La storia e le idee
PAOLO
PASQUALUCCI
INTRODUZIONE
|
ALLA METAFISICA DELL'UNO
|
prefazione di Antimo Negri
Antonio Pellicani Editore
La
storia e le idee
2
Collana
diretta da Antimo Negri
|
PAOLO PASQUALUCCI
INTRODUZIONE ALLA METAFISICA DELL'UNO
Prefazione di Antimo Negri
Antonio Pellicani Editore
©
Copyright 1996 by Paolo Pasqualucci
© Copyright 1996 by
Antonio Pellicani Editore
00199 Roma, via Piediluco
1/a
Tel.
06/8845595 Fax 06/8559626
INDICE
GENERALE
Prefazione di Antimo Negri |
Pag. |
7 |
I.
Metafisica del tutto
1. Il tutto è indi
viso e quindi è l'uno |
Pag. |
17 |
2. Il tutto non può
accrescersi in quanto tutto |
Pag. |
20 |
3. Il tutto, in
quanto uno, è infinito. |
Pag. |
24 |
4. Natura
contraddittoria del tutto |
Pag. |
26 |
5.
La definizione dell'uno |
Pag. |
35 |
6. La definizione
dell'uno si applica solo a Dio |
Pag. |
40 |
7. Dire che l'uno è
Dio non significa affermare che Dio è unico |
Pag. |
44 |
II. Metafisica della parte
8. Il tutto come
semplice somma di parti |
Pag. |
52 |
9. Definizione della
parte: il problema |
Pag. |
63 |
10. La parte e l'ente |
Pag. |
74 |
11. La definizione
della parte non è unitaria |
Pag. |
89 |
12. Quali sono le
parti del tutto |
Pag. |
92 |
13. Il tutto come
Sostanza |
Pag. |
97 |
III. Analitica delle parti in
nuce
14. Spazio, corpo,
simultaneità |
Pag. |
119 |
15. Il pensiero |
Pag. |
138 |
PREFAZIONE
Sono felice di ospitare questo libro di Paolo
Pasqualucci nella collana "La storia e le idee" da me diretta per
Antonio Pellicani Editore in Roma. Né la mia felicità vien meno per il fatto
che io non possa condividere fino in fondo l'assunzione perentoria dell'autore
che l'unica "visione del mondo teoreticamente sana" sia quella
"metafisica". Mi spiego subito. In una stagione speculativa che si
dice "postmoderna" ed anche "post-metafisica", nella quale
l' ''essere'' si tende spregiudicatamente a vedere in un suo rapporto
indissolubile con il "tempo" (dico la cosa nel ricordo del celebre ed
emblematico Sein und Zeit di
Heidegger), ed il "lavoro filosofico" si divide, come ogni lavoro,
nell'intricata mappa delle filosofie della specificazione (dalla filosofia della
storia a quella dell'arte, poniamo, e dalla filosofia del diritto a quella del
linguaggio), questo libro è destinato, proprio in quanto assume a tema la
"metafisica dell'uno" che "si riferisce esclusivamente
all'Essere perfettissimo di Dio", a tingersi dei colori
dell’"inattualità". Ma si sa che, quella
dell'"inattualità", è la grande, affascinante, provocatoria categoria
di un Nietzsche tutt'altro che disponibile a bruciare conformisticamente
incenso sull'altare del "dio del tempo".
E mi chiedo, intanto, se questa decisa e coraggiosa opzione teoretica
di Pasqualucci non esprima, nel suo essere "inattuale", il bisogno,
non spento in un'epoca di trionfo di quelle che l'autore dice «false
filosofie», di restituire il pensiero alla considerazione, impervia ma
insopprimibile, degli "invidiosi veri" relativi, appunto, all'uno,
all'Essere e a Dio.
Conosco Pasqualucci da molti anni. Confrère et
collégue accademico, ordinario di Filosofia del diritto, egli ha avuto modo di
mostrare le sue doti di studioso eccellente di Hobbes, Rousseau e Kant. Ma la
sua grande dimestichezza con i testi classici (Parmenide, Eraclito, Platone,
Aristotele ecc.), cristiani (Agostino, Tommaso ecc.),
moderni (Cartesio, Bruno, Spinoza, Leibniz, Hegel, Schelling ecc.),
nonché il contatto autottico con il pensiero scientifico dei protagonisti della
fisica teorica (Einstein, Schrödinger ecc.), ne hanno messo in moto il cervello
fino a fargli sentire ben presto stretto lo stivaletto della ricerca
specialistica, pur condotta con perizia filologica, con misura critico-storiografica
e con finezza d'analisi. La sua vocazione irrinunciabile si è rivelata quella
del teoreta e del metafisico, poco tenero verso l'escursione culturalistica ed
inindulgente ad un discorso filosofico che non fosse rigorosamente logico,
benché, talvolta anche piuttosto visceralmente polemico nei confronti di mode
speculative a tendenza immanentistica o nichilistica.
Non che, avviando il discorso sull'uno, in quanto
"si riferisce esclusivamente all'Essere perfettissimo di Dio",
Pasqualucci si sradichi del tutto dal terreno della riflessione del filosofo
del diritto che egli, per dir così, professionalmente è. Ed una delle sue prime
argomentazioni è questa: «dal punto di vista della definizione rigorosa
dell'uno, va detto che nella concezione del popolo, della società, del potere
sovrano e del genere umano come l'uno, sono presenti (dal punto di vista
teoretico) tutte le difficoltà e le aporie fin qui messe in rilievo» (p. 39).
Quali difficoltà, quali aporie? Quelle che si registrano non appena
"l'uno" si fa coincidere con un "tutto" costituito, nel tempo
e nello spazio, di "parti", senza le quali non potrebbe esserci, allo
stesso modo in cui queste stesse non potrebbero esserci, se non ci fosse il
"tutto". L’"uno" che ha bisogno delle "parti" per
essere non è un autentico "uno". L'''uno'' autentico, non bisognoso di parti,
indivisibile come l’essere parmenideo", solo questo è effettivamente
pensabile e, se è pensabile, lo è unicamente come Essere, come Dio. L’"uno",
l'Essere, Dio è concepibile solo indipendentemente dalle parti, la somma delle
quali può costituire solo un "tutto", assolutamente non confondibile
con 1' "uno".
È, questo, uno dei nodi più complessi
dell'argomentazione metafisica di Pasqualucci. Le ragioni di fondo di
quest'argomentazione? Senza mezzi termini, Pasqualucci: «Se il tutto in sé e
per sé non può esser concepito come l'uno, bisogna allora ammettere, per logica
conseguenza, che il concetto dell'uno non
potrà determinarsi in relazione a
quello del tutto. L'antica identificazione del
tutto con l'uno, vessillo di ogni forma di immanentismo e panteismo,
non si può accettare a causa della ambivalenza
del tutto, che permette di ricomprenderlo solo in parte nel concetto dell'uno.
Ma il tutto non può essere l'uno solo a metà: o lo è o non lo è. Ne consegue
che l'uno dovrebbe definirsi solo in relazione a se stesso, senza tentare di
identificarlo con il tutto» (p. 35).
Ma che significa, poi, più propriamente, questa
insistenza sulla non identificabilità dell' "uno" e del
"tutto"? Una volta riferito l’ "uno" in maniera esclusiva
all'Essere perfettissimo che è Dio, ed una volta, come è possibile, configurato
il "tutto" come universo spazio-temporale, il significato
dell'insistenza accennata può configurarsi come quella che esclude decisamente
ogni panteistica o immanentistica riduzione di Dio alla realtà
spazio-temporale: come l’ "uno" ' è sempre al di là del
"tutto", così Dio è sempre al di là della realtà spaziale (fisica) e
della realtà temporale (storia).
La cifra metafisica e/o metastorica è quella di un
"uno" trascendente il "tutto" o di un Dio trascendente il
mondo fisico e storico. Mantenuta ferma l'identità dell’"uno" e di
Dio, si finisce col trovare caratterizzata da "ambiguità" anche
l'affermazione plotiniana (Enn. VI,
9, 6), secondo la quale «l'uno è più di Dio». Ma non è ciò che più importa,
forse, nella riflessione metafisica di Pasqualucci. È vero, infatti, che, una
volta esclusa l'identità di "uno" e "tutto" o di
"Dio" e "mondo", naturale e/o storico che sia, scatta la
possibilità di confinare l’"uno" o "Dio" nell’"in
sé". Si fa strada l'idea dell’"uno" o di Dio come Substantia. L’"uno" altro dal
"tutto", Dio altro dalla natura e dalla storia. Certo, salta in aria
qualsiasi possibilità di appellarsi alla spinoziana divisa, quella più
criticamente attaccata, in quanto formula atea e materialistica, Deus sive natura, ed anche la divisa,
più o meno hegelianamente esprimibile, come Deus
sive res gestae. Il "totalitarismo" materialistico/naturalistico
e storicistico si palesa come l'obiettivo polemico di fondo di un pensiero
metafisico e metastorico che, necessariamente, poi intoppa nell’"in
sé" dell'" uno", dell’"essere", di Dio.
Lo stesso che l'''essere'', quest’"uno" o
questo Dio, allora? Ma Pasqualucci deve fronteggiare le obiezioni hegeliane, significativamente
rivolte già all' ''essere parmenideo": è vero "essere"
quest’"uno" in sé, questo Dio in sé, che non conosce la
"pazienza del divenire"?
Pasqualucci
ben conosce queste obiezioni. Per Hegel, l' ''essere in sé", l' ''essere''
che non ha il fremito del "divenire", è l' ''essere indeterminato",
fatto coincidere con il "nulla". Ma Pasqualucci ritiene che, qui, ci
si trova solo di fronte all' «escamotage speculativo di trasformare la differenza
in negazione e la contrapposizione in contraddizione» (p. 80). E la
"negazione", si intende, investe, secondo Pasqualucci l' ''uno'', l' ''essere'',
"Dio", rispetto al quale il "tutto", il
"divenire", il mondo non costituisce "contraddizione", ma
solo "contrapposizione".
Pure, dalla "contrapposizione" dei termini
bisogna uscire, perché non ci si trovi unicamente di fronte ad un
"uno", un "essere", un Dio "in sé". Se l’"uno",l’
''essere'', Dio rimanesse "in sé", non si spiegherebbe il
"tutto", il "divenire", il mondo. Dal punto di vista
metafisico, antimaterialistico, antistoricistico, antipanteistico,
antimmanentistico, Pasqualucci ha perfettamente ragione di escludere ogni
identità o identificazione dei termini. Ma è vero, poi, che, se vuole spiegare
il "tutto", il "divenire", il mondo, non può che ricorrere
all'idea di un "Dio creatore", che rimane sempre in una situazione di
alterità rispetto alla "creazione". E chi non ricorre a questa idea?
È a questa domanda che inchioda, da ultimo, con il suo sottile "locizzare",
il metafisico Pasqualucci. Inchioda anche me, si capisce, appartenente alla
cerchia di quelli che pur sanno che «non possiamo dimostrare nulla,
empiricamente parlando» e che «possiamo solo credere» (p. 139).
Né Pasqualucci si limita a sferrare il suo attacco
critico all'immanentismo di tipo materialistico. C'è, sì, anche un immanentismo
idealistico, gnoseologistico, in forza del quale si pretende che «la conoscenza
altro non è che la proiezione delle categorie mentali del soggetto nei confronti
dell'oggetto». Oppone Pasqualucci: « Se la conoscenza fosse solo questo, non arricchirebbe mai il
soggetto ( ... ) si avrebbe un pensiero senza un vero e proprio oggetto cui
applicarsi» (p. 142-3). Pasqualucci opta, coerentemente, per un «realismo che nega il primato del
pensiero sull'essere» (p. 147). E, non c'è dubbio, anche questo realismo è
schiettamente antimmanentistico: l' ''essere'' trascende sempre il pensiero,
come l' ''uno'' trascende sempre il "tutto", l' ''essere'' sempre il
"divenire", Dio sempre il mondo. E, nell'occasione, all'autore viene
in mente anche Parmenide, la cui affermazione «il pieno infatti è pensiero»
(fr. 16), una volta fatto coincidere il "pieno" con l' ''essere'', dà
luogo, proprio in seno all'idealismo, ad una lettura immanentistica, in forza
della quale "essere" e pensiero si identificano.
Questo libro di Pasqualucci è, sì, da ultimo,
una sorta di "specchio di vera penitenza" teoretico vuoi del
materialista che dell'idealista che aboliscono o abolirebbero l'orizzonte della
trascendenza. E non è che di questo orizzonte non finisca con l'avere un po' di
nostalgia chi, non accontentandosi della pensabilità dell’"essere",
dell’"uno", di Dio, lo divide in parti come se fosse lo stesso
"divenire", lo stesso "tutto", lo stesso mondo, assunto
come oggetto non di pensiero, ma di conoscenza. Questa nostalgia non tace
neppure nella nostra "post-modernità" o "post-metafisicità"
speculativa. Ed il merito maggiore di questo libro è di riaccenderla anche in
chi è più lontano da quella che Pasqualucci ritiene sia l'unica «visione del
mondo teoreticamente sana». Per lo meno, esso suggerisce questa domanda: ma
perché, oggi, siamo teoreticamente "malati"? Perché abbiamo perso
contatto con l’"uno", perché "obliamo" l'''essere''? perché
abbiamo fatto "morire" Dio? E qualche risposta forte a queste domande
dal libro di Pasqualucci vien data. Conviene ascoltarla.
ANTIMO NEGRI
Convento di San Francesco, Lugnano in
Teverina, marzo 1996
ἐγὼ καὶ ὁ πατὴρ
ἕν ἐσμεν (Ioan.,
10,30)
I. Metafisica del tutto
Il tutto è indiviso e quindi è l'uno
Il tutto non può accrescersi in quanto tutto
Il tutto, in quanto uno, è infinito
Natura contraddittoria del tutto
La definizione dell'uno
La definizione dell'uno si applica solo a Dio
Dire che
l'uno è Dio non significa affermare che Dio è unico
METAFISICA DEL TUTTO
1.
Il tutto è indiviso e quindi è l'uno
a. Dall'esperienza deduciamo che la realtà è il tutto
composto di parti, anche se non riusciamo a determinare quante siano le parti né quali siano con esattezza. Infatti, non
possiamo sapere quante siano numericamente tutte le parti del tutto, dalla più
grande alla più piccola, né quali
siano, in relazione alla loro natura di parte, se cioè anche realtà indeterminate
dal punto di vista della quantità (come lo spazio, il tempo, il pensiero)
facciano parte del tutto (vedi infra, § 9). Non ci riusciamo, dal punto di
vista del giudizio fondato sull'esperienza. Inoltre, non riusciamo a stabilire
dove inizi e dove finisca il tutto o se abbia un inizio ed una fine. Non esiste
quindi per noi né una prima né un'ultima parte del tutto, né una parte
intermedia: e il tutto non ha infatti per noi una forma determinata, in quanto tutto. Il tutto ci appare
allora indeterminabile.
Se non possiamo dare una forma al tutto - il suo aver
forma risulta per noi sempre dalla forma delle parti - il tutto ci appare però
determinato di contro al divenire
delle sue parti. Le parti sono e non sono (nascono e periscono) mentre il tutto
si mantiene. Esso mostra il carattere
determinato dell'essere di contro all'indeterminatezza del non-essere. La parte
che si toglie dal tutto, svanendo dalla realtà sensibile, cade infatti nel
non-essere rispetto al tutto, e questo non-essere è l'indeterminato in sé, quindi l'indeterminabile per eccellenza, perché impossibile ad ogni forma
e contenuto. Il divenire delle parti non è quindi per noi ipso facto un
divenire del tutto, che sembra invece contrapporsi
a questo stesso divenire, come ciò che è e resta, immutabile ed eterno.
Per tal motivo, concetto tradizionale della metafisica
è che il tutto sia l'uno perché, nonostante risulti di parti, non può esser
diviso, nello spazio e nel tempo. Infatti, se fosse diviso nello spazio, il
tutto e la grandezza da cui è diviso, non occuperebbero lo stesso spazio
(sarebbero in due luoghi diversi) e vi sarebbe uno spazio non occupato dal
tutto, che allora non sarebbe più tale. Inoltre, il tutto e la grandezza da cui
è diviso, sarebbero contemporaneamente:
allora il tutto esisterebbe accanto ad una grandezza minore o maggiore od
uguale e sarebbe parte, uguale o maggiore o minore, del tutto formato da esso
stesso e dalla grandezza dalla quale è diviso. Ma ciò è assurdo perché il tutto
non può essere parte del tutto.
Se il tutto fosse diviso
nel tempo, bisognerebbe ammettere una realtà anteriore al tutto, che era quando il tutto non era. Allora il
tutto risulterebbe da ciò che gli è anteriore ed avrebbe avuto un'origine da qualcosa che non è il tutto perché è ciò
che da esso è diviso, venendo prima nel tempo. Ma anche questo è un assurdo, se
il tutto costituisce il tutto, vale a dire se è tutta la realtà, la realtà con
tutte le sue parti e in tutta la sua estensione e durata, nello spazio e nel
tempo. Se fosse diviso nel tempo, bisognerebbe ammettere per il tutto un prima e un dopo e quindi un tempo in cui il tutto stesso non era.
Non ci sono
allora nel tutto un prima e un dopo, che siano il prima e il dopo del tutto in quanto tale. Il tutto è perciò eterno
ed increato come l'essere, secondo
l'immanentistica intuizione metafisica originaria dell' essere: "inizio
l'illimitato ... secondo necessità", a cui tutte le cose ritornano
"secondo l'ordine del tempo"1. Nel suo essere sempre
uguale a se stesso, nel suo non invecchiare mai rispetto alle parti, il tutto è
come l'àpeiron, l'illimitato ed indeterminato
da cui ogni cosa proviene ed a cui ogni cosa ritorna, secondo un ordine
immutabile stabilito nel tempo, che è l'ordine stesso dell'essere. Come
l'essere, il tutto è quindi "uno, continuo"2 perché la sua
persistenza nel divenire delle parti che lo costituiscono, ci si mostra come durata sempiterna di ciò che è e sempre
sarà, senza soluzione di continuità.
b. La realtà non può come tale essere divisa. Secondo la constatazione più antica,
l'essere è infatti l'indivisibile
perché "tutto intero è uguale"3 in quanto "tutto
intero è pieno di essere"4. Togliendo via le parti non
giungiamo infatti al nulla, alla annihilatio
del tutto in quanto tale, ma sempre a nuove parti da togliere o a quelle
che non si possono togliere (lo spazio e il tempo) onde l'essere si mantiene
per noi come il tutto sempre uguale a se stesso e sempre pieno e presente a se
stesso. (E la stessa annihilatio mundi
è pensabile solo come distruzione di ciò che è nello spazio e nel tempo ma non
di questi ultimi in quanto tali). Diciamo perciò di dividere ciò che è nel
tutto ma non il tutto in sé per sé, poiché la durata e l'estensione non sono
divise in
1 ANAXIM., B, 3 (tr. it. Pasquinelli,
ne I Presocratici. Frammenti e testimonianze, I (unico uscito), Torino, 1958,
p. 44).
2 PARM., fr. 8,6: "ἕν, συνεχές " (ed. Reale-Ruggiu,
Milano, 1991, p. 99).
3 Op. cit.,fr. 8,22: " ἐπεὶ πᾶν έστιν ὁμοῖον" (ed. cit., p. 103).
4 Op. cit.,fr. 8,24: " πᾶν δ’ἕμπλεόν έστιν ‘εόντος" (ivi., p.
103).
se
stesse né reciprocamente ma solo divisibili
all'infinito. Ma ciò che è divisibile senza per questo separarsi, dividersi
effettivamente (dividendo lo spazio abbiamo sempre lo spazio e dividendo il
tempo sempre il tempo, né possiamo separare l'uno dall'altro), rimane ciò che
è, senza mutarsi mai nel suo opposto, nel non-essere del tempo e dello spazio.
Se il tutto non viene mai ad esser separato e diviso in se stesso (pur essendo
divisibile), costituisce allora un' unità:
l'indiviso non può che essere
unitario in se stesso. Il tutto è dunque sempre l'essere perché dividendolo
mediante misurazione e separazione delle sue parti non solo non lo si separa
dalle sue parti ma si procede all'infinito senza mai giungere al nulla.
Se
poi si vuole affermare che il tutto, se è tale perché indiviso, sarebbe dato
solo dalla durata e dall'estensione (dal tempo e dallo spazio) poiché solo
questi non possono effettivamente dividersi, si viene a negare che il corpo o ente che dir si voglia, poiché è
effettivamente divisibile, faccia parte del tutto. Infatti, se la realtà nella
sua completezza è l'indiviso, come
potrà farne parte ciò che viene effettivamente diviso? Ma ciò è come dire che
le parti del tutto costituite dalla materia non possono essere ricomprese nel
tutto, che quindi non sarebbe tale, mancandogli la materia. Affermare che il
tutto è l'uno perché indiviso costringerebbe allora a negare il tutto stesso
come rappresentazione coerente della realtà perché costringerebbe ad escludervi
ciò che si divide, il quale tuttavia continua ad essere: e se continua ad
essere non può non far parte del tutto.
L'unità
del tutto, dipendendo dalla sua indivisione, implicherebbe la continuità e la contiguità del tutto a se stesso. Ma l'esistenza delle parti come
enti determinati, tra loro separati nello spazio e nel tempo, dimostrerebbe che
nel tutto c'è anche la discontinuità.
Allora, o il tutto non è uno (perché è discontinuo) oppure la rappresentazione
del tutto non è (di nuovo) coerente, dovendosi ammettere in esso contemporaneamente la continuità e la
discontinuità. Ci si chiede quindi se l'affermazione che il tutto sia l'
indiviso (e quindi l'uno) non sia contraria all'esperienza, nel senso che tale
affermazione deve necessariamente prescindere dall' esistenza (empiricamente
provata) della parte, che è nel tutto proprio in quanto è effettivamente
distinta dalle altre parti e quindi separabile da esse e dal tutto stesso.
Tuttavia, se
noi paragoniamo il rapporto tra la parte e il tutto a quello fra il pieno e il
vuoto troviamo un elemento comune, dato dall' estensione. Infatti, il corpo nello spazio e lo spazio occupato da
esso non sono altro che la medesima estensione5. Perciò, la discontinuità del pieno nel vuoto (del corpo nello spazio e quindi delle parti
nel tutto) nulla toglie alla continuità
5 CART.,
Princ. Phil.,
pars
II, § X ss.
dell'estensione in
quanto tale, che è sempre identica a se stessa sia nel pieno che nel vuoto
e misura allo stesso modo il corpo e lo spazio da esso occupato, come se
fossero l'idem et identicum. Il tutto è quindi indiviso perché
l'estensione che lo costituisce unifica sia il pieno che il vuoto, il
discontinuo nel continuo, senza negare l'esperienza (su ciò infra, § 10f e §
13c).
Se il tutto è
l'uno, lo è quindi grazie alla indivisione che lo caratterizza, anche se in tal
modo non sappiamo ancora cosa sia l'uno in sé. Si potrebbe infatti
credere che stabilendo l'unità del tutto ci si impossessi anche del significato
autentico dell'uno. Ma l'impossibilità di dividere il tutto e la conseguente
unità del tutto con se stesso sono qualità del tutto. Possiamo dire che
esse rendano il tutto partecipe della natura dell'uno? Rispondendo di sì,
ricaveremmo la natura dell'uno da quella del tutto, come se l'unità con se
stesso di ciò che ha parti costituisse in pari tempo il concetto stesso dell'uno.
Ma il concetto di quell'unità non
esprime l'uno in sé bensì solamente il tutto, in quanto sia concepibile come
uno, ossia in quanto possa costituire un'unità nonostante le sue parti. L'uno
in sé dovrà invece comprendersi nel concetto di qualcosa che è in se
stesso indiviso, a prescindere dal fatto che il tutto possa essere come
tale indiviso. Non può valere il principio di analogia, se cerchiamo di
definire queste realtà nella loro natura. L'indivisibilità dell'uno in quanto
tale non può infatti esser la stessa del tutto, altrimenti si negherebbe la
possibilità stessa di pensare l'uno in sé e per sé, come concetto di una realtà
completamente indipendente dal tutto. E ciò è tanto più vero se si pone mente
al fatto che l'unità del tutto risulta da una sorta di coincidenza degli
opposti nella quale l'unità stessa appare in effetti provvisoria (vedi infra, §
4).
2.
Il tutto non può accrescersi in quanto
tutto
Se il tutto è l'indiviso, non può nemmeno
accrescersi, in quanto tutto6. Infatti, se aumentasse in estensione,
espandendosi come tutto, verrebbe ad occupare uno spazio in cui esso stesso (il
tutto) non era. Ma ciò significherebbe che il tutto non era il tutto, se
accanto ad esso esisteva uno spazio da esso non occupato, che non era
parte del tutto (e nel quale il tutto ora si espande). Del resto, se si crede
che il tutto si espande, bisogna ammettere l'esistenza (contemporanea a quella
del tutto) di uno spazio vuoto in cui il tutto possa espandersi, poiché
l'accrescersi e l'espandersi risultano da movimenti che per
6
MELIS., B, 7 (ed. Pasquinelli, cit., p. 291; MELISSO, Testimonianze
e frammenti, ed. Reale, Firenze, 1970, pp. 384-5).
aver luogo hanno bisogno di uno spazio, sia quest'ultimo interamente vuoto od occupato da materia meno densa
e quindi penetrabile da ciò che si espande. Naturalmente, i movimenti che hanno
luogo nelle parti degli enti (cioè all'interno dei corpi) non necessitano di
uno spazio vuoto, dal momento che possono prodursi per alterazione e
mescolanza all'interno del corpo, nel pieno della materia che già
esiste. La natura ci mostra, infatti, che "è possibile che il pieno
muti"7, vale a dire che si alteri restando com'è e
dov'è: pieno e nel medesimo luogo. I mutamenti che hanno luogo nei corpi
derivano quindi da movimenti interni, che non necessitano del vuoto,
anche semplicemente di un vuoto interno. Non è quindi vero, come sostenevano
alcuni, che il movimento in generale implichi sempre l'esistenza del vuoto,
dato che per natura "il pieno è incapace di ricevere checchessia",
perché non può essere penetrato o percorso8. Tuttavia, se il soggetto del
moto, il mobile, non è un ente determinato nel tutto ma il tutto stesso in
quanto tale (identificato dai Fisici con l'universo), si dovrà ammettere che
questo movimento, se consiste in un accrescimento ed un'espansione, può aver
luogo solo se c'è uno spazio vuoto al di fuori del tutto, dato che il
tutto non può esser concepito come parte di qualcosa, allo stesso modo
dell'organo di un corpo o della sezione di una superficie. Se poi si vuole
concepire ogni moto non come traslazione di un corpo nello spazio,
secondo traiettorie che subiscono l'attrazione e la repulsione di forze che
agiscono nello spazio, ma unicamente come l'accrescersi anisotropo
della densità di un'onda di energia, si dovrà pur sempre ammettere che ciò che
si accresce, quale che sia la sua dimensione, durata ed intensità, non è lo
spazio ma qualcosa che è nello spazio, cioè la materia-energia.
La densità e l'estensione della
materia non sono infatti la stessa cosa, per cui i mutamenti della prima
non possono considerarsi per ciò stesso mutamenti dell'estensione in
quanto tale. La modifica dell'estensione di ciò che si muove, ossia il suo
mutamento di luogo, non è infatti il moto ma sua conseguenza: in termini
euclidei, una modifica che ha luogo nell'estensione e non una modifica
dell'estensione. Questa maniera di concepire il moto, tipica dei Fisici, non
distingue tra moto in un corpo (moto interno) e moto nello spazio, come se tutto
il movimento degli enti nell'universo non fosse altro che un movimento interno.
Essa vìola il senso comune, che non può esser sempre impunemente disatteso,
perché è come se si affermasse per esempio che la crescita del lievito è in
pari tempo una crescita dello spazio occupato dal lievito, spazio che invece né
cresce né diminuisce. Se lo spazio è la stessa
7ARIST.,
Phys., 214 a (ARIST., Fisica, tr. it. A. Russo, Bari, 1968, p.
97).
8 Op. cit., 213 b (tr.
it. cit., p. 94).
cosa di ciò che cresce in esso, ritirandosi il lievito (rientrata la
crescita) dovrebbe ritirarsi anche lo spazio da esso precedentemente occupato,
il che è assurdo. Quando ciò che si muove si mescola o si decompone dovrebbe
allora produrre la mescolanza o la decomposizione dello spazio in cui si è
mosso, visto che quest'ultimo si muove con esso, anzi è lo spazio questo stesso
muoversi! E se neghiamo che si possa dire "lo spazio in cui si è
mosso" perché bisogna invece dire sempre "lo spazio che si è mosso",
non riusciamo più ad individuare chiaramente il soggetto che si muove, il mobile,
qual esso sia.
Se il corpo in movimento è in realtà spazio in
movimento, bisogna allora concluderne che il corpo in movimento crea il
suo stesso spazio mentre si muove, per cui, una volta cessato il moto, verrebbe
meno anche lo spazio creato (cioè percorso), per cui tra l'inizio e la fine del
moto di un corpo ci sarebbe il nulla: infatti, annichilendosi lo spazio
stesso man mano che viene percorso, cosa resterebbe alla fine se non il nulla?
Ma anche questa conclusione, pur necessaria rispetto alle premesse, è del tutto
assurda perché lo spazio, sia quello percorso che quello da percorrere, è una
realtà fisica e quindi non può essere il nulla. Questa dottrina
porterebbe quindi a negare la possibilità di ogni moto di contrazione, se
l'espansione lo è dello spazio stesso e non di ciò che in esso si trovi,
perché una volta che lo spazio in quanto tale si sia mosso, secondo logica non
può esser rimasto nello stesso luogo di prima lo stesso spazio, come se
non si fosse mosso; spazio che permette il ritorno cioè la contrazione di ciò
che si era mosso. Dovrebbe esserci il nulla, cioè la annihilatio dello
spazio evacuato, ma questa non ha luogo (altrimenti non ci sarebbe la
contrazione), e allora lo spazio non è mai andato via, è rimasto sempre lì. Se è possibile l'avanti e indietro,
il sopra e sotto, l'espansione e la contrazione, lo spazio deve esser rimasto
sempre immobile (da vero ricettacolo degli enti) altrimenti nessun moto
potrebbe ripetersi nel suo contrario.
Poiché dunque non possiamo ammettere che il tutto, nel
suo supposto movimento, crei lo spazio in cui si espande, dobbiamo dire che lo
spazio in cui tale espandersi avrebbe luogo deve concepirsi come contemporaneo
al tutto, ossia che esiste contemporaneamente a questo tutto che deve ancora
espandersi in esso. Ma se lo spazio in cui il tutto ancora non è, è
contemporaneamente al tutto, allora il tutto è diviso nello spazio: ma se è
diviso nello spazio non è il tutto (come si è detto nel § 1). Se il tutto è
veramente tale, non può dunque esservi alcuna realtà esteriore che non sia
ricompresa in esso, che non faccia parte del tutto. Ergo, il tutto non ha al di
fuori di sé una realtà esteriore in
cui possa espandersi come tutto e chi afferma che l'universo, in quanto
coincida con il tutto, "è in espansione", attribuisce al tutto un
movimento che può essere invece solo dei o di corpi celesti che si trovano
nell'universo fisico; un movimento che - se ha luogo - non è del tutto ma nel tutto, senza far muovere il tutto in
quanto tale al di fuori di sé. Dovremmo altrimenti accettare il principio
appena criticato, secondo il quale lo spazio si muove e si accresce allo stesso
modo di ciò che è nello spazio, come se lo spazio fosse un ente
determinato, una cosa, annullando la distinzione tra lo spazio e ciò che
è in esso, tra l'estensione priva di forma e l'ente o il corpo che con la sua
forma determinata la occupa. Del resto, perché i Fisici dicono che il tutto
"si espande"? Perché ritengono aumentino le distanze fra le sue
parti, cioè fra gli enti che sono nel tutto, a causa del cosiddetto moto di
remissione delle galassie, che sembrano allontanarsi da noi e fra loro a
velocità fantastica. Ma questa fuga verso gli abissi del cosmo in nessun modo
dimostra che sia il tutto stesso ad espandersi, dal momento che
l'aumento della distanza tra gli enti è provocato dal loro stesso movimento,
non dal movimento dello spazio che li separa. Né si può opporre la
constatazione che gli enti in questione (le nebulose) non sono separati da uno
spazio vuoto, dato che vi sarebbe per ogni dove materia intersiderale, cioè
quella massa di gas che suggerisce l'idea dell'universo come una nube cosmica e
non solo dell'universo ma addirittura dello spazio che l'universo
occupa. La nube cosmica, comprensiva delle galassie, e degli spazi tra esse,
non sarebbe tanto l'universo fisico (l'insieme di tutti i corpi celesti nello
spazio) quanto invece lo spazio stesso. In realtà il moto di espansione
di un gas abbisogna di un volume da occupare e quindi di uno spazio che non è
la stessa cosa della nube di gas; e ciò allo stesso modo (su di un piano
generale) di un corpo solido che penetri nel vuoto o in una massa di densità
nettamente inferiore alla propria. Affermando che le galassie si distinguono
dallo spazio intersiderale solo per una maggiore densità della loro materia non
perché vi sia una contrapposizione effettiva di vuoto (lo spazio suddetto) a
pieno (le galassie), non si fa altro che semplificare l'immagine dell'universo
senza risolvere il problema. Infatti, se al posto di tante galassie separate
dal vuoto abbiamo invece un'unica incommensurabile "bolla di gas" in
espansione che comprende e rivolge tutte le galassie, bisognerà pure ammettere
che questa bolla dovrà espandersi in uno spazio capace di accoglierne il
movimento: non potrà perciò essere, questa "bolla", lo spazio stesso
che si espande. Se poi l'universo si dilata in tutte le direzioni, come una
gigantesca bolla di gas, come fa ad apparire ad ogni possibile osservatore
posto sulle altre galassie, simile a come lo vediamo noi dalla nostra? Questo
postulato esprime il noto principio cosmologico di Einstein, che sembra
avere un senso solo sul presupposto che il caos si debba sostituire all'ordine, nella visione
dell'immagine dell'universo, perché solo delle circonvoluzioni informi di
una mostruosa "bolla" cosmica di gas (che sarebbe lo spazio) si
può dire che debbano apparire sostanzialmente identiche da qualsiasi punto di
osservazione (Su ciò, infra, § 14 a).
3. Il
tutto, in quanto uno, è infinito
Sulla base dei ragionamenti ora visti, molti pensano
poi che il tutto deve essere infinito perché, se fosse finito, sarebbe parte di
qualcosa e non sarebbe più il tutto. Il concetto dell' infinito e quello
della parte si escludono a vicenda, dal momento che tutto ciò che è
parte di qualcosa è necessariamente finito. Infatti, se è parte, vuoi dire che
ha un inizio e una fine in un punto ed in un momento determinati, risulti ciò
da divisione o accrescimento, vale a dire sottraendo da una quantità anteriore
o aggiungendosi ad essa. L'impossibilità di dividere e di aumentare il tutto
significa quindi impossibilità di determinare il suo inizio e la sua fine, che
appaiono addirittura inconcepibili, e questo è proprio dell'infinito9
Chi ritiene che il tutto sia l'uno, perché indiviso ed immutabile, deve quindi
considerare il tutto infinito.
a. Se l'affermazione del carattere finito dell'accrescersi sembra poi ad
alcuni meno dimostrabile del carattere finito della divisione (perché
l'accrescersi non ha per noi un termine ad quem) va tuttavia considerato che
ciò che si aggiunge a qualcosa è sempre parte del tutto cui si aggiunge e non è
mai il tutto in quanto tale, altrimenti si dovrebbe dire che sarebbe
possibile aggiungere il tutto al tutto o un nuovo universo all'universo che già
è, il che è assurdo. Perciò, se il tutto potesse espandersi, il suo
accrescimento sarebbe dato (come si è detto al § 2) da una quantità finita e il
tutto finirebbe dove e quando essa finisse. Se il tutto è infinito, lo è dunque
proprio perché non può dividersi e non può espandersi, perché nell'un caso e
nell'altro il tutto verrebbe alla fine a far parte del tutto, il che è
inammissibile.
Se però alcuni ritengono che il
carattere infinito del tutto debba intendersi nel senso che il tutto è nello
stesso tempo infinitamente grande ed infinitamente piccolo, sì da
rendere impossibile la determinazione di una sua origine e di una sua fine, non
potremmo allora avere un'idea dell'infinito che ammetta la divisione e
l'accrescimento10? Infatti, ciò che è infinitamente grande è la
grandezza al di là della quale ne è concepibile una sempre maggiore,
mentre l'infinitamente piccolo è la grandezza al di qua della quale se
ne dà sempre una minore. Ora, l'idea dell'infinitamente grande sembra potersi
applicare allo spazio in quanto pura estensione, in quanto grandezza priva di
quantità; l'idea dell'infinitamente piccolo, alla materia-energia in quanto sia
nello spazio, abbia cioè un luogo e quindi una quantità determinata.
9Ivi, 204 b: "ᾄπειρον δὲ τὸ ἀπεράντωνs διεστηκόs"
(tr. it. cit., p. 67: "ciò che è esteso senza limite").
10 Ivi, 206 b; tr. it. cit., p. 73.
Ma l'infinitamente piccolo non rappresenta una
contrazione e diminuzione dell'infinitamente grande poiché in esso non si
mostra la divisione dello spazio ma di ciò che è in esso. Allora il tutto
resterebbe indiviso, rimanendo indiviso lo spazio nel quale la materia-energia
si divide in quantità infinitesimali e rimanendo indiviso il tempo, poiché il
tempo dell'infinitamente grande e dell'infinitamente piccolo è necessariamente
il medesimo (sono infatti contemporaneamente, senza potersi in alcun modo
succedere).
b. Concepire il tutto ad un tempo infinitamente grande ed infinitamente
piccolo, significa in realtà affermare che il tutto è misurabile secondo
quantità che possono essere tanto piccole e tanto grandi per quanto è possibile
alle capacità di calcolo della mente. E questa possibilità si estende
all'infinito, perché se ne dà sempre un'altra dopo ogni misurazione, ma secondo
quantità che sono finite (una misurazione con una quantità infinita non è
infatti una misurazione). Il che dimostra che non è possibile giungere alla
fine e all'inizio del tutto, e il tutto sarebbe per l'appunto infinito, però
secondo il concetto tradizionale dell'infinito: ciò che non ha né inizio né
fine perché "al di fuori di esso si dà sempre qualcosa"11.
Del resto la divisione all'infinito del tutto non ne dimostra come tale la
natura infinita, perché non solo ogni grandezza ma anche ogni quantità è
divisibile all'infinito, anche il punto più piccolo, che è certamente finito.
La divisibilità all'infinito non dimostra dunque come tale la natura infinita
della grandezza cui si applica ma solo la possibilità che essa venga
misurata in parti sempre più piccole, senza che si possa giungere mai ad una
parte così piccola da rappresentare l'ultima quantità prima del nulla.
Ciò che è allo stesso tempo
infinitamente piccolo non per questo dunque si divide e si espande, perché qui
il più piccolo e il più grande non sono due grandezze cui corrispondano due
quantità diverse ma due modi di misurare un'unica grandezza, in sé
indivisa ed immutabile, poiché in nessun punto è più piccola o più grande che
in qualsiasi altro punto, né sembra poterlo diventare in relazione alla sua
durata. E ciò, si ritiene, è proprio dell' uno. Del resto, come capacità
di far percepire la grandezza reale, il rapporto fra l'infinitamente
grande e l'infinitamente piccolo è fallace e indefinito: infatti, noi non
possiamo dire, dal nostro punto di vista empirico, se l'universo nel
quale ci troviamo sia come tale infinitamente grande o infinitamente piccolo, e
quindi (il che è lo stesso) se il tutto sia finito o infinito12.
11 Ivi, 207 a; tr. it. cit., p. 74.
12 "Un espace infini, égal au
fini" (PASCAL, Oeuvres complètes, ed. Chevalier, Paris, 1954, p. 1226).
Naturalmente, vale qui del pari quanto detto al § l di questo lavoro e
cioè che l'unità è qui concepibile solo se si annulla la differenza tra il
pieno e il vuoto (la quantità e la grandezza) in una visione puramente
geometrica dell'estensione.
4. Natura contraddittoria del tutto
a. I caratteri dell'infinitamente grande e dell'infinitamente piccolo, se
riferiti al tutto in sé e per sé, non dimostrano quindi né che il tutto sia
infinito né che sia finito. Non è infatti la divisibilità all'infinito del
tutto ma il suo esser indiviso a farlo ritenere infinito, dato che
questo esser indiviso risulta per noi dal mantenersi inalterato del tutto nel
continuo accrescersi e dividersi delle sue parti, nel continuo nascere e perire
di ciò che pur lo costituisce. Se il tutto è l'uno, bisogna allora ammettere
che il tutto è uno nonostante le parti che lo costituiscono. Infatti, se
è l'unità indivisa di tutto ciò che è, ed è quindi l'uno, non può esserlo
grazie alle parti, poiché queste ultime, nel loro essere e nel loro divenire
mostrano il continuo dividersi e riunirsi del molteplice. Le parti sono e
non sono mentre il tutto, invece, non cessa mai di essere.
