'acqua evapora diciamo che la materia passa da uno stato liquido ad uno di tipo volatile o gassoso; e quando si condensa per tornare di nuovo sulla terra sotto forma di pioggia, diciamo che da uno stato simile a quello di un gas ritorna ad uno stato liquido. Tuttavia l'acqua, in questo ciclo, non diventa aria, sic et simpliciter, ma concorre al mantenimento della composizione chimica di quest'ultima. Né si trasforma in fuoco. Né quest'ultimo si muta in terra o acqua ("Er foco lo spegni coll'acqua, ma l'acqua co' che la spegni?"). E pur partecipando l'acqua e della terra e della materia di cui sono fatti gli esseri viventi, non si identifica con nessuna delle due. La mescolanza parziale e temporanea degli elementi che ci offre l'esperienza (nella commistione dei loro elementi chimici in senso stretto) non sembra mai tale da dissolvere pienamente l'individualità di un elemento,


da consentirci di affermare l'effettiva riduzione di tutti gli elementi ad uno solo.

La reductio ad unum sembra perciò esser stata uno dei compiti del concetto ed il pensiero moderno l'ha tentata con l'identificazione di corpo e spazio, sostanza materiale ed estensione, andando per forza di cose al di là della considerazione della natura della materia in senso stretto. Almeno nelle intenzioni. Infatti, Spinoza non ha potuto addurre come prova dell'identificazione l'indivisibilità dell'estensione in quanto tale, priva cioè di ogni sostanza corporea, perché avrebbe dovuto ammettere l'esistenza del vuoto, distruggendo così in partenza la propria tesi. Né ha voluto affermare che l'esistenza effettiva del vuoto comporti il coestendersi continuo di materia e spazio, quale che sia lo stato in cui la materia versi, perché ciò avrebbe significato l'ammissione implicita dell'esistenza di uno spazio che, in quanto tale, si estende al pari della materia. Non ha voluto, perché altrimenti avrebbe concesso allo spazio di avere un'estensione che si può concepire in maniera indipendente da quella della materia. Egli ha dovuto in realtà addurre come prova la natura della materia stessa, quella qualità per la quale essa sarebbe indivisibile: indivisibile intrinsecamente, a causa di ciò che è, e non per il solo fatto di essere (cioè di avere un'estensione e di occupare un luogo). Ma questa prova è offerta, come si è visto, dall'acqua in quanto materia, la quale non ammette una forma divisibile in parti, come il corpo, ma solo la forma transeunte di ciò che al momento la contiene. L'acqua, che è ovunque la stessa, ci dimostrerebbe che la materia è ovunque la stessa (perché l'aria è ovunque la stessa, il fuoco e la terra lo sono, la luce lo è).

 

Ma questa materia apparentemente indivisibile è in realtà (come si è detto) solo una parte della materia. I corpi organici e inorganici sono ben divisibili, secondo le parti che li compongono od arbitrariamente (in seguito ad urto), ma fanno anch'essi parte della materia. E l'acqua non può esser scomposta nei suoi elementi chimici? In ogni caso, anche volendo attribuire a tutti i costi l'indivisibilità agli elementi della materia, già l'esistenza stessa di questi elementi, ci fa vedere che la materia è un che di composto, e quindi di divisibile in parti (cfr. supra, Aristotele, nel § 9 b). Le parti sono qui gli elementi. Gli elementi non sono poi la stessa cosa degli stati della materia, che noi possiamo ritrovare o ricreare, in tutto o in parte, nell'ambito di un elemento (per esempio nel trasformare un gas in un liquido, come nel caso dell'azoto). Gli stati della materia non sono tre materie diverse ma tre modi di essere della medesima materia o meglio del medesimo elemento della materia.


Se questo modo di esprimersi sembra  arcaico,  addirittura presocratico, si rifletta sul fatto che il pensiero, per dimostrare l'unicità della materia, per poter affermare che essa è una, eterna ed indivisibile (e che quindi non abbisogna di un creatore), ha dovuto introdurre un elemento estraneo alla nozione stessa di materia, rappresentato dall'estensione; ha dovuto identificare la materia con tutta l'estensione in quanto tale; ha dovuto negare la concepibilità stessa di uno spazio vuoto. Ma questa soluzione - che in Spinoza trova un suo prototipo speculativo - non è certamente soddisfacente. Né è riuscito ai Fisici di dimostrare in questo secolo che la materia si risolve tutta in energia, come se quest'ultima rappresentasse l'elemento unico. Si proclama come un dogma che la materia è "una forma di energia" ma senza riuscire a darne una dimostrazione universale, che valga per tutti i piani della realtà. Affermare che tutta la realtà è un ammasso cosmico di energia, regolato da leggi simili alle equazioni di campo, al cui interno gli enti (gli oggetti) non sono altro che transeunti variazioni di densità, come se fossero un mero Schein, è del tutto astratto. Che immagine del mondo è mai questa? In essa l'oggetto "perde di significato", come nell'arte moderna. Nel sapere dei Fisici sono trapassate le ambiguità dello spinozismo, a cominciare da quelle presenti nel concetto dell'estensione (ambiguità che risalgono a Cartesio e che per la verità gravano su tutto il pensiero moderno, nella misura in cui è panteista, immanentista e materialista).

L'estensione, in quanto concetto che voglia spiegare la realtà sensibile, non ci dice nulla intorno a ciò che la occupa. Quando pensiamo l'estensione, infatti, non possiamo limitarci a pensare l'estensione di qualcosa: dobbiamo invece pensare l'estensione come se fosse la cosa stessa, cioè in sé e per sé. E questo pensiero non è così astratto come sembra. Almeno in parte, esso si fonda sull'esperienza. Noi vediamo infatti che la materia, configurata negli enti o corpi, non occupa mai tutta l'estensione, sia perché esiste un vuoto interno ai corpi sia perché esiste spesso un intervallo di spazio fra essi. Sulla terra, ci muoviamo come sulla superficie di una sfera, disponendo perciò della superficie curva su cui viviamo e dello spazio ad essa adiacente come di uno spazio libero. Vediamo poi che questa sfera si trova in uno spazio immenso, in cui l'intervallo tra i corpi che lo occupano è ben visibile. Sia guardandoci intorno sulla terra che guardando in cielo, percepiamo esattamente la differenza tra lo spazio occupato e quello vuoto, tra il pieno e il vuoto; vediamo che c'è un intervallo di spazio tra i corpi, intervallo che muta a causa del loro movimento, dal momento che ogni corpo, per quanto grande, è sempre molto più piccolo dello spazio che il nostro occhio abbraccia. Dunque l'esperienza ci fa vedere che il corpo occupa sempre l'estensione ma che non occupa mai tutta l'estensione ai nostri occhi possibile. Il corpo e l'estensione non sono dunque la stessa cosa. Possiamo quindi pensare l'estensione come qualcosa di distinto dal corpo che la occupa. L'esperienza ci permette questa serie di deduzioni: l) non si mostra mai un corpo così esteso da occupare tutto lo spazio che vediamo (se lo occupasse forse non potremmo nemmeno vederlo) e lo spazio sembra di una vastità incommensurabile rispetto ai corpi che lo occupano, anche rispetto ai più grandi; 2) esiste sempre un intervallo di spazio tra i corpi o comunque la possibilità di averlo grazie al moto dei corpi (moto locale) o al moto provocato dall'esterno, per azione meccanica più o meno violenta; 3) esiste quindi una realtà che non è corpo (non è materia), costituita per noi dall'intervallo di spazio tra i corpi; 4) questo intervallo non è fisso ma variabile a causa del moto dei corpi, che ha luogo sia nello spazio che appare come intervallo variabile tra i corpi che in quello da loro precedentemente occupato; 5) ne consegue che lo spazio che ci appare come un intervallo tra i corpi e quello che essi occupano o percorrono è sempre lo stesso spazio - un'estensione sempre uguale a se stessa - dal momento che il medesimo spazio può esser volta a volta intervallo tra i corpi o luogo da essi occupato, può cioè essere indifferentemente pieno o vuoto; 6) se lo spazio è sempre lo stesso di contro al mutare di luogo dei corpi, ciò significa che esso non li segue nel loro movimento, e quindi che è una realtà immobile, l'estensione in quanto tale, il vuoto in sé, del quale non riusciamo a rappresentarci un limite, poiché esso dovrebbe esser costituito da un corpo (che a sua volta dovrebbe occupare un ulteriore spazio) o da un altro spazio.

La riflessione indotta dall'esperienza ci permette quindi di distinguere nel concetto il pieno dal vuoto, la materia dall'estensione e di concepire l'estensione in sé come lo spazio vuoto che contiene tutti i corpi, cioè tutta la materia possibile. A questa riflessione si potrebbe opporre che essa potrebbe non esser vera dal momento che i nostri sensi errano. Ma una simile obiezione la si può fare solo per assurdo, perché se fosse falsa la nostra percezione della differenza tra il pieno e il vuoto (con tutto ciò che essa comporta in termini di simmetria, senso della profondità, visione, equilibrio psicofisico del nostro comportamento e dei nostri sensi in generale), noi non saremmo nemmeno capaci di muoverci e di pensare, la nostra normalità quotidiana non esisterebbe nemmeno. Ma l'esperienza ci mostra in maniera incontrovertibile che noi possediamo un equilibrio psicofisico innato, del quale la capacità di distinguere in ordine ai rapporti spaziali - separando e connettendo il pieno ed il vuoto secondo necessità - è un elemento determinante. Questa capacità è messa in forse solo da fattori patologici, da certe malattie.

Come unica critica possibile resta dunque quella che i sensi ci ingannino in altro modo, dandoci cioè la sensazione del vuoto là ove c'è invece sempre il pieno, perché nell'estensione si deve ammettere sempre qualcosa, anche dove a noi sembri esserci solo lo spazio vuoto. Qui il ragionamento si spinge al di là dei sensi, cercando di rovesciarne le conclusioni. È evidente che, se ciò che a noi appare vuoto è invece pieno, in questo pieno ci dovrà essere una materia diversa da quella che troviamo nel pieno che cade sotto i nostri sensi. In altre parole, si tratterà sempre della stessa materia ma in uno stato tale da non poter essere da noi percepita. Uno stato del genere è quello volatile o gassoso. Da qui l'idea (oggi scartata) che nel cosmo vi sia l'etere, materia invisibile sottilissima ed impalpabilel51. Al posto dell' etere, i Fisici mettono oggi polvere e gas, la "nube cosmica", visibile ed invisibile, radiante materia ed energia per ogni dove, una nube che però non è nello spazio perché è lo spazio! In questa visione, lo spazio vuoto, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra: se non si dà tra i corpi, perché il tutto è un'incommensurabile nube di gas, si dovrà supporre (cfr. § 2 di questo saggio) presente all'esterno della nube (che altrimenti non avrebbe dove espandersi) e perciò come luogo comunque occupato dalla nube stessa nel complesso dei suoi movimenti.