Esse nascono e periscono secondo
un ordine immutabile che è per
l'appunto l'ordine del tutto e non delle parti in quanto tali, che appaiono
invece sottoposte a quest'ordine e alle sue leggi. Il molteplice rispetto al
tutto non può quindi esser concepito che come parte poiché il molteplice è la semplice esteriorità
reciproca di ciò che è determinato e finito, l'esteriorità del numero o dell'uno empirico, che non dà ragione della
realtà come un tutto ma unicamente come somma o divisione di parti. Il
molteplice è la totalità di ciò che è diviso, in quanto effettivamente diviso,
nell'estensione e nella durata, nella quale l'ordine e il disordine coesistono.
b. Il tutto esprime per noi l'idea dell'ordine
universale, grazie al quale il molteplice costituisce un'unità retta da leggi
immutabili; il molteplice all'opposto l'idea di una coniunctio accidentale
di enti in cui l'ordine è confrontato dal disordine, il più dal meno, l'armonia
dalla disarmonia, la vita dalla morte. Il concetto del tutto come uno implica
quindi quello di un'antitesi fra il tutto e il molteplice, dal momento
che l'unità dell'uno non può essere quella della semplice coesistenza degli
enti che chiamiamo molteplicità, perché in essa hanno vigore sia la legge
dell'ordine che quella del disordine. La molteplicità è il regno degli opposti
e dei contrari, senza conciliazione, che non sia temporanea e
apparente. Ma l'antitesi ripugna alla mente, che vorrebbe poter stabilire
nell'universalità del concetto quell'armonia e quell'ordine che l'esperienza ci
fa intuire solo parzialmente
nella realtà (l'esperienza ci spinge infatti in due direzioni opposte,
quella dell'ordine e quella del disordine). Ma il rigore del ragionamento
non può sottrarsi all'antitesi ed anzi può imporci di condurla sino all'aporia
vera e propria. Infatti, perché si è costretti ad ammettere che il tutto, se è
l'uno, è nonostante le parti? perché, se è indiviso nello spazio e nel
tempo ed infinito, non può essere la stessa cosa del molteplice, le cui parti
sono finite, nello spazio e nel tempo: sono sempre ciò che è stato diviso e
che, dopo essersi temporaneamente unito, tornerà a dividersi. Se il tutto è infinito
come può risultare di parti in sé finite? e se esprime l'ordine, come può
contenere il disordine?
Il tutto è quindi qualcos' altro rispetto alla
molteplicità delle sue parti, dalle quali però non può prescindere, altrimenti
non sarebbe. Qui l'antitesi travalica per l'appunto nell'insanabile aporia, sì
da far apparire il concetto del tutto come intrinsecamente contraddittorio. Dobbiamo
infatti ammettere che, se le parti non sono il tutto, sono però nel tutto.
Esse non possono essere concepite come una realtà esterna al tutto, che
invece costituiscono perché senza le sue parti il tutto non sarebbe. Infatti,
di cosa sarebbe composto, da che cosa sarebbe costituito, se non avesse parti?
Inoltre, non esiste uno spazio delle parti e uno del tutto: il tutto e le parti
sono contemporaneamente nello stesso spazio, mentre sono, cioè sempre ed
il tempo che le misura è il medesimo (se lo spazio è il medesimo, come può non
esserlo anche il tempo?). Tra il tutto e le parti vi è dunque una reciproca interiorità
(che è più dell'esser contiguo) occupando essi sempre il medesimo luogo,
quando luogo vi è che sia stato occupato. Non possono essere esteriori l'uno
alle altre più di quanto possano esserlo le parti della realtà alla realtà
stessa. Quando le parti cessano di esser parti del tutto, scompaiono dal tutto:
non sono più nel tutto solo a condizione di non esser più in quanto parti.
Se le parti sono dunque nel tutto
possiamo dire che esse non facciano sì che il tutto sia ciò che è?
Naturalmente, non in relazione all' origine del tutto ma alla sua durata
e all'estensione, che sono quelle di un'unità di parti sempre rinnovantesi. La
contraddittorietà con cui si presenta alla mente il concetto del tutto risulta
dunque dal fatto che si è costretti ad ammettere che il tutto è
contemporaneamente condizione dell'esserci delle parti (è loro "anteriore
per natura") e da esse condizionato quanto al suo stesso essere13.
Ciò è come dire che il tutto è contemporaneamente l'uno e il molteplice, i
quali si escludono a vicenda, secondo il loro concetto, poiché rappresentano il
finito e l'infinito. Ma ciò è come dire che il tutto, se è nello stesso tempo
l'uno e il molteplice, è e non è, poiché è nello stesso tempo in
modo opposto.
13
ARIST., Pol., 1253 a (ARIST., Politica, tr. il. R. Laurenti,
Bari, 1966, p. 9).
L'aporia cui il pensiero giunge nel determinare il concetto del tutto è
dunque la seguente: che la proposizione "il tutto è grazie alle sue
parti" è vera, per il concetto del tutto, allo stesso modo di quella ad
essa opposta: "il tutto è nonostante le sue parti". Come ha detto
Hegel: "Ma il tutto è per l'appunto questo, di essere opposto a se stesso:
da un lato come tutto è semplicemente lo stesso delle parti, e dall'altro lato
le parti sono lo stesso che il tutto, in quanto nel loro insieme sono esse a
costituirlo"14.
In ogni caso, quale che sia l'esatta determinazione
della natura del tutto, è evidente che quest'ultima non può esser concepita secondo
il concetto dell'uno. Infatti, si è concepito il tutto come l'uno proprio
per coglierne l'essere immutabile ed infinito al di là del divenire delle
parti, mostrando di intendere l'uno come il concetto di quella realtà che in sé
non dipende in alcun modo dall'esistenza di parti e dai loro reciproci
rapporti. Se l'uno è il tutto in quanto immutabile nel divenire delle parti,
non può essere anche il tutto delle parti che mutano: se l'uno indica il tutto
nell'immutabilità del suo essere non può indicarlo contemporaneamente anche nel
mutare delle sue parti. Allora il tutto, in quanto sia l'essere immutabile, è
l'uno; in quanto il divenire delle sue parti, non è l'uno. L'essere
immutabile e il divenire sono contemporaneamente, per cui, se l'essere
immutabile è l'uno, dovrebbe essere contemporaneamente il suo contrario,
il che è assurdo. Possiamo quindi dire: grazie alle parti il tutto è, ma,
grazie alle parti, non è l'uno.
c. Ma
i Panteisti e gli Immanentisti affermano che l'uno risulta necessariamente
dalla dialettica di essere e divenire perché solo grazie ad essa le parti si
compenetrano nel tutto. La coincidenza dei contrari e degli opposti, invece
di negare l'uno ne rappresenterebbe perciò l'essere stesso, "atteso
che l'ordine della natura apporta che l'uno contrario sussista, viva et si
nutrisca per l'altro mentre l'uno viene affetto, alterato, vinto et si converte
nell'altro"15. Perciò "li contrarii sono ne li
contrarii" e "ogni cosa è di ogni cosa" senza che si alteri l'ordine del cosmo "immenso et infinito" nonché
14
HEGEL, Lezioni sulla storia della filosofia, II, Dai Sofisti agli
Scettici, ed. Michelet, tr. it. E. Codignola e G. Sanna, Firenze,
1932,3" rist. 1973, p. 546. Sull'aporia intrinseca alla determinazione del
rapporto fra il tutto come "intiero" e le "parti", cfr.
ARIST., Phys., 185 b: "se la parte e l'intero siano uno o più e in
che modo uno o più; e se più, in che modo ... "(tr. il., cit., p.
6) nonché PLATONE, Parm., 145 B-E (tr. it. M. Migliori in PLATONE, Tutti
gli scritti, a cura di G. Reale, Milano, 19923, pp. 395-6).
15
BRUNO, De l'infinito universo et mondi, a cura di D. W. Singer in
DOROTHEA W. SINGER, Giordano Bruno, tr. it. L. Scalero, Milano, 1957,
pp. 247-472; p. 390.
"eterno" e "uno"16; ordine che anzi riposa
sull'universale ed infinita compenetrazione e mescolanza dei contrari:
della materia e della forma, degli elementi, della vita e della morte. In questa
prospettiva, la morte dell'esistente viene negata in quanto
dissolversi nel nulla di una parte determinata del tutto: si deve infatti dire
che ciò che si dissolve con la morte è solo la forma degli enti, mai la loro materia, immutabile
ed identica a se stessa in quanto sostanza universale. La materia,
sostanza che si mantiene con immutata "potenza" nel corso del
divenire, è infatti concepita essa stessa come "potenza" che si
riproduce dal proprio interno, senza mai subire diminuzioni
nell'alternarsi delle sue forme. Essa è allora "principio" e
"fondamento" del tutto in quanto uno17
Con la morte si ha dunque un
dissolversi della forma cioè dell'ente (l'individuo determinato) i cui elementi
ritornano al tutto della materia dal quale hanno preso un giorno forma. La
negazione della morte come fatto sostanziale, capace di incidere in maniera
effettiva sulla composizione del tutto, è necessaria per poter affermare che il
tutto è uno, nonostante le antitesi rappresentate dal continuo alternarsi dei
contrari. Il perno di questa filosofia è dato dal diverso modo di concepire la
materia, rispetto alla tradizione metafisica che risale alle limpide
rappresentazioni di Aristotele. Per quest'ultimo, come è noto, la materia non è
ciò che fa le forme ma ciò di cui le forme sono fatte. Essa
è del tutto passiva: non produce le forme ma è ciò mediante cui esse
sono prodotte. Il pensiero moderno l'ha invece concepita come un principio
attivo, rovesciando del tutto la nozione aristotelica. In conseguenza di ciò,
ha scisso il rapporto tra materia e forma dall'idea di scopo, rendendo
quest'ultima di fatto incomprensibile. Infatti, esso ammette (quando lo
ammette) un intelletto o anima mundi o logos che plasma la materia secondo una
forma; tuttavia, questo "agente" è interno alla materia
stessa, non la crea dal nulla, non la trascende per nessun motivo e alla fin
fine non se ne distingue affatto. Il fine del principio attivo è allora solamente
quello di far sì che la materia si realizzi in forme determinate: esso non
realizza le forme per uno scopo ma ha come unico scopo quello di realizzarsi in
forme, già contenute in potenza nella materia. E ciò costituisce un paradigma
per l'agire causale in generale: "ogni agente che opra secondo
16 Op. cit., pp. 391-2; 395-7; nonché De la causa, principio et
uno, ed. Aquilecchia, Torino, 1973, p. 142 SS.
17 De la causa, principio et uno, p. 108 SS. nonché JACOBI, Ueber die Lehre
des Spinoza in Briefen an den Herrn Moses Mendelssohn, in ID., La
dottrina di Spinoza. Lettere al signor Moses Mendelssohn, tr. it. F. Capra,
Bari, 19692,
p. 170 ss. (dove si ha il III paragrafo della Appendice I dell'opera,
che contiene Della Causa, del Principio e dell'Uno, Estratto da Giordano
Bruno di Nola).
la regola intellettuale, non procura effettuare, se non secondo qualche
intenzione, e questa non è senza apprensione di qualche cosa, e questa non è
altro che la forma de la cosa che è da prodursi"18.
Se si nega che il soggetto agente si determini per un
fine, trascendente rispetto alla sua volontà e all'oggetto immediato della sua
azione, si dovrà per forza di cose affermare che "la forma de la
cosa" (e non il fine per la quale è prodotta) è unicamente ciò che
muove "l'intenzione" ad agire. Ciò appare però del tutto arbitrario.
Nessun essere razionale si determina ad agire in questo modo, cioè senza
possedere un vero scopo, dal momento che la produzione di un oggetto o
l'azione in quanto tale, un comportamento, non sono mai fine a se stessi ma per
un fine. Ragionando secondo le categorie aristoteliche, è come se si
dicesse che l'artefice della coppa, nel farla, non ha mai un fine
diverso da quello rappresentato da questo fare stesso. Invece esiste
sempre un fine determinato, che è la molla segreta dell'azione: per diletto,
per guadagno, per l'arte, per la religione, per la Patria, per la famiglia, per
la donna amata, per odio, per vendetta, per paura... Nella visione
immanentistica della realtà, l'azione è dunque fine a se stessa, ha se
stessa a proprio oggetto, così come il volere vuole se stesso e il pensiero
pensa se stesso. E questa indistinzione vale sia per l'uomo che per la
natura. Nella natura non vi è allora uno scopo che ne giustifichi l'essere e le
leggi, ed il rapporto di materia e forma è fine a se stesso, cioè privo di un
vero significato: la natura non è vista, infatti, che come materia
riproducentesi all'infinito nelle sue forme, senza altro fine che non sia
quello di questo stesso riprodursi. La natura diventa così qualcosa di cieco,
essa è niente altro che l'oscura vitalità della materia, fine a se
stessa; immedesimandosi in essa, il pensiero sprofonda nell'intuizione di un
uno che è in realtà nient'altro che il caos cosmico dell'organico e
dell'inorganico. Così il pensiero regredisce dall'intelletto capace di
distinguere ad una intuizione visionaria della materia come Uno-Tutto infinito,
in cui si annulla la differenza tra la parte e il tutto, la causa e l'effetto,
il principio e la materia, la materia e la forma. La realtà stessa diventa
qualcosa di indeterminato, un disordine di forme, una notte in cui si
esaltano gli "eroici furori" della coscienza che crede di aver
conquistato in queste tenebre una libertà infinita.
Di fronte a ciò, il senso comune,
convinto che dal "furore" non possa nascere una buona filosofia, per
quanto geniale essa possa essere, si sente legittimato a mantenere il proprio
punto di vista, speculativamente rappresentato dalla tradizione
aristotelico-tomistica, giusta la quale l'unità dei contrari è un'unità
apparente o comunque temporanea e quindi una mera coesistenza. Più che un'unione, essa sembra essere una divisione
che di
18
BRUNO, De la causa, principio et uno, cit., p. 70.
continuo si rinnova, in modo da far apparire una privazione o
una perdita, una diminuzione del tutto e non invece una trasformazione che
lasci immutata la quantità precedente (e quindi il tutto). La sostituzione di
una parte con un'altra del tutto - di un individuo vivente con un altro, uomo,
animale, pianta - non sembra affatto un ritorno di ciò che è stato tolto
dal tutto ma una nuova produzione, la quale non può risultare dalla
materia e dalle forme scomparse (visto che non ci sono più) ma solo da
ciò che mantiene la materia e la forma nella reciproca e temporanea
compenetrazione rappresentata da ogni vivente determinato.
E diciamo "ciò che mantiene" e non " il
mantenersi" della materia e della forma perché non possiamo dare per
dimostrato ciò che deve ancora esserlo: e cioè che la forma (l'individuo
determinato, l'ente) altro non sia che il risultato di un processo impersonale,
uno sviluppo organico ad un tempo determinato ed indeterminato, grazie al quale
la materia si mantiene in eterno emanandosi, per così dire, nelle
molteplici e caduche ma sempre rinnovantesi forme della realtà. Ma ne è
possibile una dimostrazione? vogliamo dire: una dimostrazione che non sia un
semplice atto di fede da visionari? Se la materia, identificata con il tutto e
quindi con la natura, contiene in se stessa il principio attivo o causa
che la fa essere ciò che è, se è quindi essa stessa causa sui; se
"la natura non è il semplice prodotto di un'incomprensibile creazione ma è
essa stessa questa creazione"; se "non è tanto l'apparenza e la
rivelazione dell'eterno quanto proprio quest'eterno in sé e per Sé"19;
questo principio in quanto intrinseco o immanente, non può
separarsi dal vivente, nemmeno per un solo istante e un solo punto: esso deve
essere in tutta la materia, per tutta la sua durata ed
estensione. Come potremmo, infatti, situarlo in un luogo invece che in un
altro, in un punto invece che in un'ellissi o in un grumo invece che in una
galassia? E come potremmo dire che nel tempo esso è e non è, dato che nello
stesso tempo si hanno la vita e la morte?
Se la materia pone da se
stessa il suo esser il vivente, il suo esser una materia in cui è la
vita (la nascita, la crescita, il movimento, il prender forma); se dunque pone
se stessa come sostanza infinita che si riproduce all'infinito, non possono
esserci delle parti o dei momenti della materia - nella durata ed estensione
della sostanza che è la materia - nei quali questa vita non ci sia; una
durata ed un'estensione in cui la materia abbia cessato di essere, in cui ci
sia privazione o annihilatio materiae. Altrimenti si dovrebbe
19
SCHELLING, Ueber das Verhältniss des Realen und Idealen in der Natur, in
SCHELLING, Ausgewählte Werke (Schriften von 1794-1798), rist. anast. dell'ed. Cotta del 1856,
Darrnstadt, 1967, pp. 413-32; 413-5, 432.
dire che il principio attivo, interiore alla materia, l'anima
mundi o logos che dir si voglia, ha cessato di essere, per quelle parti
e quei tratti di tempo. Ma se il principio è in modo discontinuo
nella materia (perché con la morte esso è radicalmente negato sì da
interrompere la continuità spazio-temporale della materia e quindi del tutto),
allora non può esser concepito come principio immanente alla materia
stessa. Se la materia è sostanza che è causa sui perché è increata e
produce le sue forme dal proprio interno, allora non può avere soluzioni di
continuità, altrimenti saremmo costretti ad ammettere che la causa sui lo
è contemporaneamente anche della sua negazione, rappresentata dalla
discontinuità cioè dalla morte, da quell'evento in cui la materia viene distrutta
e scompare. Ciò che per noi (per gli Immanentisti) si è posto ab
aeterno come causa sui, onde tutto il vivente è causa sui, non
può poi porsi nello stesso tempo come negazione (con la morte) di quella
causa sui che lo fa esser ciò che è. Se la causa sui è ab aeterno, allora
contiene ab aeterno la propria negazione (nella morte) e quindi ab
aeterno avrebbe dovuto non essere, dato che ab aeterno è stata
confrontata dalla propria negazione, dal suo stesso non-essere.
Né si può dire che la distruzione
e il dissolvimento della materia di cui è composto l'individuo concreto
rappresentino un semplice ricadere della materia nell'inestensione (τὸ
ἂμέγεϑεs ὕληѕ) senza che il suo essere venga meno, una sorta di condizione
latente caratterizzata dal μὴ εἶναι e non dallo ούκ εἶναι; cioè secondo la
reinterpretazione schellinghiana, dall'esser quel "non esistente in cui
c'è ancora la possibilità di essere esistente", quel non - essere che
conserva ancora la possibilità di essere, di contro all' inesistente in
senso assoluto (ούκ ὄν), il nulla vero e proprio, il quale non ha
la possibilità di essere e quindi non potrà mai essere20. Questa
caduta nell'inesteso non può esserci perché la materia che si è dissolta con la
morte non ritorna nell'organico, nel vivente. Con la morte, da un punto di
vista fisico, ciò che era non è nascosto nell' inesteso ma è diventato
completamente inesistente: i miseri resti mortali, animali, vegetali si
dissolvono nel vero e proprio nulla della polvere, dell'aria, dell'acqua o del
processo di digestione universale.
20
SCHELLING, Darstellung des philosophischen Empirismus, in ID., Lezioni
monachesi sulla storia della filosofia moderna ed esposizione dell'empirismo
filosofico, tr. it. G. Durante, Firenze, 1950, pp. 241-311, pp. 306-7.
(Cfr. PLOT., Enn. II,4, 11 ss.; ed. Faggin, Reale, Radice,
Milano, 19922,
p. 245 ss.; Enn. III, 6,7, tr. it. cit., p. 447). Sulla vacuità
di questa distinzione: S. THOMAE, Summa Theol., Ia, q. 4,5, a. 1: "Idem autem est nihil
quod nullum ens. Sicut igitur generatio hominis est ex non ente quod est non homo, ita
creatio, quae est emanatio totius esse, est ex non ente quod est nihil".
d. Se fosse vero che la materia si trasforma, mantenendosi però
eternamente immutata, allora, in una sorta di "eterno ritorno
dell'uguale", dovremmo poter riavere il legno o la carne dalle ceneri in
cui entrambi sono stati ridotti dal fuoco: quel legno e quella carne
(altrimenti, che senso ha parlare di un ritorno dell'uguale, se si
tratta di una semplice metafora?). Ma quell'albero e quell'animale, in quanto
enti, se ne sono andati in fumo e cenere, e la loro trasformazione negli
elementi è in realtà una perdita definitiva perché essi non torneranno
mai più ad esser gli stessi enti, composti di quella stessa materia.
L'individuo scomparso non ritorna affatto ma viene sostituito da un altro, così
come si riempie un vuoto, e quest'ultimo non risulta composto della medesima
materia che se ne è andata agli elementi con la morte del primo, non risulta
esser ciò che è, per trasformazione della materia di un individuo precedente.
lo non sono la materia di mio padre e di mia madre o dei loro genitori o di
alcuni tra quelli che sono morti prima di me: sono composto di una materia del
tutto nuova, che è solo mia, e che si è sviluppata da un seme che
conteneva già la mia forma: io, quest'individuo concreto, sono
costituito di una carne completamente nuova rispetto a quella che non c'è più!
Dov'è qui la trasformazione della materia? La nascita avviene mediante un
processo di sviluppo dalla fecondazione di un seme, per crescita, e non
per trasformazione di un'identica quantità precedente. Non dobbiamo
allora dire che io sono, esisto in conseguenza dell'azione di un
principio attivo che si serve della materia per dar vita alla forma
voluta? E questo principio, come può operare senza dar luogo a quella che
chiamiamo creazione? In questo caso non dal nulla ma da quei semi che la
Causa Prima, cioè Dio, ha posto nella materia, affinché essi, sviluppando le
proprietà loro conferite in potenza, costituiscano la materia nelle sue
forme, secondo l'ordine stabilito per un fine voluto da Dio stesso.
Per gli Immanentisti, il ritorno del nostro corpo agli
elementi, a causa della morte, non può essere dunque inteso come il
"polvere sei, polvere ritornerai" pronunciato da Dio onnipotente nei
confronti dell'uomo, per ricordargli che Egli lo ha tratto dal nulla, che
dall'inesistente, per volontà divina, è venuto l'uomo. Essi sono convinti che
con la morte ognuno di noi ritorni nel tutto, acquistando l'eternità nelle
supposte trasformazioni infinite della materia e sostengono che
nell'accettazione di questo fatto la coscienza individuale dovrebbe
vincere la paura della morte, fino al punto di sentirsi addirittura pervasa da
una sorta di entusiasmo per l'abisso ed il labirinto che un giorno l'
inghiottiranno! Ma alle visioni tenebrose dei profeti e maghi dell' anima
mundi già si può
opporre il sano realismo dei Poeti, ossia la meditatio mortis del
principe di Danimarca:
Imperious
Caesar, dead and turn'd to clay,
Might stop a hole to keep the wind away21
Il mio corpo, ridotto a misera creta buona per tappare
un buco nel muro, o svanito nel nulla in pallide ceneri, o inghiottito dai
pesci, quale cospicuo contributo di materia offre alle generazioni
sopravvenienti, affinché esse possano esser considerate una semplice
trasformazione della materia preesistente? Nutrendo il pesce, avrò nutrito
l'uomo che lo mangerà e in tal modo partecipando all'universale processo di
digestione mi sarò acquistato l'eternità? Concepire l'uno come l'universo pieno
ed infinito, il cui principio vitale non è altro che la materia increata ed
infinita, la quale da se stessa si mantiene e si riproduce, trasformandosi
immutata nel movimento dei contrari, perché "ente impartibile e fuor di
qualsivoglia dimensione"22, significa in definitiva fare della
resurrezione dei morti la regola del vivere quotidiano, e ciò è proprio di una
visione magica del mondo. Invece la resurrezione è un miracolo: essa non mostra
alcun ritorno ma una nuova creazione da parte di Dio. È l'onnipotenza di Dio
che ci trae dal nulla della morte, dal nulla in cui la materia di cui siamo
fatti cade con la morte23.
L'immanentismo è costretto a
negare la realtà della morte, la sua presenza fisica, risolvendola in un
momento logicamente necessario del processo vitale della materia, intesa come
sostanza eterna ed increata; un momento che rappresenta il contrario o
l'opposto, "l'opposizione" grazie alla quale ciò che è - il tutto, la
natura - si mantiene come causa sui24. La morte, come evento fisico,
non è dunque il dissolversi nel nulla di una parte determinata del tutto ma un
ritorno al tutto, che sarebbe uno proprio grazie a questo ritorno, perché con
esso si dimostrerebbe che le parti del tutto non vengono mai effettivamente
meno ma si rinnovano in eterno grazie alla compenetrazione dei contrari, al loro
reciproco trasformarsi l'uno nell'altro. Ma il ritorno della parte e dell'ente
al tutto ossia l'affermazione che la morte è mera trasformazione di ciò che non
muta (la sostanza universale) senza che nulla vada mai perduto, per cui la
parte non viene affatto distrutta in quanto parte della sostanza universale;
questo ritorno deve esser inteso come un fatto, anzi come il fatto per
eccellenza, perché è quello che permette di concepire il tutto come l'uno. Ma
questo fatto, che non può essere empiricamente provato, dovrebbe dimostrare
l'eternità della materia mentre
21Hamlet, act IV, sc. I.
22BRUNO,
De la causa, principio et uno, cit.,
p. 127, ad esposizione del concetto plotiniano della materia.
23Ezech., 37,1-10; I Cor., 15,52.
24 SCHELLING,
Esposizione dell' empirismo fil., tr.
it. cit., p. 275.
in realtà la presuppone come postulato o atto di fede: poiché la
materia è eterna ed increata, allora la morte non può essere altro che
un mantenersi della materia nel rinnovarsi delle sue forme. Di conseguenza, il
fatto del ritorno al tutto mediante la morte, risulta esso stesso da un atto di
fede, è in realtà un atto di fede omologo a quello nell'eternità della materia.
Già per questo motivo, la concezione opposta, secondo la quale la materia
sembra sempre la stessa, nell'equilibrio di un ordine universale, non perché
ritorni e quindi resusciti dopo ogni morte ma perché viene di nuovo creata ogni
giorno, in adempimento alle leggi che la Causa Prima ha posto nella natura,
quando l'ha creata dal nulla; questa concezione conserva tutta la sua legittimità.
5. La definizione dell'uno
Se il tutto in sé e per sé non può esser concepito
come l'uno, bisogna allora ammettere, per logica conseguenza, che il concetto
dell'uno non potrà determinarsi in relazione a quello del tutto.
L'antica identificazione del tutto con l'uno, vessillo di ogni forma di
immanentismo e panteismo, non si può accettare a causa della natura ambivalente
del tutto, che permette di ricomprenderlo solo in parte nel concetto
dell'uno. Ma il tutto non può essere l'uno solo a metà: o lo è o non lo è. Ne
consegue che l'uno dovrebbe definirsi solo in relazione a se stesso, senza
tentare di identificarlo con il tutto.
Ma come definiremo l'uno? È
possibile una sua definizione intrinseca? E possibile definire l'uno in sé? Una
definizione dell'uno, che risulta per inferenza da quanto finora detto e nello
stesso tempo si colloca nel solco della tradizione, è per noi la seguente: l'uno
è ciò che non ha parti e non è parte, eppure è25. Se
l'uno avesse parti, sarebbe come il tutto ed il suo concetto incorrerebbe nella
medesima aporia. E l'uno non può nemmeno esser parte di qualcosa altrimenti
sarebbe finito e non sarebbe più l'uno ma parte, uno del numero od empirico,
forma del molteplice. Del tutto, possiamo dire che non è parte di nulla,
altrimenti non sarebbe il tutto, mentre dobbiamo dire che consta
necessariamente di parti, senza le quali non sarebbe. Si vede allora, di nuovo,
come l'uno differisca dal tutto proprio in ordine alla necessità del risultare
composto di parti, cosa che per l'uno deve esser negata per definizione. Ma
tutto ciò che è, come può non esser parte di qualcosa? E quindi, se l'uno è,
come può sfuggire all'esistenza delle parti? Non sembra infatti possibile che
ciò che è sia tale da non constare di parti o da non esser parte di qualcosa.
25Per
tradizione intendiamo gli elementi del concetto dell'uno, così come sono
stati elaborati dalla metafisica occidentale, in special modo nel platonismo e
nel neoplatonismo.
La definizione dell'uno, quale si ricava per esclusione da quella del
tutto, sembra quindi rendere l'uno incomprensibile perché vuole
attribuire il predicato dell'essere a ciò che, non avendo parti e non essendo
parte di nulla, sembra non potersi trovare in nessun luogo. E senza
l'estensione, come possiamo concepire l'essere? Ché tutto ciò che esiste è
parte della materia o dello spazio in quanto tale.
a. Per sfuggire a questa difficoltà, si potrebbe allora ricondurre il concetto
dell'uno a quello del tutto nel seguente modo: se l'uno non è il tutto, eppure
è, allora è nel tutto, perché ciò che è, se non è il tutto, non può
comunque non essere nel tutto. Ciò che fa parte dell'essere, è parte
del tutto, poiché l'essere non può essere al di fuori del tutto. Ma dire che,
se l'uno è, è necessariamente nel tutto, altro non significa se non affermare
una verità riferibile solo all'uno empirico, cioè alla parte: con
uno empirico o uno del numero, definiamo infatti la parte, in quanto sia ente
determinato, nello spazio e nel tempo. L'uno del numero è l'ente determinato,
che è parte del tutto (cfr. § 9). Anche inteso come puro numero, l'uno è
sempre la quantità di un tutto, perché l'esser-numero risulta dal potersi
aggiungere o sottrarre, moltiplicare o dividere: dall'esser una quantità
determinata, che concorre a formare un intero. Né si può ritenere che l'atomo
sia l'uno per via della sua indivisibilità. Se si ritiene che esista una
quantità ultima della materia, quella che non può ulteriormente dividersi,
perché rappresenta il minimo in senso assoluto, siffatta quantità è pur sempre
quella di una parte, di qualcosa che è nel tutto ed il cui movimento
concorre a formare gli enti che sono nel tutto. Si può pensare di togliere
all'atomo la qualità ma non può esser concepito come una grandezza priva di
quantità. E questa quantità è necessariamente determinata, differenziata
rispetto a quella degli altri atomi e del tutto. Non può perciò esser l'uno.
Affermare che l'uno, se è, è giocoforza nel tutto, non
risolve perciò il nostro problema, che nasce dalla negazione (per manifesta
contraddittorietà) della proposizione speculativa che identifica il tutto con
l'uno. È evidente che siffatta identità non è dimostrata dall'asserzione che
l'uno, se partecipa dell'essere, poiché l'essere non può separarsi dal tutto,
deve concepirsi all'interno del tutto. In tal modo, ridurremmo infatti
l'uno ad una parte del tutto, perché ciò che è nel tutto non può identificarsi
con il tutto in quanto tale. Ma, come si è detto, l'uno non può esser parte di qualcosa,
senza negarsi in quanto uno.
b. Si potrebbe poi
sostenere, secondo un'opinione non meno tradizionale della precedente, che la
definizione dell'uno in sé, separato dal tutto, è in realtà la definizione dello spazio, perché dello spazio
in quanto tale, volendone cogliere il concetto, dobbiamo dire che non ha
parti e non è parte di alcunché. Lo spazio in sé, la pura estensione o
grandezza senza quantità, è infatti sempre uniforme ed uguale a se stesso, e
non risulta né costituito né contenuto da qualcosa. Il concetto dell'uno si
applicherebbe allora a quello dello spazio. Tuttavia, se è evidente che lo
spazio in quanto tale non ha parti, che appaiono in esso come luoghi ad opera
degli enti contenuti nello spazio - e se non fosse così, lo spazio non potrebbe
contenere ogni possibile forma; meno evidente è affermare che lo spazio è parte
del tutto. Ma va detto che, se non si può concepire il tutto al di là dello
spazio, tuttavia lo spazio non è il tutto, perché in quest'ultimo vi sono (per
limitarci alla realtà sensibile) anche la materia, l'energia e gli enti secondo
la loro forma determinata.
Sono proprio queste realtà, assieme allo spazio, al
tempo, al pensiero, a costituire il tutto: il solo spazio non è il tutto ma
solo uno spazio vuoto. Di tutto ciò che ha un corpo non diciamo che è
spazio ma che è nello spazio: il pieno e il vuoto concorrono a costituire il
tutto in modo diverso anche se complementare, come parti ben differenziate.
Quindi, se da un lato lo spazio coincide con il tutto, come pura estensione,
dall' altro ne è parte, perché l'estensione ha natura diversa - è
appunto lo spazio - da quella dei corpi che pur contiene e in sé e per sé ci dà
un'immagine parziale del tutto, come spazio vuoto. Il non-esser parte di
alcunché, sia pure nel modo che si è detto, non si può perciò considerare
valido per la definizione dello spazio, che per questo aspetto non può
coincidere con quella dell'uno. Va inoltre considerato che, se si dice che
l'uno è in realtà lo spazio, dal momento che lo spazio è sui generis parte del
tutto, si deve sostenere che l'uno è parte del tutto, il che è contraddittorio
con la definizione dell'uno, sia in sé che in relazione a quella del tutto. E
ciò che vale per lo spazio, vale qui, mutatis mutandis, anche per il tempo
(vedi infra, § 10). Va poi ricordato che lo spazio è una realtà fisica (se non
l'avesse, non l'avrebbe nemmeno il corpo che è in esso) mentre l'uno è al di là
di questa realtà, se ha l'essere senza avere l'estensione.
c. Se la definizione dell'uno non può esser risolta in quella dello
spazio, un'ulteriore obiezione alla sua validità, alla sua capacità di
costituire la definizione di una realtà effettivamente esistente ed
indipendente, può venire da chi sostiene che ciò che non ha parti e non è
parte, non è. Vale a dire: se ciò che non ha parti e non è parte, non è
in nessun luogo, allora non è in assoluto, perché se ciò che non ha un
luogo, non è nello spazio, come può far parte della realtà? e se non fa parte
della realtà, come può partecipare dell'essere? Se non può partecipare
dell'essere, allora non è.
La definizione dell'uno conterrebbe quindi
l'indicazione di una realtà inesistente rispetto all'essere.
E ci si potrebbe anche chiedere se essa non mostri addirittura una
definizione del nulla in assoluto: non del non-essere rispetto a ciò che
già esiste ma del non-essere in assoluto. Se ciò fosse vero, la definizione
dell'uno sarebbe allora del tutto assurda, perché invece di indicare ciò che
esiste in maniera perfetta, indicherebbe invece il non-esistente in senso
radicale, l'inesistente, il nulla. Senza discutere qui se l'idea del nulla sia
legittima nella sua pensabilità (vedi infra, § 8a), ci limitiamo in questa sede
alla seguente notazione: come si dimostra che ciò che non ha parti e non è
parte, non è? La dimostrazione sarebbe implicita perché risulterebbe in modo
autoevidente dalla proposizione stessa: dire che qualcosa che è, non ha parti e
non è parte di nulla, significa in realtà affermare che non è: se fosse,
avrebbe parti e sarebbe parte. Ma queste affermazioni si basano su di un
postulato: che tutto ciò che è debba essere nello spazio, che l'estensione
coincida con tutto l'essere, che insomma ciò che esiste sia solo la realtà sensibile,
determinata in un luogo. Solo sulla base di questo postulato possiamo infatti dire
che ciò che non ha un luogo, non è.
Se ciò fosse vero, dovremmo dire che questo stesso pensiero
che concepisce lo spazio e il luogo, non dovrebbe essere, dal momento che, non
avendo l'estensione, non dovrebbe avere l'essere. Tuttavia, il pensiero che
pensa l'estensione, indubbiamente è, pur non occupando alcun luogo, dal momento
che gli organi che mi permettono di pensare, non sono il pensiero. Senza
il luogo concreto della mia testa non penso, però questo stesso pensiero non è
determinabile secondo un luogo, non solo perché è invisibile ma anche perché
non è concepibile secondo una forma, un limite. Tant'è che noi non concepiamo una
prossimità spaziale per i pensieri ma solo una loro successione temporale: se i
nostri pensieri hanno un luogo, l'hanno nel tempo ovvero non ce l'hanno perché
il luogo appartiene allo spazio. Dunque essi hanno luogo, esistono, ma nella
successione temporale e fanno parte del tutto, anche se sono inestesi. Non
possiamo infatti concepire che il pensiero sia il tutto perché altrimenti
dovrebbe avere l'estensione, ed estendersi sino a coincidere con il tutto.
Quanto è grande o quanto è piccolo un nostro pensiero? Queste domande ci paiono
prive di senso poiché dei nostri pensieri possiamo determinare solo la qualità
(se sono giusti o errati, belli o brutti, e così via). E ogni riferimento
quantitativo circa la brevità o la lunghezza del pensiero, concerne non lo spazio
ma il tempo, la durata: un pensiero breve, fulmineo, prolungato, ripetuto. Ma
tutto questo dimostra che non tutto ciò che è ha l'estensione, che vi è una
parte dell'essere che non è estesa. Viene dunque meno il presupposto in base al
quale affermare che ciò che non è parte e non ha parti, non può essere.
d. Ci si chiede allora se la definizione dell'uno non si applichi in
realtà
al pensiero stesso, dato che il suo essere non coincide con
quello della realtà sensibile.
Possiamo forse dividere il pensiero in parti? Anche il concetto di un pensiero
singolo non è facilmente determinabile, stante la difficoltà di separare il
pensiero dal pensare, il contenuto del pensiero dalla capacità di pensare, il
pensiero pensato dal pensiero in atto. Il pensiero è dunque per noi qualcosa di
indiviso. Tuttavia noi non possiamo pensare due cose contemporaneamente ma solo
in successione, il che è come dire che il pensiero che si attua è una realtà discreta.
Ma ciò significa che i nostri pensieri sono i momenti tra loro separati di
una successione nella quale si trovano come la parte nel tutto. Dunque: se il
pensiero non ha parti è però parte, nella successione temporale dei
pensieri. Dovendo considerarsi parte, ancorché della sola realtà temporale, il
pensiero non può allora rientrare nella definizione dell'uno.
e. Una trattazione a parte meriterebbe poi la tesi, in vari modi formulata
dal pensiero moderno, secondo la quale l'uno sarebbe il mondo umano, considerato
come il risultato di se stesso. Il popolo, la società o lo Stato, il
potere sovrano sarebbero via via "l'uno-tutto"; oppure il genere
umano, l'umanità costituirebbero quell'unità che è propria dell'uno. Dal punto di vista
della definizione rigorosa dell'uno, va detto che nella concezione del popolo,
della società, del potere sovrano o del genere umano come l'uno, sono presenti
(dal punto di vista teoretico) tutte le difficoltà e le aporie messe fin qui in
rilievo a proposito dell'identità di tutto e uno. Il popolo, la società, lo
Stato, il potere sovrano, il genere umano, se appaiono costituire al loro
interno un'unità, nello stesso tempo la negano, perché sono composti di parti e
(tranne il genere umano considerato in astratto) fanno sempre parte di
qualcosa. Senza gli uomini e i cittadini non esistono, ma questi uomini e
cittadini sono gli stessi che distruggono l'unità del tutto cui appartengono,
quando non è il tutto a distruggere loro stessi.
All'idea di un tutto puramente umano e terreno si è
fin dall'inizio rivolto il pensiero moderno, concependo il tutto in generale
come uno, secondo una prospettiva immanentistica, cioè come sintesi di pensiero
ed estensione, una sintesi esistente ab aeterno, increata e perpetua
(quella sintesi che Spinoza chiama "Deus sive natura"). L'unità così
postulata si è venuta poi a dividere, come sappiamo, nei due opposti versanti
del materialismo e dell'idealismo, i quali hanno creduto di poter fondare
l'unità stessa dal loro proprio punto di vista. Ma l'esame di un simile, spurio
concetto dell'uno, è subordinato alla dimostrazione della pensabilità
effettiva dell'uno in sé, ovvero alla determinazione di quale realtà venga
effettivamente implicata quando noi postuliamo l'esigenza speculativa
dell'uno. Per meglio dire: per quale realtà è legittima la pensabilità stessa
dell'uno?
6. La definizione dell'uno si
applica solo a Dio
Nella definizione dell'uno si dà solo l'Uno, cioè Dio. Infatti, ciò che costituisce il contenuto
specifico di questa definizione è l'affermazione che si ha l'essere, pur senza
aversi l'estensione, l'estensione in senso assoluto, e quindi non solo di ciò
che ha parti ma neanche di ciò che è parte. E quest'idea dell'
essere senza l'estensione si può applicare all' idea che noi abbiamo
della Divinità. Anzi, solo alla natura divina rettamente intesa conviene
l'essere prima ancora degli attributi dell'essere, quali l'estensione e la materia-energia,
se Dio non può concepirsi che come "l'essere perfettissimo", cioè
come l'essere, ma in quanto sia privo di limiti ed imperfezioni, a
cominciare dalla finitezza delle parti, delle forme, delle sostanze, degli
enti, degli attributi. Dio può essere limitato da tutto questo o non ne è
necessariamente al di là? Quindi, se Dio è l'essere nella pienezza della sua
perfezione, si potrà ben dire che non solo non ha parti ma anche che non è
parte di alcunché. Ora, l'essere di Dio, se è perfetto, e quindi indiviso e
infinito, non può che concepirsi come anteriore all'estensione ossia alla
realtà intesa nella sua deteminazione fondamentale e primigenia, che è quella
dello spazio. Se, infatti, l'estensione è una realtà fisica, non può
esser pensata che come successiva all'essere di Dio, poiché un Dio che non
precedesse la realtà sarebbe la stessa cosa di quest'ultima, risolvendosi nel
tutto composto di parti, nella natura e nel suo ordine-disordine, come ne fanno
fede, tra gli altri, i panteismi di Bruno e Spinoza.
La res extensa non può perciò concepirsi come
predicato necessario all'essere di Dio: necessario, perché senza di esso
Dio non sarebbe pensabile. Infatti, si verrebbe in tal modo a negare la
perfezione dell'essere divino, poiché si concepirebbe come necessaria alla sua
pensabilità da parte nostra, l' imperfezione rappresentata dall'
esistenza spazio-temporale, ossia dall' esistenza di ciò che, come tutto,
appare dominato dalla contraddizione del contemporaneo essere e non-essere
delle sue parti (e proprio per questo non può concepirsi come uno).
Se l'essere di Dio deve pensarsi come assolutamente primo
rispetto all'universo, ciò non significa comunque separare Dio e mondo in
modo da rendere impossibile il concetto di una libera creazione del
mondo, di tutta la realtà da parte di Dio. La realtà è imperfetta poiché
in essa nascita e morte di ciò che la compone si implicano a vicenda ovvero
l'essere e il non-essere sono contemporaneamente, senza che la realtà dia in
quanto tale ragione di tale contrapposto e contraddittorio permanere (onde
essa ci appare nello stesso tempo finita e infinita). Inoltre, la realtà non dà
ragione nemmeno di ciò che in essa appare del tutto privo di contraddizione,
come lo spazio. Non possiamo dire, infatti, che lo spazio sia contraddittorio
in se stesso, che vi domini l'antitesi che governa la molteplicità, dato che
esso deve esser concepito come un'estensione sempre identica, in quanto
estensione.
Però lo spazio è in sé una realtà fisica ed in cui non appare alcun
principio intrinseco come forza creatrice o motrice. Come può allora dar
ragione di se stesso ossia, per esprimerci in altri termini, essersi posto
da se stesso? Può il vuoto creare qualcosa, compreso se stesso? Dunque,
anche lo spazio è una parte del tutto che non è autosufficiente dal punto di
vista del concetto, rimandando ad altro, a qualcosa che lo trascende.
Se quindi, a causa della separatezza della realtà da
Dio e della sua imperfezione e mancanza di ragion d'essere, diciamo che essa
non è stata creata da Lui, come se Dio non potesse di per sé colmare l'abisso
tra il Suo essere e l'essere della realtà, le attribuiamo un' esistenza eterna:
non potendo esser venuta dal nulla (perché "dal nulla nulla viene") e
non essendo stata creata, se ne deve concludere che esiste da sempre. Così però
attribuiamo alla res extensa il carattere dell'infinito e la comprendiamo nel
concetto di una realtà perfetta: l'infinito è infatti proprio di ciò che
è perfetto, come l'uno, in quanto essere che è senza le parti e senza essere parte.
Ma come è possibile attribuire il carattere della perfezione a ciò che è in sé
contraddittorio? o che non dà ragione di se stesso? E difatti, chi ha dichiarato
"per realitatem et perfectionem idem intelligo"26, ha
potuto farlo solo dopo aver identificato Dio con la natura, dopo aver
attribuito alla sostanza divina la necessità intrinseca dell'attributo
dell'esistenza del mondo, come se ciò che è causa sui potesse esser vincolato
ad esistere da ciò che per definizione non può mai esser causa sui, da
ciò che può esserne solo un effetto.
Se la definizione dell' uno in sé, che si ricava per
esclusione da quella del tutto, sembra dunque incomprensibile perché,
escludendo le parti dall'uno sembra escludere quest'ultimo dall'essere, essa
risulta tuttavia chiara e distinta se applicata alla definizione
di Dio, come essere perfettissimo, la cui esistenza non può come tale
esser quella della realtà spazio-temporale. Perciò, quando noi pensiamo il
tutto come uno, pensiamo qualcosa di indistinto poiché il tutto contiene
sia l'affermazione che la negazione dell'uno. Se invece separiamo il
concetto dell'uno da quello del tutto e lo riferiamo a Dio, otteniamo una
definizione chiara, in relazione alle premesse.
Tale chiarezza non sembra
offuscata dalla constatazione che la definizione dell'uno, se è un concetto in
senso proprio, ossia se esprime la natura o l'essenza della cosa,
indipendentemente dalla rappresentazione della stessa, sembra contraddirsi nel
momento in cui viene riferita a Dio. Infatti, mediante il concetto dell'uno
definiamo l'essere di Dio ma non la sua
26SPINOZA, Ethica, II, Defin, VI.
essenza: affermiamo che, mediante quel concetto, Dio è pensabile nel
Suo essere, senza poter determinare come questo essere sia in se stesso poiché
l'idea dell'essere perfettissimo ci indica solo l'esistenza di Dio (in che modo
dobbiamo pensarla) e non ancora la Sua natura od essenza. E quindi, il concetto
non verrebbe qui a stabilire la natura della cosa (Dio nella Sua essenza) ma
solo la Sua semplice esistenza, in quanto pensabile da parte
della mente in un concetto determinato, quello dell'uno come concetto dell'essere
perfettissimo. Ma un concetto che si limitasse a mostrare la pensabilità del
proprio oggetto, senza riuscire a coglierne la sua natura od essenza, non
sarebbe veramente tale, perché per suo tramite verremmo semplicemente a sapere
che una cosa è pensabile senza sapere ancora se sia, esista né come sia. Un
tale concetto indicherebbe la pensabilità e quindi la possibilità della cosa,
non ancora la sua realtà.
A questa difficoltà rispondiamo che non ci si propone
qui di elaborare un surrogato della prova ontologica dell'esistenza di
Dio, ma più semplicemente di mostrare come il concetto dell'uno, rettamente
inteso, non possa riferirsi ad altro che al concetto di Dio, concepito
come essere perfettissimo. Si tratta di delineare l'esatto ambito di applicazione
di un concetto. Quando affermiamo che il concetto dell'uno può applicarsi solo
all'essere di Dio, non intendiamo perciò sostenere che questa applicabilità (se
così possiamo dire) dimostri come tale l'esistenza di Dio; come se
dicessimo: poiché abbiamo il concetto dell'uno, ed esso si può applicare solo
all'essere di Dio, allora Dio esiste. Noi abbiamo anche il concetto
del nulla o del non-essere ma non per questo è dimostrato che il nulla o il
non-essere esistano. In realtà noi presupponiamo già la definizione di
Dio quale essere perfettissimo della tradizione metafisica cattolica,
l'unica che a nostro avviso abbia sempre cercato - nei suoi rappresentanti
ortodossi, dai Padri della Chiesa a S. Tommaso - di definire la Divinità in
se stessa, per ciò che Essa è in sé e non per il Suo rapporto con la
cosa creata, con il mondo o con il pensiero dell'uomo autodivinizzatosi nel
Logos.
E che quella tradizione sia
giunta a pensare Dio come l'ente di necessità anteriore a tutta la
realtà come tale, è fuor di dubbio. S. Agostino scrive, a proposito della
creazione: "neque in universo mundo fecisti universum mundum, quia non
erat, ubi fieret, antequam fieret, ut esset"27. Dio non ha
27
S. AUGUSTINI, Confess., XI, V. In tal modo si risponde alla domanda
"E allora dove si trovava Dio prima che esistesse l'universo?"
(GREGORIO NAZIANZENO, Oraz. 27,9 ne ID., I cinque discorsi teologici,
tr. it. C. Moreschini, Roma, 1986, p. 68). Si trovava presso di sé, senza
bisogno di uno spazio fisico, come se quest'ultimo fosse da ritenersi
necessario alla Sua esistenza di essere perfettissimo.
creato il mondo già dal mondo, ossia non ha creato l'universo da
un dove che fosse già l'universo o nell'universo. E
quindi: il dove di Dio non può essere quello dello spazio: Dio è anteriore
allo spazio e non lo si può concepire in altro modo. Non ha avuto bisogno
dello spazio per creare lo spazio. La nozione stessa di quantità, la
quantità delle tre dimensioni, riferita a Dio, è quella di una quantitas
virtualis, che non si lascia ridurre alle dimensioni dello spazio, in
quanto realtà fisica28.
Il concetto enunciato da S. Agostino sembra risentire
del neoplatonismo, avendo Platino detto che l'uno "non ha luogo, poiché
non gli occorre un fondamento, come se non potesse sostenere se stesso"29.
Tuttavia Platino, non riconoscendo un Dio creatore dal nulla, non esce dall' ambiguità
per ciò che riguarda il rapporto tra il concetto dell'uno e quello di Dio.
Se afferma che dell'uno si può dire solo che è e se sembra identificare l'uno
con il divino, non esita del pari a sostenere che "l'uno è più di
Dio"30. Ma l'uno non può essere "più di Dio". Invece,
il vero concetto dell'uno si applica senza contraddizione a quello
dell'essere perfettissimo ed anzi solo a quello: tale è la nostra
convinzione e con essa vorremmo riuscire a ribadire e, se possibile, arricchire
(anche solo indirettamente) la definizione di Dio della vera tradizione
cattolica.
Il concetto cui la mente giunge,
partendo dall'analisi della definizione del tutto come uno, non è dunque quello
di Dio ma dell'uno, definito nella sua essenza come ciò che è, senza aver parti
né esser parte. Ma questo essere è nello stesso tempo pensabile come essere di
Dio, dal momento che la sua definizione esclude a priori l'attributo
dell'esistenza sensibile, spazio
- temporale. Nel concetto dell'uno troviamo allora una definizione di
Dio, che però non può ancora darci né la dimostrazione dell'esistenza di Dio
(prova ontologica) né il concetto di Dio. Infatti, nel concetto dell'uno non
sappiamo ancora come sia Dio in sé (quid sit), nella Sua essenza, ma
solo che Egli è (an sit), in quanto pensabile come l'essere perfettissimo31 . Nel
concetto dell'uno abbiamo un concetto che ci offre la pensabilità dell'
essere di Dio, come qualcosa di legittimo. (E oggi si nega anche questa
pensabilità perché si ritiene che l'esistenza di Dio sia indimostrabile, sia
cioè impossibile a determinarsi come esistenza necessaria da parte della recta
ratio - e questo lo si pensa perché in verità si nega l'esistenza stessa
della recta ratio, equiparando l'uomo all'animale).
28 Summa Theol., Ia ,q. 3,l.
29 PLOT., Enn. VI,9,6, tr. it. cit., p.
1351.
30 Op. cit., p.
1349: "πλέον ἐστί"; nonché Enn. V,3,14; 5,6.
31 Summa Theol., Ia , q. 2,2.
Al compiuto concetto di Dio possiamo poi giungere solo
mediante l'apporto di Dio stesso (se così possiamo esprimerci) che integra con
la Rivelazione la nostra definizione metafisica, limitata alla pensabilità del
Suo essere: infatti la natura di Dio può esserci resa nota solo da Dio,
anche se di per sé non si distingue e non si separa in alcun modo
dall'essere di Dio32.
7. Dire che l'uno è Dio non
significa affermare che Dio è unico
Dobbiamo poi chiarire un altro punto. Quando diciamo
che l'uno è Dio, nel senso fin qui illustrato, non intendiamo affermare che Dio
è "uno" ossia "unico", così come sostengono i monoteismi
non cristiani, dal momento che quest'ultima affermazione ha, come è noto, un
significato non metafisico ma teologico, poiché con essa non si vuole
esprimere la pensabilità dell'esistenza ma il quid sit, la natura di
Dio, così come Egli (secondo questi monoteismi) ce l'avrebbe rivelata, vale a
dire in modo da escludervi la possibilità stessa della Sua Trinità. Con quella
affermazione, al contrario, si vuole mostrare che l'unico significato che
il concetto dell'uno in sé può avere per la mente, in quanto puro concetto,
è quello di contenere la definizione dell'essere perfettissimo di Dio e proprio
a causa dell'impossibilità di applicarlo all'essere in quanto determinato
nell'esistenza e nella materia, ovvero al tutto in quanto composto di parti.
Tale concetto esprime quindi - ripetiamo - la pensabilità dell'essere di Dio
senza dirci ancora nulla sul mistero numinoso della Sua natura, che possiamo
conoscere solo per quanto di esso sia piaciuto a Lui rivelarci, e in definitiva
non contraddice in nulla una Rivelazione in cui l'unità della natura di Dio sia
stata testimoniata nel mistero delle Tre Persone uguali e distinte, nella
Santissima Monotriade.
La disputa circa la vera natura
o essenza di Dio è quindi un confronto tra vera e falsa rivelazione:
è una disputa religiosa, nella quale la metafisica può solo stabilire
determinati presupposti teoretici. Così essa potrà senz'altro ribadire
la distinzione tra metafisica e teologia, indispensabile alla chiarezza delle
definizioni e dei concetti, e cercare di mostrare fin dove il pensiero possa
spingersi per stabilire l'esistenza di Dio, in quanto contenuto necessario di
un concetto, cioè in quanto pensabile. Infatti, la convinzione che la
natura unica di Dio sia tale da escludere a priori la trinità
consustanziale delle persone divine non può essere dedotta dal concetto
di Dio come lo può concepire la ragione, se è vero che con questo concetto non
possiamo far altro che postulare l'esistenza di Dio quale esistenza
necessaria dell' ente perfettissimo.
32 Op. cit., ivi, q.
3,4.
La negazione della S.ma Trinità non può perciò avvenire per via
metafisica, come ha tentato di fare Spinoza nella sua difesa dell’unicità della natura divina. Commentando
l’assioma “non esistono più dèi” egli afferma che se un ente, a causa della sua
perfezione, implica la sua esistenza come necessaria, quest'esistenza è per ciò
stesso unica perché non può porsi contemporaneamente come esistenza di altri
enti, costituiti dagli altri dèi, ugualmente perfetti33. La
perfezione di Dio deriva da Dio stesso e non può essere altrimenti. Se si
ammette che esistono più dèi, si ammette l'esistenza di "più enti sommamente
perfetti", il che è assurdo. Dovendo tutti esser onniscienti, verrebbero
infatti a conoscere anche gli altri enti perfetti. La perfezione di ciascun
Intelletto divino non dipenderebbe allora solo da se stessa ma anche da quella
degli altri, entrando così in contraddizione con se stessa. Se esistessero più
dèi, "l'ente perfettissimo" sarebbe perciò "imperfetto".
Esiste quindi "un unico Dio"34.
L'unicità di Dio vuoi essere per Spinoza il presupposto
della Sua unità35
intese entrambe come concetti, non come dati offerti dalla Rivelazione. Ma
il ragionamento di Spinoza, se può valere contro il politeismo, non vale contro
il dogma cristiano perché le tre persone della S.ma Trinità né si pongono né
sono concepite come enti ma per l'appunto come persone che
partecipano allo stesso modo della medesima natura, che è quella divina dell'unico
ente, cioè Dio. In tal modo la Chiesa ha ritenuto di definire il dogma,
ossia la verità rivelata da Dio in ordine al mistero della Sua natura, una
verità dapprima adombrata nell' Antico Testamento e poi manifestata
apertamente, in modo sensibile, nel Nuovo, ma pur sempre infinitamente
eccedente le limitate capacità di comprensione e definizione della mente umana.
Per il Cristianesimo, cioè per la S. Chiesa, Dio è certamente unico, perché
la Rivelazione ci mostra che non esistono né potrebbero esistere altri dèi36;
ma questa unicità di Dio ci si mostra nello stesso tempo (sempre ad opera della
Rivelazione) secondo il mistero di una natura divina che si sostanzia nelle Tre
Persone uguali e distinte.
33 Principia
Phil. R. Cartesii, I, XI propos., in BENTO DE SPINOZA, Emendazione
dell'intelletto, Principi della filosofia cartesiana, Pensieri metafisici, tr.
it. E. De Angelis, Torino, 1962, pp. 144-5.
34 Cogitata
Metaph., Il, cap. II, tr. it. in BENTO DE SPINOZA, Emendaz.
dell'intelletto, etc., cit., pp. 264-5.
35 Op. cit., ivi.
36 Rom., 3,29 SS.: "An Iudaeum
Deus tantum? Nonne et Gentium?
Immo et Gentium. Quoniam quidem unus est Deus, qui iustificat circuncisionem ex
fide, et praeputium per fidem"; 16,27: "soli sapienti Deo, per Iesum
Cristum, cui honor, et gloria in saecula saeculorum".
Questo sostanziarsi nelle Tre Persone non è un dividersi dell'ente
unico in più enti ma il modo di essere dell'unico ente, quel modo di
essere per il quale le Persone sono consustanziali all'Ente stesso.
Ma l'uso di questi concetti - l'ente, la sostanza, il
modo di essere - è applicazione di categorie della mente, elaborate per
cogliere la verità dell'essere, a ciò che Dio ci ha voluto rivelare della Sua
natura, un uso giustificato dallo sforzo di comprendere e definire nel miglior
modo possibile (e quindi secondo concetti) la Verità Rivelata, contro gli
eretici ed i nemici della fede. Non si tenta perciò in alcun modo di dedurre da
essi concetti la natura o l'essenza di Dio, trascurando la verità
rivelata, che è invece l'unica che possa effettivamente illuminarci in
proposito. Correlativamente, la negazione della validità di questi concetti per
ciò che riguarda la loro capacità di farci comprendere il mistero della natura
divina a noi rivelatasi, vale a dire la negazione del dogma della S.ma Trinità,
non può aver luogo contrapponendo concetto a concetto, una metafisica ad
un'altra, ma solo contestando l'interpretazione delle Sacre Scritture da un
lato e la verità dei fatti testimoniati nel Nuovo Testamento dall'altro. Si
tratta quindi di una disputa essenzialmente religiosa (come si è detto),
in cui la vera e le false religioni si contrappongono, così come la verità
all'errore, sulla base della vera e della falsa interpretazione di ciò che è
stato testimoniato nelle Sacre Scritture, cioè nell' Antico e nel Nuovo
Testamento. (E parliamo di vera e falsa interpretazione perché le tre grandi
religioni monoteistiche, escludendosi a vicenda nelle loro verità fondamentali,
per ciò che riguarda e il dogma e la morale, non possono essere tutte e tre
vere: per la contraddizione che non lo consente, una sola lo sarà).
I limiti rispettivi della metafisica e della teologia
ci sembrano quindi sufficientemente definiti in relazione al loro oggetto. La
prima può solo dimostrarci la necessità razionale di dover ammettere l'esistenza
di Dio. A questo proposito, il concetto dell'uno, come concetto dell'ente
che è, pur non avendo parti e non essendo parte di nulla, ci può fornire,
come si è detto, un concetto il cui significato può esser proprio quello di
ammettere per noi la pensabilità dell'esistenza dell'ente perfettissimo, cioè
di Dio. Se invece tale concetto vuole andare oltre i propri limiti; se con esso
non ci si vuole fermare alla pensabilità dell'esistenza di Dio come κατηγορειν
cui la ragione non può sottrarsi; se si vuole invece andare oltre, per
il desiderio di riuscire a dedurre metafisicamente la natura stessa,
l'intima essenza della Divinità, allora si rischia di cadere nello
spinozismo, perché in sede filosofica il tentativo forse più ardito di
concepire l'unicità di Dio quale concetto della natura stessa una
di Dio (cioè come contenuto di una mera deduzione metafisica) viene proprio
da Spinoza, dal pensatore nel quale le componenti gnostiche dell'Ebraismo si
manifestano e si affinano nella forma più radicale, contribuendo a quell'immanentismo
rigoroso proprio del vero ateismo. E per componenti gnostiche intendiamo
la propensione ricorrente nell'Ebraismo a negare la creazione del mondo dal
nulla ed a confondere Dio con il mondo, non solo nell'idea di un Messia che
realizzi il regno di Dio in terra ma anche nel modo stesso di intendere
l'etica, quale insieme di principi sottoposti ad un'applicazione rigorosa ma
alla cui radice manca una netta distinzione tra il naturale ed il sovrannaturale.
Riprendendo nell'Ethica il
concetto dell'unicità di Dio, Spinoza scrive: "Hinc clarissime sequitur: I°
Deum esse unicum, hoc est (per Defin. 6) in rerum natura non nisi unam
substantiam dari, eamque absolute infinitam esse"37. Da dove
traiamo la conseguenza, logicamente ineluttabile, che Dio è "unico"?
Dalla constatazione che nella realtà può esserci una sola "sostanza
infinita". Ma questa "sostanza" non è Dio come ente, la cui
perfezione lo fa essere ciò che è, indipendentemente dal mondo e prima di esso.
La "sostanza infinita" nel senso di Spinoza non può prescindere dal
mondo ossia dall'estensione: essa consta di pensiero ed estensione, dei due
termini o modi del dualismo cartesiano, che Spinoza vuole ricondurre ad unità,
di contro ad ogni trascendenza. L'unicità di Dio è dunque l'unicità della
realtà, cui viene riconosciuto un carattere infinito ed increato, perfetto.
Spinoza non ritiene che l'unicità di Dio possa prescindere dall'estensione
perché non ritiene che simile prescindere sia consono alla perfezione della
sostanza infinita, che è causa sui. Se vuoi esser perfetta, la
"sostanza infinita" non può non esser fornita del predicato
dell'estensione e ciò naturalmente senza bisogno di alcun atto di creazione. Ma
se la realtà è un attributo necessario di Dio non si dirà allora che Dio
ha dovuto crearla, ma, più semplicemente, che Dio altri non è se non la
realtà ovvero la natura: "Ostendimus enim in Primae Partis
Appendice, Naturam propter finem non agere; aeternum namque illud et infinitum
Ens, quod Deum seu Naturam appellamus, eadem, qua existit, necessitate
agit"38. Ma cosa è rimasto, in questa prospettiva, dell'unicità
di Dio? dell'Uno trascendente e creatore? Assolutamente nulla: l'unicità di
Dio è ora quella della Natura, la nuova divinità. A tale aberrazione giunge il
pensiero quando si spinge al di là dei propri limiti e cerca di dedurre
razionalmente, con le sue sole forze, la natura stessa di Dio. (Per la critica
a Spinoza, cfr. il § 13 del presente lavoro).
37 SPINOZA, Ethica, I, prop. XIV, cor. I, nonché la
Appendix alla prima parte.
38 Op. cit., IV, Praefatio.
II. Metafisica della parte
Il tutto
come semplice somma di parti
Definizione della parte: il problema
La parte e
l'ente
La definizione della parte non è unitaria
Quali sono le
parti del tutto
Il tutto come Sostanza
METAFISICA DELLA PARTE
Muovendo dalla domanda, se sia lecito identificare il
tutto con l'uno, il discorso ci ha condotto alla pensabilità dell'esistenza
di Dio, quale conseguenza necessaria dalle premesse. Ragionando per esclusione,
siamo infatti giunti alla conclusione che il concetto dell'uno ha un
significato chiaro solo se in esso è contenuta la definizione di Dio, non nella
Sua natura ma nella Sua semplice esistenza; non per come è, in sé, ma per il
solo fatto di essere.
Questo punto di approdo può sembrare a molti lontano da
quello di partenza; addirittura illegittimo a chi non riconosce alcun
fondamento al concetto dell'uno. Un modo di risolvere gli ardui problemi posti
da quel concetto può infatti consistere nel considerarlo un mero flatus vocis o
una semplice chimera della mente. Così ragionano quelli per i quali il tutto
deve concepirsi come semplice somma di parti, all'insegna di una
concezione empirica e meccanicistica della realtà, che esclude a priori
l'esistenza di un fine che operi nella natura trascendendo il tutto e quindi
qualsiasi trascendenza metafisica dell'uno nei confronti del tutto. Per costoro
il concetto dell'uno non è un concetto necessario, non risultando in
alcun modo dall'esperienza, la quale non ci permette di andar oltre il finito e
quindi oltre l'unità o unione delle parti del molteplice. Questi
ultimi concetti sarebbero, infatti, il massimo di astrazione concesso alla
mente per cogliere il significato delle parti in relazione al tutto, sulla base
dell'esperienza.
Ma si tratterebbe sempre di un'unità empirica, che
non presuppone né il tutto né l'uno come principio o idea di cui possa esser
l'attuazione, un ' unità risultante dalla semplice somma e coesistenza delle
parti. E se questa unità desse vita in quanto tale ad un'individualità compiuta,
diversa dalle parti e anche dalla quantità rappresentata dalla loro somma;
quell'individualità non potrebbe comunque contrapporsi, come qualità nuova
e superiore, alle parti, restando invece vincolata ad esse da un rapporto di
tipo puramente quantitativo.
All'estremo opposto di coloro che ritengono il tutto
una semplice somma di parti, vi sono invece coloro che negano alla parte
un'effettiva autonomia nei confronti del tutto. Si tratta delle visioni organiche
della realtà, tipiche del panteismo e dell'immanentismo (contro le quali
vedi già il § 4 c di questo lavoro) e comunque di quelle Weltanschauungen secondo
le
quali ogni parte, e quindi ogni individuo, tutto ciò che è determinato
nell'ente, deve considerarsi nient'altro che una semplice emanazione o rappresentazione
temporanea del tutto, inteso come la sostanza o lo Spirito universali ed
infiniti (pensiero autocosciente o Logos).
In questa seconda parte del nostro lavoro
procederemo allora nel seguente modo: l) criticheremo la concezione empirica e
meccanicistica del tutto, contrapponendo ad essa la 2) nostra concezione della
parte, la metafisica della parte ovvero ciò che significhi l'esser-parte di
qualcosa, per contrapporci infine 3) alla negazione dell'individualità della
parte, tipica della filosofia della sostanza intesa come l'Assoluto eterno ed
increato.
8. Il tutto come semplice somma
di parti
Come si è detto, il tutto è l'unità delle parti che
costituiscono per noi la realtà, indivisa come tutto ma divisa nelle parti, per
cui il tutto è contemporaneamente nonostante le parti e grazie alle parti. Non
si può dunque prescindere da questa affermazione paradossale: che il tutto (ossia
la realtà) risulta della contemporanea esistenza dell'essere e del non-essere
delle sue parti, dal momento che esse nascono e vengono meno
contemporaneamente, in modo che il tutto non venga mai meno. Non sono mai le stesse
parti ad essere e non essere contemporaneamente nel tutto: ma le parti di
cui consta il tutto nascono e periscono (sono e non sono) onde si assiste a
questa continua nascita e a questa continua morte degli enti finiti che costituiscono
il tutto. La non esistenza del tutto potrebbe risultare solo dal venir meno di tutte
le sue parti: finché rimane qualcosa si ha una diminuzione delle
parti nel tutto ma non l'estinzione del tutto in quanto tale.
a. Il paradosso che siamo costretti ad ammettere per spiegare il rapporto
tra le parti e il tutto ci obbliga quindi a negare che il tutto sia uno e che
coincida con l'uno per definizione. Ma proprio per questo, secondo alcuni,
invece di ammettere che l'idea dell'uno possa applicarsi solo a quella di Dio
come essere perfettissimo, converrebbe sbarazzarsi dell' idea stessa,
contentandosi di concepire il tutto come semplice somma o insieme di
parti, come realtà finita che non presuppone alcun uno.
Infatti, una somma o insieme di parti non costituisce
necessariamente un'unità che trascenda le parti stesse e per così dire vi si
contrapponga. Del resto, quando noi pensiamo al tutto, non riusciamo a
rappresentarci una realtà che abbia una forma determinata allo stesso
modo del corpo umano o della terra. Se il tutto non è determinabile dal punto
di vista quantitativo allo
stesso modo dell'ente, a maggior ragione non si potrà concepirlo come
l'uno. Il tutto dovrebbe allora esser concepito come il
risultato di una semplice somma, di una coesistenza di parti che, come tale,
non rinvia ad alcuna realtà al di là di se stessa, mentre la spiegazione
delle leggi che sembrano governarlo dovrà ricercarsi esclusivamente nei rapporti
di tipo meccanicistico tra le
parti.
L'unità del tutto che qui viene ammessa è dunque l'unità meccanica delle
parti, in sé stesse finite e determinate. La parte è qui l'uno del numero o
empirico, che è sempre "comparatum ad aliud"39 perché non
esiste l'uno in sé ma Un uno in relazione ad un altro, che è il due, e
così via. Poiché il tutto è composto di parti, non esiste nulla che non sia
parte e quindi diviso e divisibile. Ma ciò significa che l'indiviso non
esiste, che non esiste cioè la qualità essenziale per potersi concepire l'uno
in senso proprio40. Il concetto dell'uno si può perciò ammettere solo
in relazione a quello della parte: esso esprime l'idea che una quantità è
separata dal rimanente, anche se solo mentalmente, perché non c'è - dal punto
di vista della conoscenza - una differenza effettiva tra divisione e
divisibilità. Si può perciò dire che il concetto dell'uno e quello della parte
siano identici, salvo per la differenza rappresentata dal fatto che nell'idea
della parte, oltre all'esser in relazione, c'è sempre l'esser-contenuto in
uno spazio più grande. Perciò, la parte è un che di "comparatum cum alio,
in quo ipsum continetur"41. La parte non sta mai da sola né lo
potrebbe, perché allora non sarebbe ciò che è. E l'esser in relazione e
l'esser-contenuto che si riscontrano nella realtà sono i medesimi che vengono
posti nel pensiero ossia nel conoscere in quanto attività calcolante, che
procede per somma e sottrazione. Infatti, "partes ergo facere",
seu partiri, seu dividere spatium et tempus, nihil aliud est,
quam in ipso aliud atque aliud considerare"42. "Considerare"
la realtà significa distinguerla in se stessa e quindi dividerla in parti anche
se solo ad opera del calcolo della mente: divisio non manuum sed mentis opus.
Le parti del reale e le parti poste in esso dal pensiero sono in sostanza le stesse
parti, anche se il pensiero può dividere a piacere il proprio oggetto,
moltiplicando o diminuendo il numero delle parti reali. La libertà di
calcolo del pensiero non incide perciò sul fatto che la divisione e la
divisibilità si possono concepire come l'unum et identicum, stabilendo una
sostanziale identità tra il pensiero e la realtà. Come la realtà, il
tutto, è in sé nient'altro che una somma di parti; così il
39
HOBBES, De Corpore, 7, 12 (tr. it. con saggio introduttivo a cura
di Antimo Negri, HOBBES, Elementi di Filosofia. Il corpo-L'uomo, Torino,
1972, pp. 151-2).
40
Op. cit., 7,6; tr. it. cit.,
p. 149.
41 Op. cit., 7,4; tr. it. cit., ivi.
42 Op. cit., 7,5; tr. it. cit.,ivi.
pensiero non fa altro che comporre e scomporre questa somma, è
esso stesso questo continuo sommare e dividere. Il pensiero e la realtà si
rispecchiano a vicenda come puro esser in rapporto di quantità determinate che
si sommano e si sottraggono a causa del movimento della materia, il quale
governa allo stesso modo la realtà e il pensiero.
Il tutto è dunque concepibile solo come somma di
grandezze finite, al cui essere viene assimilato anche l'essere del pensiero.
Occupando uno spazio, queste grandezze o corpi fanno sì che il tutto sia
la somma dei luoghi, senza che si dia mai interruzione nella continuità
e contiguità della materia. Dal punto di vista del tempo, il tutto è la somma
degli istanti, cioè delle parti in cui è divisibile il moto, in quanto misura
universale del tempo. Nel tutto non vi sono allora quantità indeterminate ma
solo determinate e finite, calcolabili mediante addizione e sottrazione,
il cui mutuo rapporto dipende dal movimento, dalle sue leggi e dal nesso di causalità.
Il tutto stesso, in quanto risultato di queste
quantità, sarà necessariamente determinato e finito, anche se di durata infinita.
In questa concezione si ha una sostanziale identità fra il tutto e le parti:
"itaque totum et omnes partes, simul sumptae, idem omnino sunt"43
al punto che la causa del tutto "ex causis partium componenda"44.
Il tutto non ha, in quanto tale, una causa sua propria, che lo faccia apparire uno
rispetto alle parti di cui è composto: la sua causa, la sua ragion d'essere
"si compone", è cioè costituita, dalle stesse cause delle parti. Solo
conoscendo queste ultime si potrà conoscere il tutto: non si va dal tutto (come
uno) alle parti ma da queste ultime al tutto.
b. Questa visione del
tutto e del suo rapporto con le parti, che noi abbiamo richiamato nella forma
particolarmente pregnante conferitale dalla metafisica hobbesiana, vuol
eliminare ogni possibile contraddizione non solo tra l'idea del tutto e quella
delle parti ma anche tra il pensiero e la realtà, ricorrendo al comune
denominatore rappresentato dal movimento della materia. È questo
movimento ad operare come ininterrotto disporsi e ricomporsi di parti in un
tutto, e poiché il pensiero è pur esso qualcosa di materiale - è immagine
prodotta dal movimento delle nostre parti interne a sua volta provocato dal
movimento della materia all'esterno - anch'esso dovrà concepirsi secondo la
caratteristica del moto della materia, che è quella del sommare e sottrarre materia
a materia, all'infinito ma per parti determinate.
43
Op. cit., 7,8; tr. il. cit., p. 150.
44 Op. cit., 6,2; tr.
il. cit., p. 126.
A questa concezione, che costituisce uno degli archetipi
della visione del mondo oggi dominante, al suo tentativo di risolvere
l'antinomia tra il tutto e la parte in una sorta di immanentismo meccanicistico
e aritmetico, possiamo opporre diverse osservazioni.
a. Innanzitutto, l'assimilazione del pensiero alla realtà mediante l'equiparazione
della divisione alla divisibilità cancella la differenza tra ciò che è in
potenza e ciò che è in atto e tra ciò che è possibile e ciò che è reale, il che
non sembra corretto. Se la divisibilità possibile è la stessa cosa della
divisione reale in atto, allora si dovrebbe poter giungere al nulla in atto
perché si può benissimo pensare di dividere la realtà in parti sempre
più piccole sino a giungere al nulla, al punto cioè in cui non c'è più nulla da
dividere. Ma questo pensiero, questo calcolo mentale, è smentito
dall'esperienza che ci mostra la dissoluzione delle cose (delle parti) nel
continuo permanere del tutto. Ciò significa che la divisibilità in potenza non
è mai la stessa di quella in atto e che il tutto non è la semplice somma delle
parti, dal momento che il venir meno (l'esser sottratto) delle parti non fa
venir meno il tutto, nemmeno in parte. L'identità così postulata tra il
pensiero e la realtà sembra poi misconoscere il carattere specifico del
pensiero, che è dato da una sua capacità intrinseca, autonoma rispetto
alla realtà esteriore della materia, al modo di essere di quest'ultima. La
capacità di sintesi del pensiero fa apparire una qualità e la qualità
non si lascia certamente spiegare con le aggregazioni atomistiche di somme e
sottrazioni: essa rinvia piuttosto all'idea di una disposizione ex natura,
preesistente ad ogni esperienza e quindi ad ogni calcolo in atto (su ciò infra,
§ 10c, 12a).
b. Va
poi osservato che, se le parti sono contenute nel tutto, l'idea della
somma non rende il senso dell'esser-contenuto perché dove c'è un contenente ed
un contenuto il primo è in genere anteriore al secondo e non è
costituito da esso. E se questa anteriorità non si può stabilire nel tempo, in
base ad un rapporto meccanico, quale quello della causa efficiente, la si deve
ammettere ipotizzando l'idea di un fine trascendente le parti ed il tutto
stesso, cioè l'idea di una causa finale. A riprova di ciò può valere la
considerazione che nell'ente compiuto, per esempio l'uomo, la causa di ogni
parte non ci permette di capire la causa del tutto. La "causa" del
fegato o del cuore o di un piede, astratta dal corpo di cui essi fanno parte,
ossia dall'ente che li comprende come un tutto, non ci dà assolutamente ragione
della "causa" né del tutto in sé né della parte, considerata in sé e
per sé. È muovendo dal tutto, invece, che comprendiamo la "causa" della
parte, non in senso meccanicistico ma finale. Naturalmente, il punto di vista
di Hobbes non è del tutto inaccettabile, nel senso che esso vale per
giudicare compiutamente delle azioni (per esempio dei singoli che
compongono la moltitudine, le quali possono essere "causa"
dell'azione della moltitudine come un tutto) e delle funzioni (per
esempio degli organi del corpo in quanto tali, che devono essere comprese anche
nella loro individualità). Ma non serve per comprendere l'esistenza stessa di
un qualsiasi ente, il suo venire in essere, perché non ne possiamo dar ragione
individuando la "causa" di ciascuna delle parti di cui in genere
consta: è invece la "causa" (finale) del tutto che può permetterci di
comprendere il perché dell' essere delle parti, dato che esse vengono in essere
per esser quelle parti in quel tutto (sul fine, cfr. § l0 c di
questo lavoro).
g. La realtà è costituita quindi dal numero, inteso non come potenza di una quantità originaria che
si riproduce secondo i rapporti e le proporzioni dei numeri ma come somma di
quantità determinate. Ma dove c'è somma c'è sottrazione.
Vale a dire: non c'è somma che non ammetta la sottrazione e quindi la
possibilità del venir meno dell'insieme dato dalla somma, in tutto o in parte.
L'esperienza in verità ci mostra che il tutto non viene mai meno: però questo nostro giudizio si basa solo sull'esperienza, onde non sappiamo se già domani la somma
delle parti che costituisce oggi il
tutto non si sarà scomposta e decomposta in modo tale da far venir meno il
tutto in quanto tale, da lasciare al suo posto il nulla. Questa è un'ipotesi
che una teoria, la quale concepisce tutta la realtà come mera somma di parti,
non può certo escludere. Se, infatti, tutto ciò che è, non è altro che somma di parti di materia, sarà nello
stesso tempo sottrazione di parti di
materia: si dovrà riconoscere che la sottrazione delle parti dal tutto ha la medesima realtà della
loro somma nel tutto. Ma, così come
non si può fissare nessun limite alla somma, se non quello che risulti dall'esperiènza,
cioè dal numero per noi infinito ma in sé finito delle quantità presenti nel
tutto - se infatti noi ipotizzassimo un limite prestabilito all'esserci delle
parti, dovremmo farlo dipendere da un principio che ha costituito il tutto in
funzione di quel limite e saremmo con ciò già al di là dell'idea che il tutto è
la semplice somma delle parti; allo stesso modo, non possiamo fissare alcun
limite alla sottrazione, che non risulti dall'esperienza. Ma l'esperienza non è altro che la
rappresentazione di ciò che è sempre accaduto, sino al momento della
rappresentazione stessa. Non possiamo perciò escludere a priori la possibilità
che un giorno la sottrazione delle parti dal tutto avvenga in maniera illimitata, ossia in modo tale da far
venir meno il tutto e noi stessi in quanto sue parti. Perciò, l'idea che il
tutto sia solo una somma di parti, non potendo escludere da questa somma la
sottrazione, deve concedere che quest'ultima può in teoria giungere sino al
nulla (allo zero assoluto, in quanto sottrazione) e che quindi questa somma,
come qualsiasi somma, può non essere.
Allora l'ipotesi dell'esistenza del nulla (per sottrazione di tutte le parti
del tutto) deve esser ammessa da una concezione che, volendosi basare
sull'esperienza più immediata, sostiene esser il tutto una semplice somma o
coesistenza di parti.
L'idea del nulla non può naturalmente esser comprovata
dall'esperienza, per ciò
che riguarda il tutto. Essa è una deduzione di tipo metafisico dalle premesse,
che mostra come la concezione in questione conduca di fatto ad una deduzione
(metafisica) dell'idea del nulla, mettendosi così in contraddizione con se
stessa, contraddizione dalla quale storicamente ha creduto di uscire con un
atto di fede nell'eternità della materia e del moto, come se le continue somme
e sottrazioni delle parli conferissero alla materia un equilibrio perenne,
senza inizio né fine. Del resto, l'ipotesi della annihilatio mundi o rerum
annihilatio (intesa correttamente e non alla maniera di Hobbes45,
che lascia sussistere il soggetto che calcola con la mente) porta a separare le
parti dal tutto e quindi conduce ad un vicolo cieco. Infatti, scomparendo tutte
le cose, scomparirebbe tutta la materia; e scomparendo tutta la materia, resterebbe
lo spazio vuoto, la pura estensione. Secondo molti46, il vuoto
tenebroso, l'abisso sarebbe il nulla (cosa che non si può ammettere perché
l'abisso è una realtà fisica - il vuoto è realtà fisica, non metafisica - e
quindi non può essere il nulla cioè totalmente inesistente; e se è una realtà
fisica che non dà ragione di se stessa, presuppone allora una realtà non
fisica, una sovranatura, che ne giustifichi l'esistenza). Ad ogni modo,
l'estensione vuota di ogni vita sarebbe il nulla perché il pensiero non può
concepire il venir meno dell'estensione come tale: per noi, al di là dello
spazio vuoto e privo di luce non c'è che il vuoto. Ma lo spazio, quando era
pieno, non era parte del tutto? Ora che è vuoto, perché dovrebbe cessare di far
parte del tutto? Cosa è mutato, nella sua natura spaziale? E difatti, non è
venuto meno lo spazio ma tutto ciò che era in esso. Se lo spazio come tale non
ha cessato di esistere, ciò significa che esso continua a far parte del tutto
come prima. Ma allora il tutto viene identificato con lo spazio, che non ha
parti ed è sempre uguale a se stesso, ed una sola parte (lo spazio), venute
meno tutte le altre, è diventata il tutto. Ma, se una sola parte può diventare
il tutto, il tutto non può essere la semplice somma delle parti. A meno che non
si voglia escludere lo spazio dalla somma delle parti che costituiscono il
tutto, ma questo è impossibile perché al posto dello spazio si dovrebbe
ipotizzare il nulla.