Ma per il concetto, il punto essenziale non è dato nemmeno dall'accettare o meno la presenza di un effettivo spazio vuoto nel cosmo. È vero che non accettandolo, si rende incomprensibile il movimento, e tanto più quando esso è concepito come movimento del tutto. Ciò che vogliamo dire è che, qualsiasi cosa si voglia credere sempre presente nello spazio, oltre la materia che cade sotto i nostri sensi, si tratti di materia in qualsivoglia stato od energia, o di materia-energia (se la prima non è che "una forma" della seconda), resterebbe sempre la possibilità della seguente constatazione: che lo spazio tutto occupato, lo sarebbe proprio perché in se stesso vuoto. Esso è qualcosa che è, che esiste per essere occupato, in tutto o in parte; per poter essere pieno e quindi per non restare vuoto, in tutto o in parte. Lo spazio è l'occupabile per eccellenza (se così possiamo esprimerci), il "ricettacolo" in se stesso vuoto. Concepirlo come non esistente in quanto vuoto, perché il vuoto non può esistere come tale, è del tutto assurdo. Sarebbe come affermare che una sedia deve esser costruita con un corpo ad essa incorporato, visto che è una sedia, cioè uno strumento per un certo uso del corpo. Ma in tal modo nessuno potrebbe sedervisi. La sedia, proprio in quanto sedia, è invece costruita vuota del corpo che la userà, perché essa deve approntare quello spazio (vuoto) che consente ai corpi di utilizzarla, in

151 MAXWELL, Campo ed etere (1890), tr. it. di autori vari in EINSTEIN, Relatività: esposizione divulgativa (e scritti di Descartes, Newton, Lobačevskij, Riemann, Helmholtz, Maxwell, Poincaré, Einstein su Spazio, Geometria, Fisica) con saggio introduttivo di B. Cermignani, Torino, 19774, pp. 250-80, 265: l'etere "sostanza materiale di natura più evanescente dei corpi visibili, che si suppone esista nelle parti dello spazio apparentemente vuote".

quanto sedia. (i puristi del concetto ci per­doneranno questo paragone).

Lo spazio non può perciò esser considerato come una fra le possibili "varietà di grandezze pluriestese" e quindi "solo un caso particolare di grandezza tri-estesa", dove la "pluriestensione" sembra stare, rispetto allo spazio, come il tutto nei confronti della partel52. Allora lo spazio verrebbe ad essere, non l'estensione in sé e per sé (la "pluriestensione" in quanto tale), ma un tipo di estensione, come se ci potessero essere delle grandezze dotate di un'estensione diversa da quella dello spazio. Ma ciò è inconcepibile. E infatti questo modo di definire lo spazio muove dal presupposto che non ci sia differenza tra il pieno e il vuoto, tra lo spazio e il corpo, per cui le forme geometricamente rilevanti assunte da ciò che è nello spazio (assunte dalla materia-energia) vengono considerate invece forme dello spazio; forme le quali, nella loro diversità, farebbero apparire diversi tipi di spazio. Non si dice quindi che ciò che è nello spazio sia piano, curvo o concavo ma che lo spazio è piano, curvo o concavo. Si è così elaborata una nozione di "spazio curvo"153, assunta dai Fisici a fondamento delle loro teorie, che va interpretata alla lettera: "curvo" non è ciò che è nello spazio, ma lo spazio in quanto tale, poiché in natura non esisterebbe il vuoto e le forze gravitazionali farebbero assumere allo spazio una forma sferica su scala cosmica.

Lo spazio "curvo" corrisponderebbe, meglio di ogni altra "varietà" di "grandezza n-estesa", all'immagine effettiva della realtà, che, dal punto di vista spaziale, sarebbe perciò quella di "una varietà illimitata tri-estesa". Perché la tridimensionalità, al contrario della "varietà mono-estesa" e di quella "bi-estesa", è "illimitata"? Forse perché lo spazio deve concepirsi come infinito? Niente affatto. Scrive infatti Riemann: "l'illimitatezza dello spazio ha quindi maggiore certezza empirica di qualsiasi [altra] esperienza del mondo esterno". E ce l'ha, questa maggiore certezza, perché "come ipotesi" essa "ci serve ad integrare costantemente il dominio delle percezioni reali"154. Senza di essa, le "percezioni reali" non avrebbero l'ubi consistam. Ma da ciò non si ricava che lo spazio debba concepirsi infinito: "al contrario, se si assume che i corpi siano indipendenti dalla loro posizione e si attribuisce quindi allo spazio una misura di curvatura costante, esso verrebbe ad essere necessariamente finito non appena questa misura di curvatura avesse sia pure il più piccolo valore positivo. Se si prolungassero in linee di minimo percorso le direzioni iniziali, giacenti su una superficie, si otterrebbe

 

 

 

152 RIEMANN, Sulle ipotesi che stanno alla base della geometria (1854), tr. it. in EINSTEIN, Relatività, etc., pp. 204-20, 204, 206 SS.

153 Op. cit., p. 212 SS., 217 SS.

154 Op. cit., p. 204.

una superficie illimitata con valore di curvatura positivo e costante, cioè una superficie sferica, e dunque finita"155.

Questa distinzione fra "illimitato" ed "infinito" è del tutto evidente se riferita alla sfera, dato che la sua superficie è percorribile all'infinito, perché priva di limiti, ma nello stesso tempo è finita. Ciò che è privo di limiti non è per ciò stesso infinito, anche se all' infinito non possiamo naturalmente porre alcun limite. Questa verità era già nota al pensiero greco, come risulta da Parmenide, il quale afferma esser l'essere, in quanto "compiuto da ogni parte, simile a massa di ben rotonda sfera"156. Questa forma della realtà, la "ben rotonda sfera", non è parte dell'essere ma è la forma - finita - che l'essere assume in quanto tutto, cioè in quanto realtà "compiuta da ogni parte". Anche lo spazio, che non può astrarsi dall'essere, in quanto spazio "continuo"l57, sarà perciò ricompreso in questa forma: in quanto forma del tutto, sarà la forma della sfera.

I Fisici hanno dunque riesumato l'immagine parmenidea del mondo. Essi dicono infatti che lo spazio in quanto tale, lo spazio cosmico, e quindi il tutto in sé e per sé, deve concepirsi come uno spazio curvo, illimitato ma finito, giusta i canoni fissati dalla geometria riemanniana. Ma il tutto come "spazio curvo", in se stesso finito, non può non rammentarci la "ben rotonda sfera" del filosofo di Elea. E mentre l'essere sferico di Parmenide, oltre a quello fisico conserva un significato metafisico, giusta il quale l'immanenza che lo caratterizza sembra mantenere la possibilità di un suo superamento nella coincidenza di essere e pensare; ciò non si può dire del tutto inteso come "spazio curvo" dai Fisici, poiché per essi questo spazio è una realtà esclusivamente fisica. Ciò comporta allora che quest'immagine, in quanto riferita al tutto, cioè a tutto lo spazio del tutto, appaia incongruente.

Infatti, una sfera, in quanto forma finita, non occupa mai tutto lo spazio ma solo quello del suo proprio luogo. Si deve quindi ammettere che c'è sempre uno spazio ad essa esterno, uno spazio ulteriore. Questo spazio non può avere le stesse proprietà di quello della sfera, che sono curvatura in se stessa illimitata e finitezza. Se l'avesse, continueremmo a trovarci (anche al di fuori della sfera) in uno spazio curvo che però sarebbe pensabile come infinito, perché non è lo spazio finito della sfera, ma quello ad essa esterno e privo di una forma data. Ma questa conclusione, oltre che contraddittoria in se stessa (perché uno spazio curvo non può essere infinito) è contro l'ipotesi.

 

 

 

155 Op. cit., pp. 218-9.

156 PARM.,fr. 8, cit., vv. 42-3, ed. Reale-Ruggiu, cit., p. 105: "εὐκύκλου σφαίρηs ἐναλίγκιον ὄγκωι".

157 Op. cit., ivi, v. 25.

 

Dunque, lo spazio esterno alla sfera - che la figura geometrica stessa della sfera postula come necessario - non può essere curvo, altrimenti la sfericità data non potrebbe distinguersi dal resto (dalla "varietà" non sferica) come uno spazio finito. E che uno spazio esterno alla curvatura debba esistere, risulta dalla nozione stessa del finito. Se una grandezza, quale che sia la sua forma, si assume come finita, al di fuori di essa se ne darà sempre un'altra che la limiti, con la propria forma ed estensione. All'esterno dello spazio finito della curvatura resta perciò sempre uno spazio residuo, che non può a sua volta esser curvo. Perciò lo spazio in quanto tale, tutto lo spazio del cosmo non può essere uno spazio curvo. Avendo un carattere necessariamente finito, quest'ultimo postula per definizione un ulteriore spazio, da esso diverso. Se coincidesse con tutto lo spazio, la curvatura non potrebbe in effetti avere un altro spazio al di fuori di sé: ma allora non sarebbe più finita.

Perciò una sfera, anche di curvatura positiva infinitamente piccola rispetto allo zero e quindi immensa in estensione, non potrà mai pensarsi come lo spazio, tutto lo spazio, lo spazio in quanto tale, ma solo come una massa ed una forma che sono nello spazio. Ciò vale, naturalmente, sempre che si voglia dare una rappresentazione fornita di senso, che tenga fede all'assunto del carattere finito e privo di limiti in quanto finito - cioè a causa della propria circolarità - della sfera stessa.

L'immagine dell'universo come spazio curvo e finito non riesce perciò ad eliminare da se stessa l'immagine di uno spazio adiacente a quello curvo dato, che non può concepirsi a sua volta come curvo, altrimenti il significato stesso dell'immagine verrebbe meno: ed il significato è dato qui proprio dalla finitezza della curvilinearità come topos universale. Questa notazione, di carattere puramente geometrico, si sposa poi all'altra (più volte richiamata, vedi § 2 supra e questo stesso paragrafo) secondo la quale questo spazio curvo, se è concepito in espansione, come se fosse una "bolla di gas", deve aver un vuoto da riempire, nel suo moto di espansione. Altrimenti, dove si espande?

Una simile concezione dello spazio, costituente il fondamento stesso della visione del mondo oggi comunemente accettata, i Fisici non l'hanno certo ricavata direttamente da Parmenide. Richiamandoci al grande di Elea, abbiamo voluto semplicemente porre l'attenzione su di un'analogia, a nostro avviso obiettivamente fondata, e fornire uno spunto alla riflessione. Il pensiero moderno, giunto con i Fisici ad un'evoluzione che sembra aver già raggiunto e superato la propria acme, si ritrova improvvisamente all'essere di Parmenide, da dove aveva preso le mosse, circa venticinque secoli fa, l'intera speculazione sull'essere. Alla fine della lunga parabola ci ritroviamo allora

 

all'inizio, quasi a dimostrazione del fatto che non esiste "l'innocenza del divenire" perché proprio nel divenire emerge il limite - la colpa in termini anassimandrei - che riconduce il pensiero là ov’era partito, come se dovesse scontare una condanna a causa della sua superbia.

L'identificazione di corpo e spazio che, quale principio generale, si è detto esser alla base dell'immagine del mondo come "spazio curvo", è ascritta consapevolmente dai Fisici al pensiero moderno, per esempio a Cartesio, presso il quale - come è noto - essa è delineata in termini molto chiari158. Ma essa è diventata poi un cavallo di battaglia di tutte le geometrie non euclidee, nel loro tentativo di elaborare una nuova geometria. Così troviamo in Lobačevskij che "l'attributo caratteristico dei corpi" è "il contatto", in quanto attributo che possono avere solo i corpi; e ciò in base all'esperienza, che ci permette di pensarli "in contatto" quando parliamo "della loro composizione o scomposizione in parti"159. L'attributo fondamentale del corpo è quindi "il contatto" e non per esempio l'estensionel60. L'estensione, come attributo essenziale del corpo, implica un rapporto (e quindi già la possibilità della distinzione) fra il corpo e lo spazio, che si identificano non per natura ma solo in quanto il corpo occupi sempre un luogo, sia cioè una parte dello spazio ed anzi in una sua parte, in quanto spazio fisico determinato. Ma per Lobačevskij i corpi possono esser considerati "corpi geometrici" già per il solo fatto di essere "in contatto"161. Ciò comporta che un'altra determinazione elementare del corpo geometricamente inteso, la sezione, sia stabilita mediante l'attributo dell'esser in contatto, perché essa sarà "la scomposizione del corpo in due parti che si toccano", le quali dovranno considerarsi "lati della sezione"162.