δ. Va poi osservato che una concezione del genere
finisce col dissolvere la nozione stessa di causalità. Il rapporto causale,
infatti, viene ad esser
45 Op. cit., 7,1; tr.
it. cit., pp. 145-6.
46 "'τὸ
γὰρ κενεὸν οὐδέν ἐστιν": "infatti, il vuoto non è nulla"
(MELISSO, Testimonianze e frammenti, ed. Reale, cit., pp. 386-7).
concepito in modo composito o circolare, come processo,
perché esso viene posto come: "summa sive aggregatum accidentium
omnium tam in agentibus, quam in patiente, ad propositum effectum
concurrentium"47. La causa è somma di quantità di materia che
subiscono l'attrazione o la repulsione reciproca, grazie al movimento continuo
della materia stessa. Ma il sommarsi e il sottrarsi delle parti non è colto
tanto nell'evento isolato, nell' atto, o nell' ente che lo pone
in essere, facendolo risaltare nella sua individualità; quanto piuttosto nel processo
che conduce ad un determinato effetto, un processo che consta di molteplici
elementi, tanto da includere anche il soggetto (il "paziente") sul
quale la causa efficiente agisce normalmente con il suo effetto. Infatti, la
somma delle quantità di materia, lo è degli "accidenti" che si
trovano "nell'agente e nel paziente", ovvero di tutto ciò che, come
qualità o modo di essere (gli "accidenti"), si trova e in chi agisce
e in chi subisce l'effetto dell'azione. Se ci sono tutti gli
"accidenti" necessari, non può non prodursi l'effetto; se ne manca
uno solo, l'effetto non si produce.
Se consideriamo per esempio la "causa della
luce", gli "accidenti" che bisogna individuare per poterla
definire sono: l. un oggetto che la generi (la fonte luminosa); 2. la
trasparenza del mezzo; 3. la buona disposizione degli organi del corpo di chi
la riceve (e questo "accidente" riguarda "il paziente",
colui che riceve l'azione della materia o forza); 4. il movimento intrinseco
dell'oggetto che produce la luce; 5. il movimento del nostro occhio, ossia come
è recepito dal nostro occhio il movimento che proviene dall'oggetto48.
Sommando tutti questi "accidenti", cioè la fonte luminosa, la
natura del mezzo, la natura dei nostri organi e il moto, si ottiene la causa
della luce: essa si ricava considerando sia il soggetto che sviluppa un
movimento, sia quello che lo riceve. Siffatta nozione di causa sembra dunque
essere composita, nel senso che è il risultato di una somma di elementi
diversi ed anche disparati fra loro. Che cos'è, allora, che conferisce unità
alla causa, così concepita? Il moto: il movimento è la vera causa.
Precisa infatti Hobbes che la causa della luce "conflata erit ex moto
continuo ab origine eius ad originem motus vitalis, cuius quidem motus vitalis
a motu illo adveniente mutatio est ipsum lumen"49.
L'unità del processo causale
risulta dunque dal "movimento continuo" che va dall'origine, con
la quale si indica l'agente che opera come causa (efficiente) in senso stretto,
all' origine del movimento nell'organo (l'occhio) che riceve il movimento che
promana dall'agente. Che cos'è allora la luce? In
47
HOBBES, De Corp., 6,10; tr. it. cit., pp. 133-4.
48 Op. cit., ivi; tr. it. cit., p.
134.
49 Op. cit., ivi; tr. it. cit.,
p. 135.
termini generali, che possono spiegare qualsiasi nostra
rappresentazione meccanicistica di un oggetto esterno, la luce è "il
mutamento del movimento vitale che deriva da quel movimento"; è il
"mutamento" del moto "vitale", cioè organico, interiore al
corpo dell'essere vivente, originatosi dal movimento di materia che l'ha
colpito dall'esterno, provenendo dalla fonte luminosa. Perciò la sensazione
della luce è prodotta in noi dal nostro "movimento vitale", che è
interno a noi, che ci colpisce dalla sorgente della luce (in termini moderni,
mediante energia che si costituisce per noi in onde o corpuscoli od in entrambi).
Perciò la luce, come nostra sensazione, è il modo in cui il nostro
"movimento vitale" è mutato o modificato dal movimento che promana da
una determinata origine esterna: essa non è altro che modificazione di
un movimento.
Ma perché Hobbes non si limita a dire, in modo più
semplice, che la causa della luce è la sorgente luminosa stessa? Perché sente
il bisogno di inserire nella causa del fenomeno anche il "paziente",
cioè anche il soggetto che lo registra come effetto, nella fattispecie
l'occhio? Il "paziente" non è forse il soggetto che subisce l'azione
della causa, dato che non è protagonista di un efficere ma si limita ad
un pati? e quindi non dovrebbe esser visto solo come risultato del
processo causale, che in esso si materializza come effetto, anziché esservi
incluso? Il fatto è che lo scopo cui mira Hobbes con il suo concetto di causa,
sembra esser quello di impedire quella regressio ad infinitum tipica della
causalità, in particolare di quella efficiente, il cui punto d'arrivo viene
fatalmente ad essere costituito, com'è noto, dall'idea di una causa prima come
idea necessaria per dare un senso al tutto, cioè dall'idea di Dio come di Colui
che deve necessariamente esser pensato all'origine del processo causale, quale
"motore immobile" o creatore del tutto. Il nesso di causalità
presuppone infatti che ciò che è causa sia sempre anteriore nel tempo a
ciò che ne costituisce l'effetto, dando così vita ad un processo all'infinito -
la ricerca della causa della causa - che può aver termine solo ammettendo l'esistenza
di un Ente che può esser solo causa e non mai effetto: un "aliquod primum
movens, quod a nullo movetur: et hoc omnes intelligunt Deum"50.
Una soluzione immanentista di questo problema
(soluzione che non vuol ricorrere all'idea di una causa prima cioè di Dio
creatore) consiste dunque nel concepire la causalità come un processo il cui
protagonista è il movimento con le sue leggi: un protagonista sempre interno
alla realtà data e alla realtà in generale. E difatti il movimento è concepito
come l'unica causa vera, effettiva di tutto: "causa universalis",
perché anche la "varietà di tutte le
50 Summa Theol., Ia, q.
2, a. 3.
figure" che si ritrovano nelle parti del tutto, le loro proprietà
o qualità, non sono prodotte altro che dal moto, per cui "nec motus aliam
causam habere intelligi potest praeter alium motum"51. Il moto
è quindi causa di ogni evento particolare, di ciò che riconduciamo ad un'azione
e quindi ad un movimento in senso proprio, ma anche del modo di essere (figura,
forma, qualità, peso) degli enti o corpi. Così concepito, il moto si sostiene da
se stesso e il principio della causalità, che su di esso si fonda, potrebbe
definirsi di tipo circolare perché il moto che di tutto è causa,
alimentandosi senza posa, ritorna sempre su se stesso. Sembra quasi di
trovarsi di fronte ad un'affermazione ante litteram dell' idea di un
"processo senza soggetto".
Ma il movimento in quanto tale - vien fatto di
osservare - come movimento senza sosta della materia, che si risolve
continuamente in altro movimento, è finito od infinito? Se esso,
dato che la materia si suppone increata, è infinito, allora la catena
delle cause non è destinata a restare aperta all'infinito? Se esso è invece
finito, allora non è esatto affermare ripetutamente che "il moto non
produce altro che moto": ci dovrà essere per forza di cose un momento ed
un luogo in cui il movimento deve cessare.
Tuttavia, Hobbes nega realtà all'infinito52.
Ma allora: se il moto è finito, deve fermarsi da qualche parte od originare da
qualcosa che non è moto, cose queste che Hobbes non ammette. Se è infinito, la
somma delle azioni e reazioni che chiamiamo causa, la causalità che si basa sul
movimento, resterà aperta e quindi non si troverà mai, per così dire, un
totale definitivo; il che è come dire che non ci si potrebbe mai fermare ad una
causa determinata di qualcosa ma bisognerebbe risalire ogni volta alla causa
prima, che per Hobbes viene di fatto ad essere il moto stesso, ovvero
la materia che si muove in perpetuo (ché un moto senza qualcosa che si muove o
che è mosso, è inconcepibile). In tal modo però il concetto della causa che
produce meccanicamente l'effetto, grazie ad un'azione quantitativamente determinabile
nello spazio e nel tempo, viene come a dissolversi nella contraddizione
di una causa universale (il moto) che deve essere contemporaneamente finita
ed infinita, senza poter essere, dal punto di vista di Hobbes, né l'una né
l'altra cosa.
Questa concezione del principio
causale vuole esprimere la causalità in generale, risolvendo in se
stessa le quattro categorie aristoteliche tradizionali. Hobbes poi distingue al
suo interno la causalità efficiente, che
51
HOBBES, De
Corp., 6,5; tr. it. cit., p.
128.
52 HOBBES, Leviathan, chap. 3: "Whatsoever we
imagine, is Finite. Therefore there is no Idea, or conception of
anything we call Infinite" (ed. Macpherson, Harmondsworth, 1968, p. 99).
per lui assorbe anche quella finale53 e quella materiale, ribattezzando la categoria
generale "causa autem simpliciter sive causa integra"54. La causa efficiente
e quella materiale sono "causae partiales, sive partes causae illius quam
proxime supra appellavimus integram"55. Entrambe sono sempre concepite come somma o
aggregato di parti, e le parti sono sempre costituite dagli "accidenti".
Si tratta di concetti che nulla hanno a che vedere con quelli di Aristotele,
perché la causa efficiente è qui nient'altro che l'aggregato degli accidenti
necessari alla produzione dell' effetto, che si trovano nell' agente stesso,
mentre quella materiale è data invece dalla somma degli accidenti che si
trovano nel paziente56.
Una volta prodottosi un determinato effetto, risaliti
alla causa, noi dobbiamo scomporre e ricomporre tutte le parti del tutto,
quelle che vediamo all'opera nella causa efficiente in senso stretto, nell' "agente",
e quelle che si mostrano invece nel "paziente". Ma queste due cause
sono a loro volta parti di una somma o aggregato costituito dal
movimento della materia, che è la causa vera o "integra". Ora ci si
deve chiedere: le somme degli accidenti nell'agente e nel paziente danno vita
nel loro ambito ad un'individualità ben definita? In altre parole: l'agente ed il
paziente costituiscono di per se stessi un' individualità, cioè un'
entità che sia qualcosa di più della mera somma dei loro
"accidenti"? Una qualità nuova che risulti per l'appunto dalle
quantità che si sommano? La risposta deve essere negativa, se è vero che lo
spirito della metafisica materialistica di Hobbes -come di ogni materialismo - è
sempre nel senso di dimostrare che ogni qualità non è che quantità. Perciò, la
qualità deve risolversi nella quantità, nella somma e sottrazione delle entità
finite della materia - ma la quantità non può diventare qualità, dal
momento che si ritiene che la qualità delle cose sia posta da noi, sia cioè
mera apparenza, creata dal modo in cui il movimento della materia agisce sui
nostri organi.
La causa efficiente e l'effetto
vanno dunque parcellizzati nei loro "accidenti", nel tempo e nello
spazio, sì da risolverli nel tutto rappresentato dalla successione o
somma che essi pongono in essere. Né, a maggior ragione, la causa
"simpliciter" o "integra", che risulta dalla somma della
causa efficiente con l'effetto, può, come tutto, dar vita ad una qualità
diversa da quella delle sue parti. Infatti, le quantità sono sempre le stesse
perché gli accidenti sono sempre gli stessi: e gli accidenti sono gli
stessi perché la causa è sempre la stessa, è il moto, nel cui ambito le cause
parziali
53 De Corp., 10,7; tr. it. cit., pp.
179-80.
54 Op. cit., 9,3; tr. it. cit., p.
171.
55 Op. cit., 9,4; tr. it. cit.,
p. 172.
56 Op. cit., ivi.
rappresentano non una qualità specifica ma solo il risultato parziale
di una somma. Il totale lo costituisce il moto nel suo complesso (la causa
"integra"), come totale meramente numerico degli "accidenti"
in cui via via trapassa. La categoria più generale della causalità, quella
della causa "integra", appare allora del tutto pleonastica o
descrittiva che dir si voglia, come è inevitabile per ogni entità che venga
posta come il tutto e nello stesso tempo identificata con il mero
aggregato delle parti che la compongono, senza avere un'individualità propria,
una sua qualità.
I due momenti concettualmente essenziali di ogni
rapporto causale - la causa e l'effetto - perdono in tal modo la loro
autonomia, la loro capacità di costituire un principium individuationis dell'accadere.
Il principio di causalità diventa un modus del movimento della materia, che non
ha né inizio, né fine, né scopo, dissolvendosi nell'indistinto ed
indeterminato, allo stesso modo che nelle filosofie organicistiche e
panteistiche. La causalità diviene un modo di essere puramente immanente alla
realtà, senza che si possa determinare con esattezza né il modo né il momento
in cui ciò che è causa sia tale rispetto all'effetto, perché nella continuità
universale del moto non è separabile alcun luogo né alcun momento come
effettivo inizio di qualcosa, anche nel regno dell'empirico-immediato. Nella
somma di parti che Hobbes chiama causa non si mostra alcuna causa finale, alcuna
intenzione, alcuna volontà, alcun nesso effettivo di causalità (quell' ingranarsi
reciproco della causa e dell'effetto che non si comprende senza l'idea del
fine), ma solo l'alternarsi di somma e sottrazione. Infatti, il venir
meno di un effetto o il non venire in essere di una causa, Hobbes li spiega con
il venir meno o il non esserci di uno solo degli accidenti dalla somma che deve
costituire la causa "integra": li spiega quindi ricorrendo all'idea
puramente quantitativa della sottrazione57. Mai a quella del fine, dato che egli, come si è detto, risolve la
causa finale in quella efficiente, privando così di effettivo significato anche
l'attribuzione di "proposto" che conferisce all'effetto, nella
definizione della causa.
In questa metafisica materialistica l'idea della somma delle parti è
considerata il comune denominatore di tutti gli aspetti del reale.
Difatti il tutto è la somma delle parti ma il rapporto causale, che dovrebbe
costituire l'elemento dinamico all'interno del tutto, è anch'esso - come si è
visto - nient' altro che somma di parti (onde sorge spontanea la domanda: la
causalità in che cosa si distingue, allora, dal mero esistere?). E l'operare
del pensiero non è altro che calcolare ovvero sommare e sottrarre.
Aspetti tra loro assai diversi e
che riguardano ora la materia ora lo
57 Op. cit., 6,10; 9,3-5, cit.;
tr. it. cit., p. 133, pp. 171-2 cit.
spirito, vengono tutti ricondotti ad un unico schema, ad un'unica
sempiterna quantità. Per comprendere la realtà (ogni realtà) bisogna quindi
scomporla in parti le quali, però, non sono tenute insieme da una forma e per
un fine: solo il movimento è ciò che le fa essere come parti di
un tutto; il movimento, cioè una realtà puramente materiale. Ma questa somma
dove inizia e dove finisce? Parti del tutto che sono pura quantità: sono
l'uno del numero senza distinzione fra diviso e divisibile; senza possibilità
che questo uno dei molti atomistico e separato possa esser ulteriormente determinato,
perché ogni determinazione è a sua volta divisibile in parti e quindi dissolta
nella divisione e nella somma con cui il pensiero la coglie; questa totalità di
parti come mero aggregato che il movimento aggiunge e sottrae all'infinito, è
essa stessa qualcosa di indefinito, un frazionarsi senza scopo. Non solo
il principio di causalità ma il tutto stesso, come realtà fornite di un
significato, si dissolvono. Perciò ogni forma si risolve in una somma di parti
mentre ogni parte è a sua volta somma di parti e tutto diventa indeterminato
(ἄπειρον) e perennemente molteplice, confondendosi in esso l'estremamente
piccolo e l'estremamente grande perché, a causa del continuo κερματίζειν, del continuo
suddividere e sgranellare, anche ciò che si prende come "il più piccolo
possibile" diviene in realtà "enorme", a causa delle parti in
cui può essere all'infinito diviso58 . Tali sono dunque alcune tra le
principali conseguenze negative, quando si considera il tutto come semplice
somma di parti, sul presupposto che l'uno non è.
9. Definizione della parte: il problema
La visione del mondo appena considerata non si limita a separare il
concetto del tutto da quello dell'uno ma mira a render superfluo il secondo
dopo aver tolto ogni fondamento, che non sia meramente quantitativo ed empirico,
al primo. Tuttavia essa non ci dice quali siano le parti del tutto ma solo
che è composto di parti, sì da esserne la semplice somma. Ciò che non è riconducibile
ad una quantità determinata, alla somma infinitesimale dei luoghi e dei corpi
che li occupano, non fa parte del tutto e quindi non è. Ma la logica del
discorso richiede che si determinino quali sono effettivamente le parti
del tutto. Quali sono e non quante sono, perché l'esser-parte, in relazione al
tutto, è una qualità che concerne determinate grandezze o quantità anche se tra
loro incommensurabili, perché possono esprimersi nel numero e nella
molteplicità (come la materia-energia) o invece prescinderne (come lo spazio,
il pensiero).
Così diciamo, per chiarire il
nostro punto di vista con un esempio, che
58 PLATONE, Parm., 164 D (tr. it. cit.,
pp. 414-5).
gli astri e gli uomini sono allo stesso titolo parti del tutto, senza
poter sapere quanti siano effettivamente gli astri e quanti gli uomini.
L'impossibilità di conoscere il numero in cui la quantità determinata si
divide, l'impossibilità di conoscere il numero di tutte le parti del
tutto, non fa venire meno la nostra capacità di determinare la parte nel suo
concetto. Cercheremo quindi di definire la parte, per vedere poi quali (e non
quante) siano quelle realtà parziali che costituiscono il tutto.
a. In prima approssimazione, diciamo che l'esser parte di qualcosa è
proprio di una grandezza che sia ricompresa in una maggiore. Su ciò
concordano il senso comune ed i pensatori più diversi. Così la definizione
sopra vista di Hobbes, secondo la quale la parte è ciò che viene
"comparatum cum alio, in quo ipso continetur" sembra uno sviluppo di
quella aristotelica, per la quale la parte, nel senso più generale del termine,
è "ciò che si toglie da una quantità in quanto tale", come ad esempio
nel caso del due rispetto al tre59. La definizione hobbesiana è
rimarchevole per la sua concisione: esprime non solo il carattere finito della
parte, mediante l'immagine dell'esser-contenuto, ma anche il suo esser in
relazione con ciò che la contiene. La parte, infatti, non può stare da sola,
altrimenti non sarebbe tale: lo è sempre di qualcosa, con cui si trova perciò
in una determinata relazione e per questo viene sempre ad essere un che di
"comparatum cum alio". Sulla natura di questo "alium" la
definizione non si pronuncia: esso può essere il tutto in generale (tutta la
realtà in quanto tale) o un ente che, rispetto alla parte, si pone come un
tutto e quindi come l'intero di cui la parte è parte.
L'esser-contenuto e l'esser-in-relazione sono due modi di
essere che esprimono una realtà ben determinata, finita. Di ciò che è contenuto
in altro possiamo infatti dire di conoscere l'inizio e la fine o meglio il limite,
costituito dall'inizio dell'estensione della grandezza maggiore. Questo
limite è contemporaneamente esteriore ed interiore poiché separa
la parte dal rimanente e quest'ultimo dalla parte: delimita quindi la parte
dall'esterno e nello stesso tempo la individua dall'interno, perché dove c'è il
limite si compie la forma di quella parte della realtà che il limite racchiude.
La parte ci appare quindi una grandezza determinata mediante la contiguità e
la continuità con la grandezza di cui è parte. E questo suo carattere
determinato risulta poi nell'aver essa necessariamente una forma, senza
la quale non potremmo distinguere ciò che è maggiore da ciò che è minore,
nessuna parte da un'altra né cose uguali tra loro.
59 Met., 1023 b: "'τὸ αϕαιρούμενον τοῦ ποσοῦ ἧ ποσοῦ"
(tr. it. in ARISTOTELE, Metafisica, a cura di A. Carlini, Bari, 19654, p.
198).
La discontinuità è invece propria di ciò che non fa parte di
qualcosa e se ne sta per conto suo senza che una forza lo mantenga in un rapporto
organico con ciò da cui si è separato. Ma ciò vale per i rapporti tra gli enti
non per quello tra gli enti e il tutto, di cui sono necessariamente parti.
Il contenere e l'esser contenuto fanno dunque apparire
una realtà determinata in una forma. Ma la forma determinata della parte, ci
permette poi di separare la parte dal tutto in cui è, non materialmente
ma per via d'astrazione, come se non fosse più in relazione con esso. In tal
modo la parte diviene unità di misura: τὰ καταμετροῦντα60.
Quest'ulteriore modo di concepire la parte - non dal lato della sua natura ma
da quello della sua funzione - possiamo vederlo implicitamente anche
nella già citata definizione hobbesiana, nella quale il "venir paragonato
a ciò in cui è contenuto" può benissimo valere come definizione di
un'unità di misura, le cui unità ripetute nella misurazione si rapportano al
misurato come la parte che è contenuta nel tutto, al tutto.
Concepire ora la parte come unità di misura significa
porre in primo piano un altro elemento rispetto a quello dell' esser-contenuto
e cioè l'esserdiviso. La parte esprime la divisibilità dell'essere, la
sua possibilità di esser diviso in unità uguali, mediante le quali misurare
l'essere nelle sue parti. In quanto è ciò che è contenuto, la parte
rappresenta la divisibilità di ciò che la contiene, non l'effettiva separazione
(che può naturalmente aver luogo); in quanto (mentalmente) separata dall'intero
o dal tutto, concepita come la forma di una quantità astratta, diventa a sua
volta ciò che divide in parti, diventa cioè unità di misura che si applica
dall'esterno, suddividendo il misurato nella somma e sottrazione delle unità di
misura. L'esser in relazione della parte al tutto viene così rovesciato: da
interno diviene esterno. Quando la parte è ricompresa nel tutto, allora
quest'ultimo è ciò che misura la parte e l'esser in relazione col tutto è una
forma che caratterizza la parte in quanto tale. Quando la parte è astratta dal
tutto, divenendone l'unità di misura, è essa a misurare il tutto, dividendolo
per astrazione (per calcolo mentale) in tante parti, quante sono date dalla
ripetizione di se stessa entro i limiti prestabiliti dalla cosa da misurare.
Come unità di misura, la parte è dunque parte
in senso figurato o per astrazione perché non fa parte di qualcosa, non
è contenuta o ricompresa in niente ma è la grandezza la cui quantità è astratta
da ogni contenuto e le cui unità - sommandosi e sottraendosi - permettono di
misurare ogni contenuto. Essa è l'uno del numero non in senso empirico
(concreto) ma in senso proprio, cioè come uno che è e può essere solo numero,
ossia un'entità la cui
60Met., ivi; tr. it. cit., ivi.
grandezza è concepita come sempre identica a se stessa e non
all'oggetto cui possa applicarsi (o di cui possa essere il segno). Infatti,
quest'uno non è l'uno della molteplicità ma quello dell'unità di misura, cioè
di una grandezza che è sempre identica nella sua molteplicità perché la
molteplicità è qui la ripetuta applicazione di se stessa cioè dell'unità nella
misurazione e non invece, come nella realtà, la semplice coesistenza di enti e
parti uguali o disuguali per grandezza, quantità e qualità. Questo uno, in quanto
numero, non ha quindi bisogno dell'altro per esser pensato: di un altro
uno in quanto numero ossia del due, come ritengono coloro secondo i
quali "ja die eine Eins fordert dann die andere Eins"61.
L'altro, il due, è in realtà lo stesso ossia è l'uno che si ripete; è
sempre la stessa unità che si moltiplica nella misurazione dando luogo ad una
molteplicità che risulta dalla perfetta ripetizione dell'uguale (della quantità
inizialmente costituita ad unità di misura).
La suddivisione del tutto secondo
parti che risultano da unità di misura non è quindi una suddivisione reale ma
solo pensata, che non corrisponde alle parti effettive del tutto, le
quali sono e restano parti perché sono in sé ciò che sono (perché ricomprese
effettivamente nel tutto secondo la loro forma) e non perché corrispondano
all'unità di misura creata dalla mente. E infatti, il variare delle unità di
misura è indipendente dal variare delle parti del tutto cui si applicano, dal
variare dell'oggetto. Come unità di misura, la parte è dunque una parte separata
dal tutto e ciò è in contraddizione con la definizione stessa
dell'esser-parte: qui la parte è diventata ciò che divide e riunifica misurando
c non è ciò che è contenuto. Ma la parte, non lo è sempre del tutto? "τὸ
μέροs που ὅλου ἐστιν", così come è vero che il tutto è ciò "cui non
manca alcuna parte"?62 Concepire l'unità di misura come parte,
non significa allora separare la parte dal tutto o, il che è lo stesso,
contrapporre al tutto reale un tutto solo pensato, costruito calcolando la
somma delle parti-unità di misura? E un tutto solo pensato, perché composto di
parti che risultano solo dal calcolo del pensiero, non è un tutto irreale? Ma,
se l'unità di misura non è parte, che cos'è? Tuttavia, come può l'unità di
misura non esser la parte in senso assoluto, l'assolutamente separata, la
grandezza che si definisce nell'unità che riduce il tutto alla misura di se
stessa? Esiste allora una parte del tutto ed una che invece la misura, in cui
si esprime l'idea di una grandezza separata dal tutto. Ma può una grandezza non
esser parte del tutto? Non può, se tutto ciò che è, è nel tutto. Ma questa
grandezza è, in quanto calcolata, pensata. Bisogna dire, allora, che
essa fa parte di un intero costituito dalle misurazioni: la somma universale
delle misure costituisce
61RICKERT, Das
Eine, die Einheit und die Eins. Bemerkungen zur Logik des Zahlbegriffs, Tübingen,
19242,
p. 28.
62 PLAT., Parm., 137 C; tr. it. cit., p.
387.
il tutto al quale appartiene l'unità di misura.
b.
Nel definire il concetto
della parte, Aristotele sembra servirsi di fatto di due categorie: le parti di
ciò che ha quantità e di ciò che non ha quantità. Quest'ultima
categoria ricomprende "le parti in cui è divisibile la forma", la
pura forma (εἶδοs), "senza la quantità"63. E in questo
senso "le specie sono parti del genere"64. Similmente,
anche il concetto (λόγοs) è divisibile in parti, quel concetto mediante il
quale "si definisce ciascuna cosa", nel cui ambito ora il genere è parte
della specie ora quest'ultima lo è del genere65. Ciò significa
allora che esiste un tutto costituito di quantità, dalla quantità, ed un tutto
costituito di qualità, dalla qualità. La categoria di ciò che ha quantità,
oltre alla parte in senso stretto - ciò che si toglie o si divide da una
quantità qualsivoglia - e alla parte come unità di misura, comprende anche
"ciò di cui è costituito l'intero" anche se di natura diversa, come
nel cubo di bronzo il bronzo stesso e l'angolo che esso forma66. Ma
l'unità di misura può esser effettivamente considerata parte di ciò che
ha quantità? Si è visto che essa è in realtà il risultato di un far astrazione
dalla parte ricompresa nel tutto come quantità. Ma non per questo essa diviene
una qualità. Diciamo allora che la quantità si sdoppia in una reale ed
una pensata, che diviene l'unità di misura, per cui accanto al tutto delle
parti reali esiste un tutto delle parti pensate. Questo sdoppiamento della
quantità implica a sua volta uno sdoppiamento del tutto, in due tutti o in due
parti? Due tutti non possono darsi, bisogna allora affermare che il tutto si
sdoppia per noi in due parti, una visibile ed una invisibile, cioè
pensata. E quest'ultima non è al di fuori del tutto, se il pensiero è, a sua
volta, parte del tutto.
Attraverso lo sdoppiamento e la divisione si
riafferma dunque l'unità nel senso di poter concepire ciò che è parte sempre
all'interno del tutto, sia come parte della quantità reale che come parte
della quantità pensata, che come parte della qualità. Naturalmente, ciò è
possibile sul presupposto che il pensiero sia parte del tutto (cfr. § 5 d di
questo lavoro), allo stesso modo della quantità e della qualità.
L'articolazione e la suddivisione delle definizioni aristoteliche non fanno
venir meno il punto essenziale e cioè che la parte, quantità o qualità che sia,
lo è sempre di un tutto67 Anche la materia, in generale, è concepita
come parte: '' ἡ γὰρ ὓλη μέροs "68
: non tanto come
63 Met., 1023 b, cit.,
ivi; tr. it. cit., ivi.
64
Op. cit., ivi.
65
Op. cit., ivi.
66 Op. cit., ivi.
67 Cfr. Phys., 187 b e 214
b; tr. it. cit., pp. 12-3 e 97-8.
68Met., 1032 b; tr. it. cit.,
p. 249.
parte di qualcosa ma come sostanza che si dà sempre secondo una
divisione di parti, senza la quale non sarebbe possibile spiegare il divenire
che si mostra nella materia stessa. Il divenire presuppone che la materia
"preesista" ed "esista in" una parte che si sviluppa in un
risultato69. La parte della quantità è perciò nella materia come nel
suo tutto.
Il problema del rapporto fra la parte ed il tutto, che
si riflette poi anche nella definizione della parte, è dato dal nesso fra
sdoppiamento e ricomposizione. Vale a dire: quando cerchiamo di determinare
quali siano le parti del tutto, ciò dovrebbe avvenire senza che si crei una
nuova parte, cioè una parte che - dal punto di vista logico - non si lasci
ricomprendere nel tutto già dato, mettendo così in discussione la capacità di
chiusura del tutto (come concetto) ed aprendo un processo all'infinito (perché
la nuova parte rimanda ad un nuovo tutto che a sua volta implica nuove parti, e
così via). Ma che ciò sia possibile non è detto.
c. Questo problema è
stato di fatto posto da Platone, nel Parmenide, proprio all'inizio della
seconda ipotesi sull'uno, quella che non considera più l'uno in quanto uno
(l'uno in sé e per sé, separato dall'essere) ma in relazione all'essere.
L'uno in quanto uno è infatti concepito da Platone in maniera negativa, come
qualcosa di cui né si può dire che è uno né che è70 : e questo proprio in
conseguenza del fatto che, secondo il suo concetto, l'uno in quanto uno non ha
parti, non è in altro e non è un tutto71. Questo non esserci delle
parti nell'uno e questo non esserci dell'uno come parte in un tutto fanno sì
che dell'uno non si possa determinare alcun predicato: perciò esso non ha
forma, non è né in sé né in altro, né in quiete né in moto, né identico né
diverso, né simile né dissimile, né Uguale né disuguale, e non è nel tempo72.
Tutti questi predicati o modi di essere presuppongono infatti la divisibilità
in parti e la loro connessione in un tutto. L'aver i predicati della forma, del
luogo, del moto, etc. è proprio dell' essere, che quindi non è la stessa
cosa dell'uno in quanto uno. Se si vuol uscire dall'indefinibilità e
inconoscibilità dell'uno in quanto uno, bisogna allora considerarlo in rapporto
all'essere, cioè in quanto "partecipi dell'essere"73.
69 Op. cit., ivi; tr. it. cit., ivi.
Nella Fisica, 207 a,
Aristotele specularmente: "μόριον γὰρ ἠ ὕλη τοῦ ὃλου", "la parte
infatti è la materia dell'intero" (tr. it. cit., p. 75).
70 PLAT., Parm., 141 E.
71 Parm., 137
C-D.
72 Op. cit., 137 E -141 D.
73 Op. cit., 142 C; tr. il. cit., p.
392.
Lasciatici alle spalle l'uno in sé o l'uno in quanto uno, per così dire
anteriore all'essere, bisogna dunque affrontare l'uno "che
partecipa dell'essere"74.
Ma subito ci si imbatte nel problema rappresentato dal
rapporto fra le parti e il tutto ossia dalla duplicazione o sdoppiamento in
infinitum di questo rapporto. Infatti, la prima conseguenza dell'affermazione
che "l'uno è", nel senso di "avere l'essere" o
"partecipare dell'essere", è data dal dover ammettere che esso
"consta di parti"75. E per quale motivo? Non per il motivo
più semplice, come potremmo intenderlo noi, ragionando in questo modo: poiché
l'uno partecipa dell'essere e l'essere deve ammettere le parti, l'uno allora dovrà
concepirsi come composto di parti. La visione di Platone è invece più complessa
e muove dalla constatazione che l'uno che partecipa dell'essere (l'uno essente
o l'uno che è) ha come sue parti costitutive sia l'uno che l'essere e quindi
deve esser concepito come un tutto composto di parti76. Come a dire:
l'uno che partecipa dell'essere e l'essere partecipato non sono la stessa cosa
ma due parti di una stessa cosa, di una medesima realtà. Ci si aspetterebbe,
in verità, che essi costituissero una medesima realtà (un unico ente) senza
esserne le due parti; ci si sarebbe aspettati, infatti, di veder
proclamata - dopo l’asserita nientificazione del concetto dell'uno in
quanto uno - l'identità assoluta dell'uno e dell'essere. Se infatti l'uno
può esser pensato solo come avente (partecipante) l'essere - l'essere determinato
nelle parti e nelle forme che costituiscono un tutto - questo essere
dovrebbe esser la stessa cosa dell'uno e non una sua parte. Correlativamente,
come potrebbe l'uno esser parte di questo essere? Sarebbe come
dire che ciò che coincide con il tutto dell'essere (perché ne
"partecipa") è nello stesso tempo parte di questo tutto: ma
ciò che coincide con il tutto può essere solo tutto.
Invece Platone si preoccupa di
mettere in rilievo che l'uno e l'essere che si partecipano sono entrambi parti;
che il pensiero non può non considerarli come parti, come se il dualismo
di uno ed essere si mantenesse anche all'interno della loro
"partecipazione". Infatti, quando diciamo che l'uno partecipa
del1'essere, sia all'uno che all'essere predichiamo ciò che contraddistingue l'altro
termine. Diciamo infatti che l'uno ha l'essere e che l'essere è l'uno (non
ha ma è l'uno). Tuttavia non si ha qui un'identificazione perché l'uno e
l'essere in quanto tali non si sono mutati l'uno nell'altro, sparendo l'uno
nell'altro, dando vita a qualcosa di nuovo e diverso; ci si è
74 Nella
traduzione di Schleiermacher: "das Eins das Sein an sich hat"
(PLATON, Werke, Griechisch und Deutsch, testo de Les Belles Lettres e
trad. di Schleiermacher riv. da D. Kurz, a cura di G. Eigler, WBG, Darmstadt,
1983, V, p. 247).
75 Parm., 142 C; tr. it. cit., p. 392.
76 Op. cit., 142 C; tr. it. cit.,
pp. 392-3.
limitati ad attribuirli all'uno concepito non in sé ma come fornito del
predicato dell'essere77. L'uno che è non è perciò semplicemente l'essere,
senza ulteriore determinazione, ma una realtà che consta per il concetto e
dell'essere e dell'uno i quali, allora, mantengono la loro individualità
speculativa. Quando diciamo che l'uno è non facciamo altro che riunire due
predicati, che possono perciò esser considerati parti della realtà
cui si riferiscono. Si dovrà quindi intendere "l'uno stesso che ha
l'essere come tutto, del quale l'uno e l'essere sono parti"78.
Ma le parti non sussistono senza un tutto, sono sempre parti "del tutto"79.
La suddivisione in parti implica l'esistenza del tutto e contemporaneamente
l'esigenza logica della ricomposizione della suddivisione stessa nel tutto.
In ogni caso, abbiamo accertato che l'uno che partecipa dell'essere è un tutto
costituito di parti, anche se le parti sono solo due80. Ma l'idea
dell'uno (per la verità dell'uno in sé) vuol esprimere quella di unità
nell'assenza completa delle parti: la presenza di queste ultime mette quindi in
discussione l'unità dell'uno. Perciò, una volta stabilito il principio della
divisione in parti come principio operante nell'uno-essente o uno-che-è, si
potrà stabilire un limite alla divisione stessa? Non si potrà, perché la
divisione è una suddivisione che va all'infinito, facendoci qualificare
come ἅπειρον l'uno che ha il predicato dell'essere81. Infatti,
secondo il loro concetto, queste parti si dividono al loro interno cioè si
suddividono82, perché non possono concepirsi come respingentisi a
vicenda, come se l'uno stesse tutto da una parte e l'essere tutto dall'altra;
come se l'uno si separasse andandosene con l'uno e l' essere andandosene con
l'essere. Se si ammettesse questo tipo di suddivisione - come la rottura di un
nucleo - si negherebbe la partecipazione proclamata.
Bisogna allora dire che
"ciascuna delle parti implica (festhält secondo Schleiermacher) sia
l'uno che l'essere", per cui "la parte viene ad esser costituita per
lo meno di due parti"83. Dunque: le due parti del tutto in cui
si costituisce l'uno provvisto dell'essere sono l'uno e l'essere ma ciascuna a
sua volta è costituita dall'uno e dall'essere. Si apre così un processo
all'infinito perché, quale che sia la parte considerata, ogni volta che ci
troviamo di fronte ad essa ed in generale a ciò che definiamo come parte, esso
contiene
77 Op. cit., ivi.
78Ivi.
79Ivi.
80Ivi.
81 Op. cit., 143 A; tr. it. cit., p. 393.
82 Op. cit., 142 E, p. 393.
83 Op. cit., ivi; tr. Schleierm. cit., p. 249.
sempre "queste due parti", cioè l'uno e l'essere84.
E questa suddivisione che sempre si rinnova fa sì che "ciò che diviene
sempre due, non sia mai uno"85. L'uno diventa in tal modo
"una molteplicità infinita"86, una molteplicità infinita
di parti.
Ma come si dimostra che né l'uno né l'essere che si
partecipano a vicenda costituiscono un che di reciprocamente separato? Con la
constatazione che ciò sarebbe in contraddizione con l'idea stessa della
"partecipazione"? C'è in realtà anche una deduzione logicamente
necessaria dalle premesse. Se ciascuna delle due parti, a causa del μετέχειν,
non può separarsi dall'altra nemmeno per diversificarsi, allora in ognuna
c'è anche l'altra; e se in ognuna c'è anche l'altra, ciò significa che ogni
parte viene ad esser costituita di due parti: se stessa e l'altra. Ciò che vale
per la partecipazione - ossia che una parte partecipa dell' altra - vale anche
per ciascuna delle due parti partecipanti in sé considerate, dato che in
ciascuna il partecipare che le ricomprende, lo σχῆμα,
si riproduce esattamente allo stesso modo, cioè come l'aver luogo di un
tutto costituito da due parti.
L'uno che ha l'essere è quindi un tutto costituito da
infinite parti perché in ogni sua parte si hanno l'uno e l'essere, sì che ogni
parte è in realtà due parti. Ma in tal modo ogni parte non solo è
nel tutto ma si rivela essere un tutto perché, sdoppiandosi, appare
come ciò che contiene e l'uno e l'essere. Se il processo è pensabile all'
infinito, bisogna allora dire che la partenogenesi concettuale non si limita a
produrre e riprodurre una moltitudine indifferenziata di parti. Dato che le
parti lo sono solo nel tutto, ad ogni suddivisione si implica nuovamente il
tutto come l'intero delle parti di quella suddivisione. Ma ciò è come
dire che le parti e il tutto si implicano vicendevolmente all'infinito, senza
che la catena trovi mai il suo anello terminale. Chi può chiudere l'uno
e l'essere nel loro reciproco rapporto, senza che il diviso sia più divisibile?
Non bisogna presupporre un uno assolutamente trascendente, il cui essere
non è l'essere del tutto costituito di parti (che ha forma, luogo, figura, e il
non essere del divenire) ma è l'essere perfettissimo, alla cui sostanza
nulla toglie e nulla aggiunge l'esserci o meno della realtà che noi chiamiamo
l'essere?
a. Va quindi notato che, per Platone, la realtà, in quanto semplice tutto
composto di parti, defluisce nello ἄπειρον, nell'indistinto rappresentato da un
suddividersi all'infinito delle parti. E questa conclusione, gravida di conseguenze,
può esser mantenuta, ai fini del nostro discorso, nonostante le
84 Op. cit., ivi.
85 Op. cit., 143 A; tr. it. cit., p. 393.
86
Op. cit., ivi.
osservazioni che si possono opporre al ragionamento platonico. La
principale delle quali sembra essere la seguente: che i due termini del
μετέχειν sono posti come equivalenti mentre in realtà non lo sono. Infatti,
l'ipotesi è: se l'uno partecipa dell'essere, non se l'essere partecipa
dell'uno. Il partecipare in sé sembra mettere i due termini sullo stesso piano.
Ma ciò è puramente formale ed ingannevole per questo semplice motivo: che se
noi attribuiamo l'essere all'uno non possiamo attribuire allo stesso modo l'uno
all'essere. Questa seconda attribuzione deve considerarsi implicita, nel
senso che essa è il significato della prima. È come se si dicesse:
attribuendo all'uno l'essere, il significato dell'essere è ora quello di
coincidere con l'uno. Poiché l'uno è, l'essere è allora l'essere
dell'uno e questo è il suo unico significato, in quanto natura che esprima
l'essenza e la verità di qualcosa. In tal modo, però, l'essere, come parte nel
senso sopra visto, verrebbe a dissolversi perché il significato di qualcosa non
può esser considerato parte di questa stessa cosa. Se diciamo che il
significato dell'uomo, creato a simiglianza di Dio, è quello di essere simile a
Dio, dovremo considerare questo significato come parte dell'uomo? O non
esprimerà esso la natura dell'uomo, ciò che è proprio dell'uomo nella
sua essenza, in tutta la sua pienezza? Esprimendosi in altri termini, si può allora
sostenere che l'uno e l'essere sono due parti disuguali del tutto, non
dal lato della quantità ma della qualità, per cui il tutto verrebbe ad esser
formato da una parte reale (l'uno che ha l'essere) e da una pensata come suo
significato, dall'essere che esprime l'uno (senza identificarsi in
esso). E come lo esprime? nelle parti, nel numero, nel moto, etc., in
tutte le determinazioni fondamentali dell'essere. Ma allora si può addirittura
affermare che l'essere sia qui, nella sua molteplicità, l'unità di misura dell'uno,
così come la parte lo è del tutto, nel senso messo in rilievo da Aristotele
(vedi sopra, sezione a di questo paragrafo).
b.
Va inoltre osservato che quando Platone ricorda che la molteplicità rivelantesi
nell'uno che è contraddice l'unità dell'uno, egli si serve in realtà dell'idea
dell'uno in quanto uno, dell'uno in sé. Si è visto, infatti, che ciò che si
suddivide sempre "in due" non può "mai essere uno"87.
Quale "uno" non può qui avere "l'essere"? Non può trattarsi
dello ἕν ὄν, dell'uno che è, perché la sua caratteristica è proprio quella di
sdoppiarsi, riproducendosi all'infinito nel nesso delle parti con il loro
tutto. In questo riprodursi, l'uno è, anche se non è in unità con se
stesso. L'uno che non è, allora, sarà proprio quello che deve esser pensato in
unità con se stesso. E questo uno, come si è visto, è
87 Op. cit., 143 A: "μηδέποτε ἕν εἶναι ", "niemals eins ist" (tr.
Schleierm., cit., p. 249); tr. it. cit., p. 393.
l'uno in sé, l'uno in quanto uno. Quest'uno costituisce allora il
punto di riferimento o parametro per giudicare della conformità con se stesso
dell'uno che è, cioè della sua conformità all'idea dell'uno in quanto
uno. Ma quest'ultimo non era stato dichiarato da Platone stesso inconoscibile e
addirittura non esistente88? Come può allora costituire il punto di
riferimento dell'uno che ha il predicato dell'essere, l'idea di un'entità che
si è dichiarata inconoscibile al punto da far ipotizzare una sua inesistenza?
d. Prescindendo da queste considerazioni, notiamo come, in base a quanto
finora esposto, il concetto della parte non si caratterizzi in modo univoco.
Infatti, esso è visto ora in relazione al tutto, ora separato da esso. Secondo
Platone, la parte è sempre parte di un tutto. Inoltre, ogni parte è due parti,
perché in essa partecipano l'uno e l'essere. La parte è perciò sia parte del
tutto sia il tutto stesso, se essa è sempre pensabile come un uno di
due. La parte è per così dire sempre il contrario di se stessa, sul
piano logico, dal momento che è pensabile contemporaneamente come parte e come
tutto. Il tutto è infatti per definizione l'opposto della parte: se
quest'ultima è sempre un tutto (in quanto uno di due) allora è sempre l'opposto
di se stessa.
In Aristotele, invece, come si è
visto, la parte non è definita in quanto appartenente al tutto ma in quanto
separabile da esso: è ciò che si può togliere e, in quanto
separabile, costituisce l'unità di misura del tutto. In Aristotele prevale
quindi l'idea dell'esser-separato per determinare la parte nella sua natura specifica,
mentre Platone si richiama costantemente al fatto che la parte non può
uscire dal tutto, tanto da ricrearlo in se stessa per trasposizione (se così
possiamo dire). In Aristotele c'è anche una considerazione della funzione che
la parte può assumere, in quanto unità di misura, e la distinzione tra la divisibilità
in parti della quantità e della qualità, vista quest'ultima come "forma"
e come "concetto". Rispetto alla quantità, questi ultimi appaiono
infatti qualità. Anche la qualità è allora parte del tutto, in quanto modo
dell'essere, e può suddividersi in parti. Che cos'è dunque la parte: ciò
che si può concettualmente isolare dal tutto e che può addirittura misurarlo o
ciò che è comprensibile solo nel tutto e che anzi è sempre uno di due? Ciò che
oltre ad aver quantità, ha anche qualità perché comprende non solo le
suddivisioni della materia ma anche le loro qualità (come parti della materia)
ed il loro significato? E non solo il significato o valore di ciò che
appartiene all'essere caduco della materia ma anche l'aver significato e valore
in quanto tali, come realtà puramente spirituali?
88
Op. cit., 141 E: " οὔτε
ἔστιν "; tr. it. cit., p. 393.
La risposta a siffatti quesiti può poi esser tale da esprimere un
concetto univoco, unitario della parte ossia capace di farci comprendere,
senza dar luogo a contraddizioni, quali siano le parti del tutto?
10. La parte e l'ente
a. La parte fa dunque onore al suo nome, manifesta cioè già nel nome una
natura concettuale duplice perché esser parte si dice di ciò che
partecipa di un tutto e far parte a sé, invece, di ciò che se ne separa.
La parte è quindi sia ciò che è ricompreso in un'entità più grande sia ciò che
se ne toglie o ne vien tolto. In se stessa, poi, essa costituisce sempre un
tutto perché consta a sua volta di parti. Può infatti esistere qualcosa che non
sia divisibile in parti? Se l'atomo è divisibile, non lo è allora anche il punto?
Sappiamo infatti che per Euclide "punto è ciò che non ha parti"89.
Esso è inoltre "l'estremo di una linea"90. Questa seconda
definizione non è diversa dalla prima ma ne rappresenta un' applicazione.
Infatti, il punto non è privo di parti solo quando è l'estremo di una
linea; all'opposto, poiché è in sé privo di parti, permette di
configurare l'estremità della linea come punto. La linea può naturalmente esser
divisa in parti ma la sua divisibilità si arresta dove essa finisce, in quel
punto che perciò non può esser considerato una parte da dividere ulteriormente.
Per quanto si divida, ci dovrà sempre essere un punto che costituisce un limite
tra la cosa che si divide (la linea) e il resto dello spazio, un punto che in
quanto limite ultimo è insuperabile, come se si trattasse di un'entità indivisibile.
In quanto estremità di una linea, il punto mostra dunque il limite della
figura geometrica, quello in cui non si ha più alcuna possibilità di avere
parti perché lì la figura finisce, riducendosi ad un punto.
Euclide non dice che il punto sia indivisibile ma il
non avere parti è inteso in genere come sinonimo di indi visibilità o come una
qualità che necessariamente la implica, come per l'Uno in sé: "Or là, ou
il n'y a point de parties, il n'y a ni étendue, ni figure, ni divisibilité
possible"91. Tuttavia il punto non è solo l'estremo della linea
ma anche ciò di cui la linea è costituita, perché oltre che in parti
(segmenti) essa può esser divisa in punti. La linea retta infatti è
"quella che giace ugualmente rispetto ai punti su di essa"92
ovvero, possiamo intendere, in modo che la perpendicolare condotta
89
EUCL., Elem., Def. I: "σημεῖον ἐστιν οὗ μέροs οὐϑέν "; ed. Heiberg-Stamatis,
Leipzig, 19692, p. I (tr. it. Gli Elementi di Euclide, a
cura di A. Frajese e L. Maccioni, Torino, 19772, p. 65).
90 Op. cit., Def. III, p. 1; tr. it. cit., p. 66.
91 LEIBNIZ, Les principes de la
philosophie ou la Monadologie. ed. Robinet, Paris, 19863,
3, p. 69.
92 EUCL., Elem., cit., Def. IV; p. 1; tr. it. cit.,
p. 66.
per
ogni suo punto formi sempre con essa un angolo retto. Allora: i punti non hanno
parti, costituiscono però le parti più piccole in cui ci si può rappresentare
la divisione della linea. Non è questo un paradosso? Se i punti non hanno parti
e tuttavia costituiscono la linea, bisognerebbe infatti dire che la linea è
composta di elementi indivisibili e che quindi non si può mai dividere in
parti. Del resto, ciò che si può dividere in parti, come può risultare di
elementi che non hanno parti? Ogni segmento in cui la retta può esser divisa
non dovrebbe allora calcolarsi da un punto ad un altro della retta ma da uno spazio
fra un punto ed un altro ad un altro spazio fra un punto ed un altro
(fra due punti). Sarebbe improprio affermare che la divisione comincia in un
punto e finisce in un altro. Ma tutto ciò è chiaramente inaccettabile
perché porterebbe ad ammettere che tra i punti devono esserci degli intervalli,
divisibili ma non in punti.
In realtà, anche se si ammette che il punto "non
ha parti", non vi è contraddizione nel riconoscere che esso è parte di una
grandezza e figura qualsiasi, dalla retta alla superficie alla circonferenza.
Del resto, non solo la retta ma ogni superficie e volume si possono immaginare
composti di punti. Onde si può affermare che il punto è in realtà la parte più
piccola di ogni possibile figura geometrica e della realtà in quanto tale, così
piccola da non poter più esser considerata come composta di parti. E diciamo
che questo è vero ma solo dal punto di vista dell'esperienza comune: è infatti
impossibile determinare le parti di un punto. Ciò non significa però che esso
non le abbia, come dimostra l'esistenza di una struttura atomica e subatomica
in entità molto più piccole di un punto visibile ad occhio nudo. Più che
un'entità priva di dimensione, il punto sembra essere la forma più piccola
possibile della dimensione, quella in cui l'estensione si contrae nel massimo
della piccolezza, un massimo non predeterminabile. Si potrebbe perciò sostenere
che il punto è una sfera infinitamente piccola allo stesso modo della
nostra terra, piccolissimo punto nell'immensità dell'universo di cui è
parte.
b. Anche i punti sono dunque parte del tutto; e
nel tutto, quale che sia e come che sia divisibile, vi sono sempre parti: non
c'è nulla in esso che non sia divisibile, anche se attualmente indiviso. Perlomeno,
nulla di ciò che consideriamo appartenente all' essere determinato nella forma,
figura, quantità, etc. I primi elementi possibili di una definizione della parte sono dunque i
seguenti. In primo luogo l'esser ricompreso nel tutto, l'inclusione in
un'entità sempre maggiore di quella inclusa. In secondo, l'esser separato dal
tutto, l'esclusione da ciò che pur ricomprende la parte. Giusta la prima
caratteristica, la parte mostra una relazione di inclusione con il tutto; di
esclusione, con la seconda. La parte è dunque in un rapporto di
inclusione o
di esclusione con il tutto (ma non è questo stesso rapporto).
I due rapporti suddetti si configurano come opposti e contrari. Tuttavia essi
non sono speculari. Infatti, nel rapporto di inclusione si ha che la
parte è nel tutto come realtà il cui significato (l'esser nel tutto) non è in
contraddizione con il Dasein stesso della parte, perché il significato
di questo rapporto concorda con il dato di fatto in esso rappresentato,
costituito dall'aver concretamente luogo nel tutto come sua parte. Ma nel
significato dell'esser parte, c'è anche quello di esser parte per sé,
cioè di distinguersi, nella propria individualità, dal tutto di cui si
partecipa. Perciò la parte, inclusa spazialmente e temporalmente nel tutto,
oltre al significato di esser parte del tutto, ha anche quello opposto di esser
parte per sé. E ce l'ha ipso facto, per il fatto stesso di essere ciò
che è, senza bisogno di separarsi effettivamente dal tutto. Perciò la
parte deve considerarsi concettualmente separata dal tutto già per il
suo significato intrinseco, che la distingue dal tutto come sua parte (quella
parte) quand'è ancora ricompresa in esso. Per esser qualcosa di distinto
rispetto al tutto, la parte non ha allora bisogno di esserne effettivamente
tolta, dal momento che la sua individualità già la separa
concettualmente dal tutto di cui è parte, le conferisce il significato di un
far parte per sé. L'esser separato della parte è allora da intendersi in modo duplice
perché risulta da una separazione effettiva (quando c'è, sia pure da un
tutto a sua volta determinato come ente o parte) o meramente concettuale, data
cioè dal significato dell'esserci della parte (senza bisogno di un suo atto
specifico). Se poi si ritiene che la parte si trovi sempre in un tutto
(che possa mutare solo da un tutto ad un altro) e che comunque sia sempre nel
tutto della realtà intesa nella sua totalità spazio-temporale, bisogna allora
dire che la separazione della parte dal tutto, in senso assoluto è pensabile solo
come significato della parte e mai come sua realtà effettiva e quindi come
il differenziarsi intrinseco alla sua individualità di parte.
Ma allora la parte, per il solo fatto di essere
inclusa, si esclude? perché, se è parte in quanto è nel tutto, proprio
in quanto parte, nello stesso tempo se ne differenzia? Allora il
significato della parte in quanto parte è sì quello di essere parte del tutto,
di esser cioè come appare secondo l'esperienza; ma nello stesso tempo, il
significato della parte in quanto parte è quello di esser per sé. Ma non può
esser per sé, perché astratta dal tutto non-è; tuttavia, nel momento
stesso in cui è, partecipando del tutto, è per se stessa, è come
individualità che si distingue dal tutto e quindi non-è in quanto parte
del tutto. E così via all'infinito, con questa dialettica negativa della
parte e del tutto: negativa, perché essa mira a costruire il loro rapporto
sulla contraddizione e quindi sul non-essere (e un esempio di essa lo abbiamo
già trovato, a ben vedere, nel Parmenide).
Questa possibile contraddizione o antinomia tra le
parti e il tutto ricorda quella vista in precedenza a proposito della natura
contraddittoria del tutto, il quale è a causa delle parti e nonostante le sue
parti (cfr. § 4 b del presente lavoro). In modo simile si potrebbe infatti
sostenere che la parte è tale a causa del tutto e nonostante la sua
appartenenza al tutto. Infatti, senza appartenenza al tutto non è, ma il
significato di questo suo essere è anche l'esser per sé in quanto parte,
l'individualità che concettualmente si separa e contrappone in quanto entità
compiuta e determinata. Nonostante il suo esser nel tutto, la parte
mostra perciò l'individualità dell'esser per sé. Così quando diciamo che la testa
fa parte del corpo mettiamo in rilievo il fatto che senza il corpo non
esisterebbe la testa; che il corpo come un tutto permette alla testa di essere
ciò che è - la sua testa - possedendola come parte. Ma nello stesso tempo individuiamo
quella parte del corpo come testa, e con ciò la distinguiamo, separandola
per il suo significato intrinseco dal resto del corpo e da tutte le altre sue
parti, sì da non confonderla con nessun'altra. Nel primo caso la parte è ciò
che è, solo perché appartiene al tutto; nel secondo solo perché se ne distingue.
E non è diventata altro da sé, ma si è mostrata nella sua individualità
specifica nonostante la sua appartenenza al tutto.
Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, dove stiano l'astratto
e il concreto. Se cioè sia l'appartenenza al tutto l'elemento
concreto, confermato dall'esperienza, il dato di fatto, mentre il significato
di questa appartenenza sarebbe l'astratto, un che di meramente pensato
che non incide sulla realtà di fatto, perché la separazione che esso vuol far
apparire tra la parte e il tutto si risolve nella mera contrapposizione di una
figura concettuale, secondo il modo di procedere della dialettica, non di
un'entità reale ad un'altra.
Ed è noto che le negazioni della dialettica vengono
stabilite come significati dei fatti per poi essere considerate come fatti,
dei quali i fatti concreti diventano a loro volta la negazione. Il fatto
concreto diventa così il significato di un significato, anzi, per esser più
precisi, il significato del suo stesso significato originario, in quanto ad
esso contrapposto. In siffatta ragnatela, al rapporto lineare tra fatto e suo
significato (in relazione al fine) si sostituisce quello circolare di una doppia
negazione: il significato del fatto è la negazione, che il pensiero deve
scoprire e dichiarare; questa negazione è allora il fatto che
permette di concepire il fatto concreto come negazione del suo significato
e di stabilire il rapporto altrimenti semplice e convergente tra fatto e suo
significato come rapporto affatto semplice ma contraddittorio perché costituito
dalla negazione reciproca. Grazie a questa negazione, sia la differenza
che la convergenza tra fatti e loro significati si oscurano e vengono
rovesciate e tutta la realtà sprofonda nel caos di un gigantesco caleidoscopio
speculativo in cui la negazione (la dialettica del negativo) è il motore di un
continuo divenire. Ma è il divenire della negazione stessa. E il
pensiero, come dimostra in modo incontrovertibile il punto d'approdo
nietzscheano, si dissolve nelle categorie del Negativo.
c. A giustificazione apparente di questa dialettica, di questa
pretesa del pensiero di "distruggere il finito" offertoci
dall'esperienza svelandone il negativo ossia mettendolo in contraddizione con
se stesso (con il significato di cui è portatore) sta la constatazione che il
significato di qualcosa non è il qualcosa stesso. Vale a dire: una cosa
è il fatto o l'ente, un'altra cosa il suo significato. Questa separazione non
impedisce però che ciò che accade (il fatto) o ciò che è (l'ente) sia già
secondo un suo significato o valore che dir si voglia. Ed il significato deriva
proprio dall'aver luogo o dall'essere dell'ente secondo un fine. L'aver
significato e l'essere secondo un fine sono come le due facce di una stessa
medaglia, che non si possono separare nella realtà concreta dell'essere e
dell'accadere, perché senza un fine niente è o accade e quindi niente ha un significato93 .
Nessuna azione umana è comprensibile se non si tiene conto del fine in essa
perseguito e quindi dell'intenzione dell'agente. Tant'è vero che gli uomini, da
quando esistono, per giudicare gli altri o per esserlo, non ammettono altro
criterio che quello del respice finem. (E la natura stessa è
comprensibile senza l'idea di un fine per il quale è stata creata?).
La distinzione tra il fatto e il
suo significato sembra posta unilateralmente dal pensiero poiché è il pensiero
che sembra attribuire un significato alle cose: in realtà esso è colto dal
pensiero come parte effettivamente esistente dell'essere. Infatti, la quantità
(l'essere o l'accadere degli enti) appare intrinsecamente dotata di una sua
qualità (il significato) così come, per fare un esempio, il fiore ha sempre un
colore, che ne appare una qualità, modo di essere della quantità (o entità o
ente determinato) che chiamiamo fiore. Il colore, in sé e per sé considerato, è
cosa ben diversa dal fiore (tant' è vero che non si ritrova solo nel fiore) e
non possiamo dire che questa diversità sia posta dal pensiero, che si limita
invece a riconoscerla. Altrimenti tra l'essere e il modo di essere, tra
una cosa e le sue qualità non ci sarebbe differenza e non si distinguerebbero
la sanità e la malattia in quanto modi diversi e contrapposti di un
medesimo essere, i quali, per potersi distinguere tra loro, devono distinguersi
concettualmente dall'essere cui ineriscono. Quando diciamo che un uomo è malato
non intendiamo certo dire che l'esser uomo sia la stessa cosa dell'esser
malato. E nemmeno lo intendiamo quando diciamo che un uomo è sano, altrimenti
non potremmo poi riferire l'esser malato all'uomo.
93 ARIST., Met., 994 b; tr. it. cit.,
p. 69.
L'esser uomo è dunque quell'essere dell'ente che va distinto dagli
stati o modi nei quali si attua, stati o modi che non sono tuttavia posti dal
pensiero (che non crea né la salute né la malattia, né il colore né il sapore)
ma da esso acquisiti come qualità delle cose e riconosciuti nella loro
individualità.
E se la qualità o il modo di essere (quale che
sia la spiegazione che se ne dà, se meccanicistica o meno) è riconosciuto come
appartenente ex natura all'oggetto, ciò significa che il pensiero coglie la
diversità (cioè l'esser per sé della qualità) nell'unità, cioè nel suo
inerire ontologico all'oggetto come parte al tutto. Difatti, così come il
colore è sempre unito al fiore in quanto fiore (pur essendo in sé altra cosa
dal fiore), unito intrinsecamente, per natura (e non ad opera del pensiero),
allo stesso modo lo è la qualità in generale all'ente o essere di cui è
qualità. Il pensiero coglie perciò nel medesimo ente sia la differenza che
l'unione, secondo un rapporto assimilabile a quello della parte al
tutto. Né si può affermare che il colore sia in contraddizione con il
fiore e più in generale la qualità con la quantità cui inerisce, se non muovendo
dal pregiudizio teoretico che ciò che è non è: non è, non perché sia in
contraddizione con il fine per cui è, ma per il solo fatto di essere!
Non è: ovvero rappresenta sempre il contrario di se stesso, opponendosi e
negandosi già nelle parti che, come tutto, lo costituiscono. In quest' ottica,
l'essere è mera apparenza perché contiene il non-essere: "denn
Schein nennen wir das Sein, das unmittelbar an ihm selbst ein Nichtsein
ist"94. Ma questo essere "che immediatamente è in se
stesso un non-essere", e quindi scade a mera "apparenza" del divenire,
non è un essere particolare, un aspetto dell'essere, una sua parte
decaduta, ma è l'essere in quanto tale, che è quindi condannato a non esser
altro che apparenza95 . L'essere in sé, che ci appare come "l'immediato
indeterminato", non è "in realtà altro che il nulla"96
qualcosa che deve sparire nel divenire, che anzi è già tramontato
("zeitlos vergangene"), nel momento in cui è.
Ora, come è possibile stabilire
il concetto della contraddizione, prescindendo dall'idea del fine? Vogliamo
dire che non si può definire l'esser o meno in contraddizione di qualcosa, se
non in relazione al fine per cui qualcosa è o agisce. Senza l'idea del fine
manca il punto di riferimento o addirittura il fulcro, lo Schwerpunkt, per
poter affermare che si è in contraddizione. Infatti, posso dire che la
natura o l'uomo sono in contraddizione con se stessi o fra di loro solo se ho
una nozione del fine per
94
HEGEL, Phaenom. d. Geistes, ed.
Hoffmeister, Hamburg, 19526, p.
110 (il passo è nel cap. III, Kraft und Verstand).
95 HEGEL, Wissenschaft der Logik, ed. Lasson, Hamburg, 19342, 1963,
lI, pp. 3-5,7 ss. (Die Lehre vom Wesen, Introduzione e primo cap., A e
B).
96
Op. cit., ivi, A.
cui essi
sono, in se stessi e reciprocamente. Altrimenti, perché si afferma che l'azione
malvagia pone chi la fa in contraddizione con la propria umanità, che
viene così negata nei suoi propri fondamenti? Perché evidentemente essa contraddice
al fine per il quale l'uomo è stato creato, che consiste nel ricercare ed
attuare coscientemente il bene con tutte le sue forze. E perché si comincia a
percepire l'odierna, impressionante attività di trasformazione e manipolazione
della natura come un'attività che va contro l'ordine della natura, dato
che crea squilibri, anomalie e mostruosità sempre più gravi, al punto da esser
sentita come una negazione della natura e delle sue leggi? Perché, se
non per il fatto che essa viola il fine per il quale la natura è, esiste con il
suo ordine, impostole dal Creatore? I Fisici negano che si possa attribuire un
fine alla natura e comprenderla secondo quest'idea. Ma essa si impone malgré
eux già nel momento in cui ci accorgiamo che l'attività di trasformazione
della natura fondata sulla scienza e da essa ispirata, invece di realizzare un
nuovo ordine della natura ne stravolge il precedente. E quest'ordine che
ci dimostra ogni giorno la sua insopprimibile esistenza, come può essere senza
un fine? Può un ordine nascere dal caso e lasciarsi vivere dal caso?
Affermare che l'essere, per il solo fatto di essere, è
la stessa cosa del nulla, perché domani è già mutato e quindi contiene già il
non-essere di ciò che oggi è, significa dunque affermare che l'essere, per
il solo fatto di mostrare in se stesso un divenire, si contraddice e si nega.
Ma ciò vien detto senza cercare di comprendere il fine ed appare alla stregua
di un'affermazione gratuita. Del resto, l'essere sarà pure per un fine che ne
giustifichi il divenire secondo un ordine, altrimenti bisognerebbe ammettere
che la realtà in quanto tale non ha senso. Se noi non indaghiamo il fine, non
possiamo perciò affermare che ciò che è contiene una contraddizione. Ma una
delle caratteristiche del pensiero moderno è proprio questa: di concepire la
contraddizione e l'antitesi esclusivamente nell'ambito della relazione, cioè
di quell' esser-in-relazione di parti e di esse con il tutto, che
costituisce la realtà come realtà, data però solo da questo stesso
esser-in-relazione, senza riferimento alcuno alla causa prima e finale. Da
qui la mancanza di senso perché la nostra immagine del reale viene ad essere quella
di una realtà in contraddizione con se stessa non perché devii dal fine ma per
il solo fatto di esistere e quindi senza motivo.
A ben vedere, l'immanentismo radicale di questa
concezione dovrebbe addirittura render impossibile 1'idea stessa della
contraddizione. Si ricorre perciò all'escamotage speculativo di trasformare la
differenza in negazione e la contrapposizione in contraddizione. La qualità,
come qualità sensibile della cosa o come suo significato, diventa allora negazione
dell'essere immediato della cosa stessa: la sua differenza con la
cosa, che la distingue e contrappone concettualmente ad essa, diventa negazione
che trasforma la contrapposizione in contraddizione. E ciò che vive di un'intima
contraddizione, può essere veramente? È chiaro che no, che è apparenza e
quindi non è.
Ma tutto ciò è arbitrario, un vero e proprio salto
mortale speculativo, perché la differenza non può come tale esser
concepita come negazione. La differenza è infatti un modo di essere nel
quale si rivela la diversità degli enti
o negli enti. Essa non si limita a far venire in essere "il limite
della cosa" perché "sie ist da, wo die Sache aufhört, oder sie ist
das, was diese nicht ist"97, bensì individua "la
cosa" nella sua qualità specifica; esprime una relazione che ci permette
di cogliere l'essere nell'ente determinato, l'ente la cui individualità
permette la relazione della differenza. Per noi essa è il risultato di
un paragone che si fonda su di un giudizio di fatto, un giudizio di
conformità all'esistente, perché la differenza tra Paolo e Giovanni o tra
l'uomo e il cavallo o tra il colore e il fiore o tra il bene e il male, esiste
indipendentemente dal pensiero che la riconosce. La negazione, invece,
implica un atto della volontà e la volontà non opera senza la rappresentazione
del fine, la quale a sua volta comporta un giudizio di valore. Affermando che
la qualità della quantità che è l'ente è come tale diversa dall'ente,
così come la parte lo è nei confronti del tutto, non si fa altro che
riconoscere una semplice verità di fatto. E ciò che vale per il colore rispetto
al fiore (per la qualità sensibile rispetto alla quantità), vale allo stesso
modo per il significato in quanto tale, che si distingue in sé da ciò di
cui è il significato, rappresentandone la qualità spirituale specifica, che ha
il medesimo essere dell'ente di cui è l'attributo. E che il significato
o valore abbia una vita propria rispetto agli enti cui inerisce, lo
dimostra il fatto che si continua a tributare un determinato significato o
valore a fatti o ad uomini anche dopo lungo tempo. La persona o il fatto non
sono più, sono stati, ma il significato di ciò che hanno fatto o sono
stati, resta immutato nel tempo ed è tuttora presente. La memoria non conserva
solo il fatto ma anche e soprattutto il suo significato, che sembra mantenersi
più a lungo degli esatti contorni del fatto.
Il significato della cosa, allora,
si distingue dalla cosa pur coincidendo con essa, allo stesso modo del colore
nei confronti del fiore cui inerisce. Ma in ciò non vi è affatto contraddizione
perché sia l'uno che l'altra (il significato e la cosa) concorrono al medesimo
fine e sono uniti a causa del fine per il quale l'ente è ciò che è (un fine che
è diverso per l'uomo e per il fiore). Si può allora affermare che anche il
significato di qualcosa è un fatto,
97 Phaenom. d. Geistes, cit., Vorrede, ed. cit., p. 11.
come lo è in generale tutto ciò che ha qualità o la qualità stessa di
qualcosa, anche quando abbia perso ogni connotato quantitativo (presente nelle
qualità sensibili delle cose) e sia invece il puro significato o valore di
qualcosa. Su questo fatto c'è in genere minor accordo di quanto ce ne
sia sull' esistenza stessa della cosa: il significato concerne infatti
l'essenza o natura della cosa non il semplice accertamento della sua esistenza.
È una verità di ragione che, in quanto è, esiste ed appartiene al
regno dei fatti, come tutto ciò che esiste (essa è perciò anche verità di
fatto). E se così non fosse, bisognerebbe dire che il pensiero stesso non è un
fatto e quindi non ha realtà, non esiste, perché le verità da esso proclamate,
che pure esistono, non appartengono all'ordine dei fenomeni. La verità di
ragione non ha minor realtà di quella di fatto: l'unica differenza è che la sua
realtà è nel regno del pensiero e della qualità. E chi può negare l'esistenza
della qualità come esistenza obiettiva di una realtà a sé? Chi nega ciò, nega
l'esistenza stessa del pensiero oltre a quella del significato e del valore
delle cose.
Che poi vi siano diverse interpretazioni di un
significato, ciò non cambia nulla a quanto detto, poiché i diversi modi di
intendere il significato o valore di qualcosa partono tutti dal presupposto che
un significato vi sia, come caratteristica ontologica dell'ente o
del fatto. Si tratta solo di riuscire a stabilire quale esso sia
veramente, secondo la natura della cosa che in esso si esprime. Il pensiero non
crea perciò il significato dal nulla ma si sforza di coglierlo nella sua
verità, come verità di qualcosa che esiste indipendentemente dal pensiero, ed
in quanto vero è fatto proprio dal pensiero.
L'astrazione nel pensiero non consiste quindi
nell'attribuire un determinato significato all'esistente (cosa che l'uomo non
può non fare perché l'esistente è già di per sé costituito secondo un
significato), ma nell'attribuirgliene uno non conforme, in tutto o in parte,
alla natura delle cose. E in questo errore cadrebbe chi volesse contrapporre la
parte al tutto in base al ragionamento che l'unico significato della
parte qua parte sia quello di esser qualcosa che nella sua individualità
è separato rispetto al tutto e in modo tale che il rapporto tra l'uno e l'altra
sia contraddittorio. Come se il
fatto dell'esser compreso nel tutto non avesse anch'esso un suo
significato specifico, non contraddittorio con il significato di ciò
che viene ricompreso. Quando Aristotele scrive che, una volta distrutto il
tutto, non avremo più "né piede né mano se non per omonimia"98
per cui la mano da sola, separata dal corpo, non è che una mano "di
pietra"99, egli sembra voler dire che il significato di ciò che
è incluso nel tutto è quello di avere solo nel tutto il proprio
significato.
98 ARIST., Pol., 1253 a; tr. it. cit., pp.
9-10.
99 Op. cit., ivi.
Per cui, scomparso il tutto, la parte eventualmente superstite non ha
più alcun significato e se ne sta in maniera del tutto inutile nella propria
individualità, come qualcosa di morto ("di pietra"). Si potrebbe
dire, quindi, che l'esser incluso nel tutto ha il suo significato proprio, non
meramente descrittivo, in conseguenza del quale la parte che si separi diventa
priva di qualsiasi significato o, se si preferisce, lo muta in senso completamente
negativo, poiché è diventata qualcosa di morto. Non è allora la parte
ricompresa nel tutto ad esser in contraddizione con il tutto, ma quella che se
ne separa, dato che il suo significato è ora quello di essere qualcosa che
rappresenta l'antitesi del tutto in quanto tale.
Il rapporto di inclusione della parte nel tutto non è
quindi intrinsecamente contraddittorio perché concepibile nello stesso
tempo come rapporto di esclusione, dato che la parte deve pur conservare la sua
individualità e l'individualità la differenzia e la contrappone al tutto di cui
è parte, negandolo rispetto ad essa. Nel rapporto tra la parte e il tutto,
invece, la differenza e l'unità coesistono e si integrano in
quanto concorrenti al fine, senza il quale né il tutto né la parte sarebbero.
Nel suo rapporto con il tutto, la parte non è quindi in contraddizione né con
il tutto né con se stessa. Non è l'essere di un non-essere, a meno che non
voglia esserlo; né è ciò che è, solo perché è in relazione con il
tutto.
d. Dopo aver visto la parte nella sua relazione con il tutto, secondo i
vari aspetti della relazione dell'esser-incluso e dell'esser-separato; dopo
aver visto i primi elementi della sua definizione, consideriamola ora in se
stessa, come realtà determinata, nella sua natura di ciò che è parte di
qualcosa, tenendo presente che il nostro obiettivo ultimo è sempre quello
di arrivare a stabilire quali siano le parti del tutto. Si è detto che
l'esser parte di qualcosa è proprio di una grandezza che sia ricompresa
in una maggiore (cfr. § 9 a di questo lavoro). Quest'ultima può esser a sua
volta parte di un tutto o il tutto, un tutto compiuto, come nel caso in cui la
parte risulti per esempio della metà esatta di una grandezza (perché qui la
metà, cioè la parte, non è contenuta nell'altra metà, ossia nella grandezza che
rappresenta l'altra parte, ma nel tutto).
La definizione appena ricordata è conforme
all'esperienza e si adatta alle realtà più diverse. Se poi si vuol riguardare
la parte non come ciò che è ricompreso ma come ciò che è tolto (vedi
supra, § 9 a, cit.), non ci si allontana da quanto appena detto perché
ciò che viene tolto deve prima esser stato ricompreso nel tutto da cui si
toglie. Nel togliersi, reale o mentale, della parte viene in primo piano la sua
individualità, che tuttavia già esisteva: essa non viene creata dal nulla ma
semplicemente riconosciuta o tradotta in atto, come nel caso della statua, che
non era parte (se non per metafora) del blocco di marmo da cui è stata tratta,
ma della mente dello scultore (in effigie). Ad ogni modo, quel che è certo è che, quale
che sia il lato dal quale la si consideri (se dall'esser-ricompreso o tolto),
la parte in senso proprio non può non esser concepita che come una grandezza
finita. Infatti, ciò che è nel tutto e ciò che se ne toglie è comunque una
realtà finita, di cui si conoscono l'inizio e la fine e quindi il limite.
Grazie al limite tra la parte e ciò che essa non è (le altre parti e il tutto)
la parte mostra la sua forma. Esiste una forma infinita? Senza pretendere di
poter rispondere a questa domanda, diciamo che tutto ciò che è finito ha
sicuramente una forma, grazie alla quale esso è per noi una realtà
determinata e distinta da ciò che esso non è.
L'esser della parte è perciò caratterizzato dalla finitezza,
dalla forma, dal limite: dall'esser una realtà in se stessa determinata,
che rappresenta quindi l'esatto contrario sia dell'indeterminato che
dell'infinito, dell' ἄπειρον in entrambi i sensi nei quali la tradizione
lo ha sempre inteso. Nell'esser-parte abbiamo poi anche la relazione come
esser in relazione di due grandezze, una delle quali non determina l'altra ma è
da essa determinata. Non si può dire, infatti, che ciò che è ricompreso
determini ciò che lo ricomprende. La grandezza determinata è dunque la
parte in senso proprio. Ma la grandezza può avere quantità come non
averla. La grandezza è la stessa cosa dell'estensione in sé e per sé,
senza alcun corpo o ente: il vuoto privo come tale sia di materia che di
energia. La quantità è invece una grandezza che ha un volume, è ciò che
come materia ed energia occupa l'estensione (anche se per l'energia sembra
improprio parlare di volume). La quantità corrisponde al pieno, la
grandezza al vuoto. Perciò, se ogni quantità possiede una grandezza non
ogni grandezza possiede quantità. E questo lo si applica allo spazio. Infatti,
lo spazio ha questo di particolare: che, pur essendo una realtà fisica, è una
grandezza senza quantità (e non, senza qualità), perché l'estensione in quanto
tale non ha quantità, pur non potendo non essere una grandezza. Ma la grandezza
senza quantità è indeterminata perché è misurabile non in base a ciò che
essa è ma a ciò che in essa è, cioè alle quantità determinate che
ricomprende, siano esse discrete o continue (sullo spazio vedi infra, § 14).
L'esser-determinato della parte in senso proprio
implica dunque, come si è detto, la relazione della parte con ciò che la
ricomprende. Ci si può chiedere se ciò che ricomprende la parte possa a sua
volta esser considerato parte, pur essendo un tutto nei confronti della parte
in esso ricompresa, sulla falsariga del ragionamento sviluppato nel Parmenide
(vedi supra, § 9 c). Anche se si ammettesse ciò, la definizione della parte
in senso proprio resterebbe immutata perché il tutto meno la parte determinata
non sarebbe più solamente ciò che ricomprende ma ciò che è a sua volta
ricompreso, nel nuovo tutto formato da se stesso mutilo della parte in
questione e da questa stessa parte. Ma questo nuovo tutto non sarebbe in
realtà altro che il tutto precedente.
Va poi detto che l'esser-in-relazione della parte con
ciò che la determina non riguarda la definizione della parte in sé e per
sé ma ne è piuttosto una conseguenza, dal momento che l'essere-in-relazione non
permette come tale di cogliere la natura della cosa. Se diciamo che
l'uomo è un ente in relazione con i suoi simili e il suo ambiente, non sappiamo
ancora cosa sia l'uomo, in quanto individualità determinata da una
natura specifica. Se l'esser-in-relazione costituisce non un mero e accidentale
dato di fatto ma una vocazione dell'uomo, in quanto essere socievole, allora
esso è un manifestarsi della natura dell'uomo, la quale deve perciò
essere presupposta ad ogni possibile esser-in-relazione. Ché la relazione
presuppone gli enti che la costituiscono e non è essa a costituirli in quanto
tali (così come il moto non può preesistere ai corpi che lo attuano).
Io so di essere ciò che sono in relazione
all'altro, ma ciò che sono, lo sono in sé, indipendentemente dall'altro
e persino dalla coscienza che ne ho. Ciò che sono, lo sono perché sono, non
perché in relazione con l'altro. Il sapere
di me in relazione all'altro ha valore dichiarativo, non costitutivo di
ciò che sono. So quindi che l'esser-in-relazione con l'altro mi serve per
sapere, non per essere ciò che sono. Il mio essere, cioè la mia natura
determinata secondo caratteristiche irripetibili, nella quale si svela e si
attua un' essenza che esiste di per sé, indipendentemente dal mio pensiero
(dalla conoscenza che ne ho), non è costituito dalla relazione con l'altro né si
costituisce in questa relazione (come sostengono coloro i quali affermano
che l'uomo non è altro che il suo farsi). È invece il mio essere a
costituire la relazione, sia come premessa (l'esserci di me stesso come ente)
sia come intenzione che si attua in un'azione per un fine. E se la relazione mi
arricchisce o impoverisce, ciò dipende solo dal modo in cui la mia natura
reagisce ad essa ossia dal modo in cui il mio essere si serve della relazione
con l'altro per sviluppare la propria inclinazione.
e. Dopo aver precisato questo punto, riprendiamo la
nostra analisi del concetto della parte in senso proprio, soffermandoci sulla grandezza che determina la
parte in quanto tale. Questa grandezza, infatti, può essere a sua volta
determinata; ma può essere anche indeterminata, dal punto di vista
dell'estensione e della durata (e ciò si ha innanzitutto quando si tratti
dell'estensione e della durata in quanto tali, ossia dello spazio e del tempo).
Diciamo allora che la parte è una grandezza determinata da una grandezza che è
a sua volta determinata o indeterminata se è data dallo spazio e
dal tempo in quanto tali (della cui grandezza non si dà per noi né inizio né
fine). Nel primo caso, alla grandezza corrisponde la quantità e la parte lo è dell'ente;
nel secondo, del tutto, nella misura in cui sia la parte sia l'ente
di cui è parte, sono compresi nel tutto e quindi parti di esso.
Il senso della definizione iniziale viene allora a mutare perché abbiamo ora due
modi dell'esser-parte: in relazione a ciò che è determinato e a ciò che
non lo è. Il primo, è quello di tutto ciò che è ricompreso in una quantità
determinata, come per esempio la cellula nell'organismo o l'organo del corpo
umano nel corpo stesso. Il secondo, di ogni ente, considerato nella sua
individualità di quantità definita, poiché esso è posto nello spazio e nel
tempo che lo contengono come se fosse parte di essi. Vediamo quindi che, se
l'ente è composto di parti (sì da costituire un intero) in quanto ente è a sua
volta parte dello spazio e dura nel tempo come ciò che è nel tempo e
quindi ne è parte, per quanto ciò che è nel tempo possa essere parte del tempo.
Né potremmo dire che l'ente coincida con tutto lo spazio esistente, anche se si
sostiene che lo spazio non sia effettivamente vuoto, perché il pieno (la
materia-energia secondo una distribuzione determinata) dovrebbe esser
costituito in questo caso da un unico ente. Ma ciò è inconcepibile perché, se
così fosse, non potremmo nemmeno dire che un corpo è nello spazio e che si
muove (vedi supra, § 2).
Si comprende quindi come l'ente, pur essendo
parte dello spazio, non sia la stessa cosa della parte, intesa come quella
grandezza che è ricompresa in una grandezza, secondo una quantità determinata.
Come definiremo l'ente, allora? l'ente è per noi, in prima
approssimazione, quella grandezza definita in una quantità determinata, il cui
limite esterno è costituito solo dallo spazio e dal tempo in quanto
tali, ossia da una grandezza per noi indeterminata perché priva di quantità.