Se tutti i "corpi della natura" sono da considerarsi "geometrici" a causa del "contatto" tra loro, è evidente che essi possono esser concepiti come "parti di un unico corpo globale, che noi chiamiamo spazio"163. Si giunge quindi all'identificazione od indistinzione di corpo e spazio: "l'unico corpo globale" in cui possiamo pensare tutti i corpi, "decomponendoli in parti che

158 Si veda l'elogio di Cartesio fatto proprio per questo motivo da Einstein in ID., La relatività e il problema dello spazio, in EINSTEIN, Relatività etc., cit., pp. 294-311; pp. 294-5, 31 (Abbiamo visto che l'identità di materia ed estensione è concepita in maniera ancora più radicale da Spinoza).

159 LOBAČEVSKIJ, Nuovi principi di geometria, con una teoria completa delle parallele, tr. it. con intr. e note di L. Lombardo-Radice, Torino, 19782, § I, p. 73.

160 CART., Princ. Philos., pars I, §§ XXIII, LIII; pars II, §§ I, IV.

161 LOBAČEVSKIJ, op. cit., p. 73.

162 Op. cit., ivi.

163 Op. cit., ivi.

 

si toccano tra loro ad una ad una", per "sezioni consecutive" che si espandono all'infinitol64; questo "corpo globale" non è corpo che sta nello spazio ma è lo spazio stesso. In seguito a siffatta identificazione la forma di qualsiasi corpo nello spazio diventa forma dello spazio, che cosi può esser concepito anche come spazio "curvo". Il risultato ultimo dell'identificazione è stato perciò quello di una estrema libertà nel concepire lo spazio: non più assoluto ma relativo alla forma del corpo, che anzi viene a costituirlo e come a costruirlo. Lo spazio cessa perciò di essere una realtà indipendente.

A siffatta concezione ha contribuito per la sua parte anche l'idealismo, con il negare allo spazio la natura di realtà indipendente dal percipi e quindi dall'idea. Berkeley scrive che "la distanza in sé, nella sua immediatezza, non si può vedere. Essendo infatti una linea diretta verticalmente, essa proietta un solo punto nel fondo dell'occhio, punto che non varia mai, per quanto possa mutare la distanza"165. La distanza: l'estensione e quindi lo spazio. Lo spazio non può esser visto, come tale. Cosa vediamo, allora? Non lo spazio, ma ciò che in esso è. La non-visibilità dello spazio è quindi la premessa che consente di negarne l'indipendenza nei confronti del corpo. Tuttavia, si può difendere la realtà dello spazio, indipendente dal nostro percipi, riflettendo sul fatto che, se noi non vediamo lo spazio, vediamo tuttavia per suo tramite. Se non esistesse uno spazio come dimensione a noi esterna, ricca di determinate proprietà, non solo non avremmo nulla da vedere ma non potremmo nemmeno vedere. Lo spazio è il medium, ciò mediante cui vediamo: se non esistesse come continuum indipendente, la luce non potrebbe colpire i nostri occhi. Non viaggia essa attraverso lo spazio? Non è essa a rischiarare l'abisso tenebroso, cioè lo spazio in sé privo di luce? Per ciò che concerne il soggetto percipiente, bisogna poi ricordare come il suo occhio abbia per natura il senso della profondità: e quest'ultimo altro non è se non la capacità di cogliere lo spazio per ciò che è (non si tratta di una profondità mentale), la capacità di avere il senso dello spazio come estensione delle tre dimensioni. Mai come nel percepire lo spazio la nostra sensibilità si accorda all'intelletto: il senso della profondità, della direzione e dell'equilibrio si uniscono armoniosamente alla consapevolezza che senza spazio (reale, effettivo) non potremmo vedere ciò che è nello spazio.

 

 

 

 

164 Op. cit., § 3, p. 76.

165 BERKELEY, An Essay Towards a New Theory of Vision, II. Con questo ragionamento Berkeley rende però incomprensibile l'esistenza in noi del senso della profondità, che è percezione dell'estensione della distanza.

 

Non esistono in realtà due tipi di spazio, uno sensibile ed uno puramente concettuale, creato dal nostro intelletto166. Lo spazio in cui Euclide pone le sue figure geometriche è lo stesso percepito dall'uomo tutti i giorni; non è uno spazio astratto, nulla avente a che fare con la realtà. L'astrazione riguarda invece le figure geometriche, nel senso che esse non si ritrovano nell'esperienza nella stessa forma in cui sono poste nei teoremi. Lo spazio è perciò uno solo, quale che sia la libertà con la quale il pensiero crede di manipolarlo. Se si crede di poter fondare la geometria su di uno spazio non euclideo, cioè non conforme alla rappresentazione di uno spazio reale, si giunge ad una rappresentazione dello spazio del tutto irreale, per non dire irrazionale, quale appunto quella delle geometrie non euclidee.

Dunque, anche se si ammette (in ipotesi) che in tutta l'estensione dello spazio vi sia ovunque materia, in uno qualunque dei suoi stati; o vi sia comunque oltre ad essa ovunque energia, ciò non impedisce di concepire lo spazio come in sé vuoto, come quella realtà la cui natura o qualità è proprio quella di essere l'estensione pura e semplice, la quale permette all'energia e alla materia, alle forze della natura di avere estensione, cioè di essere ed operare secondo le leggi per loro stabilite. Il fatto è che una simile concezione - che sembra più aderente all'esperienza - favorisce l'ammissibilità dell'idea di un Dio creatore, idea che invece ripugna alla mentalità moderna. Infatti, ammettendo la pensabilità dello spazio come realtà indipendente dall'esistenza della materia, si deve ammettere la possibilità che esso esista senza la materia e quindi anche prima di essa. Anzi, che esso possa esistere sia prima che dopo, qualora la materia dovesse un giorno esser tutta distrutta (cosa che nessuno può escludere a priori). Non possiamo infatti pensare che la nientificazione della materia debba comportare ipso facto anche quella dello spazio da essa occupato, visto che dove (a causa del moto) non c'è provvisoriamente materia, non cessa di esservi lo spazio. Se lo spazio è legittimamente pensabile come esistente prima della materia, è inammissibile che sia stato esso a produrla, dato che in esso non si mostra alcun principio attivo, alcuna forza. La forza, l'energia che in esso appaiono sono già materia. Lo spazio è l'assolutamente identico nella propria immobilità. E difatti nessuno ha mai pensato, ci sembra, che lo spazio abbia come tale creato la materia, se non (forse) in qualche fantasticheria gnostica. Si pone quindi l'esigenza logica di un creatore per entrambi, spazio e materia. In ogni caso, diventa praticamente impossibile affermare che la materia è pensabile unicamente come res eterna ed increata, quatenus res extensa, cioè in quanto identica allo spazio.

 

166 POINCARÉ, Sui fondamenti della geometria, tr. il. e saggio introd. di U. Sanzo, Brescia, 1990, p. 9: "Lo spazio sensibile non ha niente in comune con lo spazio geometrico".

Il postulato spinoziano dell'identità di materia ed estensione verrebbe quindi a perdere il suo elemento portante, la pensabilità stessa di una simile identità. Ed ora siamo forse in grado di comprendere ancor meglio perché Spinoza abbia dedicato tanta cura a stabilirlo: per escludere in maniera definitiva l'idea di creazione, alla quale l'idea di un'estensione indipendente dalla materia tiene sempre aperta la porta.

Ma separare di nuovo nel pensiero la materia dall'estensione per attribuire di nuovo a quest'ultima la sua propria realtà, significa cercare di ristabilire i concetti dello spazio e del tempo come concetti di entità reali e non più come concetti di entità ideali, di semplici modi posti dal pensiero o delle condizioni a priori dell'intuizione empirica. Crediamo che il compito della speculazione, in particolare nell'epoca presente, dominata dal caos più tremendo, sia quello di ristabilire le differenze, cominciando con il riconoscere alle parti del tutto la loro individualità, ossia la loro effettiva realtà di parti.

 

b. La rivendicazione della realtà autonoma e dell'indipendenza dello spazio, in favore di una visione del tutto quale armonia di parti ordinate da una mente creatrice, armonia che non si spieghi perciò con il postulare l'unità immanentistica del tutto stesso (il tutto come uno) ma ammettendo invece l'esistenza dell'uno in senso proprio, cioè Dio creatore; questa rivendicazione va mantenuta anche contro quella dottrina dei Fisici che considera la materia come una mera "forma di energia". Tale dottrina implica infatti l'identificazione di spazio e corpo, da noi ampiamente criticata. Scrive infatti Einstein che "lo spazio non ha un'esistenza separata rispetto a 'ciò che riempie lo spazio' e che dipende dalle coordinate"167. Ciò che riempie lo spazio è il "campo gravitazionale": se noi pensiamo di togliere il campo -nuova versione della tradizionale ipotesi della annihilatio mundi - non rimarrà uno spazio diverso, cioè vuoto: "non rimarrà assolutamente nulla"168.

Il senso di questa affermazione sembra essere il seguente: poiché spazio e campo sono la stessa cosa, se si immagina la annihilatio del campo non resta lo spazio ma il nulla, dato che lo spazio è stato annientato con il campo; e poiché il nulla non si può concepire, allora bisogna ammettere che spazio e campo coincidano in modo tale che non possa esistere uno spazio "vuoto di campo". In tal modo, però, si presuppone l'equazione vuoto = nulla, che non è affatto soddisfacente perché il vuoto (l'estensione) è pur

 

 

167 EINST., La relatività e il problema dello spazio, cit., p. 311.

168 Op. cit., ivi. Nella versione inglese: "If we imagine the gravitational field to be re­moved, there does not remain a space of the type (l) [cioè metrico], but absolutely nothing". (EINST., Relativity. The Special and General Theory. A Popular Exposition, by A. Einstein, trans. by R. W. Lawson, New York, 1961, Appendix V, p. 155).

sempre una realtà fisica e non può esser equiparata al nulla. Il concetto rigoroso del nulla implica la nientificazione anche del vuoto, proprio perché il vuoto è già cosa, ed è già qualcosa, rispetto al nulla (vedi supra, § 8 a, di questo lavoro).

Quale che sia il rigore teoretico delle affermazioni appena viste, bisogna comunque attenersi, secondo i Fisici, al seguente principio: "non esiste qualcosa come uno spazio vuoto, ossia uno spazio senza campo. Lo spazio-tempo non pretende di avere un'esistenza per proprio conto, ma soltanto come qualità strutturale del campo"169. Non solo lo spazio, dunque, ma anche il tempo: anche il tempo sarebbe "una qualità strutturale del campo". Il tempo non può più esser concepito in modo assoluto, così come non può esserlo lo spazio, entrambi devono diventare relativi al "campo", come sue "qualità strutturali". Per lo spazio, il suo cosiddetto carattere assoluto è rappresentato dal vuoto; per il tempo, dalla simultaneità: la simultaneità è un "assioma" che deve esser eliminato, se si vogliono chiarire i "paradossi" offertici dalla natural70. Cosa significa ciò? Che bisogna prendere atto del fatto che la simultaneità degli eventi è relativa ad un "sistema di coordinamento" dato o "corpo di riferimento"171 ossia al punto di vista o luogo dal quale si percepisce nel tempo l'evento stesso. Questo punto di vista varierà a seconda che l'osservatore sia in quiete o in movimento. Così, nel famoso esempio dei due fulmini che colpiscono simultaneamente le due estremità della banchina lungo la quale sta passando un treno, l'osservatore posto sulla banchina a metà tra le due estremità, li vedrebbe simultaneamente perché, essendo egli immobile, "i bagliori si incontrerebbero proprio dove egli è situato"; mentre l'osservatore posto sul treno, trovandosi ugualmente (per ipotesi) a metà tra i due fulmini, ma "muovendosi rapidamente verso il raggio di luce" che proviene dall'uno e "correndo avanti al raggio di luce" che proviene dall'altro, vedrebbe il bagliore verso cui si sta muovendo, prima di quello da cui si sta allontanando172. Al contrario dell'osservatore immobile sulla banchina, quello sul treno non ha quindi l'impressione (secondo Einstein) che i due fulmini siano venuti giù simultaneamente173.

169 EINST., La relatività, cit., ivi.

170 EINSTEIN, Autobiografia scientifica. Con interventi di Pauli, Bom, Heitler, Bohr, Margenau, Reichenbach, Gödel, tr. it., parz. di A. Gamba del noto volume curato da P.A. Schilpp, A. Einstein: Philosopher-Scientist, Evanston, 1949. La traduzione data: Torino, 1979. Il riferimento è a p. 34.

171 EINST., La relatività, cit., p. 62.

172 Op. cit., ivi.

173 Op. cit., ivi.

La conclusione di carattere generale è perciò che "un'attribuzione di tempo è fornita di significato solo quando ci venga detto a quale corpo di riferimento tale attribuzione si riferisce"174. E il "corpo di riferimento" non è mai lo stesso per ogni "attribuzione di tempo" perché esso costituisce un "sistema di coordinate" che non si può applicare, così com'è, ad un altro sistema (o addirittura a tutti). Nell'esempio visto, il "corpo di riferimento" offerto dalla banchina all'osservatore in quiete ci dà un' "attribuzione di tempo" (la simultaneità) del tutto diversa da quella che il treno in moto offre come "corpo di riferimento" all'osservatore posto in esso. La conclusione ancor più generale è che la simultaneità degli eventi sia una "attribuzione di tempo" impossibile a determinarsi in sé: il tempo che si può misurare è solo quello relativo al "corpo di riferimento" dato e quindi a qualcosa che è nello spazio. E poiché non esiste, in termini einsteiniani, qualcosa che è nello spazio, ma soltanto il campo della materia-energia, le cui qualità "strutturali" sono lo spazio, allora il tempo non è altro che una misurazione determinata da queste "qualità strutturali", ad un punto tale da diventarne una funzione (poiché sono esse a costituire e ad influenzare le unità di misura).

Va però ricordato che l'attribuzione di tempo non è il tempo; non più di quanto l'attribuzione di una misura sia lo stesso della cosa misurata. Nell'esempio sopra visto, Einstein parte dal presupposto che i due fulmini siano simultanei. Gli eventi sono dunque simultanei, nel caso dato. Dov'è allora la negazione della simultaneità? Nella constatazione dell'impossibilità di coglierla da parte del soggetto. Il soggetto che deve misurarla si trova in genere in (o addirittura è) un corpo "di riferimento" in moto, il quale impedisce la misurazione stessa, nel senso che il sistema di riferimento da esso stesso costituito rende impossibile l'accertamento della simultaneità degli eventi. Ma da tutto questo risulta che ad esser effettivamente negata non è la simultaneità degli eventi in sé e per sé, ma la nostra capacità di coglierla, rappresentandola in una misura universale, valida per tutti i sistemi di riferimento. Dopo aver identificato lo spazio con il corpo nell'immagine del "campo", Einstein identifica perciò il tempo con l'orologio che lo misura - quale che sia la sua natura - ossia con l'unità di misura costituita dalla "qualità di struttura" del campo. Questa indistinzione tra misurante e misurato lo conduce per forza di cose a non distinguere tra impossibilità a misurare la simultaneità ed inesistenza della stessa, cioè del tempo in senso assoluto, come durata uguale ed uniforme.

Non si dimostra, quindi, che la simultaneità degli enti ed eventi nello spazio da essi nello stesso tempo occupato, sia una caratteristica che non corrisponde alla natura delle cose.

174 Op. cit., ivi.

Più semplicemente, ci si trova ad aver dimostrato che la percezione della simultaneità è falsata dalle limitazioni del soggetto percipiente. E poiché queste limitazioni (riferite al "sistema delle coordinate" o "corpo di riferimento") ci rendono impossibile la misurazione della quantità e qualità assolute, vale a dire in sé e per sé; allora questa realtà assoluta - qui la simultaneità - viene dichiarata come non esistente. Ma l' inconoscibilità deriva qui dall'impossibilità di una misurazione che sia universalmente valida; che invece di dipendere da sistemi di riferimento costituisca essa stessa l'unico sistema di riferimento. Dal punto di vista della scienza, infatti, "non può esser oggetto di scienza ciò che non si può misurare"175. Ma ciò che "non può esser oggetto di scienza", cioè della scienza della natura nelle sue varie forme, non per questo non esiste o cessa di rappresentare un valido oggetto di indagine per la mente. Lo spazio e il tempo non sono misurabili allo stesso modo di ciò che è nello spazio e nel tempo, tuttavia questo non dimostra la loro inesistenza in quanto realtà effettive ed indipendenti e non giustifica affermazioni come le seguenti: "Le proprietà del tempo non sono dunque che quelle degli orologi, come quelle dello spazio non sono che le proprietà degli strumenti di misura"176. In quest'ottica si confondono il soggetto e l'oggetto, l'unità di misura e la cosa misurata. Si finisce poi con l'attribuire alla cosa le "proprietà" degli "strumenti di misura", fabbricando la cosa stessa con le sue proprietà grazie agli "strumenti di misura"l77. Tutta la realtà viene ridotta alle (limitate) misurazioni della mente umana: ciò che non si può misurare "non è oggetto di scienza" e quindi non è.

La negazione einsteiniana della simultaneità, ossia dell'indipendenza del tempo, fa il pari con la negazione della natura indipendente dello spazio e distrugge la certezza di un'esistenza obiettiva fuori di noi, dal momento che l'obiettività di quest'esistenza non è misurabile dal punto di vista della fisica. Ma le verità che non dicono nulla ai Fisici possono invece dir molto ai meta- fisici.

 

 

 

 

 

175 POINCARÉ, Spazio e tempo (1913) in EINST., Relatività, cit. , pp. 281 -93, p. 285.

176 Op. cit., ivi.

177 Questa involuzione del pensiero scientifico è stata messa in rilievo da alcuni tra i Fisici stessi (per esempio da Schrödinger). Sul carattere irreale ed addirittura "metaforico" dell'attuale immagine del mondo, si veda la critica metafisica al pensiero scientifico da parte di M. DE CORTE, L'intelligence en péril de mort, Dion-Valmont, 19872, pp. 67 ss.; p. 111: "Un monde qui n'est plus formellement appréhendé dans sa subordination à une cause suprème qui lui confère son existence et son intelligibilité, n'est plus un monde, un cosmos, un ensemble, un arrangement, un système de parties congruentes. Privé des lumières superieures qui dessinaient en lui un ordre, il devient un chaos .."; p. 117 ss.

La filosofia comincia dove la scienza finisce o, se si preferisce, dove viene meno la sua pretesa all'universale. Che al di là del soggetto, e quindi dell'unità di misura stabilita dal pensiero calcolante, esista una realtà obiettiva, che non si può confondere con la mente che la misura, è una verità della massima importanza, della quale sembra difficile poter dubitare. Se la scienza si rifiuta di sottoscriverla, spetta comunque alla metafisica di accertarne nel miglior modo possibile i termini.

Cosa risponde, allora, la recta ratio a questa semplice domanda: l'io è contemporaneo o non, all'oggetto pensato, che si trovi nello spazio di cui ha visione? Grazie alle scoperte dei Fisici, sappiamo che l'immagine dell'oggetto in noi si forma in un intervallo di tempo che è quello impiegato dalle onde elettromagnetiche emananti dall'oggetto alla velocità della luce per colpire la nostra retina. Ma questo intervallo di tempo non esiste tra me e l'oggetto che mi sta di fronte bensì tra l'oggetto e l'immagine di esso che mi si forma nell'occhio e nella mente. Io e l'oggetto, in quanto enti posti nello spazio e separati da una distanza, non ci succediamo nel tempo, che invece ci ricomprende nella propria durata: ciò che nel tempo è posteriore, all'esistenza dell'oggetto e mia, è qui solo la sua immagine in me. lo e l'oggetto siamo dunque contemporanei, perché esistenti divisi da un intervallo di spazio che non lo è di tempo, se non per l'immagine dell'oggetto formatasi nella mente. L'immagine che ho dell'oggetto è invece sempre ad esso successiva nel tempo, perché richiede l'intervallo di tempo necessario al suo formarsi. Ma questo suo esser successivo non fa venir meno la contemporaneità o simultaneità tra il soggetto e l'oggetto, dato che quest'ultima concerne l'esistenza stessa, obiettiva, dei due enti e non la loro immagine, in quanto fenomeno fisico che si produca in uno di loro. E senza quest'esistenza non si avrebbe alcuna immagine.

Il pensiero è dunque cosciente di una differenza poiché separa nel ragionamento ciò che è simultaneo da ciò che è successivo ossia la simultaneità dell'esser reciproco (Dasein) degli enti dal venir dopo della loro rappresentazione nella mente. Tuttavia, il ragionamento non può arrestarsi qui perché deve arrivare alla conclusione che durante l'intervallo di tempo impiegato dall' energia a percorrere la distanza tra l'oggetto e me, se io non sono morto, ho continuato ad esistere, come dimostra il fatto che ho poi formato in me l'immagine dell'oggetto. Il che significa allora che ho continuato ad esistere non solo simultaneamente all'oggetto ma anche a qualsiasi fluido emanato da esso. Perciò, se durante il moto del fluido dall'oggetto verso di me, l'oggetto (la fonte) fosse venuto meno, io avrei comunque continuato ad esistere contemporaneamente al fluido emanato prima dell'estinzione della sua fonte ed ancora per via al momento dell'estinzione stessa. E questo fluido (luminoso, elettromagnetico) avrebbe poi continuato il suo cammino sino a giungere a destinazione, a formare cioè in me un'immagine dell'oggetto, che quindi io mi troverei nella mente quando l'oggetto non è più. Possiamo rendere lo stesso ragionamento con un esempio. Immaginiamo che durante una battaglia io, inquadrato nei ranghi di una legione, sia stato colpito (sopravvivendo come l'Immortale di Borges per scrivere questo saggio); colpito da un giavellotto scagliato dalle file nemiche un attimo prima che il soldato artefice del lancio venisse ucciso. Il fatto che io sia stato colpito dimostra che ho continuato ad esistere finché l'arma viaggiava verso di me: io e il giavellotto non abbiamo mai cessato di essere simultanei sino al prodursi di quell' evento rappresentato dal nostro reciproco impatto.

L'immagine dell'oggetto esterno che si forma nella nostra mente è il risultato di un processo causale. La contemporaneità del soggetto percipiente al processo stesso può riguardare tutto il processo sin dall'inizio, od una sua fase, quella per noi intermedia (la fase terminale è l'immagine), costituita dal moto del fluido verso di noi, movimento che può perdurare per un tratto di tempo determinato, anche dopo che la sua fonte sia venuta meno. Nelle distanze molto piccole racchiuse nel nostro campo visivo, questo venir meno si può tradurre per noi nello sparire quasi istantaneo dell'oggetto assieme alla sua immagine. Quando le distanze si calcolano invece in milioni di anni-luce, si deve supporre che il venir meno dell'effetto (la luce di una stella) sia di molto posteriore all'affievolirsi della sua causa (alla disintegrazione o al collasso della stella stessa). È quindi l'ampiezza della distanza ad incidere sulla percezione di ciò che è a noi simultaneo, nel senso che distanze abissali, richiedendo un tempo ugualmente abissale per esser percorse, fanno sì che noi si sia contemporanei solo alle ultime fasi del processo (sempre che i calcoli dei Fisici siano esatti) che si conclude con la percezione di un'immagine. E ciò accade dal momento in cui la luce di quella stella ha cominciato a brillare per la terra, se è vero che la terra ha cominciato ad esistere quando quella luce era già in viaggio da molti milioni di anni-luce, mentre la sua fonte si era nel frattempo estinta.