L'ente è quindi un individuo, così come lo sono per esempio l'animale,
l'uomo, il globo terrestre, le stelle, e così via. Di essi non si può dire
infatti che siano determinati, per ciò che sono, da un'altra grandezza
finita, mediante la contiguità e la continuità di ciò che ha quantità: ciò che
li contiene è solo il continuum spazio-temporale, il quale, rispetto al
pieno dell'ente, è vuoto ed uniforme. Ora, lo spazio e il tempo non si contrappongono
all'ente come parte a parte, come la metà di un segmento all'altra metà.
(Dividiamo con il nostro calcolo uno spazio ed un tempo determinati ma non lo
spazio ed il tempo nella loro totalità: di essi non si può dare una simmetria
perché si ignora il limite e quindi il centro). Perciò l'ente, come parte dello
spazio e del tempo, lo è in modo improprio e comunque non come la
parte in senso stretto. Diciamo, infatti, che l'esser-parte, in quanto essere
di qualcosa, ha un inizio ed una fine dove sono e cominciano le altre parti
(come la parte di territorio rispetto al resto del territorio od un organo del
nostro corpo rispetto al rimanente del corpo), quando ci riferiamo ad una grandezza
la cui quantità sia ricompresa e limitata da un'altra quantità determinata.
Diciamo invece che l'esser-parte è determinato dallo spazio e dal tempo in
quanto tali quando intendiamo l'essere dell'ente, nella sua
individualità di quantità determinata, che ci appare secondo una
qualità parimenti determinata. Infatti, la sua finitezza di parte nel tutto non
deriva dall'esser contiguamente circoscritto dagli altri enti (cosa che avviene
solo per accidente) ma dall'aver un inizio ed una fine nel tempo e nello
spazio, senza per questo far venire in essere o far cessare né il tempo né lo
spazio. La qualità dell'esser parte è in sé ma anche in relazione al tutto:
quella dell'ente solo in sé (perché il tutto è dato qui solo dallo
spazio e dal tempo o da un'aggregazione che non incide sulla natura dell'ente,
se non marginalmente).
f. L'esser-parte è quindi l'estensione ricompresa e delimitata, in sé stessa
ed in relazione al tutto dell' ente e dello spazio e del tempo. In questa definizione,
che riassume quanto finora detto, riusciamo a ricondurre ad unità la
parte che lo è di una grandezza determinata (perché ha la quantità) e quella
che lo è di una indeterminata? Si deve infatti dire che la parte in senso
stretto, e cioè la parte di un ente, è parte dello spazio allo stesso modo
dell'ente di cui è parte, perché occupano il medesimo luogo (vedi supra, § 1 e
3). Ed inoltre, il tempo sarà il medesimo per entrambi, dal momento che esso
scorre allo stesso modo sia per il corpo (l'ente) che per le sue parti, dagli
atomi alle cellule, agli organi (l'ora non batte allo stesso modo per il nostro
corpo e per tutte le sue parti?).
Tuttavia, la parte in senso stretto è all'interno di
un corpo (l'ente) mentre l'altra si situa invece all'interno dello spazio:
l'uno è nel pieno, l'altra nel vuoto. Che l'estensione sia la medesima per il
pieno e il vuoto; che cioè il corpo e lo spazio da esso occupato abbiano la
stessa estensione (e la stessa durata) poiché non possono non essere
contemporaneamente; tutto ciò nulla toglie alla differenza tra il pieno
ed il vuoto, tant'è vero che solo il primo può essere concretamente diviso in
parti, accresciuto, diminuito, ridotto a nulla. L'esser-parte come qualità
finita di un ente è quindi diverso dall'esser-parte dello spazio (e del tempo)
in generale, i quali ammettono la divisibilità senza mai poter però esser
effettivamente divisi, né in sé, né reciprocamente. E difatti, ciò che è parte
dell'ente, che è parte in senso fisico, si trova in una contiguità e continuità
fisica o tattile con la grandezza che lo determina, cioè con il tutto
dell'ente, che è per esso l'intero. Invece l'ente in quanto parte dello spazio
non gode di tale continuità e contiguità, dato che esse non sono qui fisiche ma
puramente geometriche o, per meglio dire, sono fisiche come possono esserlo le
proprietà del vuoto. Tant'è vero che la stessa immagine dell'esser-ricompreso,
del trovarsi all' interno di una grandezza, senza la quale non può aversi la
parte di nulla, si può applicare solo impropriamente al rapporto fra l'ente e
lo spazio. Infatti, non possiamo non dire che lo spazio ci ricomprende e che
noi siamo e ci muoviamo al suo interno.
Tuttavia, non siamo all'interno dello spazio come all'interno di un
corpo perché, se lo spazio è come una stanza vuota in cui potersi muovere
liberamente, le pareti di questa stanza non si vedono mai e non sembrano
nemmeno esistere. Ma una stanza senza pareti non è nemmeno una stanza, onde il
nostro essere e muoversi nello spazio è per l'appunto un progredire nel vuoto,
non un penetrare nel pieno, e lo spazio ci appare come il vuoto della stanza,
senza la stanza (vedi supra, § 2).
Non possiamo quindi dire che l'immagine del trovarsi all'interno
dello spazio sia sufficiente a farci comprendere appieno la natura del
rapporto fra l'ente e lo spazio: infatti, come si può essere all'interno di
qualcosa che non ha limiti, confini e che non è corpo? Si può pensare di essere
all'interno della pura estensione? Per poter dire di essere all'interno di
qualcosa, bisognerebbe scorgerne il limite e la forma, percepirne la
dimensione, penetrarne la densità. Ma lo spazio non ha l'estensione
bensì è l'estensione (o la grandezza) in quanto tale e l'estensione,
senza ulteriori determinazioni, non ha né interiorità né esteriorità, per cui
ciò che è nell'estensione è nel vuoto, e non è né interno né esterno al vuoto
stesso.
L'ente è dunque posto nello spazio ed è parte di esso
ma nello stesso tempo è come se non ne fosse parte perché lo spazio non lo
limita in nessun modo, né dal lato della continuità né da quello della
contiguità della grandezza. Infatti, se ciò che è parte di qualcosa può
muoversi in esso indefinitamente, perché ciò che gli è contiguo è da ogni lato
il vuoto, bisogna dire che non ne fa parte allo stesso modo della parte
fisicamente delimitata e determinata, che non può assolutamente modificare la
propria posizione e che gode (quando ne gode) di un movimento ricompreso entro
limiti ben definiti dall'esterno, altrimenti andrebbe in ogni direzione, come
l'acqua di un fiume i cui argini siano crollati. Così esser parte dello spazio
non pregiudica la libertà di movimento, che non esiste per ciò che è parte
dell' ente, del corpo.
Esser parte di una grandezza determinata e di una
indeterminata non è perciò la stessa cosa, se non dal punto di vista puramente
geometrico. Diciamo punto di vista geometrico perché i punti, le rette,
le curve, gli angoli, i piani sono sempre identici, sia che siano concepiti
all' interno di un solido sia che lo siano nello spazio ad esso esterno. Una
retta o una curva che congiungano due punti, uno situato all'interno di una
sfera ed uno al suo esterno, non mutano la loro natura, non cessano di essere
una retta o una curva, per il fatto di passare dal pieno al vuoto, dal corpo
allo spazio che lo circonda. Poiché sia il pieno che il vuoto sono ugualmente
estesi (perché ciò che muta è la quantità ma non la grandezza) allora è come se
il pieno non ci fosse, come se l'ente fosse un'astrazione, e tutto ciò che
viene delimitato e diviso venisse a far parte solo della grandezza
indeterminata.
Ma ad un uguale risultato, mutatis mutandis, giunge la concezione
che nega l'esistenza del vuoto. Quest'ultima condivide con la precedente
l'identificazione di corpo e spazio, spingendola però al punto da negare la
possibilità stessa di uno spazio "indipendente", cioè vuoto, e di una
geometria che non sia dei solidi e delle curve, che non sia cioè una
descrizione delle proprietà che avrebbe il cosiddetto campo (vedi infra, § 14).
Anche qui, la parte lo è solo di una grandezza indeterminata (il
"campo") perché l'oggetto (l'ente) è concepito come una variazione
di densità del campo cioè, secondo la nostra terminologia, come una
quantità che solo provvisoriamente emerge dall'unicum della quantità-grandezza
che costituisce lo spazio-campo. In questa prospettiva, la parte stessa, negandosi
la distinzione fra il pieno ed il vuoto, viene ad essere qualcosa di indeterminato,
in quanto momento transeunte dell'universale pieno del campo, punto (o
"arco di cerchio") infinitesimo del suo spazio "curvo" (per
la critica di tale concezione, vedi infra, § 14 cit.).
11. La definizione della parte non è unitaria
Se rifiutiamo quanto di arbitrario è nelle teorie dei
Fisici, che si risolvono in una concezione indistinta del reale, e ci
atteniamo invece a quanto sembra potersi dedurre legittimamente dall'esperienza
e dalla necessità logica, e cioè che non è possibile eliminare la differenza tra
il pieno ed il vuoto, né facendo astrazione dal vuoto né facendola dal pieno,
dobbiamo allora convenire che la definizione della parte non solo ha una sua
validità intrinseca ma deve anche esser concepita sia in relazione a ciò che
per la parte è il suo tutto (l'ente) sia al tutto in generale. E ciò va mantenuto,
anche se in tal modo diventa molto più difficile (anzi quasi impossibile)
concepire la parte in modo unitario. Infatti, tale unità sarebbe
possibile solo facendo astrazione dal carattere determinato od indeterminato
della grandezza di cui si è parte, ossia eliminando, così come ha fatto quasi
tutto il pensiero moderno, la natura indipendente del tempo e la distinzione
tra il pieno e il vuoto. Ma il pieno e il vuoto non hanno la medesima natura
perché, come si è detto, il vuoto è l'estensione mentre il pieno, la
materia, è ciò che la occupa e quindi ha un' estensione.
Ora, l'essere e l'avere sono forse
identici? Ciò che io sono, in quanto ente, lo sono indipendentemente da ciò che
ho: il mio carattere, la mia natura, non verranno a mutare a causa di ciò che
io abbia, possieda e non abbia, non possieda. L'essere può esser mutato solo
dall'essere cioè dall'azione interiore dell'intelligenza e della
volontà, sostenute dalla Grazia: ma se l'idea della differenza sostanziale fra
essere e avere viene considerata
inapplicabile alla realtà
fisica, non essendo quest'ultima una realtà morale, e quindi del tutto adiàfora
al rapporto tra lo spazio e la materia, si deve tuttavia ammettere che il corpo
non è mai il luogo che occupa ma è in, ossia ha questo
luogo, finché lo occupa. Se così non fosse, mutando di luogo il corpo non lo
lascerebbe vuoto ma addirittura non lo lascerebbe affatto, portandoselo con sé,
e aprendo così una soluzione di continuità nello spazio. L'esperienza ci mostra
invece che tale soluzione di continuità non esiste, non ha mai luogo, dal
momento che il luogo occupato da un corpo può essere occupato da un altro o di
nuovo dal primo e così via all'infinito, senza che nemmeno si richieda il
mantenimento del medesimo stato della materia, dato che gli elementi si mutano
gli uni negli altri (cfr. supra, § 2). Rispetto al corpo e al suo movimento lo
spazio resta perciò immobile: è l'essere immutabile dell'estensione
rispetto a tutto ciò che in essa ha luogo, nella quiete e nel moto. E proprio
grazie a questa immutabilità, la materia e l'energia possono disporsi secondo
il loro ordine. Nell'esprimere questa realtà, il linguaggio si serve a pieno
titolo della differenza tra l'essere e l'avere, poiché essa è capace di
indicare una realtà sostanziale, cioè una differenza non meramente
verbale, come appunto quella tra l'essere immutabile e il suo modo, dato dal
più e dal meno che caratterizzano l'avere.
Riandando poi a quanto detto al § 8, facciamo
la seguente considerazione: come si fa a sostenere che il tutto è una somma di
parti, finite e determinate, se l'esser-parte stesso (la definizione della
parte) è ricavato facendo astrazione dal fatto che non si può esser parte allo
stesso modo della grandezza determinata (il pieno) e di quella indeterminata
(il vuoto)? E che nel tutto, accanto alle grandezze determinate (alle quantità
definite), vi sono le grandezze indeterminate, come lo spazio e il tempo? Si è
visto infatti che lo spazio e il tempo né sono fuori del tutto né sono il
tutto, se con quest'ultimo si deve intendere la realtà con tutte le sue
componenti (cfr. § 5). Se, dal punto di vista della quantità, la realtà consta
per noi della materia-energia con la sua suddivisione in elementi ed enti; dal
punto di vista della grandezza senza quantità, anche lo spazio, il tempo (ed il
pensiero) devono esser considerati quali parti della realtà, se si tratta di
realtà effettivamente esistenti. Si potrà obiettare che non è facile
ricomprendere il tempo nella definizione di una grandezza indeterminata, allo
stesso modo dello spazio. Infatti, il tempo risulta per noi da una misura che in
sé stessa è sempre spazi aie e aritmetica e quindi ci è data mediante unità di
misura finite: è perciò una misura determinata. Tuttavia, ciò che essa misura
non è lo spazio ma il tempo ovvero quella grandezza che non indica uno spazio
percorso ma per l'appunto il tempo impiegato a percorrerlo. E questo tempo
esiste o non, indipendentemente da ogni misurazione, come grandezza
indeterminata al pari dello spazio? Se se ne negasse la realtà, bisognerebbe
ammettere che la nostra misurazione del tempo, solo perché spaziale nell'unità di misura,
misura in realtà lo spazio e non il tempo. Ma questo sarebbe del tutto assurdo
perché quando noi stabiliamo per esempio il tempo impiegato dalla terra a
compiere la sua orbita attorno al sole, determiniamo una grandezza diversa da
quella stabilita nella misurazione della distanza percorsa. Il tempo impiegato
a percorrere una distanza non è certo la stessa cosa della distanza percorsa. È
in realtà una distanza diversa, che ha una qualità diversa: il tratto di
tempo. Ma ciò, dirà qualcuno, vale per il tempo in relazione al moto. E per
l'immobilità? La durata è il tempo non misurabile. Ciò che dura, è nel tempo.
Anche lo spazio vuoto dura, dal momento che esiste, quindi ha un tempo ed è nel
tempo, anche se per noi è impossibile misurarlo, mancando di punti di
riferimento, dati dal moto dei corpi che in esso si trovano. (Se poi il tempo
risultasse solo dal moto, come se la misurazione facesse venire in essere la
realtà misurata, allora - conclusione assurda - durante la quiete non ci
sarebbe più il tempo. Si cesserebbe di misurarlo, ma non per questo esso
cesserebbe di essere).
Tutto ciò
visto, ci chiediamo: come può una grandezza indeterminata, perché priva di
quantità, esser parte del tutto? Ovvero: se il tutto è solo una somma di parti;
se questa somma può esser determinata nei suoi elementi costitutivi (nelle sue
parti) procedendo mediante scomposizione e ricomposizione (somma e
sottrazione) induttivamente dall'esperienza; ne consegue che la somma delle
parti che costituisce il tutto dovrà esserlo solo di parti determinate, di
quantità determinate: non potrebbero esserci grandezze senza quantità .. Ma se
noi ammettiamo: 1) che anche lo spazio, il tempo, il pensiero, in quanto realtà
effettivamente esistenti, devono far parte del tutto; e 2) che dobbiamo
accettarli come grandezze senza quantità ossia indeterminate, dobbiamo allora
concludere 3) che il tutto (se è una somma) è contemporaneamente una somma di
grandezze determinate ed indeterminate, il che è contraddittorio con l'assunto
iniziale. Infatti, se il tutto è concepito come una somma di parti determinate
(finite) ma almeno una sola di queste è indeterminata, allora questa somma è
inficiata della contraddizione perché grandezze determinate ed indeterminate
non possono costituire una somma, non possono cioè sommarsi in modo da
costituire un risultato delìnito. Ed una somma il cui risultato non sia
definito, che somma è? Non sarà una somma apparente? Se il suo risultato è
definito, e quindi finito, definite e finite dovranno essere tutte le parti che
lo costituiscono. Allora il tutto, quale semplice risultato della somma delle
sue parti, è un risultato indefinito, se in esso devono esser ricomprese anche
le grandezze indeterminate dello spazio, del tempo e del pensiero. E se è un
risultato indefinito, non è un vero risultato, ed il tutto non può allora esser
concepito come semplice somma delle sue parti, in una prospettiva meramente
meccanicistica, quantitativa e finita.
12. Quali sono le parti del tutto
Dobbiamo quindi ammettere che le parti del tutto non
sono omogenee perché alcune sono determinate, altre indeterminate; alcune sono
parti in senso proprio, altre non lo sono, pur essendo nel tutto. In
quest'ultimo, vi sarebbero perciò delle parti che non sono veramente parti,
mancando esse della quantità e della determinatezza. La definizione della parte
si imbatte quindi in una doppia aporia: l) perché si deve concepire
l'esser-parte come parte anche di una grandezza indeterminata (lo spazio, il
tempo, il pensiero); 2) perché questa grandezza indeterminata deve esser a sua
volta concepita come parte del tutto. Dunque: ciò che è parte, lo è anche di
una grandezza indeterminata (senza quantità) però quest'ultima non costituisce
come tale il tutto ma ne è, a sua volta, parte. L'esistenza di questa
difficoltà, che, come si è visto, sembra decisiva per mettere in crisi l'idea
del tutto come somma definita e finita di parti, meccanicamente chiusa in se
stessa, non ci può naturalmente esimere dal tentativo di stabilire quali siano
le parti del tutto, a prescindere dalla loro natura e dal loro reciproco
rapporto, vale a dire senza doversi preoccupare del fatto che queste parti non
siano tra loro omogenee.
Quali sono
dunque le parti del tutto? In quanto siano determinate in una quantità sono
costituite dalla materia-energia e dagli enti; in quanto indeterminate: dallo
spazio, dal tempo, dal pensiero. L'inclusione di quest'ultimo sembra
giustificata da questa riflessione: come lo spazio e il tempo sono l'indeterminato
fuori di noi, il pensiero è invece l'indeterminato in noi, perché, pur essendo,
non solo non ha quantità ma nemmeno grandezza, nel senso dell'estensione (vedi
supra, § 5, c e d). Con pensiero non intendiamo poi la sola facoltà
intellettiva ma quell'insieme di attività spirituali -delle quali la facoltà
intellettiva è parte -il cui fondamento ultimo è da ricercarsi nella nostra
anima. Va poi detto che la nozione di una materia-energia viene accettata per
convenzione cioè sul presupposto che sia valida l'equivalenza di materia ed
energia sostenuta dalla fisica moderna. Poiché però la validità di questo
presupposto non è stata affatto dimostrata per tutta la realtà, sarebbe in
effetti più corretto parlare di materia ed energia.
a. Sono queste tutte le parti del tutto? Ci si
potrebbe chiedere, infatti, se, oltre alla quantità anche la qualità faccia
parte del tutto e se, oltre all'ente, anche l'atto od evento ne faccia parte.
Sappiamo infatti che la qualità inerisce all'ente allo stesso modo della quantità,
dato che l'ente risulta allo stesso tempo di quantità e qualità. on qualità si
intendono poi sia le sue caratteristiche sensibili, chiamate anche modi o
accidenti, sia quelle spirituali, date dal significato o dal valore inerenti
all'ente come tale. C'è la diffusa opinione
(diventata ormai tradizionale) che le qualità, sia sensibili che
spirituali, non appartengano all'ente in sé ma siano poste dal pensiero del
soggetto percipiente, all' insegna dell' apoftegma di uno dei padri dell'idealismo,
Berkeley, per il quale, come è noto, esse est percipil00. Ma su
questa opinione la visione meccanicistica e l'idealismo concordano, nonostante
le loro reciproche differenze, perché per entrambi ciò che l'oggetto è in sé
non è altro che ciò che esso è per noi . Ora, le qualità sensibili dell'ente
(il colore, il sapore, l'odore, il peso, etc.) non possono esser separate
dall'ente, nel senso che non possono occupare un'estensione maggiore o minore
di quella dell'ente cui ineriscono. E a ciò nulla toglie l'interpretazione
meccanicistica della qualità sensibile perché il misterioso processo chimico
interno che trasforma una certa lunghezza d'onda luminosa nella nostra
sensazione di un colore elabora un dato (l'onda con la sua lunghezza) che
proviene dall'oggetto ed appartiene obiettivamente all'oggetto come sua qualità
specifica. Questa qualità non è costituita da noi, visto che la lunghezza
d'onda non proviene da noi, ma dalla natura per esser percepita dal nostro
occhio come colore, e coincide con la quantità e l'estensione dell'oggetto
stesso (anche se non necessariamente con tutta l'estensione e tutta la
quantità). Essa è una grandezza determinata, in quanto parte qualitativamente
determinata dell'ente: è ricompresa perciò nell'esser-parte dell'ente,
come la parte lo è nel suo tutto determinato (mantenendo la propria
individualità, che è qui il Dasein della qualità).
Se invece consideriamo la qualità
in senso spirituale, ossia il significato e il valore dell'ente
(il senso del suo esser in relazione ad un fine), dobbiamo ammettere che né un
significato né un valore sono riconducibili ad un'estensione checche sia. Non
avendo perciò né quantità né grandezza, non potrebbero esser considerati parti
dell'ente di cui esprimono il valore. Il significato e il valore dell'ente
(ad esempio perché l'uomo è uomo, qual è il senso del suo essere in quanto
uomo) riguardano infatti tutto l'ente come tale, ne individuano
l'essenza e si pongono come il suo ineliminabile modo di essere. Ora, il modo
di essere dell'ente non può esser considerato come una parte dell'ente:
esso è invece l'essere stesso dell'ente in relazione al suo valore e
significato (come quando diciamo che il modo di essere dell'uomo è la sua humanitas,
che ne è la sua qualità specifica, che non può esser concepita come parte
ma solo come natura od essenza). In relazione al tutto, il significato e il
valore ne sono parti in quanto inerenti all'ente come qualità invisibili
(esprimendosi in essi il senso dell'ente in -relazione al fine). Si potrebbe
dire che sono nel tutto allo stesso modo del pensiero: essi partecipano infatti
di quella realtà di fatto inestesa ed invisibile, che, come si
100 BERKELEY, Of the Principles of Human Knowledge, Part I, §§ III, V, VIII.
è visto, è propria del pensiero. Ciò non vuol dire, però, che essi
siano un mero prodotto del pensiero, senza connessione alcuna con la
realtà dell'ente. Ma secondo molti, allo stesso modo delle qualità sensibili,
essi sarebbero posti dal pensiero del soggetto, e non costituirebbero altro che
il contenuto di un atto di pensiero. Sarebbero allora parti del pensiero,
se così si può dire. Riducendoli a qualcosa di meramente pensato si crede di
negar loro l'effettiva realtà. Ma questo non è, a ben vedere, esatto. Infatti,
non si può negare che il pensiero, per quanto indeterminato come grandezza,
esista, anche se di un'esistenza invisibile, e che esista come vera e propria realtà
di fatto. Che io pensi, quale ne sia la causa effettiva, è una realtà di
fatto, dotata cioè di un'esistenza obiettiva indipendentemente dalla
consapevolezza che io ne possa avere. Perciò, il contenuto del pensiero viene
ad avere un'esistenza reale, non meno di quella del mondo esterno al
soggetto che pensa. Se si crede quindi che il significato e il valore sono
unicamente attribuiti dal pensiero alle cose, non se ne nega a ben vedere la
realtà, ma gliela si riconosce unicamente come contenuti o parti del pensiero.
In tal modo li si rimuove dall'oggetto per attribuirli al soggetto pensante,
senza poterne però dichiarare l'irrealtà poiché essi vivono comunque della
stessa vita del pensiero del soggetto, per il quale pensare è una realtà di
fatto, sia pure inestesa ed invisibile. In ogni caso, in relazione al nostro tema, bisogna
dire che se si ritiene la qualità non-sensibile come qualcosa di posto dal
pensiero, essa è ricompresa in esso come la parte nel tutto; altrimenti essa
inerisce all'ente come sua qualità intrinseca. In nessun caso la qualità è
allora parte del tutto come realtà indipendente perché essa è sempre
qualità di qualcosa, si tratti dell'ente o del pensiero. E diciamo del
pensiero perché, se si ritiene che il pensiero attribuisca agli enti delle
qualità che essi non avrebbero per natura, ciò significa che quelle qualità,
in quanto da esso unilateralmente poste, non sono dell'ente ma solo ed
esclusivamente del pensiero, il quale avrebbe quindi la capacità di creare dal
nulla il significato e il valore. Capacità che il pensiero sicuramente possiede
(e se così non fosse, l'uomo non si sbaglierebbe mai) unitamente però a quella
di riconoscere il significato e il valore come qualità inerenti all'oggetto o
ente che dir si voglia. E difatti, anche nel parlare comune si distingue
abitualmente tra il significato che è tale solo per il soggetto che
parla e quello che questo stesso soggetto sente ed esprime come significato che
appartiene all'oggetto in sé e per sé: il significato oggettivo, dal soggetto
semplicemente riconosciuto. Ora, il vero problema in ordine alla verità della
conoscenza non è quello di cercare di dimostrare che ogni pensiero (ogni
concetto) non è altro che opinione del soggetto, perché si deve muovere dal
presupposto (dal dogma)
che tutto è soggettivo (un presupposto contraddittorio in se stesso,
dato che
deve valere a sua volta come verità assoluta); il vero problema
consiste al contrario nel riuscire a stabilire quando il significato e il
valore sono tali soggettivamente e quando lo sono invece oggettivamente: quando
esprimono una mera opinione e quando invece la natura della cosa (sul pensiero
vedi infra, § 15).
b. Ritornando ora al nostro problema (quali siano le parti del tutto) ci
dobbiamo chiedere se, oltre all' ente, anche l'atto od evento sia
parte del tutto. L'atto o evento è quell'accadere che si produce secondo un
nesso causale; esso presuppone quindi l'esistenza di tutte le parti del tutto
come condizione del suo esserci. Tutto ciò che accade, essendo parte di ciò che
è, non fa parte del tutto? Tuttavia, l'atto o evento non sembra potersi
qualificare, dal punto di vista della definizione, come una parte, concettualmente
distinta ed indipendente dalle altre. Infatti, ciò che causa l'atto è o l'ente
o il pensiero, che si manifesta mediante la volontà. Possiamo perciò dire che
l'atto è una manifestazione, limitata nel tempo e nello spazio, dell'ente da
solo (se l'azione è del tutto meccanica, indotta) o con il pensiero: l'atto si
distingue per le sue conseguenze (per il risultato) ma non al punto tale da
creare una nuova parte nel tutto. Nell'atto o evento c'è sempre un movimento,
ed anzi esso non è nemmeno pensabile senza un movimento: bisognerebbe allora
dire che il moto è una parte del tutto. Ma questo non è possibile perché la
velocità è una grandezza che risulta dal rapporto fra lo spazio e il tempo, la
cui quantità è la stessa del corpo che si muove. Il moto e la quiete,
secondo l'opinione tradizionale, sono due stati dell'essere e riguardano
non solo gli elementi e gli enti ma anche il pensiero nel suo rapporto con la
realtà. Non sono concepibili come parti dell'essere, e quindi del tutto, ma
solo come stati o modi, che non possono mai aver luogo
contemporaneamente, dato che si escludono a vicenda. Il moto e la quiete fanno
perciò parte del tutto non come parti vere e proprie ma come modi di essere
della parte (dell'ente). Si è appena detto che la qualità non può esser
concepita come parte rispetto alla quantità perché il modo o stato che in essa
si esprime non può esser concepito come parte rispetto all'essere cui inerisce.
E difatti il soggetto in quiete ed il soggetto in moto sono sempre lo stesso
soggetto, mentre la quiete ed il moto sono inconcepibili senza il soggetto
che li attui. Essi appaiono quindi come modi dell'essere del soggetto o ente.
Ma, se l'evento non è concepibile come una parte del
tutto in senso specifico, non si rischia di dissolverne l'individualità,
venendo così ad elidere la distinzione tra ente ed atto, che pure è fondamentale
per una retta comprensione della realtà? L'atto, in quanto fatto, è ben
distinto dall'ente che lo pone in essere, tant'è vero che un uomo è giudicato
non come ente o soggetto, non per il solo fatto di essere ciò che è, ma per gli
atti che compie. Rimanendo nell'ordine fisico, i cui principi non
possono esser trasportati in quello morale, sembra legittimo attenersi alla
seguente concatenazione logica: 1) il fatto od evento è opera del moto,
altrimenti non è o è in potenza, nell'intenzione dell'agente; 2) il moto però,
essendo un modo dell'ente, non può considerarsi parte indipendente del tutto
perché i modi dell' ente non sono parti del tutto separatamente dall'ente;
3) ergo, il fatto, come risultato di un modo dell'ente (e quindi dell'ente), mentre
avviene non si separa dal1'azione che lo pone in essere, ma, dopo esser
avvenuto, è a sua volta un ente o comunque una modificazione della realtà che
si attua in un ente (è quindi un ente che sia stato prodotto con quell'azione o
che ne abbia solo subìto le conseguenze).
L'individualità dell'atto e delle sue conseguenze non viene quindi affatto
negata, ed anzi, per il modo in cui è stata qui difesa potrebbe valere allo stesso
modo per l'ordine fisico e per quello morale. Una concezione come la nostra,
che nell'ordine fisico vuol distinguere tra il pieno ed il vuoto e tra la
quiete ed il moto, non può certo esser accusata di voler dissolvere l'individualità
fisica dell'atto e in campo morale la sua responsabilità. (Sappiamo infatti che
se l'azione diventa indistinta nell' ambito fisico, diventa poi incerta in
campo morale). Quel dissolvimento l'attuano invece i panteismi e gli immanentismi
i quali, muovendosi all'insegna dell'idea che "il vero è il tutto",
concepiscono il tutto come uno, come unità in cui l'individualità della parte
non risalta, né nell' ordine fisico né in quello morale. Né diversamente da
loro si è comportata, a questo riguardo, la visione meccanicistica del mondo
(vedi supra, § 8). E l'immagine del mondo dei Fisici è in un certo senso la
summa di tutti i meccanicismi, panteismi ed immanentismi perché essa identifica
lo spazio con il campo della materia-energia, in perenne movimento e senza bisogno
di un atto di creazione divino per essere ciò che è: un universo "curvo",
che però "si espande" ed in cui l'individualità degli oggetti, degli
enti, è solo apparenza. Contro questa concezione (e cioè contro quasi tutto il
pensiero moderno) va ribadito invece che ogni atto, ogni azione presuppone
l'agente ossia un ente capace di agire secondo un fine e secondo ben definiti
rapporti spazio-temporali. L'atto che modifica la realtà presuppone quindi un
soggetto capace di compierlo, il soggetto capace di agire. Non c'è azione che
si ponga da se stessa, come un "processo senza soggetto", come
un atto che non abbia bisogno di un soggetto agente, non c'è un farsi che
non sia invece un fare od un esser fatto. Affermare tutto ciò è un'assurdità
logica perché ciò che il pensiero è costretto a pensare come primo rispetto
all'azione e come primo rispetto alla realtà stessa, dovrà essere qualcosa che
contenga un principio attivo e quindi non potrà essere l'azione in
quanto tale, dal momento che essa è sempre qualcosa di prodotto, causato,
determinato, voluto; dovrà essere invece quel soggetto o ente per
il quale l'azione sia un modo di essere, se lo vuole avere. Prima ancora che da
un punto di vista religioso, è da quello logico che la massima goethiana
"all'inizio era l'azione" (concepita in evidente antitesi al prologo
del Vangelo di S. Giovanni) è del tutto errata. L'azione non è essa stessa
pensiero (altrimenti bisognerebbe dire che la natura pensa) ma è diretta da un
pensiero ed una volontà: essa presuppone perciò il pensiero del fine come
pensiero del soggetto agente (che per la natura è il pensiero del Creatore, nel
fine per essa voluto e senza il quale essa mai sarebbe esistita né
continuerebbe ad esistere).
13. Il tutto come Sostanza
a. In questo ultimo paragrafo della seconda parte ci occuperemo brevemente
(dati i limiti che il presente lavoro non può non porsi) di quel pensiero che nega
l'individualità della parte rispetto al tutto, concepito come sostanza
(vedi supra, p. 52). Tale pensiero muove dalla constatazione che la realtà sia
perfetta in se stessa: "Per realitatem et perfectionem idem
intelligo"101. La perfezione, infatti, va riferita a tutta la
realtà non ad una sua sola parte. Se si riferisse ad una parte, la realtà
verrebbe a trovarsi come divisa in due: quella perfetta e quella che perfetta
non è. Avremmo quindi nella realtà la coesistenza di una parte perfetta e di
una imperfetta, con la conseguente negazione (per intima contraddizione) del
significato stesso della definizione in questione. La perfezione deve allora
riferirsi, come suo attributo, alla realtà nella sua totalità, nessuna
parte esclusa, ossia alla realtà intesa come un tutto. Ma questo tutto
della realtà è in effetti il tutto e non può che essere altrimenti, per
logica conseguenza dalle premesse: se non fosse il tutto, si riaffaccerebbe la
divisione con la conseguente negazione della perfezione.
Per Spinoza dunque il tutto è
perfetto. Quest'affermazione è, a prima vista, sconcertante perché la realtà,
come sappiamo, ci offre la coesistenza dell'ordine e del disordine, della
perfezione e dell'imperfezione, della vita e della morte. Che essa esprima una
perfezione tendente a realizzarsi in un ordine nonostante il contrasto
rappresentato dal disordine, questo pensiero ci viene dall'esperienza,
soprattutto in considerazione del fatto che la realtà, proprio per l'ordine che
mostra, deve avere un senso e quindi essere per un fine che la trascende, in
quanto mera coesistenza di ordine e disordine. E questo fine non può essere a
sua volta il disordine, altrimenti si dovrebbe dire che il fine della realtà è
quello di non averne alcuno, il che è assurdo(se
101 SPINOZA, Eth., II,
Def. VI; V, Praef .
la realtà non è che disordine che si perpetua, perché mostra un ordine?
può dal caos totale nascere per caso un ordine, anche parziale?). Ma in
nessun modo l'esperienza ci autorizza a dichiarare che la realtà è come tale
perfetta nel senso pieno della parola. Attribuire alla realtà sic
et simpliciter questa qualità significa dissolverla in un'immagine
arbitraria, alla maniera dei visionari, oppure definirla mediante un giudizio
che non si basa sull'esperienza. Ed infatti, nel sistema di Spinoza, questa perfezione
è il frutto di una deduzione, cioè delle conseguenze teoretiche che egli vuole
trarre dal concetto della sostanza unica.
La sostanza è increata, eterna ed infinita perché è
ciò che "in se est et per se concipitur: hoc est id, cuius conceptus non
indiget conceptus alterius rei, a quo formari debeat"102. La
sostanza è ciò che è, da se stesso, causa sui103, onde non necessita
di nient'altro (del concetto di "un'altra cosa") per essere ciò che
è. Ma esiste nella realtà "qualcosa" che, secondo il suo concetto, è
esclusivamente per opera di se stesso, sì da non dover presupporre il concetto
(la necessità logica) di un altro ente che lo formi? Se esiste, non può essere
altri che Dio, il che è come dire che questo concetto della sostanza non sembra
potersi applicare ad altri che a Dio. Ed infatti Spinoza, nella VI delle celebri
"Definitiones" della I parte dell' Ethica, scrive che Dio è
"l'ente assolutamente infinito" ossia "una sostanza che consta
di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime un'essenza eterna ed
infinita"104. L'ente che è in senso assoluto causa sui è
dunque Dio, il quale deve esser definito come sostanza, dotata di infiniti
attributi. Questa sostanza, non prodotta né delimitata da alcunché (altrimenti
sarebbe finita e non sarebbe più causa sui), eppur esistente, non
potendo soffrire di alcuna limitazione né nel tempo né nello spazio, sarà
infinita, eterna, increata. La sostanza spinoziana contiene dunque in sé per
definizione il massimo della perfezione possibile. E del resto, identificandosi
con il concetto di Dio, non può non contenere il massimo della perfezione,
altrimenti bisognerebbe affermare che Dio non è perfetto, il che è assurdo.
Ora, ciò che è "causa
sui" è ciò "cuius essentia involvit existentiam"105.
Perciò la sostanza, essendo causa sui possiede un'esistenza che non può
in alcun modo dipendere da una causa esterna. Altrimenti detto:
l'esistere è intrinseco alla sostanza perché si pone da se stessa, è ciò
che è senza bisogno di un atto specifico, un atto di creazione. Ciò che è causa
sui è dunque increato ed esiste senza poter avere né inizio né fine
e senza poter subire limitazione alcuna da ciò che è finito.
102 Op. cit., I, Def. III.
103 Op. cit., Def. I.
104 Op. cit., Def .VI.
105 Op. cit., Def. I.
Spinoza può perciò affermare che "ad naturam substantiae pertinet
existere"106. Inoltre questa esistenza, essendo praticamente la
stessa cosa dell'esser della sostanza in quanto tale, dovrà concepirsi come infinita.
Se ne deduce che l'esistenza della sostanza è un' esistenza illimitata ed
infinita, propria di una realtà in sé perfetta. Ma questa esistenza può esser
allora anche quella della realtà sensibile, della natura? Poniamo la
domanda perché la natura è dominata dalla finitezza (dalla contrapposizione di
ordine e disordine di cui sopra) mentre non si può dimostrare in alcun modo che
sia infinita, né nello spazio né nel tempo. A noi essa sembra esserlo, ma in
realtà solo perché pensiamo che debba continuare ad esistere all'infinito così
come esiste oggi, per noi illimitata nello spazio e nel tempo. In ogni
caso la natura appare dominata dall'imperfezione, che è la caratteristica delle
sue parti in senso proprio, ovvero di tutto ciò che è determinato secondo forma
e figura (dato che la perfezione appartiene al modello, all'idea).
Ci si sarebbe allora aspettati
che Spinoza intendesse, con il suo concetto dell' esistenza necessaria della
sostanza, unicamente l'esistenza stessa di Dio in quanto esistenza
perfetta (increata, illimitata, infinita); vale a dire l'esistenza di
quell'essere perfettissimo il quale non si identifica mai (la sua stessa
perfezione glielo impedisce) con l'esistenza della natura, dalla quale si differenzia
non solo per via della Sua propria natura (divina) ma anche per via della Sua
stessa esistenza, cioè per il solo fatto di esistere. L'esistenza di Dio
non può essere l'idem et identicum dell' esistenza della natura proprio
perché quest'ultima non mostra mai le caratteristiche dell'essere perfettissimo
che è Dio, limitandosi invece a farne apparire come un'ombra, nella
perfezione della forma (peraltro transeunte) degli enti e nelle leggi che
reggono l'ordine, materiale e spirituale. In ogni caso, ci si sarebbe aspettati
che Spinoza avesse separato l'esistenza della natura da quella della sostanza
come causa sui, così come ciò che è contingente deve esser separato nel
concetto da ciò che è necessario. Ma proprio questo vuole evitare Spinoza, il
cui scopo è quello di dimostrare che la sostanza non può non comprendere, oltre
al pensiero, anche la natura o res extensa, argomentando dal concetto
dell' unicità della sostanza107 e da quello della perfezione.
Sappiamo infatti che la sostanza non può essere altro che unica perché, se
si dessero due sostanze, la sostanza non potrebbe più considerarsi infinita.
Non essendo più infinita, non sarebbe più nemmeno causa sui. Se la
sostanza è unica, allora la sua esistenza comprenderà il tutto, vale a dire
avrà
106
Op. cit., l, prop. VII.
107 Op. cit., l, prop.
V e VI.
anche l'attributo
dell'estensione (con la quale si intende la realtà fisica nella sua totalità).
L'unicità della sostanza implica non solo l'esclusione della possibilità
di ogni realtà diversa da essa ma anche l'inclusione nella sostanza di
tutto ciò che esiste, come suo modo o manifestazione. In tal modo, la
realtà fisica ed il pensiero sono concepiti non come entità indipendenti dalla
sostanza ma come attributi e come modi della sostanza. E poiché quest'ultima
esiste necessariamente, come modi in cui la sostanza è (necessariamente) ab
aeterno, senza bisogno dell'atto della creazione. E poiché la sostanza è
Dio, ciò è come affermare che la natura e il pensiero non sono stati creati da
Dio ma esistono necessariamente come suoi attributi sin da quando esiste Dio,
cioè da sempre. Così essi vengono divinizzati108 mentre Dio viene
mondanizzato (immanentismo) ovvero non si distingue più in alcun modo dalla
natura109.
b. A tutto ciò dobbiamo opporre che dall' unicità della sostanza
deriva solo la necessità della sua esistenza, non certo la necessità
dell'esistenza di ciò che non è la sostanza; deriva la necessità dell'esistenza
di un ente che deve essere infinito, illimitato, perfetto. L'esistenza che la
sostanza deve necessariamente avere, in quanto causa sui, non potrà
perciò essere altro che quella della sostanza stessa (e non sarà invece
quella dei suoi attributi, che sono secondo Spinoza l'estensione ed il pensiero
così come li concepiamo noi). Non si tratta di affermare qui una tautologia. Vogliamo
semplicemente dire, invece, che l'esistenza della sostanza, nella sua necessaria
unicità, non potrà comprendere in quanto tale l'esistenza di ciò che non è perfetto
perché finito o indefinito. Se l'esperienza ci mostra quest'ultimo tipo
di esistenza - di enti finiti ed indefiniti - allora bisogna dire che
quest'esistenza non è quella della sostanza. L'esistenza della sostanza,
in quanto assolutamente necessaria, non ha e non può avere anche i caratteri di
quella della realtà sensibile, in cui nulla è causa sui e tutto viene
invece da una causa esterna. Ma quest'esistenza così imperfetta - si
potrebbe obiettare - contraddice al principio dell'unicità della sostanza
perché ne viola la perfezione.