Ma siffatta constatazione nulla toglie al principio in discussione (la simultaneità) perché si deve pur ammettere che noi siamo contemporanei a tutto ciò che nello spazio stia viaggiando verso di noi sotto forma di energia, quale che sia la sua velocità, anche se non riuscissimo a vederlo; e che lo sia­mo comunque a tutto ciò che è nello spazio mentre noi ora siamo, quale che sia la direzione e la velocità del suo movimento.

Questo esistere contemporaneo degli enti nello spazio sfuggirà pure ad una misurazione obiettiva ed universale, come sostengono i Fisici, tuttavia ci dà la certezza dell'esistenza di una realtà obiettiva, con una sua dimensione


 spaziale e temporale esattamente determinata, in cui ciò che è successivo nel tempo, perché risultato di un rapporto causale in cui la materia e l'energia si integrano senza confondersi, si inscrive nello stesso tempo nell'ambito della durata, che tutto ricomprende simultaneamente in modo incrollabile, fintantoché resta ente. Solo del non-ente infatti non può darsi contemporaneità con alcunché. Si potrebbe anzi affermare che la misurazione dell'intervallo di tempo impiegato da una determinata energia per percorrere lo spazio tra un ente ed un altro è resa possibile proprio dal fatto che esiste sempre qualcosa contemporaneamente a qualcos'altro, si tratti dei due enti e dell'energia che va dall'uno all'altro o di uno solo e dell'energia in viaggio verso di esso. La simultaneità della materia e dell'energia dovrebbe allora considerarsi condizione preliminare ad ogni possibile misurazione (ancorché inficiata dalla relatività del "corpo di riferimento") non solo nel tempo ma anche nello spazio.

L'immagine del mondo elaborata dai Fisici vuoi quindi ridurre l'universo ad un coesistere di entità che non si situano nello spazio (perché non c'è uno spazio in sé) e non esistono simultaneamente. Il mondo diventa allora una massa informe, in cui non si riesce a distinguere più nulla. L'individualità, la corposità, la sostanza stessa della materia - nelle quali si manifesta l'onnipotenza geniale del Creatore - scompaiono completamente, in conseguenza dell'asserita equivalenza di materia ed energia, che ridurrebbe la materia ad una semplice "forma" dell'energia. Essa non sarebbe altro che energia maggiormente "concentrata" e tutta la realtà dovrebbe esser interpretata esclusivamente in termini di variazioni di densità. "Ciò che fa impressione sui nostri sensi come materia è in realtà una grande concentrazione di energia, in uno spazio relativamente limitato. Sembra quindi lecito assimilare la materia a regioni spaziali, nelle quali il campo è estremamente forte. In tal modo potremmo crearci un nuovo sfondo filosofico, il cui obiettivo finale sarebbe la spiegazione di tutti gli eventi naturali, mediante le leggi strutturali, ovunque e sempre valide. Da tale punto di vista, un sasso lanciato in aria è un campo variabile nel quale gli stati di maggiore intensità del campo attraversano lo spazio con la velocità del sasso stesso. Nella nostra nuova fisica non vi sarebbe allora più posto per il binomio campo e materia; non rimarrebbe che una sola realtà: il campo"178.

Il "nuovo sfondo filosofico" che la "nuova fisica" crede di poter delineare (i Fisici pretendono di aver posto le basi di una nuova ed imperitura filosofia), ha come suo postulato l'interpretazione dell'oggetto in termini di energia.

 

 

178 EINSTEIN-INFELD, L'evoluzione della fisica. Dai concetti iniziali alla relatività e ai quanti, tr. it. A. Graziadei, Torino, 1965, p. 253.

 

Un sasso non è materia, è energia concentrata in certo modo ed in una certa "regione"; esso non rappresenta un corpo ma solo una variazione di densità nell'energia che costituisce il campo cioè il tutto. Il moto stesso di un corpo nello spazio diventa, in questa "filosofia", qualcosa di irreale: non si ha più un corpo che attraversa lo spazio ma "un campo variabile" nel quale "gli stati di maggiore intensità del campo attraversano lo spazio con la velocità del sasso stesso". L'oggetto viene dissolto negli stati o stadi del suo movimento, come nelle rappresentazioni artistiche dei Futuristi. Una simile visione della realtà, più che filosofica o scientifica, sembra infatti di tipo artistico, però di quell'arte particolare, protesa all'invenzione di un dinamismo perpetuo ed onnivoro dell'Informe, che ha caratterizzato e caratterizza (nelle sue varie forme) il nostro tempo sciagurato. Il sasso di Einstein ricorda le figure in movimento delle sculture di Boccioni. Si tratta di un' estetica astratta, che non ha alcun fondamento rigoroso, né filosofico né scientifico. Circa quest'ultimo, va rilevato che Einstein è stato costretto a subordinare la validità della sua ipotesi alla soluzione di un "problema finale", costituito dalla "modificazione delle leggi del campo, in guisa tale che non cessino di esser valide nelle regioni di grandissima concentrazione dell'energia. Ma finora non siamo ancora riusciti a realizzare questo programma in forma convincente e coerente ... Per ora, in tutte le nostre concezioni teoriche, dobbiamo continuare ad ammettere due realtà: campo e materia"179.

Queste parole furono scritte nel 1938 e da allora il dualismo di "campo" e "materia", cioè di materia ed energia, si è pervicacemente mantenuto. La "modificazione delle leggi del campo" vale a dire la loro applicazione alla realtà sensibile, macrofisica, dei corpi nei loro diversi stati e rapporti come cadono sotto i nostri sensi, non è stata possibile, se non mediante ipotesi e teorie rimaste tali. Le "regioni di grandissima concentrazione dell'energia" cioè i corpi, la materia nella sua individualità ben definita in una forma, esprimono evidentemente un ordine e un ordinamento che non può essere vincolato alle stesse leggi che si crede di aver scoperto per l'energia (diciamo "si crede" perché il principio di indeterminazione di Heisenberg getta un'ombra sulla effettiva validità o comunque sulla portata universale di queste leggi). Ciò significa però che l'immagine del mondo oggi dominante, divenuta confusamente familiare grazie alla cultura di massa, non corrisponde alla realtà, perché essa si fonda sul dissolvimento della materia nell'energia, come se la scienza fosse riuscita a dimostrare effettivamente la perfetta equivalenza tra le due. Ma questo non corrisponde al vero. Così come non è vero che possano considerarsi oggettivamente fondate l'identificazione di spazio e corpo e la negazione della simultaneità.
179 Op. cit., ivi.

 

L'universo newtoniano è concettualmente ben diviso tra spazio, corpo, forza di gravitazione universale. L'energia della gravitazione universale proviene dai corpi posti nello spazio. Nell'immagine del mondo della Nuova Fisica, invece, i corpi sono il risultato dell'energia, sue modificazioni, perché la gravitazione universale è concepita come un "campo" di energia (che è lo spazio) al cui interno si danno quelle variazioni di densità o concentrazioni che sono i corpi. Il rapporto tra materia ed energia è rovesciato, rispetto all' universo newtoniano, all' insegna dell'identità e dell'indistinzione delle parti nel tutto e senza che siano state elaborate delle leggi di natura effettivamente capaci di comprovare il rovesciamento su scala universale.

Quest'immagine della realtà mostra la perdita del senso della realtà. Un mondo senza spazio indipendente diventa un mondo senza corpi, ridotti a mere astrazioni (quali le variazioni di densità del "campo"); ed un mondo senza corpi diventa un mondo senza parti, come la sostanza di Spinoza. Ed un mondo senza parti è un mondo informe, il regno del caos, in cui si nega perfino la simultaneità degli enti in esso esistenti. È un mondo tenebroso, la cui immagine sembra analoga all'immagine dell'interiorità (il microcosmo) quale l'hanno elaborata i filosofemi della psicoanalisi freudiana: un regno del caos, nel quale l'istinto, la cosiddetta libido, sembra l'omologo dell'energia senza forma e senza scopo che squassa il tutto.

 

 

15. Il pensiero

Si è detto, al § 12 di questo lavoro, che il pensiero può esser inteso come l'indeterminato in noi perché non si saprebbe dove rilevarne i confini. Noi non facciamo infatti parte del tutto unicamente come corpo o materia, cioè in quanto partecipi dell'estensione, ma anche in quanto provvisti di una dimensione spirituale - il pensiero - di per sé indeterminata perché non situabile in alcun modo nell'estensione, nello spazio. Questo è come dire che il soggetto è contemporaneamente esteso ed inesteso, non potendosi ammettere che la sua dimensione spirituale (che pur gli appartiene intimamente) occupi uno spazio. E che questa dimensione non sia un'astrazione, lo si vede dal fatto che pur essendo inestesa ed invisibile (non essendo quindi in alcun modo materia), opera infaticabilmente, senza darci tregua: anche quando dormiamo, pensiamo. Il pensiero poi sembra indivisibile, come se fosse costituito di una sostanza impenetrabile e compatta, più indistruttibile di ogni materia, posta al di là dell'intelligere in senso stretto, di quell'attività che calcola e comprende, dividendo ed unificando, e che costituisce propriamente il pensare in atto.

Per questo motivo, il pensiero ci dà l'impressione di essere qualcosa di indeterminato, nonostante la precisione delle sue operazioni e la compiutezza di cui è capace il concetto: indeterminato, non nel senso della vacuità, del perdersi nel nulla, ma della profondità. Quella profondità di cui già parlava Eraclito a proposito dell'anima: "I confini dell'anima vai e non li trovi, anche a percorrere tutte le strade: così profondo è il suo logos"180. Nell'anima immortale è infatti l'origine di tutto il nostro pensare, al quale il corpo serve solo di luogo e fondamento, perché non è costitutivo della natura del pensiero ma solo della sua attività. Non possiamo dire, infatti, che il pensiero si origini dalla materia ma solo che si esercita per suo tramite. Alla morte del corpo, non possiamo dire in alcun modo che sia morto anche il pensiero perché l'anima sarebbe stata distrutta con il corpo. Non possiamo dimostrare nulla, empiricamente parlando. Possiamo solo credere. Ma l'anima determina la salute del nostro corpo, non questo di quella; come è vero che quando proviamo una forte delusione o un grande rimorso o una grande gioia, l'influenza sul corpo di questo fatto dello spirito (siamo affetti dal significato di ciò che è accaduto) è quasi immediata, in modo persino violento. Mentre non si può dire che sia vero il contrario, poiché i piaceri ed i dolori fisici trovano nell'anima un ostacolo: gli uni nell'infelicità che segue sempre l'appagamento animalesco; gli altri, nella forza d'animo che ce li fa sopportare. E chi pone la propria soddisfazione ed il senso della sua vita nel culto del corpo, fa così perché la propria anima, pervertitasi, ne ha corrotto il pensiero. Egli vuole che il corpo con i suoi desideri sia il suo maestro ma questa convinzione è un pensiero che non gli viene dal corpo bensì dall'anima che erra. Come può allora il logos dell'anima svanire alla morte di quel corpo che essa può governare nel bene e nel male, proprio in quanto sia anima, cioè realtà e forza puramente spirituali?

a. Se i confini del pensiero, come quelli dell'anima, "non si trovano", ciò non significa che però il pensiero coincida con il tutto. Il pensiero è individuale, come l'anima. Il panpsichismo confonde lo spirito con la materia. Pur essendo indeterminato a causa della profondità della sua natura, il pensiero è nello stesso tempo determinato, in quanto racchiuso nell'individualità di ciascuno, individualità che anzi si esprime per suo tramite. Il soggetto non è determinato solo dal lato del corpo: lo è anche da quello dell'anima e quindi del pensiero. Se così non fosse bisognerebbe attribuire al pensiero un carattere addirittura indefinito, rendendolo vacuo ed inconsistente, come se fosse una "bolla di gas".
180 ERACL., I frammenti e le testimonianze, ed. Diano-Serra, Milano, 1980, fr. 51, pp. 26-7. Questo frammento dimostrerebbe che Eraclito non intende l'anima solo come soffio vitale.

Si pone quindi il problema del rapporto del pensiero con il tutto e con la definizione dell'uno (vedi supra, § 5 d). Possiamo dire che esso sia parte del tutto? se il pensiero fosse la stessa cosa del tutto, se coincidesse con esso, dovremmo attribuire al pensiero la stessa estensione del tutto. E non solo l'estensione, ma anche la durata. E dovremmo dire che esso coincide con tutte le parti del tutto e quindi che tutta la materia è pensiero. Dovremmo for­se far nostro un verso di Parmenide: "il pieno infatti è pensiero"181, se il suo significato è quello di attribuire al "pieno", cioè all'essere, il pensiero, estendendo alla totalità indifferenziata dell'essere l'identità di essere e pensare.

Una realtà inestesa ed invisibile, come si è detto esser quella del pensiero, non ha né grandezza né quantità; è per l'appunto indeterminata. Perché allora non potrebbe coincidere con il tutto? Quanto grande è un pensiero? Se la misura della grandezza non può applicarsi a ciò che non ha estensione, un mio pensiero non può essere tanto esteso quanto tutto lo spazio? Che cosa glielo impedisce? l'inesteso non è ad un tempo infinitamente grande ed infinitamente piccolo? Ma il pensiero ha in realtà, come si è detto, il proprio limite nel tempo, perché i singoli pensieri si succedono nel tempo. Se infatti si distinguono gli uni dagli altri, allora hanno un contenuto determinato, finito. E difatti non possiamo pensare due cose contemporaneamente, dare cioè ad uno stesso atto di pensiero due contenuti diversi. Tuttavia, la facoltà di pensare non appare né divisibile né determinata, nemmeno dal lato del tempo. Bisogna perciò distinguere il pensiero in atto dal pensiero come facoltà, il pensiero singolo dal pensare. Ma questa distinzione tradizionale, peraltro necessaria alla chiarezza dei concetti, non sembra comportare alcuna contraddizione, perché il pensiero singolo non è la negazione ma il determinarsi positivo, consequenziale di ciò che è in potenza, cioè della facoltà di pensare. La facoltà, o il pensare, ha l'indeterminatezza di quella profondità, la cui origine è nell'anima (come si è detto); mentre il pensiero in atto, come atto di pensiero con un contenuto determinato, è quell'operazione della mente, finita nel tempo, che ha luogo nel tutto come sua parte. Se coincidesse con il tutto, essa dovrebbe essere estesa e concepirsi come materia, come il tutto dell'universale "pieno". Ma noi possiamo dire che il pensiero è (in noi) unito alla materia, della quale si serve; e non che la materia come tale pensi182.

 

 

181 PARM., fr. 16,ed. cit.,pp.116-7:"τὸ γὰρ πλέον ἐστ νόημα".

182 PASCAL, Oeuvres complètes, cit., pp. 1110-1: "Car il est impossible que la partie qui raisonne en nous soit autre que spirituelle; et quand on prétendrait que nous serions simplement corporels, cela nous exclurait bien davantage de la connaissance des choses, n'y ayant rien de si inconcevable que de dire que la matière se connait soi-meme; il ne nous est pas possible de connaitre comment elle se connaîtrait".

Una facoltà che appare addirittura infinita, come quella di pensare, può però ben esprimersi in atti, che sono finiti, anche se questo loro esser-finiti ha luogo per noi solo dal lato del tempo. E ciò che si è determinato in un atto specifico ha acquistato l'individualità di un contenuto e si è per ciò stesso posto come parte del tutto.

Non si può dire perciò che il pensiero si identifichi con il tutto, in quanto atto in cui si manifesti il pensiero singolo. Anzi, proprio in quest'atto si conferma la differenza tra il tutto e la parte, già presente nell'ambito dell'estensione come differenza tra corpo e spazio. Ora essa si conferma an­che dal lato del pensiero, non tanto per ciò che l'uomo pensa, ma per il fatto stesso di pensare. "L'estensione visibile del mondo ci oltrepassa in maniera visibile"183: ma ci "oltrepassa" non solo perché siamo corpo posto nell'immensità dello spazio ma anche come corpo che pensa (soggetto pensante); e quindi oltrepassa anche il nostro atto di pensiero, in quanto atto che ha luogo nel tempo (dato che nel "mondo", oltre allo spazio vi è anche la durata, cioè il tempo). Ma la sproporzione tra l'estensione del tutto e l'atto di pensiero in essa ricompreso, è tale da far sorgere il dubbio sulla capacità del pensiero stesso di cogliere il significato del tutto. L'oltrepassamento avrebbe quindi luogo anche in relazione alla qualità del nostro pensiero, mettendone in dubbio la capacità di afferrare il significato e quindi la verità del tutto. Infatti, poiché "nous sommes quelque chose, et ne sommes pas tout", ci si deve chiedere "comment se pourrait-il qu'une partie connût le tout?"184. Com'è possibile che la parte "conosca il tutto"? Non c'è qui un limite invalicabile? La prima cosa di cui il pensiero si rende conto, sembra esser data proprio dalla consapevolezza di "esser qualcosa" e quindi "di non esser il tutto". La contrapposizione fra il tutto e la parte è dunque una delle prime verità che il soggetto pensante acquisisce. Immediatamente dopo, egli è come sopraffatto dall'immensità del compito che su di lui incombe: conoscere il tutto! Come è possibile conoscere una realtà in cui "toutes choses sont sorties du néant et portées jusqu'à l'infini"185?

Il rapporto del pensiero con la realtà non è quello di un'entità che si conosce pensando a se stessa. Vogliamo dire che nel pensiero del tutto non è il tutto a pensare se stesso, come se per l'appunto il pensiero coincidesse con il tutto e ne fosse l'autocoscienza che si fa nell'empiria quotidiana, nell' hic et nunc vincolato alla finitezza. Non può esser un rapporto di questo tipo perché un simile nesso dà per scontato che la parte non si distingua dal tutto,

183 PASCAL, Op. cit., p. 1108.

184 Op. cit., p. 1108 e 1110.

185 Op.cit., p. 1107. Ed il testo prosegue: "Qui suivra ces étonnantes démarches? L'auteur de ces merveilles les comprend. Tout autre ne le peut faire".

il che è inconcepibile. È giusto la sostanza spinoziana - concepita come tutto privo di parti - ad autocontemplarsi in una mens intesa come suo informe modo od emanazione (vedi supra, § 13). Il pensiero non viene a noi dal tutto ma è una caratteristica della parte, in quanto costituita da un soggetto per l'appunto pensante. Nonostante le sue limitazioni, che si concretano nell'incapacità di giungere ad una conoscenza ultima e definitiva, il pensiero costituisce pur sempre l'attributo di maggior gloria dell'uomo186, quello per il quale egli si distingue dall' animale ed è simile a Dio. Grazie al pensiero, l'uomo può innalzarsi su se stesso e nei confronti della natura: egli può comprendere ciò che lo comprende. Nelle famose parole: "Par l'espace, l'univers me comprend et m'engloutit comme un point; par la pensèe, je le comprends"187. Abbiamo qui due tipi di comprehensio: quella dello spazio e quella del pensiero. La prima è quella dell'estensione che, come tutto, ci circonda da ogni lato: noi ne siamo inghiottiti così come lo è "un punto" nell'immensità dello spazio. La seconda è invece quella del pensiero che afferra ciò che lo afferra. La prima è materiale, la seconda del tutto spirituale. Ma che vuol dire comprendere? Identificarsi con l'oggetto? Farlo proprio? Solo per metafora. Infatti, il pensiero lo è sempre di un soggetto determinato: è "il punto" a pensare, è la sua capacità di conoscere il mondo che scende in campo e si fa cosa, cioè rappresentazione e ragionamento. Questo pensiero, modo di essere della parte, resta sempre se stesso e non diventa la stessa cosa del proprio oggetto, non si identifica e non coincide con esso. E proprio per questo, lo conosce come qualcosa di vero, se la verità deve avere un significato oggettivo, ossia separato in sé da ciò che è il soggetto pensante e da ciò che esso abbia potuto o cercato di porre nell' oggetto.

b. La conoscenza è il diventar coscienti della natura di ciò che costituisce l'oggetto del nostro atto di pensiero. Quando cerchiamo di conoscere l'universo, cerchiamo di conoscerlo per come esso è, di scoprirne le caratteristiche e le proprietà. Chi dice che la conoscenza altro non è che la proiezione delle categorie mentali del soggetto nei confronti dell'oggetto, sì da realizzarsi in un'identità (soggetto ed oggetto) che è costruzione del soggetto, presuppone che l'unica verità possibile sia quella posta in essere dal soggetto; che non esista nulla di oggettivamente vero al di fuori del soggetto che fabbrica i significati, filando il bozzolo delle sue categorie.

186 Op. cit., pp. 1156 ss. Al contrario di certi umanisti, Pascal nota però come la "grandezza dell'uomo" consista soprattutto nel riconoscere la sua pochezza e miseria, cioè i suoi propri limiti.

187 Op. cti., p. 1157.

Se la conoscenza fosse solo questo, non arricchirebbe mai il soggetto. La maturità che quest'ultimo acquisisce nel duro esercizio del conoscere risulta proprio da un continuo arrecare cose nuove e diverse, le quali, proprio a causa di ciò che sono (nuove e diverse) rendono la mente fertile e la maturano nel ragionamento, che compara, seleziona, accumula, spende, riacquista. L'esercizio teoretico della mente non è quindi mera autocontemplazione del soggetto, se le categorie che esso usa acquistano senso solo in relazione al contenuto cui si applicano, all' oggetto, la cui verità diventa in tal modo nostra. Così per esempio la quantità e la qualità lo sono sempre di qualcosa o del pensiero in quanto cosa, cioè oggetto di co­noscenza. Il modo di pensare, come potrebbe avere ad autentico oggetto sempre e. solo il modo di pensare? Si cadrebbe nella stessa indistinzione conseguente alla negazione della differenza tra il corpo e lo spazio. Si avrebbe un pensiero senza un vero e proprio oggetto cui applicarsi perché il modo di pensare resta ancora interno al pensiero in atto (è il modo in cui esso si manifesta) sì da non possedere quell'esteriorità che è requisito essenziale e preliminare del conosciuto rispetto al conoscente. È qualcosa che non esce dal pensiero in atto e quindi dal soggetto. Se la conoscenza della cosa non è che ripetizione del soggetto nelle sue categorie, allora il soggetto (cioè il pensiero) non esce mai da se stesso e non conosce nulla.

Il modo di pensare costituisce l'oggetto della conoscenza solo quando sia espressamente posto a suo contenuto, dato che sapere di conoscere in generale (sapere, mentre conosco cose del tutto diverse da questo stesso sapere) non toglie né aggiunge nulla al mio conoscere, nemmeno quando quest'ultimo ha l'io a proprio contenuto. Infatti, nel conoscere, l'io si applica al proprio oggetto per coglierne la verità, e poiché questa riguarda l'oggetto e non il soggetto, non è toccata dalla considerazione che l'io è cosciente del fatto che ora, in questo momento, è proteso alla ricerca di essa. Questa consapevolezza concerne un oggetto diverso da quello della propria ricerca, e si esaurisce alla fine nella mera constatazione di uno stato d'animo. E ciò vale anche per quella verità che si ricerchi nel proprio io (per l'io in quanto oggetto della ricerca), poiché l'analisi dell'interiorità - di ciò che essa sente e perché lo sente ed a qual fine - non giunge a svelare nulla se si sofferma continuamente - come verificando il proprio supposto fondamento - sull'ovvia consapevolezza del fatto che il pensiero in atto è cosciente di compierla. So di conoscere me stesso che conosce se stesso: e allora? quid ad nos? L'autocoscienza di ciò che si è e si fa è, a ben vedere, qualcosa di inutile o di vuoto: una aggiunta posticcia alla sfera della coscienza, della quale si è compiaciuta la pedanteria piena di superbia dell'Idealismo. Si è trattato di un escamotage per poter dichiarare che la realtà è un prodotto del pensiero, il quale prima conoscerebbe se stesso nella conoscenza del mondo e poi nell'autocoscienza, cioè nella coscienza di questo conoscere, interiorizzerebbe il mondo, facendone un momento della propria verità, l'unica che il pensiero ammetta.