In realtà non v'è alcuna
contraddizione, se si resta coerenti alle premesse, cioè alla definizione
iniziale della sostanza. La sua unicità di causa sui non implica solo
che "in rerum natura non possunt dari duae aut plures substantiae eiusdem
naturae sive attributi"110; implica anche che ciò che concepiamo
ab aeterno ed increato non può essere altro che la sostanza (cioè Dio),
senza ulteriore qualificazione. Vogliamo dire che ciò che conta
108 Op. cit., V, prop. XXX, XXXI, XXXVI, sch., XL, sch.
109 "Deus seu Natura", cit., op.
cit., I, prop. XVI; IV, Praef.
110 Eth., I, prop. V.
non è tanto stabilire che non vi possono essere due sostanze (due
infiniti, due perfezioni), cosa che è in un certo senso implicita nel discorso,
quanto ribadire che l'unicità dell'ente increato ed eterno è tale che non può
trasmettere la necessità della propria esistenza a ciò che non è
se stesso, a ciò che per il suo carattere transeunte appare addirittura
destinato al non-essere. Ciò che è unico implicherà sempre, come
esistenza necessaria, unicamente quella di se stesso. Ciò che esiste in
maniera del tutto contingente non può perciò far parte della sostanza, come
suo attributo, acquistando così la medesima perfezione della sostanza.
Bisogna perciò distinguere tra ciò che è necessario
e ciò che è contingente (o se si vuole, tra il finito e l'infinito).
Il monismo spinoziano non ammette distinzioni del genere, nel suo sforzo
di cogliere l'uno come sostanza unica, che tutto comprende in se stessa ab
aeterno. Ma proprio il concetto della sostanza unica è il bozzolo dal quale non
si può uscire se non mediante la rottura rappresentata dall' atto di
creazione di ciò che non è la sostanza. La sostanza, nella sua unicità, non
può dunque uscire da se stessa, non può ammettere (come esistenza necessaria)
altro che quella di se stessa: la sua natura non potrà implicare
necessariamente l'esistenza di ciò che, in quanto finito, caduco, mortale,
addirittura le si oppone. Il rapporto della sostanza con la realtà rimane
necessariamente dualistico. L'esistenza di ciò che è imperfetto (la
natura e il pensiero stesso) non può perciò ricondursi alla sostanza unica, nel
senso di dover esser considerata come l'espressione increata della medesima
necessità (della medesima perfezione) che il pensiero riconosce a
quest'ultima. Si dovrà allora riconoscere che l'esistenza del contingente non
può derivare dalla stessa necessità che presiede all'essere della causa sui perché
sarà essa stessa contingente quanto alla sua causa (che non è sui ma
aliena). Il che è come dire che non potrà concepirsi altro che come
risultato di un libero atto o modo di essere della causa sui. Come
potrebbe del resto il contingente risultare in modo necessario da ciò
che è di per sé necessario? Allora non sarebbe più contingente. Solo un porsi
non necessitato della causa sui, un atto della sua libera volontà, solo
l'esistenza sempre attuale di quest' atto rende comprensibile
l'esistenza di ciò che è contingente (Dio non ha dovuto creare il mondo bensì ha
voluto crearlo).
Spinoza afferma poi che la
perfezione esige l'esistenza della cosa. "Perfectio igitur rei
existentiam non tollit, sed contra ponit; imperfectio autem contra eandem
tollit; adeoque de nullius rei existentia certiores esse possumus, quam de
existentia Entis absolute infiniti seu perfecti, hoc est Dei"111.
111Op. cit., I, prop. XI,
sch.
La res della quale si parla qui non può esser altro che quella
la cui essenza implica necessariamente l'esistenza: la sostanza infinita, Dio.
E giustamente Spinoza nota che dell'esistenza di nessuna "cosa"
possiamo esser più certi che dell'esistenza di Dio, che il pensiero deve
riconoscere quale "Ente assolutamente infinito ossia perfetto": se perfetto,
non può non esistere. Ma ciò significa, nello stesso tempo, che l'unica
esistenza di cui possiamo essere razionalmente certi, perché unica
esistenza necessaria, è solo quella dell'ente la cui natura implica
necessariamente la propria esistenza. Ne consegue che non possiamo esser
certi allo stesso modo dell'esistenza di quegli enti, la cui essenza non
implichi l'esistenza. Esistono degli enti la cui esistenza non possa
considerarsi affatto necessaria? Se esistono, essi saranno del tutto incommensurabili
all'Ente "assolutamente infinito", cioè a Dio, perché enti in cui il
predicato dell'esistenza è intrinseco (causa sui) ed enti in cui quel
predicato è invece estrinseco, ossia non necessario in relazione alla
loro natura (perché viene da una causa esterna), non possono certo
ricomprendersi nel medesimo concetto. E questi enti indubbiamente esistono.
Infatti, "Rerum a Deo productarum essentia non involvit existentiam"112,
per cui "Ad essentiam hominis non pertinet esse substantiae, sive substantia
formam hominis non constituit"113, altrimenti le cose e l'uomo
dovrebbero esistere necessariamente, il che non si può ammetterei114.
Ma perché diciamo che non
possiamo esser certi dell'esistenza di questi enti? Forse che la loro
esistenza non si constata empiricamente? Ma la certezza è qui esclusivamente razionale:
si tratta di una deduzione necessaria in relazione alle premesse. Non è,
infatti, in base ad un giudizio empirico che noi "siamo certi"
dell'esistenza necessaria dell'Ente perfettissimo, dato che Dio non cade direttamente
sotto i sensi. La certezza empirica non è di per sé assoluta come quella
razionale, che appaia per esempio quale conclusione inevitabile di un
sillogismo. La certezza empirica è post festum: siamo certi di ciò che è,
perché ce lo troviamo davanti, perché esiste, senza che la sua esistenza ci
mostri come tale una sua intrinseca necessità. Perciò, siamo certi
dell'esistenza delle res singulares finché esistono ed in conseguenza di ciò
non possiamo considerare la loro esistenza come necessaria. L'ulteriore
conclusione che da tutto ciò si può trarre è che le res singulares non sono perfette.
Infatti, se la loro essenza non implica necessariamente l'esistenza, ciò
significa che possono non esistere. E tutto ciò la cui esistenza può esser
tolta via, non è forse imperfetto, dal momento che "imperfectio
existentiam tollit"?
112
Op. cit. , I, prop. XXIV.
113 Op. cit., II,prop.
X.
114 Op. cit., ivi.
Come fa allora Spinoza ad affermare che la realtà è "la stessa
cosa della perfezione"? Non si accorge di attribuire la perfezione sia a
ciò la cui essenza implica l'esistenza (la sostanza unica) sia a ciò la cui
essenza non implica affatto l'esistenza? E questo jato fra la perfezione della
sostanza da un lato, e l'imperfezione delle res singulares dall'altro, come può
esser superato se non ammettendo (di nuovo) l'idea della creazione? La realtà risulta
divisa in due piani: da un lato ciò cuius essentia involvit existentiam,
dall'altro ciò cuius essentia non involvit existentiam. Come unificarli? Esiste
tra di loro un nesso diverso da quello rappresentato dall'atto della
creazione? Se ciò che esiste non mostra alcuna necessità intrinseca alla
sua esistenza, dovrà esser stato posto da qualcos'altro, dato che la mancanza
di ogni intrinseca necessità ad essere implicherà anche la mancanza del fare e
quindi di ogni possibile porsi.
Per la verità Spinoza sembra servirsi del concetto
della creazione, però si tratta, come è noto, di una creazione immanente alla
realtà, fondata su di un concetto di causa del pari immanente, dominato
dall'idea di necessità, per cui Dio non è effettiva causa prima del tutto ma
causa necessaria, perché è un Dio che non può esistere senza il mondo115.
Abbiamo visto che le res singulares sono "prodotte" dalla divinità: Dio
è causa di tutto ma nel seguente modo: "Deus est omnium rerum causa
immanens, non vero transiens"116. Immanente, perché? Perché
tutto ciò che è, lo si può considerare prodotto da Dio solo in quanto sia già
in Dio, non perché Dio lo produca ex nihilo, con un atto specifico.
Poiché Dio è la sostanza unica, i
modi della sostanza - che non possono esistere al di fuori di essa - sono
modi della natura divina e possono esser concepiti solo "per ipsam
solam". Perciò: "Quicquid est, in Deo est, et nihil sine Deo esse
neque concipi potest"117. Tutto ciò che esiste (i
"modi" della sostanza) non è tanto prodotto da Dio quanto "in
Deo", ne fa parte come attributo o meglio modificazione cui si comunica la
qualità dell'essere stesso della sostanza: l'eternità118. Dio è
dunque il sostrato o la causa immanente: "Deus rerum, quae in ipso sunt,
est causa"119. Dio non può essere causa di qualcosa che è fuori
di esso perché al di fuori di Dio non c'è nulla. Non si può allora ammettere
che Dio sia creatore perché, se ciò che è creato lo è dal nulla, prima di
esistere in conseguenza della creazione non era, e quindi non era nemmeno in
Dio. E nell'ottica immanentistica e panteistica, tutto ciò che
115 Op. cit., II, prop. III, sch.
116 Op. cit., I, prop. XVIII.
117 Op. cit., I, prop. XV e demonstr.
118 Op. cit., I, prop. XIX.
119 Op. cit., I, prop. XVIII, cit. e demonstr.
è, è da sempre, come attributo e modo dell'unica sostanza, cioè
"in Dio"; quindi è allo stesso modo di Dio, senza esser mai stato
creato: è eterno ed increato come Dio.
Il perno del ragionamento consiste nel principio che
"omnia quae sunt, in Deo sunt", il quale si basa a sua volta
sul concetto della sostanza unica, così come l'intende Spinoza. Il rifiuto
dell'idea della creazione è perciò una conseguenza necessaria dalle premesse e
conduce ad una contraddizione che ci sembra insanabile. E cioè: se gli
enti sono tutti "in Deo" come suoi modi, non potranno concepirsi come
finiti ma come infiniti ed eterni al pari di Dio120. Ma in tal modo
Spinoza deve attribuire l'eternità, l'esser-increato e l'infinità a delle
realtà la cui essenza (come egli stesso ammette) non implica l'esistenza, cioè
a delle realtà che per definizione non sono perfette.
L'idea della perfezione viene allora ad applicarsi indifferentemente
a ciò la cui essenza implica l'esistenza ed a ciò la cui essenza non la
implica affatto, il che sembra del tutto assurdo. L'affermazione che la realtà
è in quanto tale perfetta, appare allora priva di senso alla luce dei fondamenti
stessi del sistema spinoziano. E ciò dipende, ci sembra, dalle conseguenze
indebite che Spinoza vuoi trarre dalla definizione della sostanza unica,
distorcendola in senso immanentistico. Come può essere eterno un ente la cui
essenza non implica necessariamente l'esistenza? Come può esserlo la mente dell'uomo121 se essa
non esiste necessariamente di per sé? Come può esserlo, se non ammettendo nella
sostanza unica l'opera di una volontà che agisce per un fine, la cui
onnipotenza detta la necessità senza lasciarsi in alcun modo condizionare da
essa? E difatti Spinoza nega che Dio possa agire per un fine (il bene) perché
altrimenti si porrebbe qualcosa (il fine) "al di fuori di Dio", e
questo qualcosa "non dipenderebbe da Dio e Dio lo considererebbe come
modello delle sue operazioni"122. Perciò attribuire un fine a
Dio significa negarne la perfezione: "nam, si Deus propter finem agit
aliquid necessario appetit, quo caret"123.
L'argomento è sempre il medesimo:
non ci può essere nulla al di fuori di Dio, né nel pensiero né nella
realtà: Dio è il tutto. La critica dell'idea del fine ha come suo presupposto
l'identificazione di Dio e natura grazie al concetto immanentistico della
sostanza unica. In realtà, non si comprende perché l'idea del fine, in quanto
tale, debba togliere qualcosa alla perfezione divina., Anche in relazione
all'uomo, non è certo quest'idea (perché "esterna" all'uomo) a
dimostrarne l'imperfezione bensì lo è la sua insufficiente realizzazione
impedita dalla cattiva volontà, dal peccato.
120 Op. cit., I,prop. XV, XIX, XXI.
121 Op. cit., V, prop. XVIII.
122 Op. cit., I,prop. XXIV, sch. II.
123 Op. cit., I, Appendix.
Anzi,
nella retta idea del fine, di ciò per cui l'uomo è, l'uomo ha la perfetta conoscenza
di ciò che è (creato da Dio a Sua immagine) e conseguentemente di ciò che deve
fare. L'idea del fine non nega quindi la perfezione dell'uomo ma ce la
rappresenta come modello per l'azione: imperfetta è l'azione, non la conoscenza
che deriva dal modello (quando sia secondo il retto intendimento). Ora, in Dio,
non c'è la differenza tra il pensiero e l'azione che riscontriamo nell'uomo,
perché Dio è l'essere perfettissimo, l'ente che in atto è sempre ciò che deve
essere. Il fine per il quale agisce non può allora esser concepito come
qualcosa di estraneo o esterno all'essere divino. Queste
connotazioni non possono comunque applicarsi al concetto di Dio, non perché Dio
coincida con il tutto della natura, ma al contrario perché, essendo causa sui,
esiste per definizione nella pienezza di ogni possibile perfezione, indipendentemente
dalla natura e dal pensiero, per i quali solamente hanno significato i
topoi di estraneo, esterno. Ed anzi, si diminuirebbe Dio se gli si
negasse quella libera volontà e quell'agire per un fine che pur vediamo
presenti nell'uomo! E difatti Spinoza li nega, dopo aver trasformato l'uomo in
un attributo divino (in realtà della natura) nel modo contraddittorio che si è
visto. (Se poi, come afferma Spinoza, l'estensione ed il pensiero fossero
infiniti, non si comprende perché l'idea del fine dovrebbe trovarsi fuori di
loro, inficiandone la perfezione di realtà infinite. Sarebbe loro esterna, se
fossero finiti. Se l'infinito avesse qualcosa al suo esterno, non sarebbe più
infinito. L'infinito, non comprende tutto al proprio interno? Perciò, se Dio,
in quanto ente infinito, ha come attributi il pensiero e l'estensione124,
come può l'idea del fine non essere in Dio? Non è un pensiero e, come pensiero,
un attributo di Dio? E se è un suo attributo, non è in Deo? Dov'è allora
la diminuzione della perfezione di Dio, anche considerando Dio dal punto di
vista di Spinoza?).
c. Dall'identificazione
della realtà sensibile (res extensa) con Dio, discende poi la negazione
dell'esistenza effettiva delle parti del tutto. Come sappiamo, le res
singulares, che potrebbero esser considerate come parti del tutto, sono infatti
modi della sostanza, che è questo stesso tutto. Poiché la sostanza unica
e il tutto sono la stessa cosa, e poiché i modi della sostanza sono la stessa
cosa della sostanza, allora le res singulares, in quanto modi, non possono
effettivamente esser considerate come parti e possedere un'autentica individualità
nel tutto. Altrimenti sarebbe come dire che esse possono separarsi dalla
sostanza. Da tutto ciò si ricava che la sostanza non si
124 Op.
cit., II, prop. I e II.
può dividere in parti125 e che essa è indivisibile126.
Scrive infatti Spinoza che possiamo fare solo due ipotesi: che le parti
mantengano la "natura della sostanza" oppure che non la mantengano.
Nel primo caso, ogni parte dovrebbe essere "infinita" e "causa
sui" pur constando di un attributo ogni volta diverso (se l'attributo non
fosse diverso, la parte non sarebbe parte). Ma allora si avrebbero molteplici
sostanze, il che è assurdo127. Inoltre, queste parti "non
avrebbero niente in comune con il loro tutto e il tutto potrebbe esistere ed
esser del pari concepito senza le sue parti, il che non si può in alcun modo
ammettere"128. Le parti non avrebbero nulla in comune perché
sarebbero ognuna come la sostanza e nessuna sostanza può avere alcunché in
comune con un'altra129. Ma nemmeno con il tutto avrebbero nulla in
comune e si può immaginare il tutto sussistente "absque suis
partibus"? Allora: se la sostanza potesse esser divisa in parti, le parti
potrebbero conservare, ognuna di per sé, qualcosa della sostanza: però, non
potendo avere nulla in comune nemmeno tra loro -perché la sostanza è sempre
causa sui e se ne sta per sé -esse non potrebbero dar vita ad un tutto, non
potendo avere nulla in comune nemmeno con esso. Si avrebbe così l'assurda
conseguenza di ammettere le parti ma senza poter ammettere un tutto, di cui
esse facciano parte.
Non resta che ammettere l'altra
ipotesi e cioè che le parti non mantengano la "natura della sostanza"130.
Ma questa, secondo Spinoza, è ugualmente assurda perché si dovrebbe ammettere
che tutta la sostanza, una volta divisa in parti uguali, "naturam
substantiae amitteret", il che è inconcepibile, dato che essa sparirebbe131.
La sostanza, infatti, non può non esistere132. Non potendo essere
divisa in parti, la sostanza è perciò indivisibile133, ivi compresa
la "sostanza corporea"134. Alla fine, tutta
l'argomentazione può riassumersi nel seguente concetto: che la sostanza può
concepirsi solo come infinita, mentre le sue parti sarebbero finite: ma una
"substantia finita" sarebbe una contraddizione in termini 135.
125
Op. cit., I, prop. XII.
126 Op. cit., I, prop.
XIII.
127 Op. cit., I, prop. XII, demonstr.
128 Op. cit., ivi.
129
Op. cit., I, prop. III.
130 Op. cit., I, prop. XII, demonstr. cit.
131
Op. cit., ivi.
132
Op. cit., I, prop. VII.
133
Op. cit., I, prop. XIII.
134
Op. cit., ivi, coroll.
135
Op. cit., ivi, sch.
La dialettica di Spinoza batte di continuo sul
medesimo concetto, provocando sempre la medesima replica. È evidente che la
sostanza, unica e necessaria, non può esser divisa; ma questa indivisibilità
si può evidentemente riferire solo a ciò la cui essenza implichi necessariamente
l'esistenza. Ciò che esiste necessariamente ab aeterno non può esser
costituito da una molteplicità di parti, dato che esse presuppongono un inizio
ed una fine e quindi una finitezza che mal si accorderebbe con la natura
infinita della sostanza. Invece la realtà esterna in quanto tale (la substantia
corporea), poiché consta di enti la cui essenza non implica affatto la
necessità della loro esistenza, contiene la divisione, ovvero le parti e
gli enti (per esprimerci nel nostro linguaggio). Infatti, l'ente la cui natura
non implica l'esistenza è un ente finito perché, se la sua esistenza non
consegue necessariamente dalla sua natura, ciò significa che non dipende da
essa ma da qualcosa che ne è anteriore e al di fuori e che, perciò stesso, la
limita. Ma una natura che incorre in un limite, anche posto solo all'esterno, è
una realtà finita. La realtà corporea, in quanto costituita di parti, è
allora divisibile e finita. Naturalmente, noi sappiamo che la divisibilità si
riferisce alle parti della realtà più che alla realtà in quanto tale, dato che
la materia e gli enti, dividendosi, non ci fanno mai giungere al nulla. Ma non
si può nemmeno escludere che la realtà in quanto tale, con tutte le sue parti
Ce quindi anche con lo spazio, il tempo, il pensiero) sia divisibile, nel senso
che queste parti possano esser separate un giorno le une dalle altre e
ricostituite in una realtà completamente nuova, in cui non sia rimasto nulla di
propriamente corporeo (la realtà della visione beatifica).
Tuttavia Spinoza afferma l'indivisibilità
della realtà corporea in senso stretto, costituita dalla materia e
dall'estensione, le cui nozioni sono ricomprese nell'idea del corpo. A
ben vedere, questo voler fondare la supposta indivisibilità della realtà fisica
sul concetto della sostanza unica, sì da poter affermare per questa via
l'eternità della materia, costringe poi Spinoza a delle aporie. Infatti, la
tesi prima vista, secondo la quale le parti, non avendo la natura della
sostanza, estinguerebbero la sostanza136, non è attendibile per questo
motivo: se le parti non hanno la stessa natura della sostanza, come
possono suddividerla? Forse che la sostanza può essere affetta da un modo di
essere ad essa totalmente estraneo, che ne violi la natura disintegrandola?
Perciò, la suddivisione in parti, concernendo qualcosa che non ha la
natura della sostanza Ce quindi che non è la sostanza) non può in alcun
modo ridurre al nulla la sostanza.
136 Op. cit., I, prop. XII,
demonstr. cit.
Questa impossibilità è a priori e quindi il problema della nientificazione
della sostanza non si pone nemmeno. Se poi l'esperienza ci mostra che la realtà
è divisa in parti, ciò vorrà semplicemente dire che le parti, e quindi la
realtà fisica stessa, non appartengono alla sostanza e non ne sono in
alcun modo un attributo che ci permetta di cogliere la sostanza nella sua
essenza.
Va poi notato che il principio dell'individualità è
costruito da Spinoza con riferimento alla sostanza in quanto causa sui e poi esteso
alla sostanza corporea, cioè alla materia, a ciò che costituisce per noi
l'esistenza sensibile. Quest'estensione (che a prima vista potrebbe sembrare
indebita) è invece del tutto necessaria nel sistema di Spinoza, visto che in
esso l'estensione è un attributo della sostanza. E l'attributo costituisce
l'essenza della cosa137 . Gli attributi della sostanza sono il
pensiero e l'estensione. Essi non possono concepirsi come se ne fossero due parti,
altrimenti la sostanza sarebbe finita (perché ciò che è diviso è finito) e non
sarebbe più unica. In realtà gli attributi, poiché costituiscono la natura da
un lato ed il pensiero dell'uomo (la mens) dall'altro, non possono considerarsi
modi di essere di ciò che è causa sui, dal momento che l'essere della
causa sui dovrà pur considerarsi del tutto diverso e separato (come si è detto)
dall'essere di tutto ciò che non è se stesso (altrimenti non sarebbe causa
sui). E né la natura né il nostro pensiero si identificano con la sostanza
unica ed infinita, non potendosi in alcun modo dimostrare che la loro esistenza
è necessaria. (Come dimostriamo che la natura e l'uomo dovevano esistere?
Con il semplice fatto della loro esistenza?).
Comunque sia, la negazione della
possibilità stessa di concepire la parte è un'ulteriore conseguenza
della negazione spinoziana dell'idea della creazione. Ammettere l'esistenza
della parte significa separare l'essere della sostanza (cioè di Dio)
dall'essere del mondo finito. Il nesso tra i due (tra l'essere contingente e
quello necessario) dovrebbe esser dato dalla creazione come atto libero e
unilaterale di Dio. Ma quest'idea viene respinta perché "incomprensibile".
Infatti, Spinoza accusa i suoi avversari filosofici di negare la corporeità a Dio,
separandolo dal mondo, salvo poi affermare che il mondo è creato da Dio138
Ma "ex qua autem divina potentia creari potuerit, prorsus ignorant"139.
La creazione sarebbe qualcosa di incomprensibile per l'intelletto umano perché
non si saprebbe rappresentare "da quale potenza divina" essa
scaturirebbe La critica di Spinoza si basa perciò su due punti: l) si diminuisce
la perfezione divina separandola dall'estensione per poi dichiarare che
l'estensione, cioè il mondo, è creato da Dio; 2) l'idea della creazione è in sé
incomprensibile.
137
Op. cit., I, Defin. IV.
138 Op. cit., I, prop. XV, sch.
139 Op. cit., ivi.
Ma contro queste critiche va in primis affermato che
non è affatto contraddittorio separare Dio dal regno del finito, per poi
attribuire quest'ultimo ad un atto di creazione da parte di Dio. Anzi, la
"rimozione" della sostanza "corporea ossia estesa" dalla
natura divina, costituisce la conseguenza necessaria di una corretta
definizione della natura divina, la cui perfezione non può esser vincolata
all'esistenza del mondo, finito e caduco. Dio, se è l'essere perfettissimo (in
termini spinoziani, la sostanza unica) non può contenere come tale, cioè
intrinsecamente, ontologicamente, una realtà imperfetta come quella del mondo.
E poiché il mondo esiste, deve averlo per forza creato. La separazione dell'
estensione, di tutto ciò che è corpo, dalla natura divina è perciò
indispensabile ad un concetto di Dio che voglia definire Dio in sé e per
sé, e non in relazione al mondo. Il concetto di Dio deve avere solo Dio a
proprio oggetto, senza commistioni con la realtà sensibile. (L'immanentismo
vincola l'essere di Dio a quello del mondo, rendendo Dio imperfetto e contraddittorio
nel suo concetto).
Una definizione corretta della natura divina come
l'Uno assolutamente separato in sé dalla realtà sensibile ci permette di
comprendere la necessità della creazione, non come atto dovuto da parte
di Dio per creare il mondo, ma come atto che ha dovuto accadere, dal
momento che Dio aveva deciso di crearlo. E che Dio avesse deciso in tal senso
risulta per noi dall'esistenza effettiva del mondo, del quale per grazia
di Dio facciamo parte, e non dalla definizione della natura di Dio come natura
di un essere perfettissimo, perché l'idea della perfezione di questo Ente è
soddisfatta già con l'idea del carattere necessario della sua esistenza, ohne
weitere Bestimmung. E a quanto detto, nulla toglie la constatazione che la
creazione, in quanto manifestazione dell'onnipotenza divina, è del tutto
incomprensibile alla mente umana, nel senso che essa eccede del tutto le
limitate capacità di comprensione del nostro intelletto, sia come atto che
come disegno complessivo. "Con quale potenza", ossia in che
modo Dio abbia potuto creare l'universo, questo noi non possiamo nemmeno
tentare di comprenderlo. Ben diverso è invece affermare la necessità della
creazione, non in relazione a Dio ma al mondo esistente.
d. Se il mondo è
increato, esso non ha parti; un mondo increato non può dunque essere
divisibile. L'esistenza delle parti, così come ci appare dai sensi, sarà allora
il frutto di un'illusione o dovrà spiegarsi in un altro modo, vale a dire
risolvendo le parti nei modi: le parti dovranno esser colte non tanto "realiter"
nella materia quanto "modaliter"140.
140 Op. cit., ivi.
La visione immanentistica della realtà comporta dunque
un'interpretazione immanentistica della parte come modus della sostanza.
In tal modo, la parte si dissolve. Essa cessa di essere qualcosa di
specifico, di determinato, un'individualità precisa per diventare invece una
modificazione dell'infinito, essa stessa infinita. L'infinito, infatti, non può
risultare di parti finite: "la quantità infinita non è misurabile e non
può esser composta di parti finite"141. Questo principio è già
posto come vero e proprio dogma nella proposizione XII, da noi sopra criticata.
L'estensione è dunque una "quantità infinita" ed ugualmente lo è la
"sostanza corporea". Ma non si tratta di due realtà diverse: l'estensione
è la sostanza corporea, cioè l'attributo della sostanza quatenus res
extensa. L'estensione, nel linguaggio della metafisica del tempo, non
solo comprende sia il vuoto che il pieno, sia lo spazio che il corpo, senza
soluzione di continuità: vuol addirittura esprimere il concetto che nella
realtà si dia solo il pieno142. E difatti Spinoza scrive che devono
negare la legittimità di ogni divisibilità dell'estensione in parti soprattutto
coloro "qui negant dari vacuum"143. Ma perché proprio
loro? e perché Spinoza, per concepire infinita l'estensione, deve negare
l'esistenza di uno spazio vuoto? Un motivo c'è. Se ammettesse l'esistenza del
vuoto come spazio assoluto nel quale la materia si muova in ogni
direzione, dovrebbe già ammettere la divisibilità del tutto per il solo fatto
dell'esistenza del pieno e del vuoto, che possono concepirsi come
due parti della realtà, già per il fatto di non mostrare le medesime
proprietà. Così solo il pieno, cioè la materia, ha la capacità del moto,
esterno ed interno ai corpi, ad un punto tale da potersi annullare per
degenerazione o distruzione, svanendo dallo spazio stesso.
Ma gli argomenti specifici che Spinoza porta contro
l'effettiva esistenza del vuoto, sono due. Se la sostanza corporea potesse
effettivamente dividersi "ut eius partes realiter distinctae essent",
allora "una sola parte potrebbe esser distrutta, lasciando tutte le altre
nella medesima connessione di prima"144, il che non sembra
concepibile. Inoltre, le parti della sostanza corporea "ita aptari debent,
ne detur vacuum"145: devono sempre disporsi in modo da non ammettere
il vuoto tra di sé.
Questi due argomenti sembrano
fondarsi sull'esperienza. Essa sembra mostrarci, infatti, che una sola parte
non può staccarsi da un tutto organico, senza alterarlo in maniera decisiva. Ma
ciò non è vero in assoluto. Lo è, ad esempio, nel caso di un organo vitale del nostro
corpo, la cui corruzione o asportazione provocherebbe la nostra morte. Tuttavia
il discorso non vale per
141 Op. cit., ivi.
142 CART., Princ. Philos., cit., pars II, §§ X-XVI.
143 SPIN., Eth., I, prop. XV, sch., cit.
144 Op. cit., ivi. 145 Op. cit., ivi.
quelle parti di un corpo che possano perdersi senza pregiudizio
dell'esistenza del corpo stesso, come nel caso della mutilazione o perdita di
un arto. Vi sono dunque delle parti la cui distruzione lascia le altre nella
"connessione di prima", e ciò sembra sufficiente per togliere universalità
al ragionamento spinoziano. Che poi le parti di un tutto debbano disporsi sempre
in modo da non lasciare alcun vuoto all'interno di questo tutto,
nemmeno si può dire. Vi sono spazi all'interno del corpo animale che sono
costruiti proprio come cavità, come spazi vuoti, al fine di permettere
determinati fenomeni organici. Ed il fuoco che dal centro della terra erompe
nei vulcani, non ha bisogno di spazi vuoti da percorrere? E se in questi spazi
c'è aria essa c'è proprio perché sono vuoti. Solo un vuoto interno permette
all'aria e all'acqua (alla materia allo stato gassoso o liquido) di costituirsi
come spazio occupato dentro di noi o dentro la terra. La funzione di
questi spazi, nell'ordinamento del tutto, è proprio quella di esser vuoti. Senza
il vuoto, il processo organico che consta di mescolanze e svuotamenti
all'interno dei corpi non potrebbe aver luogo.
Ma l'argomentazione spinoziana non vuoi essere
di tipo organi cistico. La "sostanza corporea" non è per lui qualcosa
di determinato in un processo od in un ente specifico, quale un corpo separato
da un altro, ma la materia nella sua qualità di elemento indeterminato
dal punto di vista della forma e dell'ente (dell'individuo) e quindi
dell'estensione in senso stretto. Infatti "materia ubique eadem est"146.
La materia è la stessa ovunque, la materia (aggiungiamo) come elemento
primordiale (se così possiamo dire). In questa materia "non si possono
distinguere parti, se non quando la concepiamo affetta in diversi modi, per cui
le sue parti si distinguono secondo una differenza modale e non reale"147.
Spinoza si richiama alla natura dell'acqua che "generatur et corrumpitur"
ma nello stesso tempo non si presenta come divisa in parti148.
Dappertutto, l'acqua è sempre la stessa. In effetti, la forma occasionale
dell'acqua dipende da ciò che la contiene e non dalla forma delle sue parti,
come invece accade per un corpo. Tuttavia, se noi possiamo separare i due
elementi costitutivi dell'acqua, l'idrogeno e l'ossigeno, possiamo dire allora
che l'acqua consta di due parti, le quali, a certe condizioni, se ne possono
andare per conto proprio. L'acqua è quello stato della materia che non è divisibile
come il corpo (come la materia allo stato solido); tuttavia, se "si genera
e si corrompe", può esser divisibile. E se non si divide, perché l'acqua
che evapora, piove e rifluisce nei mari è (in ipotesi) sempre la stessa; se si
mantiene sempre indivisa, ciò accade perché è in
146 Op. cit., ivi.
147 Op. cit., ivi.
148 Op. cit., ivi.
natura indivisibile o perché il fine della creazione è di mantenerla
indivisa, sino ad un certo momento del tempo? Non fu detto: et mare iam non
est149? Ciò
che ci sembra indiviso lo è in sé o in relazione al fine per cui è? La semplice
constatazione empirica non ci permette di pronunciarci.
In ogni caso, l'acqua non è la sostanza
corporea, ma una sostanza corporea, e già per questo è parte della
sostanza corporea, ossia del tutto, in quanto costituito dalla sostanza
corporea. Non è quindi la materia ma uno degli stati della materia e
quindi è parte della materia. Dire che la sostanza corporea non è contenuta
nell'estensione indivisibile ed infinita ma che è la stessa cosa di
quest'ultima, significa affermare che gli elementi costitutivi della sostanza
non hanno l'estensione ma sono l'estensione, cosa del tutto
inaccettabile (vedi supra, § 2).
Del resto, ogni elemento della sostanza non occupa
tutta l'estensione della sostanza, altrimenti bisognerebbe dire che in ogni
punto della sostanza vi sono sempre acqua, aria, terra, fuoco, il che è
manifestamente assurdo. E poiché l'estensione della sostanza è lo stesso che
l'estensione in generale, ovvero il tutto, ne conseguirebbe che in ogni parte
dell'universo si dovrebbe avere la medesima commistione, il che è del pari
assurdo. Ma se ogni elemento non occupa tutta l'estensione della sostanza,
ossia tutta la res extensa possibile ed immaginabile, allora l'elemento,
non coincidendo con la sostanza corporea se non in parte, ne è una parte. E
ne è parte realiter e non semplicemente modaliter perché il suo
esser parte deriva dall'avere una minore quantità rispetto al tutto
rappresentato dalla quantità di tutta la sostanza corporea. All'interno della
materia si danno dunque le parti anche se queste parti, cioè gli elementi, sono
ovunque (cioè dove sono) le stesse: il fuoco che brucia su di noi o nel sole o
in una stella lontana è sempre lo stesso fuoco.
L'identità della materia, il suo
esser "sempre la stessa" in quanto materia, non può perciò riferirsi
alle diverse qualità e proprietà che essa mostra nei suoi elementi e stati
fondamentali. La natura della materia non è infatti univoca ma mostra
qualità diverse nell'acqua, nel fuoco, etc. E queste qualità sembrano ora
mescolarsi ora starsene per conto proprio, in un luogo separato nello spazio da
un altro luogo, occupato dalla medesima materia o da altro. Onde l'antico
problema della commistione degli elementi150 e cioè dell'intima
connessione e del trapassare reciproco degli elementi e degli stati della
materia l'uno nell'altro, viene risolto da Spinoza solo per astrazione:
149 Apoc., 21,1.
150 ARIST., Phys., 189-90; De gen. et
corr. A, 317-8, 327-8.
non mediante una effettiva dimostrazione (bisognerebbe riuscire a
dimostrare che gli elementi si riducono ad uno solo) ma mediante la
superimposizione di un vero e proprio postulato. E quest'ultimo consiste
nell'affermazione che dappertutto vi sia sempre e da sempre il pieno, sì che la
materia (non per la natura o qualità che possiede ma come mera quantità cioè
per il solo fatto di essere) in quanto estesa, sia identica all'estensione
e perciò indivisibile, perché la sua divisibilità comporterebbe quella dell'estensione,
il che è assurdo. La quantità della materia, cioè la sua esistenza in quanto cosa,
res, non si distingue dunque dall'esistenza dell'estensione: non è ciò che presuppone
l'estensione (lo spazio vuoto) per poter essere, avere un luogo e muoversi,
ma l'estensione stessa.
Ma quest'identificazione non può esser dimostrata ed
anzi viene smentita dalla considerazione che l'indivisibilità della materia è
negata dai rapporti tra i suoi elementi, che sono ora di attrazione ora di
repulsione; è negata cioè dalla natura della materia, che incessantemente
si divide e si riunisce, senza che si possa dimostrare esser sempre identica la
quantità che si divide e che si riunisce (dato che per questo supposto esser
identico si pone poi il problema del ritorno della medesima materia distrutta
dalla morte - vedi supra, § 4 c). L'esser identico a sé della materia non
riguarda perciò la sua natura (la sua qualità) ma piuttosto la sua quantità,
il fatto cioè che, per il solo fatto di esistere, sia identica all'estensione;
che tra di essa e lo spazio non si possa ammettere differenza alcuna. Infatti,
la natura della materia ci mostra già una divisione in atto (e quindi una
presenza di parti) perché gli elementi in cui si presenta non possono
confondersi l'un l'altro, altrimenti bisognerebbe dire che tra il fuoco,
l'aria, l'acqua, la terra, non c'è differenza alcuna; per cui sarebbe la stessa
cosa (quanto alle conseguenze) mettere il dito nel fuoco o metterlo nell'acqua
o infilarlo nella terra. L'impossibilità di poter dichiarare l'identità assoluta
degli elementi tra loro, dimostra, a nostro avviso, che la materia non
coincide in quanto tale con l'estensione: al contrario, la occupa senza averne
la stessa natura. E quando Einstein afferma che il vuoto non esiste perché
bisogna supporre che in ogni parte dell'universo la densità della materia sia
sempre superiore allo zero, costituendo tale densità non materia nello spazio
ma lo spazio stesso, il quale sarebbe perciò "curvo" a causa
della densità medesima; più che darci un'effettiva descrizione della realtà
proclama un postulato, il postulato fondamentale delle geometrie non euclidee o
meglio la sua applicazione all'immagine fisica dell'universo. E in questa immagine
si sente l'ombra di Spinoza.
Il concetto della parte come modus della res
extensa respinge dunque da sé l'idea che la parte possa concepirsi come una
realtà finita. Il che significa estinguere la possibilità stessa del
concetto della parte. La realtà, secondo Spinoza, in quanto di per sé sia già
perfetta, perché attributo infinito dell'infinita causa sui, cioè della
sostanza unica, è una realtà senza parti. E quindi: senza differenze,
senza individualità, senza gerarchia, senza veri rapporti causali. Ma senza
tutto ciò, non può esservi un ordine nel tutto. Il tutto stesso della realtà si
dissolve nell' indeterminato. Diventa una massa informe, in cui i
contorni dell'ente (dell'oggetto) sfumano e si perdono.
Parallelamente, anche nell' etica di Spinoza
non si ha alcuna individualità determinata, alcuna volontà guidata
dall'intelletto in base alla percezione dell'idea del fine e di chiari rapporti
di causa ed effetto, alcuna possibilità di distinguere il bene dal male,
ridotti a forme o modi dell'utile. Il soggetto agente (centro di ogni etica) è
invece qualcosa di indistinto, in quanto soggetto: si dissolve nella res
cogitans, di cui è un modo infinito, così come la parte si dissolve
nella res extensa. E la libertà dell'uomo non è, infatti, per Spinoza,
altro che un sapere della mente "in Dio", cioè un contemplarsi eterno
della sostanza unica nel modo rappresentato dalla nostra mens individuale,
che per questa via crede di acquisire l'eternità: dissolvendosi secondo
necessità nel tutto, alla maniera di Bruno, dato che per Spinoza l'anima non
esiste.
III.
Analitica delle parti in nuce
Spazio, corpo, simultaneità
Il pensiero
ANALITICA DELLE PARTI IN NUCE
Dati i limiti del presente saggio, che vuole essere
una introduzione alla metafisica
dell'Uno, procederemo ora, per maggior compiutezza dell'insieme, ad alcune
considerazioni sull'inadeguatezza dell'immagine del mondo - un vero e proprio tutto informe - elaborata dal pensiero
contemporaneo, convinto che il tutto sia l'uno e che non sia necessario
ammettere l'esistenza di un Dio creatore, cioè dell'uno in senso proprio, della
Monotriade. L'esposizione si limiterà a mettere in rilievo alcuni punti essenziali, avanzando il dubbio sulla legittimità di
alcune pretese fondamentali, oggi dominanti, circa il modo d'intendere le parti che costituiscono il tutto, a
cominciare dall' idea dello spazio.
14. Spazio, corpo, simultaneità
a. Nell'indagare la negazione dell'individualità della
parte ad opera di quella filosofia che concepisce il tutto come sostanza eterna
ed increata (Deus sive natura), abbiamo visto che un punto essenziale è
rappresentato dall'identificazione
della materia con l'estensione. Crediamo di aver dimostrato che, degli
argomenti apportati da Spinoza a favore di questa identificazione, nessuno sia
decisivo. Un forte ostacolo è rappresentato dalla presenza nella materia di elementi che non si lasciano affatto
ridurre gli uni agli altri. Quando l'acqua evapora diciamo che la materia passa
da uno stato liquido ad uno di tipo volatile o gassoso; e quando si condensa
per tornare di nuovo sulla terra sotto forma di pioggia, diciamo che da uno
stato simile a quello di un gas ritorna ad uno stato liquido. Tuttavia l'acqua,
in questo ciclo, non diventa aria, sic et
simpliciter, ma concorre al mantenimento della composizione chimica di
quest'ultima. Né si trasforma in fuoco. Né quest'ultimo si muta in terra o
acqua ("Er foco lo spegni coll'acqua, ma l'acqua co' che la
spegni?"). E pur partecipando l'acqua e della terra e della materia di cui
sono fatti gli esseri viventi, non si identifica con nessuna delle due. La
mescolanza parziale e temporanea degli elementi che ci offre l'esperienza
(nella commistione dei loro elementi chimici in senso stretto) non sembra mai
tale da dissolvere pienamente l'individualità di un elemento,
da consentirci di affermare l'effettiva riduzione di tutti gli elementi
ad uno solo.