Ma è il concetto stesso della verità ad escludere a priori l'identità di soggetto ed oggetto (proclamata nell'autocoscienza dell'io che conosce) come fine ed autentico contenuto del conoscere. Ciò che è vero, infatti, non risulta da alcuna identità con altro da sé ma dalla qualità per la quale è in sé ciò che è, indipendentemente dal soggetto che lo pensa, indipendentemente dal rapporto di soggetto ed oggetto. L'esistenza dell'io pensante non è necessaria all'esistenza della verità di ciò che è: la stessa verità dell'io è qualcosa di indipendente dall'opinione che l'io ne abbia, tant'è vero che molti la intendono in modo erroneo, non distinguendo l'uomo dall'animale ed il pensiero dall'istinto. E questo è come dire che la verità del pensiero, nella sua obiettività, è indipendente dal pensiero stesso; è una qualità o significato che il pensiero deve cogliere e rappresentarsi, nella forma della coscienza di sé, senza poter dire di averla fatta venire in essere esclusivamente con il proprio atto, di pensiero che pensa se stesso. Non vi è dunque distinzione tra la verità di ciò che è fuori di noi e di noi stessi in quanto soggetti pensanti. Sia l'oggetto in generale che l'io che lo pensa non sono posti dal pensiero (l'io pensante non è il suo proprio prodotto ma è stato a sua volta posto - creato - come attributo dell'ente e quindi parte dell'essere). La loro verità è quindi un che di oggettivo, il cui esser in sé non può identificarsi con l'atto di pensiero che lo pone per noi. Quest'atto può solo riconoscerlo per ciò che è, nello sforzo ben orientato (sorretto dalla recta ratio), volto a penetrarne l'essenza.

Se ciò che è possiede una verità, che per noi consiste nella sua qualità o significato, non possiamo dunque dire che è la coscienza di ciascuno a creare questa verità. Se la coscienza, invece di crearla, la riconosce ed accerta, allora la verità in quanto tale inerisce alla cosa in sé e non è un prodotto della coscienza: prima è nella cosa - nell'intenzione, nell'atto, nell'ente - e poi nella coscienza che la riconosce. (Così il significato morale di un atto è intrinseco ad esso in rapporto all'intenzione di chi lo compie e la coscienza lo riconosce solamente). Ma proprio la concezione della verità come valore obiettivo, che la coscienza (rettamente guidata) può solo riconoscere e cercare di attuare, è stata abbandonata dal pensiero moderno, che invece attribuisce alla presa di coscienza del soggetto individuale (e persino collettivo), la capacità intrinseca di produrre la verità, di essere anzi l'unica verità di cui il soggetto sia capace. La verità, sia teoretica che morale, è sentita quindi come prodotto della coscienza: non è più la coscienza ad esser il prodotto della verità. In questo rovesciamento appare già la falsa coscienza poiché il concetto stesso dell'esistenza della verità come qualcosa di assoluto e valido per tutti, che tutti devono sforzarsi di trovare e riconoscere, viene alla fine distrutto e la verità viene a coincidere con la semplice autodeterminazione di ciascuno, dissolvendosi nell'anarchia etica e teoretica più radicali. La falsità di questa coscienza consiste proprio nel fatto che essa crede di rappresentare di per sé - in quanto autodeterminatasi - un valore universale, mentre è proprio questo suo concepirsi come pura autodeterminazione a negarle ogni universalità. Questa coscienza è dunque falsa perché crede di essere ciò che non è: crede di essere universale mentre è del tutto particolare, chiusa in se stessa, atomistica. Crede di contenere, il mondo e non contiene altro che la propria immagine.

L'autodeterminazione del soggetto è infatti il valore assoluto cui si subordina, oggi, ogni riconoscimento dell'Altro in generale; è il modo in cui lo spirito del tempo intende l'aver coscienza di sé: ciò che io penso ed in cui credo è vero per il solo fatto che io lo pensi e creda. La verità è vista solo nella presa di coscienza, perché atto in cui il soggetto si determina: puro atto dell'autodeterminarsi, altrimenti indeterminato. Naturalmente, la verità non può esser separata dalla coscienza, non può farne a meno, ma solo per noi, dato che ciò che è in sé vero -perché accaduto o per il suo significato - diventa vero per il soggetto solo se costui se ne convince, conoscendolo e acquisendolo come suo patrimonio. La verità, può diventare opinione e convinzione del soggetto che pensa solo tramite una presa di coscienza da parte di quest'ultimo. Il valore rappresentato dalla verità, indipendentemente dalla nostra opinione, per esser creduto deve quindi esser interiorizzato ad opera della coscienza. E in tal modo non si crea una doppia verità: una fuori di noi e una della coscienza, se non nel caso di errore. Ciò che è vero, lo è prima in sé e poi per me: ma si tratta sempre della stessa verità.

Ma la presa di coscienza cui si riferisce l'uomo moderno e contemporaneo è di ben altro tipo. Essa non è al servizio della verità, non è concepita come lo strumento che permetta alla verità di rivelarsi a noi e di insediarsi nel nostro animo; non è un determinarsi dell'io di fronte a ciò che è vero in sé, per riconoscerlo ed attuarlo. Per l'io moderno e contemporaneo non si tratta di riaffermare che il vero deve diventar nostro grazie alla coscienza ma, al contrario, che ciò che sentiamo come nostro, grazie alla coscienza che si determina in assoluta libertà, è per ciò stesso vero, e deve esser riconosciuto come tale da tutti. E ciò che sentiamo come nostro, e per ciò stesso vero, è innanzitutto il nostro io. La determinazione di sé, l'autodeterminazione del proprio io, questo unilaterale e libero atto di volontà, è perciò il contenuto di verità che si ascrive alla presa di coscienza ed anzi l'unico contenuto. Non altro significato può infatti avere la proposizione fondamentale in cui crede oggi l'atomo della massa, il quale è convinto che ciò in cui egli crede sia ipso facto vero e sia l'unica autorità che debba essere riconosciuta.

Ma sostenere che ciò che il soggetto pensa sia vero per il solo fatto di esser da esso pensato; l'aver ridotto il pensiero a questa libera quanto irrazio­nale autodeterminazione, fa sì che il concetto della verità si riduca a sua volta a questa vuota tautologia: è vero ciò che penso, perché lo penso. Qui è scomparsa ogni effettiva capacità di conoscere, dal momento che essa implica l'analisi e il giudizio, nonché la capacità di distinguere; cose tutte che svaniscono nell'identità con sé di cui si bea la coscienza chiusa nella sua autodeterminazione assoluta. Questa coscienza, che rende ogni giorno culto e testimonianza a se stessa, rappresenta l'ultimo stadio di decadenza cui è giunto il pensiero moderno.

Infatti, quando l'unico criterio della verità lo si vuol porre nella coscienza individuale, nemmeno più concepita in senso etico, come drammatico modo di essere dell'anima di fronte al bene e al male, ma meramente psichico, intendendosi la psiche come funzione biologica, dominata dagli istinti che i filosofemi della psicoanalisi qualificano come sfera dell'inconscio; cioè dagli istinti, che nella realtà dominerebbero la coscienza dall' interno, senza che essa se ne renda conto, onde la scoperta della verità dell'uomo, di ciò che egli effettivamente è per natura, avrebbe luogo solo mediante l'analisi con cui la coscienza esplicita ed acquisisce la sua dipendenza dall'istinto; quando si crede a tutto questo, si assegna alla coscienza il compito di legittimare l'istinto, favorendone in definitiva la liberazione. Allora, la coscienza individuale, concepita come unica fonte della verità, è svilita a giustificare l'istinto, sull'assurdo presupposto che l'uomo sia nient'altro che materia guidata dall'istinto e quindi fascio indistinto di energia vitale, animale, belluina. La ricerca della verità diventa, allora, analisi delle cosiddette categorie dell'inconscio, costruite secondo fantasiosi parallelismi, che il soggetto deve ritrovare in se stesso e nel mondo fuori di sé, come se esse soggiacessero ai rapporti sociali in guisa di archetipi collettivi.

La riduzione della coscienza a mera appendice dell'istinto, poiché il riconoscimento della validità delle pulsioni dell'istinto dentro di sé è il compito che si ascrive alla coscienza, che non è più il presupposto di ogni attività di pensiero ma ha l'istinto a suo presupposto - l'istinto, del quale diventa una protasi; questo modo di concepire la coscienza, che pure è l'unico in cui oggi si riconosca il soggetto liberamente autodeterminatosi (liberatosi cioè da ogni legge, etica e teoretica), mostra a quale approdo tenebroso sia giunta la coscienza, dal momento in cui l'io, alcuni secoli fa, ha deciso di interiorizzare la realtà, cioè di riconoscerla come vera solo nell'orgogliosa autonomia del proprio atto di pensiero, del proprio sapere di sé. In un'ottica siffatta, tutto ciò che è deve esser posto ad opera dell'io stesso, deve anzi diventare momento del processo del porsi, nel quale l'io sa (crede di sapere) se stesso. Il significato della realtà e quindi il valore che essa possiede in quanto tale devono provenire dall'interno dell'io, con l'esclusione di ogni fondamento di valore della realtà, che sia esterno, esterno e superiore. Ma questo porre la realtà come un prodotto dell'io, sia individuale che collettivo, ha finito con il dissolvere l'io stesso, in quanto entità spirituale determinata (capace di ratio e voluntas), dal momento che la coscienza (per un processo inevitabile) ha finito con l'esser concepita come riflesso di quell'interiore essere di ogni uomo rappresentato dagli istinti. L'attività spirituale del cosiddetto soggetto si è perciò ridotta ad adeguare mestamente il super-io all'inconscio, ossia la coscienza alle pulsioni dell' istinto. Ed i "superuomini", inflazionati ormai come stereotipi dell'uomo-massa, scambiando la propria volontà di potenza per i fatti della realtà - all'insegna del motto secondo il quale "non esistono fatti ma solo interpretazioni"188 - finiscono con il cozzare duramente contro i fatti, trascinando la loro esistenza all'insegna dell'egoismo più edonistico che si possa immaginare, "veluti pecora, quae natura prona atque ventri oboedentia finxit".

c. La riaffermazione del significato oggettivo del vero (il vero non è tale in quanto fatto proprio dal pensiero ma fatto proprio in quanto vero) vuol dunque esprimere la necessità di riproporre al pensiero un principio assolutamente realistico sul quale fondare la conoscenza, non solo quella del mondo esterno, ma anche quella dell'interiorità, del soggetto che pensa se stesso. Siffatto realismo, che nega il primato del pensiero sull'essere, primato che ha condotto ad identificare il pensiero con il tutto della sostanza ab aeterno increata e susseguentemente a dichiarare l'autocoscienza l'unica sostanza ed il vero in senso assoluto, come se in essa il tutto fosse l'uno; questo realismo non si può riconoscere in quel cogito cartesiano che, pur essendo (come sappiamo) all'inizio di tutto il processo i cui ultimi, sconfortanti esiti ci affliggono crudelmente, viene tuttavia periodicamente invocato come l'ancora di salvezza cui il pensiero dovrebbe aggrapparsi, per resistere agli stravolgimenti che sempre più torbidi incalzano da ogni lato. Ristabilire la giusta proporzione tra il pensiero e l'essere (fra la parte e il tutto) richiede allora che, in via preliminare, si cerchi di ribadire l'aporia che sembra inficiare dall'origine l'orgoglioso cogito.

Il dubbio metodico cartesiano è quel principio in conseguenza del quale il soggetto ha assoluta certezza del proprio pensiero, della cui esistenza non

188 NIETSCHE, Der Wille zur Macht, ed. Gast, Stuttgart, 1964, afor. 481 e 552 (pp. 337 e 377): "gerade Tatsachen gibt es nicht, nur Interpretationen... 'Wahrheit' ist somit nicht etwas, das da wäre und das aufzufinden, zu entdecken wäre - sondern etwas, das zu schaffen ist und das den Namen für eines Prozess abgibt, mehr noch fiir einen Willen der Ueberwältigung, der an sich kein Ende hat.".

può dubitare, dal momento che lo stesso dubbio la dimostra. Non potendo dubitare del mio dubitare (del pensiero che dubita di tutto) sono poi certo di esistere: il mio pensiero che dubita indubbiamente è, cioè esiste, e ciò lo si può considerare una conoscenza chiara e distinta. Non l'esistenza come tale ma la mia certezza di essa deriva perciò dalla certezza dell'esistenza del mio pensiero che dubita di tutto: "pendant que je voulais ainsi penser que tout était faux, il fallait necessairement que moi, qui le pensais, fusse quelque chose. Et remarquant que cette verité: je pense, donc je suis, était si ferme et si assurée ... "189.

Va però osservato: ho certezza di questo mio pensiero perché è un pensiero che dubita di tutto o per il solo fatto di esser un atto di pensiero? Ossia: la certezza interiore deriva dalla consapevolezza della semplice esistenza dell'atto di pensiero o della sua particolare natura, di atto che dubita e quindi nega? La domanda ci sembra legittima dal momento che il pensiero, oltre a negare e dubitare, afferma. Perché il pensiero che dubita dovrebbe offrirmi la certezza della mia esistenza di "sostanza" che pensa in luogo di quello che afferma? Perché quello che mette in dubbio la mia esistenza di res extensa - e anzi l'esistenza della res extensa in quanto tale - e non invece quello che la afferma? Non sono entrambi atti di pensiero allo stesso modo?

Cartesio costruisce il suo principio speculativo muovendo dal dubbio metodico, cioè da un pensiero con un contenuto determinato, per concludere poi con il pensare in generale (cogito ergo sum). Ma nel pensare in generale si deve però considerare come necessariamente ricompreso anche l'opposto del dubitare. Se è quindi il pensare in generale (ogni atto di pensiero) a dimostrare con chiarezza a me stesso che io esisto, allora la natura o qualità di siffatto pensare, il suo contenuto - dubitativo, negativo od affermativo - dovrebbe esser indifferente ai fini della dimostrazione stessa. Dubitare di tutta la realtà o non dubitare affatto di essa: questi due pensieri dovrebbero conferire in ogni caso al soggetto la medesima certezza, di essere cioè un essere pensante, dal momento che in entrambi i casi egli è comunque sicuro di pensare. Se la certezza di essere ciò che sono mi deriva dal pensare, dal je pense di cui mi rendo cosciente, ciò che concretamente penso non può influire sull'acquisizione della certezza stessa. lo so di pensare, per il solo fatto di pensare e non perché pensi questo o quello, non per la qualità intrinseca del pensiero del momento. (Se così non fosse, non potrei concepirmi come essere pensante ma solo come entità che ha pensato questo

189 DESCARTES, Discours de la méthode, ed. Gilson, Paris, 1970, rist. 3a ediz., p. 89 (ID., Opere filosofiche, a cura di B. Widmar, Torino, 1969, p. 154).

o quello senza poter mai stabilire se nel momento successivo a quello in cui ho pensato, sarà ancora capace di pensare).

Ma siffatta conclusione, che appare necessaria in relazione alle premesse, vanificherebbe a ben vedere l'ipotesi del dubbio metodico quale fondamento della proposizione speculativa cartesiana. E che tale fondamento sia da riconoscersi nel dubbio metodico, non può esser in alcun modo negato. Infatti, Cartesio giunge alla certezza del cogito ergo sum muovendo dal dubbio sistematico nei confronti di tutta la realtà, ivi compreso il soggetto che pensa, non da un qualsiasi altro contenuto di pensiero. Perciò il soggetto giunge alla certezza di sapere, e quindi di esistere, esclusivamente perché il suo sapere si è sviluppato in una serie di pensieri che dubitavano di tutto. Questa certezza non nasce quindi dal semplice fatto di sapere (in generale) ma solo dal fatto specifico di sapere di dubitare. È solo questo sapere a consentire all' io, come in un'illuminazione, di stabilire con assoluta certezza che il suo pensiero che dubita di tutto, purtuttavia è. In tal modo l'io si procura, secondo Cartesio, la possibilità di risalire dal pensiero all'essere ed anzi di far dipendere la certezza dell'essere dalla certezza del suo atto di pensiero. La certezza di sé dell'io pensante viene perciò raggiunta mediante la negazione di una negazione: il dubitare di tutto per ciò stesso si nega, risolvendosi in un'incontrovertibile affermazione, quando voglia applicarsi all'atto speculativo che contiene il dubbio.

Ma si è detto che, dubiti o non dubiti, ho sempre la consapevolezza di pensare, nonostante il significato volta a volta opposto di ciò che io pensi. Perciò, io so di pensare anche quando non dubito di nulla. E questa conclusione non può non ammettere lo stesso Cartesio, quando scrive che il soggetto, in quanto "res cogitans" è "dubitans, intelligens, affirmans, negans, volens, nolens, imaginans quoque & sentiens"190. Tant'è vero che solo il pensiero non può esser "divelto" dal soggetto. "Ego sum, ego existo; certum est. Quamdiu autem? Nempe quamdiu cogito": "tutte le volte che penso"191. Non dunque solo quando dubito, ma "tutte le volte che penso", a prescindere quindi dal contenuto di ciò che penso. Ma resta il fatto che il soggetto giunge alla rigorosa certezza di essere ciò che è, solo mediante il dubbio metodico; che Cartesio si è servito solo di questo tipo di pensiero. Perché? Il fatto è che il pensiero che non dubiti del reale non può essere utilizzato per lo scopo che il Nostro si propone, che è quello di arrivare a concepire la verità solo in

 

190 DESC., Meditationes de prima philosophia, med. Il, ed. Rodis-Lewis, Paris, 1970,

p. 29; tr. it. in Opere filos., cit., p. 207.

191 Op. cit., p. 27; tr. it. cit., p. 206.

                            

base al principio dell'autodeterminazione del soggetto che pensa, ovvero, riferito all'io dello stesso Cartesio, di "bâtir dans un fonds qui est tout à moi"192. Ne consegue che il pensiero che abbia un contenuto positivo, che cioè non dubiti della realtà, non può essere da lui utilizzato, dal momento che la realtà da esso positivamente riconosciuta verrebbe già a costituire quel fondamento certo di cui il pensiero ha bisogno, e senza costringere quest'ultimo a rinchiudersi nella certezza del proprio atto speculativo come l'unica validamente dimostrabile.

Il pensiero che non dubiti della realtà obbligherebbe ad assumere a base della filosofia anche la certezza della realtà esteriore, oltre a quella dello stesso pensiero che la pensa. E se questa certezza non dimostra come tale la verità dell'affermazione, bisogna ammettere che questa verità può conseguirsi solo con una verifica che deve confrontare il pensiero con l'essere in sé della realtà e non con una deduzione di questo essere implicita nell'atto con cui il pensiero pensa se stesso.

L'aporia presente nel ragionamento cartesiano sarebbe allora duplice: 1) se sono certo di esistere perché penso (per il solo fatto di pensare), devo ammettere che a questa certezza la natura o qualità di ciò che penso è indifferente, con la conseguenza che il pensiero che afferma ha lo stesso valore di quello che dubita, ai fini dell' esistenza della certezza stessa. In tal modo, però, il significato specifico del dubbio metodico, quale unico atto di pensiero che mi dia la certezza di pensare e quindi di esistere, svanisce completamente ed il cogito ergo sum diventa una proposizione meramente descrittiva e persino tautologica. E questa è l'aporia principale. Ne seguirebbe poi 2) una subordinata, di carattere per così dire metodologico, poiché Cartesio sembra procedere in modo dualistico, nel senso che ora attribuisce la certezza di esistere da parte dell'io alla qualità del suo pensiero (l'esser un pensiero che dubita di tutto, l'esser quel pensiero); ora invece al solo fatto di pensare, senza specificazione alcuna (nempe quamdiu cogito), facendola dipendere dal mero dato quantitativo dell'esser res cogitans, non ulteriormente determinata. E allora: qualità o quantità? un solo, specifico pensiero, con quel contenuto o il pensare in quanto tale, a cui ogni contenuto è indifferente?

A quale certezza deve dunque affidarsi il pensiero: a quella che lo mutila dall'essere o a quella che ve lo ricomprende? Il dubbio metodico o cogito cartesiano isola il pensiero in se stesso. In quest'atto c'è come una separazione ed il pensiero (ai fini del nostro discorso) viene a porsi come parte del tutto. Ma questo è vero solo in apparenza. Infatti, questo stesso pensiero che si separa dalla realtà per aver solo in se stesso la certezza di se

192 DESC., Discours de la méthode, cit., p. 64, tr. it. cit., p. 141.

stesso; grazie a questa certezza, deduce poi la realtà da se stesso. Solo ciò che è pensato secondo le regole poste dal pensiero che si è separato dal reale (poste dal proprio interno, dalla certezza dell'io che si sa unicamente perché crede di poter dubitare di tutto tranne che del proprio essere pensante); solo ciò che è posto dal pensiero in questo modo è reale. Ma ciò significa, per l'appunto, dedurre la realtà dal pensiero e porre la coscienza di sé quale unica ed assoluta verità. La res cogitans si appropria della res extensa, non perché la riconosca nella sua obiettività, ma perché la considera invece quale materiale da costruzione per la certezza di sé, parte del processo mentale nel quale la coscienza di sé si costituisce come mondo, anzi come l'unico mondo, l'unica realtà di cui il soggetto debba tener conto. Il pensiero, come certezza di sé dell'io, diventa allora il tutto e persino l'uno, diventa cioè quella certezza assoluta di sé che crede di realizzare in se stessa (e solo in se stessa) l'unità di tutto ciò che è. Il tutto viene ricondotto, come all'unico centro che lo unifichi, al sapere di sé della coscienza.

 

Ma questa concezione è all'origine, come si è cercato di dimostrare, delle false rappresentazioni dell'uomo e del mondo oggi dominanti. Il pensiero deve farsi umile, se vuole avvicinarsi alla verità. Deve prender di nuovo coscienza del fatto che esso è parte del tutto in senso sostanziale, obiettivo - perché il tutto ha di per sé quella realtà dell'essere le cui leggi si applicano anche al pensiero - anche se l'esser-parte del pensiero non si lascia rinchiudere nella determinatezza della materia, grazie alla quale il pensiero agisce nella nostra vita mortale. Il carattere spazialmente indeterminato del pensiero ed il suo esser-parte nel tempo, questa sua realtà esclusivamente spirituale, postula infatti un' immortalità che lo rende parte di un tutto rappresentato da quel regno degli spiriti, diviso in eletti e reprobi193 , la cui origine non è in terra, né nel pensiero stesso, ma in cielo, nella volontà dell'Essere perfettissimo, la Monotriade che vive e regna nei secoli dei secoli.

 

 

193 Matt., 25, 31-46. E questa è a ben vedere l'unica divisione del tutto in parti, che veramente conti e che durerà in eterno.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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