La reductio
ad unum sembra perciò esser stata uno dei compiti del concetto ed il
pensiero moderno l'ha tentata con l'identificazione di corpo e spazio, sostanza
materiale ed estensione, andando per forza di cose al di là della
considerazione della natura della materia in senso stretto. Almeno nelle intenzioni.
Infatti, Spinoza non ha potuto addurre come prova dell'identificazione
l'indivisibilità dell'estensione in
quanto tale, priva cioè di ogni sostanza corporea, perché avrebbe dovuto
ammettere l'esistenza del vuoto, distruggendo così in partenza la propria tesi.
Né ha voluto affermare che l'esistenza effettiva del vuoto comporti il coestendersi continuo di materia e
spazio, quale che sia lo stato in cui la materia versi, perché ciò avrebbe
significato l'ammissione implicita dell'esistenza di uno spazio che, in quanto tale, si estende al pari della materia. Non ha voluto,
perché altrimenti avrebbe concesso allo spazio di avere un'estensione che si
può concepire in maniera indipendente
da quella della materia. Egli ha dovuto
in realtà addurre come prova la natura
della materia stessa, quella qualità per la quale essa sarebbe indivisibile:
indivisibile intrinsecamente, a causa di ciò che è, e non per il solo fatto di
essere (cioè di avere un'estensione e di occupare un luogo). Ma questa prova è offerta, come si è visto,
dall'acqua in quanto materia, la quale non ammette una forma divisibile in
parti, come il corpo, ma solo la forma transeunte di ciò che al momento la
contiene. L'acqua, che è ovunque la stessa, ci dimostrerebbe che la materia è
ovunque la stessa (perché l'aria è ovunque la stessa, il fuoco e la terra lo
sono, la luce lo è).
Ma questa materia apparentemente indivisibile è in
realtà (come si è detto) solo una parte
della materia. I corpi organici e inorganici sono ben divisibili, secondo le
parti che li compongono od arbitrariamente (in seguito ad urto), ma fanno
anch'essi parte della materia. E l'acqua non può esser scomposta nei suoi
elementi chimici? In ogni caso, anche volendo attribuire a tutti i costi
l'indivisibilità agli elementi della materia, già l'esistenza stessa di questi elementi, ci fa vedere
che la materia è un che di composto, e quindi di divisibile in parti (cfr.
supra, Aristotele, nel § 9 b). Le parti sono qui gli elementi. Gli elementi
non sono poi la stessa cosa degli stati della
materia, che noi possiamo ritrovare o ricreare, in tutto o in parte,
nell'ambito di un elemento (per esempio nel trasformare un gas in un liquido,
come nel caso dell'azoto). Gli stati della materia non sono tre materie diverse
ma tre modi di essere della medesima
materia o meglio del medesimo elemento della materia.
Se questo modo di esprimersi sembra arcaico, addirittura presocratico, si rifletta sul
fatto che il pensiero, per dimostrare l'unicità
della materia, per poter affermare che essa è una, eterna ed indivisibile (e
che quindi non abbisogna di un creatore), ha dovuto introdurre un elemento
estraneo alla nozione stessa di materia, rappresentato dall'estensione; ha
dovuto identificare la materia con tutta
l'estensione in quanto tale; ha dovuto negare la concepibilità stessa di uno
spazio vuoto. Ma questa soluzione - che in Spinoza trova un suo prototipo
speculativo - non è certamente soddisfacente. Né è riuscito ai Fisici di
dimostrare in questo secolo che la materia si risolve tutta in energia, come se
quest'ultima rappresentasse l'elemento unico. Si proclama come un dogma che la
materia è "una forma di energia" ma senza riuscire a darne una dimostrazione
universale, che valga per tutti i piani della realtà. Affermare che tutta la
realtà è un ammasso cosmico di energia, regolato da leggi simili alle equazioni
di campo, al cui interno gli enti (gli oggetti) non sono altro che transeunti
variazioni di densità, come se fossero un mero Schein, è del tutto astratto.
Che immagine del mondo è mai questa? In essa l'oggetto "perde di
significato", come nell'arte moderna. Nel sapere dei Fisici sono
trapassate le ambiguità dello spinozismo, a cominciare da quelle presenti nel
concetto dell'estensione (ambiguità che risalgono a Cartesio e che per la
verità gravano su tutto il pensiero moderno, nella misura in cui è panteista,
immanentista e materialista).
L'estensione,
in quanto concetto che voglia spiegare la realtà sensibile, non ci dice nulla
intorno a ciò che la occupa. Quando pensiamo l'estensione, infatti, non
possiamo limitarci a pensare l'estensione di
qualcosa: dobbiamo invece pensare l'estensione come se fosse la cosa stessa, cioè in sé e per sé. E
questo pensiero non è così astratto come sembra. Almeno in parte, esso si fonda
sull'esperienza. Noi vediamo infatti
che la materia, configurata negli enti o corpi, non occupa mai tutta l'estensione, sia perché esiste un
vuoto interno ai corpi sia perché esiste spesso un intervallo di spazio fra
essi. Sulla terra, ci muoviamo come sulla superficie di una sfera, disponendo
perciò della superficie curva su cui viviamo e dello spazio ad essa adiacente
come di uno spazio libero. Vediamo poi che questa sfera si trova in uno spazio
immenso, in cui l'intervallo tra i corpi che lo occupano è ben visibile. Sia
guardandoci intorno sulla terra che guardando in cielo, percepiamo esattamente
la differenza tra lo spazio occupato e quello vuoto, tra il pieno e il vuoto;
vediamo che c'è un intervallo di spazio tra i corpi, intervallo che muta a
causa del loro movimento, dal momento che ogni corpo, per quanto grande, è
sempre molto più piccolo dello spazio che il nostro occhio abbraccia. Dunque
l'esperienza ci fa vedere che il corpo occupa sempre l'estensione ma che non
occupa mai tutta l'estensione ai
nostri occhi possibile. Il corpo e l'estensione non sono dunque la stessa
cosa. Possiamo quindi pensare l'estensione come qualcosa di distinto dal corpo che la occupa.
L'esperienza ci permette questa serie di deduzioni: l) non si mostra mai un
corpo così esteso da occupare tutto lo spazio che vediamo (se lo occupasse
forse non potremmo nemmeno vederlo) e lo spazio sembra di una vastità
incommensurabile rispetto ai corpi che lo occupano, anche rispetto ai più
grandi; 2) esiste sempre un intervallo di spazio tra i corpi o comunque la
possibilità di averlo grazie al moto dei corpi (moto locale) o al moto
provocato dall'esterno, per azione meccanica più o meno violenta; 3) esiste
quindi una realtà che non è corpo (non è materia), costituita per noi
dall'intervallo di spazio tra i corpi; 4) questo intervallo non è fisso ma
variabile a causa del moto dei corpi, che ha luogo sia nello spazio che appare
come intervallo variabile tra i corpi che in quello da loro precedentemente
occupato; 5) ne consegue che lo spazio che ci appare come un intervallo tra i
corpi e quello che essi occupano o percorrono è sempre lo stesso spazio -
un'estensione sempre uguale a se stessa - dal momento che il medesimo spazio può esser volta a volta
intervallo tra i corpi o luogo da essi occupato, può cioè essere indifferentemente pieno o vuoto; 6) se
lo spazio è sempre lo stesso di contro al mutare di luogo dei corpi, ciò
significa che esso non li segue nel loro movimento, e quindi che è una realtà
immobile, l'estensione in quanto tale,
il vuoto in sé, del quale non
riusciamo a rappresentarci un limite, poiché esso dovrebbe esser costituito da
un corpo (che a sua volta dovrebbe occupare un ulteriore spazio) o da un altro
spazio.
La riflessione indotta dall'esperienza ci
permette quindi di distinguere nel concetto il pieno dal vuoto, la materia
dall'estensione e di concepire l'estensione in sé come lo spazio vuoto che
contiene tutti i corpi, cioè tutta la materia possibile. A questa riflessione
si potrebbe opporre che essa potrebbe non esser vera dal momento che i nostri
sensi errano. Ma una simile obiezione la si può fare solo per assurdo, perché
se fosse falsa la nostra percezione della differenza tra il pieno e il vuoto
(con tutto ciò che essa comporta in termini di simmetria, senso della
profondità, visione, equilibrio psicofisico del nostro comportamento e dei
nostri sensi in generale), noi non saremmo nemmeno capaci di muoverci e di
pensare, la nostra normalità quotidiana non esisterebbe nemmeno. Ma
l'esperienza ci mostra in maniera incontrovertibile che noi possediamo un
equilibrio psicofisico innato, del quale la capacità di distinguere in ordine
ai rapporti spaziali - separando e connettendo il pieno ed il vuoto secondo
necessità - è un elemento determinante. Questa capacità è messa in forse solo
da fattori patologici, da certe malattie.
Come unica critica possibile resta dunque
quella che i sensi ci ingannino in altro modo, dandoci cioè la sensazione del
vuoto là ove c'è invece sempre il pieno, perché nell'estensione si deve
ammettere sempre qualcosa, anche dove a noi sembri esserci solo lo spazio
vuoto. Qui il ragionamento si spinge al di là dei sensi, cercando di
rovesciarne le conclusioni. È evidente che, se ciò che a noi appare vuoto è
invece pieno, in questo pieno ci dovrà essere una materia diversa da quella che
troviamo nel pieno che cade sotto i nostri sensi. In altre parole, si tratterà
sempre della stessa materia ma in uno stato tale da non poter essere da noi
percepita. Uno stato del genere è quello volatile o gassoso. Da qui l'idea
(oggi scartata) che nel cosmo vi sia l'etere, materia invisibile sottilissima
ed impalpabilel51. Al posto dell' etere, i Fisici mettono oggi
polvere e gas, la "nube cosmica", visibile ed invisibile, radiante
materia ed energia per ogni dove, una nube che però non è nello spazio perché è
lo spazio! In questa visione, lo spazio vuoto, cacciato dalla porta, rientra
dalla finestra: se non si dà tra i corpi, perché il tutto è un'incommensurabile nube di gas, si dovrà supporre (cfr.
§ 2 di questo saggio) presente all'esterno
della nube (che altrimenti non avrebbe dove espandersi) e perciò come luogo
comunque occupato dalla nube stessa
nel complesso dei suoi movimenti.
Ma per il concetto, il punto
essenziale non è dato nemmeno dall'accettare o meno la presenza di un effettivo spazio vuoto nel cosmo. È vero
che non accettandolo, si rende incomprensibile il movimento, e tanto più quando
esso è concepito come movimento del tutto. Ciò che vogliamo dire è che,
qualsiasi cosa si voglia credere sempre presente nello spazio, oltre la materia
che cade sotto i nostri sensi, si tratti di materia in qualsivoglia stato od
energia, o di materia-energia (se la prima non è che "una forma"
della seconda), resterebbe sempre la possibilità della seguente constatazione:
che lo spazio tutto occupato, lo
sarebbe proprio perché in se stesso vuoto.
Esso è qualcosa che è, che esiste per essere occupato, in tutto o in parte; per
poter essere pieno e quindi per non restare vuoto, in tutto o in parte. Lo
spazio è l'occupabile per eccellenza (se così possiamo esprimerci), il
"ricettacolo" in se stesso vuoto. Concepirlo come non esistente in
quanto vuoto, perché il vuoto non può esistere come tale, è del tutto assurdo. Sarebbe come affermare che una
sedia deve esser costruita con un corpo ad essa incorporato, visto che è una
sedia, cioè uno strumento per un certo uso del corpo. Ma in tal modo nessuno potrebbe
sedervisi. La sedia, proprio in quanto sedia, è invece costruita vuota del
corpo che la userà, perché essa deve approntare quello spazio (vuoto) che consente
ai corpi di utilizzarla, in
151
MAXWELL, Campo ed etere (1890), tr. it. di autori vari in EINSTEIN, Relatività: esposizione divulgativa (e
scritti di Descartes, Newton, Lobačevskij, Riemann, Helmholtz, Maxwell,
Poincaré, Einstein su Spazio, Geometria, Fisica) con saggio introduttivo di
B. Cermignani, Torino, 19774, pp. 250-80, 265: l'etere
"sostanza materiale di natura più evanescente dei corpi visibili, che si
suppone esista nelle parti dello spazio apparentemente vuote".
quanto sedia. (i puristi del concetto ci perdoneranno
questo paragone).
Lo spazio non può perciò esser considerato
come una fra le possibili
"varietà di grandezze pluriestese" e quindi "solo un caso
particolare di grandezza tri-estesa", dove la "pluriestensione"
sembra stare, rispetto allo spazio, come il tutto nei confronti della partel52.
Allora lo spazio verrebbe ad essere, non l'estensione in sé e per sé (la
"pluriestensione" in quanto tale), ma un tipo di estensione, come se ci potessero essere delle grandezze
dotate di un'estensione diversa da
quella dello spazio. Ma ciò è inconcepibile. E infatti questo modo di definire
lo spazio muove dal presupposto che
non ci sia differenza tra il pieno e il vuoto, tra lo spazio e il corpo, per
cui le forme geometricamente rilevanti assunte da ciò che è nello spazio (assunte dalla materia-energia)
vengono considerate invece forme dello
spazio; forme le quali, nella loro diversità, farebbero apparire diversi tipi di spazio. Non si dice quindi che
ciò che è nello spazio sia piano, curvo o concavo ma che lo spazio è piano, curvo o concavo. Si è
così elaborata una nozione di "spazio curvo"153, assunta
dai Fisici a fondamento delle loro teorie, che va interpretata alla lettera:
"curvo" non è ciò che è nello spazio, ma lo spazio in quanto tale,
poiché in natura non esisterebbe il vuoto e le forze gravitazionali farebbero
assumere allo spazio una forma sferica su scala cosmica.
Lo
spazio "curvo" corrisponderebbe, meglio di ogni altra
"varietà" di "grandezza n-estesa",
all'immagine effettiva della realtà, che, dal punto di vista spaziale, sarebbe
perciò quella di "una varietà illimitata tri-estesa". Perché la
tridimensionalità, al contrario della "varietà mono-estesa" e di
quella "bi-estesa", è "illimitata"? Forse perché lo spazio
deve concepirsi come infinito? Niente affatto. Scrive infatti Riemann:
"l'illimitatezza dello spazio ha quindi maggiore certezza empirica di
qualsiasi [altra] esperienza del mondo esterno". E ce l'ha, questa
maggiore certezza, perché "come ipotesi" essa "ci serve ad
integrare costantemente il dominio delle percezioni reali"154.
Senza di essa, le "percezioni reali" non avrebbero l'ubi consistam.
Ma da ciò non si ricava che lo spazio debba concepirsi infinito: "al contrario, se si assume che i corpi siano
indipendenti dalla loro posizione e si attribuisce quindi allo spazio una
misura di curvatura costante, esso verrebbe ad essere necessariamente finito
non appena questa misura di curvatura avesse sia pure il più piccolo valore
positivo. Se si prolungassero in linee di minimo percorso le direzioni iniziali,
giacenti su una superficie, si otterrebbe
152 RIEMANN, Sulle
ipotesi che stanno alla base della geometria (1854), tr. it. in EINSTEIN, Relatività, etc., pp. 204-20, 204, 206
SS.
153 Op. cit., p. 212 SS., 217 SS.
154 Op. cit., p. 204.
una superficie illimitata con valore di curvatura
positivo e costante, cioè una superficie sferica, e dunque finita"155.
Questa distinzione fra "illimitato"
ed "infinito" è del tutto evidente se riferita alla sfera, dato che
la sua superficie è percorribile all'infinito, perché priva di limiti, ma nello
stesso tempo è finita. Ciò che è privo di limiti non è per ciò stesso infinito,
anche se all' infinito non possiamo naturalmente porre alcun limite. Questa
verità era già nota al pensiero greco, come risulta da Parmenide, il quale
afferma esser l'essere, in quanto "compiuto da ogni parte, simile a massa
di ben rotonda sfera"156. Questa forma della realtà, la
"ben rotonda sfera", non è
parte dell'essere ma è la forma - finita - che l'essere assume in quanto tutto, cioè in quanto realtà
"compiuta da ogni parte". Anche lo spazio, che non può astrarsi
dall'essere, in quanto spazio "continuo"l57, sarà perciò ricompreso in questa forma: in quanto
forma del tutto, sarà la forma della sfera.
I Fisici hanno dunque riesumato l'immagine
parmenidea del mondo. Essi dicono infatti che lo spazio in quanto tale, lo
spazio cosmico, e quindi il tutto in sé e per sé, deve concepirsi come uno spazio
curvo, illimitato ma finito, giusta i
canoni fissati dalla geometria riemanniana. Ma il tutto come "spazio
curvo", in se stesso finito, non può non rammentarci la "ben rotonda
sfera" del filosofo di Elea. E mentre l'essere sferico di Parmenide, oltre
a quello fisico conserva un significato metafisico, giusta il quale l'immanenza
che lo caratterizza sembra mantenere la possibilità di un suo superamento nella
coincidenza di essere e pensare; ciò non si può dire del tutto inteso come
"spazio curvo" dai Fisici, poiché per essi questo spazio è una realtà
esclusivamente fisica. Ciò comporta allora che quest'immagine, in quanto
riferita al tutto, cioè a tutto lo spazio del tutto, appaia incongruente.
Infatti,
una sfera, in quanto forma finita,
non occupa mai tutto lo spazio ma
solo quello del suo proprio luogo. Si
deve quindi ammettere che c'è sempre uno spazio ad essa esterno, uno spazio ulteriore. Questo spazio non può avere le
stesse proprietà di quello della sfera, che sono curvatura in se stessa
illimitata e finitezza. Se l'avesse, continueremmo a trovarci (anche al di fuori
della sfera) in uno spazio curvo che però sarebbe pensabile come infinito, perché non è lo spazio finito
della sfera, ma quello ad essa esterno e privo di una forma data. Ma questa
conclusione, oltre che contraddittoria in se stessa (perché uno spazio curvo
non può essere infinito) è contro l'ipotesi.
155 Op. cit., pp. 218-9.
156 PARM.,fr. 8, cit., vv. 42-3, ed.
Reale-Ruggiu, cit., p. 105: "εὐκύκλου σφαίρηs ἐναλίγκιον ὄγκωι".
157 Op. cit., ivi, v. 25.
Dunque, lo spazio esterno alla sfera - che la figura
geometrica stessa della sfera postula come necessario - non può essere curvo,
altrimenti la sfericità data non potrebbe distinguersi dal resto (dalla
"varietà" non sferica) come uno spazio finito. E che uno spazio
esterno alla curvatura debba esistere, risulta dalla nozione stessa del finito. Se una grandezza, quale che sia
la sua forma, si assume come finita, al di fuori di essa se ne darà sempre
un'altra che la limiti, con la propria forma ed estensione. All'esterno dello
spazio finito della curvatura resta perciò sempre uno spazio residuo, che non può a sua volta esser
curvo. Perciò lo spazio in quanto tale, tutto
lo spazio del cosmo non può essere uno spazio curvo. Avendo un carattere
necessariamente finito, quest'ultimo postula per definizione un ulteriore
spazio, da esso diverso. Se coincidesse con tutto lo spazio, la curvatura non
potrebbe in effetti avere un altro spazio al di fuori di sé: ma allora non
sarebbe più finita.
Perciò una sfera, anche di curvatura positiva
infinitamente piccola rispetto allo zero e quindi immensa in estensione, non
potrà mai pensarsi come lo spazio, tutto lo spazio, lo spazio in quanto tale,
ma solo come una massa ed una forma che sono nello spazio. Ciò vale, naturalmente, sempre che si voglia dare una
rappresentazione fornita di senso, che tenga fede all'assunto del carattere
finito e privo di limiti in quanto finito - cioè a causa della propria
circolarità - della sfera stessa.
L'immagine dell'universo come spazio curvo e
finito non riesce perciò ad eliminare da se stessa l'immagine di uno spazio
adiacente a quello curvo dato, che non può concepirsi a sua volta come curvo,
altrimenti il significato stesso dell'immagine verrebbe meno: ed il significato
è dato qui proprio dalla finitezza della curvilinearità come topos universale.
Questa notazione, di carattere puramente geometrico, si sposa poi all'altra
(più volte richiamata, vedi § 2 supra e questo stesso paragrafo) secondo la
quale questo spazio curvo, se è concepito in espansione, come se fosse una
"bolla di gas", deve aver un vuoto da riempire, nel suo moto di
espansione. Altrimenti, dove si
espande?
Una simile concezione dello spazio,
costituente il fondamento stesso della visione del mondo oggi comunemente
accettata, i Fisici non l'hanno certo ricavata direttamente da Parmenide.
Richiamandoci al grande di Elea, abbiamo voluto semplicemente porre
l'attenzione su di un'analogia, a nostro
avviso obiettivamente fondata, e fornire uno spunto alla riflessione. Il
pensiero moderno, giunto con i Fisici ad un'evoluzione che sembra aver già
raggiunto e superato la propria acme, si ritrova improvvisamente all'essere di
Parmenide, da dove aveva preso le mosse, circa venticinque secoli fa, l'intera
speculazione sull'essere. Alla fine della lunga parabola ci ritroviamo allora
all'inizio,
quasi a dimostrazione del fatto che non esiste "l'innocenza del
divenire" perché proprio nel divenire emerge il limite - la colpa in
termini anassimandrei - che riconduce il pensiero là ov’era partito, come se dovesse
scontare una condanna a causa della sua superbia.
L'identificazione di corpo e spazio che, quale
principio generale, si è detto esser alla base dell'immagine del mondo come
"spazio curvo", è ascritta consapevolmente dai Fisici al pensiero
moderno, per esempio a Cartesio, presso il quale - come è noto - essa è
delineata in termini molto chiari158. Ma essa è diventata poi un
cavallo di battaglia di tutte le geometrie non euclidee, nel loro tentativo di
elaborare una nuova geometria. Così
troviamo in Lobačevskij che "l'attributo caratteristico dei corpi" è
"il contatto", in quanto attributo che possono avere solo i corpi; e
ciò in base all'esperienza, che ci permette di pensarli "in contatto"
quando parliamo "della loro composizione o scomposizione in parti"159.
L'attributo fondamentale del corpo è quindi "il contatto" e non per
esempio l'estensionel60. L'estensione,
come attributo essenziale del corpo, implica un rapporto (e quindi già la
possibilità della distinzione) fra il corpo e lo spazio, che si identificano
non per natura ma solo in quanto il corpo occupi sempre un luogo, sia cioè una parte dello spazio ed anzi in una
sua parte, in quanto spazio fisico determinato. Ma per Lobačevskij i corpi
possono esser considerati "corpi geometrici" già per il solo fatto di
essere "in contatto"161. Ciò comporta che un'altra
determinazione elementare del corpo geometricamente inteso, la sezione, sia stabilita mediante l'attributo
dell'esser in contatto, perché essa sarà "la scomposizione del corpo in
due parti che si toccano", le quali dovranno considerarsi "lati della
sezione"162.
Se tutti i "corpi della
natura" sono da considerarsi "geometrici" a causa del
"contatto" tra loro, è evidente che essi possono esser concepiti come
"parti di un unico corpo globale, che noi chiamiamo spazio"163. Si giunge quindi all'identificazione od indistinzione di
corpo e spazio: "l'unico corpo globale" in cui possiamo pensare tutti
i corpi, "decomponendoli in parti che
158 Si
veda l'elogio di Cartesio fatto proprio per questo motivo da Einstein in ID., La relatività e il problema dello spazio,
in EINSTEIN, Relatività etc., cit., pp. 294-311; pp. 294-5, 31
(Abbiamo visto che l'identità di materia ed estensione è concepita in maniera
ancora più radicale da Spinoza).
159
LOBAČEVSKIJ, Nuovi principi di geometria,
con una teoria completa delle parallele, tr. it. con intr. e note di L.
Lombardo-Radice, Torino, 19782, § I, p. 73.
160 CART., Princ. Philos., pars I, §§ XXIII, LIII;
pars II, §§ I, IV.
161 LOBAČEVSKIJ, op.
cit., p. 73.
162 Op. cit., ivi.
163 Op.
cit., ivi.
si toccano tra loro ad una ad una", per
"sezioni consecutive" che si espandono all'infinitol64;
questo "corpo globale" non è corpo che sta nello spazio ma è lo spazio stesso. In seguito a siffatta
identificazione la forma di qualsiasi corpo nello spazio diventa forma dello spazio, che cosi può esser
concepito anche come spazio "curvo". Il risultato ultimo
dell'identificazione è stato perciò quello di una estrema libertà nel concepire
lo spazio: non più assoluto ma relativo alla forma del corpo, che anzi
viene a costituirlo e come a costruirlo. Lo spazio cessa perciò di essere una
realtà indipendente.
A
siffatta concezione ha contribuito per la sua parte anche l'idealismo, con il
negare allo spazio la natura di realtà indipendente dal percipi e quindi dall'idea. Berkeley scrive che "la distanza
in sé, nella sua immediatezza, non si può vedere. Essendo infatti una linea
diretta verticalmente, essa proietta un solo punto nel fondo dell'occhio, punto
che non varia mai, per quanto possa mutare la distanza"165. La distanza: l'estensione e quindi lo
spazio. Lo spazio non può esser visto, come tale. Cosa vediamo, allora? Non lo
spazio, ma ciò che in esso è. La non-visibilità dello spazio è quindi la
premessa che consente di negarne l'indipendenza nei confronti del corpo.
Tuttavia, si può difendere la realtà dello spazio, indipendente dal nostro percipi, riflettendo sul fatto che, se
noi non vediamo lo spazio, vediamo tuttavia
per suo tramite. Se non esistesse uno
spazio come dimensione a noi esterna, ricca di determinate proprietà, non solo
non avremmo nulla da vedere ma non potremmo nemmeno vedere. Lo spazio è il
medium, ciò mediante cui vediamo: se
non esistesse come continuum indipendente, la luce non potrebbe colpire i
nostri occhi. Non viaggia essa attraverso
lo spazio? Non è essa a rischiarare l'abisso tenebroso, cioè lo spazio in sé
privo di luce? Per ciò che concerne il soggetto percipiente, bisogna poi
ricordare come il suo occhio abbia per natura il senso della profondità: e quest'ultimo altro non è
se non la capacità di cogliere lo spazio per ciò che è (non si tratta di una
profondità mentale), la capacità di avere il senso dello spazio come estensione delle tre dimensioni. Mai come
nel percepire lo spazio la nostra sensibilità si accorda all'intelletto: il
senso della profondità, della direzione e dell'equilibrio si uniscono
armoniosamente alla consapevolezza che senza spazio (reale, effettivo) non
potremmo vedere ciò che è nello spazio.
164 Op.
cit., § 3, p. 76.
165 BERKELEY, An
Essay Towards a New Theory of Vision, II. Con questo ragionamento Berkeley rende però
incomprensibile l'esistenza in noi del senso della profondità, che è percezione
dell'estensione della distanza.
Non esistono in realtà due tipi di spazio, uno sensibile ed uno puramente concettuale,
creato dal nostro intelletto166. Lo spazio in cui Euclide pone le
sue figure geometriche è lo stesso
percepito dall'uomo tutti i giorni; non è uno spazio astratto, nulla avente a
che fare con la realtà. L'astrazione riguarda invece le figure geometriche, nel
senso che esse non si ritrovano nell'esperienza nella stessa forma in cui sono poste nei teoremi. Lo spazio è perciò uno solo, quale che sia la libertà con
la quale il pensiero crede di manipolarlo. Se si crede di poter fondare la
geometria su di uno spazio non euclideo, cioè non conforme alla
rappresentazione di uno spazio reale, si giunge ad una rappresentazione dello
spazio del tutto irreale, per non
dire irrazionale, quale appunto quella delle geometrie non euclidee.
Dunque,
anche se si ammette (in ipotesi) che in tutta l'estensione dello spazio vi sia
ovunque materia, in uno qualunque dei suoi stati; o vi sia comunque oltre ad
essa ovunque energia, ciò non impedisce di concepire lo spazio come in sé vuoto, come quella realtà la cui
natura o qualità è proprio quella di essere l'estensione pura e semplice, la
quale permette all'energia e alla materia, alle forze della natura di avere estensione, cioè di essere ed operare
secondo le leggi per loro stabilite. Il fatto è che una simile concezione - che
sembra più aderente all'esperienza - favorisce l'ammissibilità dell'idea di un Dio creatore, idea che invece ripugna
alla mentalità moderna. Infatti, ammettendo la pensabilità dello spazio come
realtà indipendente dall'esistenza della materia, si deve ammettere la
possibilità che esso esista senza la
materia e quindi anche prima di essa.
Anzi, che esso possa esistere sia prima
che dopo, qualora la materia dovesse
un giorno esser tutta distrutta (cosa che nessuno può escludere a priori). Non
possiamo infatti pensare che la nientificazione della materia debba comportare
ipso facto anche quella dello spazio da essa occupato, visto che dove (a causa
del moto) non c'è provvisoriamente materia, non cessa di esservi lo spazio. Se
lo spazio è legittimamente pensabile come esistente prima della materia, è inammissibile che sia stato esso a produrla,
dato che in esso non si mostra alcun principio attivo, alcuna forza. La forza,
l'energia che in esso appaiono sono già
materia. Lo spazio è l'assolutamente identico nella propria immobilità. E
difatti nessuno ha mai pensato, ci sembra, che lo spazio abbia come tale creato
la materia, se non (forse) in qualche fantasticheria gnostica. Si pone quindi
l'esigenza logica di un creatore per
entrambi, spazio e materia. In ogni caso, diventa praticamente impossibile
affermare che la materia è pensabile unicamente come res eterna ed increata, quatenus res extensa, cioè in quanto
identica allo spazio.
166
POINCARÉ, Sui fondamenti della geometria, tr. il. e saggio introd. di U. Sanzo,
Brescia, 1990, p. 9: "Lo spazio sensibile non ha niente in comune con lo
spazio geometrico".
Il postulato spinoziano dell'identità di materia ed
estensione verrebbe quindi a perdere il suo elemento portante, la pensabilità
stessa di una simile identità. Ed ora siamo forse in grado di comprendere ancor
meglio perché Spinoza abbia dedicato tanta cura a stabilirlo: per escludere in
maniera definitiva l'idea di creazione,
alla quale l'idea di un'estensione indipendente dalla materia tiene sempre aperta la porta.
Ma separare di nuovo nel pensiero la materia
dall'estensione per attribuire di nuovo a quest'ultima la sua propria realtà,
significa cercare di ristabilire i concetti dello spazio e del tempo come
concetti di entità reali e non più
come concetti di entità ideali, di semplici modi
posti dal pensiero o delle condizioni a priori dell'intuizione empirica. Crediamo
che il compito della speculazione, in particolare nell'epoca presente, dominata
dal caos più tremendo, sia quello di ristabilire
le differenze, cominciando con il riconoscere alle parti del tutto la loro
individualità, ossia la loro effettiva realtà di parti.
b. La rivendicazione della realtà autonoma e
dell'indipendenza dello spazio, in favore di una visione del tutto quale
armonia di parti ordinate da una mente creatrice, armonia che non si spieghi
perciò con il postulare l'unità immanentistica del tutto stesso (il tutto come
uno) ma ammettendo invece l'esistenza dell'uno in senso proprio, cioè Dio creatore; questa rivendicazione va
mantenuta anche contro quella dottrina dei Fisici che considera la materia come
una mera "forma di energia". Tale dottrina implica infatti
l'identificazione di spazio e corpo, da noi ampiamente criticata. Scrive
infatti Einstein che "lo spazio non ha un'esistenza separata rispetto a
'ciò che riempie lo spazio' e che dipende dalle coordinate"167.
Ciò che riempie lo spazio è il "campo gravitazionale": se noi
pensiamo di togliere il campo -nuova versione della tradizionale ipotesi della
annihilatio mundi - non rimarrà uno spazio diverso, cioè vuoto: "non
rimarrà assolutamente nulla"168.
Il
senso di questa affermazione sembra essere il seguente: poiché spazio e campo
sono la stessa cosa, se si immagina la annihilatio del campo non resta lo spazio ma il nulla, dato che lo spazio è stato annientato con il campo; e poiché il nulla non si può concepire, allora bisogna ammettere che spazio
e campo coincidano in modo tale che non possa esistere uno spazio "vuoto
di campo". In tal modo, però, si presuppone l'equazione vuoto = nulla, che
non è affatto soddisfacente perché il vuoto (l'estensione) è pur
167 EINST., La
relatività e il problema dello spazio, cit., p. 311.
168 Op. cit., ivi. Nella versione inglese:
"If we imagine the gravitational field to be removed, there does not
remain a space of the type (l) [cioè metrico], but absolutely nothing".
(EINST., Relativity. The Special and
General Theory. A Popular Exposition, by A. Einstein, trans. by R. W.
Lawson, New York, 1961, Appendix V,
p. 155).
sempre una realtà fisica e non può esser equiparata al
nulla. Il concetto rigoroso del nulla implica la nientificazione anche del
vuoto, proprio perché il vuoto è già cosa,
ed è già qualcosa, rispetto al nulla
(vedi supra, § 8 a, di questo lavoro).
Quale che sia il rigore teoretico
delle affermazioni appena viste, bisogna comunque attenersi, secondo i Fisici,
al seguente principio: "non esiste qualcosa come uno spazio vuoto, ossia
uno spazio senza campo. Lo spazio-tempo non pretende di avere un'esistenza per
proprio conto, ma soltanto come qualità strutturale del campo"169.
Non solo lo spazio, dunque, ma anche il tempo: anche il tempo sarebbe "una
qualità strutturale del campo". Il tempo non può più esser concepito in
modo assoluto, così come non può
esserlo lo spazio, entrambi devono diventare relativi al "campo", come sue "qualità
strutturali". Per lo spazio, il suo cosiddetto carattere assoluto è rappresentato
dal vuoto; per il tempo, dalla simultaneità:
la simultaneità è un "assioma" che deve esser eliminato, se si
vogliono chiarire i "paradossi" offertici dalla natural70.
Cosa significa ciò? Che bisogna prendere atto del fatto che la simultaneità degli
eventi è relativa ad un "sistema
di coordinamento" dato o "corpo di riferimento"171
ossia al punto di vista o luogo dal quale si percepisce nel tempo l'evento
stesso. Questo punto di vista varierà a seconda che l'osservatore sia in quiete
o in movimento. Così, nel famoso esempio dei due fulmini che colpiscono
simultaneamente le due estremità della banchina lungo la quale sta passando un
treno, l'osservatore posto sulla banchina a metà tra le due estremità, li
vedrebbe simultaneamente perché, essendo egli immobile, "i bagliori si
incontrerebbero proprio dove egli è situato"; mentre l'osservatore posto sul treno, trovandosi ugualmente (per
ipotesi) a metà tra i due fulmini, ma "muovendosi rapidamente verso il
raggio di luce" che proviene dall'uno e "correndo avanti al raggio di
luce" che proviene dall'altro, vedrebbe il bagliore verso cui si sta
muovendo, prima di quello da cui si
sta allontanando172. Al contrario dell'osservatore immobile sulla
banchina, quello sul treno non ha quindi l'impressione (secondo Einstein) che i
due fulmini siano venuti giù simultaneamente173.
169 EINST., La relatività, cit., ivi.
170
EINSTEIN, Autobiografia scientifica. Con
interventi di Pauli, Bom, Heitler, Bohr, Margenau, Reichenbach, Gödel, tr.
it., parz. di A. Gamba del noto volume curato da P.A. Schilpp, A. Einstein: Philosopher-Scientist,
Evanston, 1949. La traduzione data: Torino, 1979. Il riferimento è a p. 34.
171 EINST., La
relatività, cit., p. 62.
172 Op. cit., ivi.
173 Op. cit., ivi.
La conclusione di carattere generale è perciò che
"un'attribuzione di tempo è fornita di significato solo quando ci venga
detto a quale corpo di riferimento tale attribuzione si riferisce"174.
E il "corpo di riferimento" non è mai lo stesso per ogni
"attribuzione di tempo" perché esso costituisce un "sistema di
coordinate" che non si può applicare, così com'è, ad un altro sistema (o
addirittura a tutti). Nell'esempio visto, il "corpo di riferimento"
offerto dalla banchina all'osservatore in quiete ci dà un' "attribuzione
di tempo" (la simultaneità) del tutto diversa da quella che il treno in
moto offre come "corpo di riferimento" all'osservatore posto in esso.
La conclusione ancor più generale è che la simultaneità degli eventi sia
una "attribuzione di tempo" impossibile a determinarsi in sé: il
tempo che si può misurare è solo quello relativo al "corpo di
riferimento" dato e quindi a qualcosa che è nello spazio. E poiché non
esiste, in termini einsteiniani, qualcosa che è nello spazio, ma
soltanto il campo della materia-energia, le cui qualità
"strutturali" sono lo spazio, allora il tempo non è
altro che una misurazione determinata da queste "qualità
strutturali", ad un punto tale da diventarne una funzione (poiché sono
esse a costituire e ad influenzare le unità di misura).
Va però ricordato che l'attribuzione di
tempo non è il tempo; non più di quanto l'attribuzione di una misura sia lo
stesso della cosa misurata. Nell'esempio sopra visto, Einstein parte dal
presupposto che i due fulmini siano simultanei. Gli eventi sono dunque
simultanei, nel caso dato. Dov'è allora la negazione della simultaneità? Nella
constatazione dell'impossibilità di coglierla da parte del soggetto. Il
soggetto che deve misurarla si trova in genere in (o addirittura è) un corpo
"di riferimento" in moto, il quale impedisce la misurazione
stessa, nel senso che il sistema di riferimento da esso stesso costituito rende
impossibile l'accertamento della simultaneità degli eventi. Ma da tutto questo risulta
che ad esser effettivamente negata non è la simultaneità degli eventi in sé e
per sé, ma la nostra capacità di coglierla, rappresentandola in una misura
universale, valida per tutti i sistemi di riferimento. Dopo aver identificato
lo spazio con il corpo nell'immagine del "campo", Einstein identifica
perciò il tempo con l'orologio che lo misura - quale che sia la sua natura - ossia
con l'unità di misura costituita dalla "qualità di struttura" del
campo. Questa indistinzione tra misurante e misurato lo conduce per forza di
cose a non distinguere tra impossibilità a misurare la simultaneità ed
inesistenza della stessa, cioè del tempo in senso assoluto, come durata uguale
ed uniforme.
Non si dimostra, quindi, che la
simultaneità degli enti ed eventi nello spazio da essi nello stesso tempo
occupato, sia una caratteristica che non corrisponde alla natura delle cose.
174 Op. cit., ivi.
Più semplicemente, ci si trova ad aver dimostrato
che la percezione della simultaneità è falsata dalle limitazioni del soggetto
percipiente. E poiché queste limitazioni (riferite al "sistema delle
coordinate" o "corpo di riferimento") ci rendono impossibile la
misurazione della quantità e qualità assolute, vale a dire in sé e per
sé; allora questa realtà assoluta - qui la simultaneità - viene dichiarata come
non esistente. Ma l' inconoscibilità deriva qui dall'impossibilità di una
misurazione che sia universalmente valida; che invece di dipendere da sistemi
di riferimento costituisca essa stessa l'unico sistema di riferimento.
Dal punto di vista della scienza, infatti, "non può esser oggetto di
scienza ciò che non si può misurare"175. Ma ciò che "non
può esser oggetto di scienza", cioè della scienza della natura nelle sue
varie forme, non per questo non esiste o cessa di rappresentare un valido
oggetto di indagine per la mente. Lo spazio e il tempo non sono misurabili allo
stesso modo di ciò che è nello spazio e nel tempo, tuttavia questo non dimostra
la loro inesistenza in quanto realtà effettive ed indipendenti e non giustifica
affermazioni come le seguenti: "Le proprietà del tempo non sono dunque che
quelle degli orologi, come quelle dello spazio non sono che le proprietà degli
strumenti di misura"176. In quest'ottica si confondono il soggetto
e l'oggetto, l'unità di misura e la cosa misurata. Si finisce poi con
l'attribuire alla cosa le "proprietà" degli "strumenti di
misura", fabbricando la cosa stessa con le sue proprietà grazie agli
"strumenti di misura"l77. Tutta la realtà viene ridotta
alle (limitate) misurazioni della mente umana: ciò che non si può misurare
"non è oggetto di scienza" e quindi non è.
La
negazione einsteiniana della simultaneità, ossia dell'indipendenza del tempo,
fa il pari con la negazione della natura indipendente dello spazio e distrugge
la certezza di un'esistenza obiettiva fuori di noi, dal momento che l'obiettività
di quest'esistenza non è misurabile dal punto di vista della fisica. Ma le
verità che non dicono nulla ai Fisici possono invece dir molto ai meta- fisici.
175 POINCARÉ, Spazio e tempo (1913) in
EINST., Relatività, cit. , pp. 281 -93, p. 285.
176
Op. cit., ivi.
177
Questa involuzione del pensiero scientifico è stata messa in rilievo da alcuni
tra i Fisici stessi (per esempio da Schrödinger). Sul carattere irreale ed addirittura
"metaforico" dell'attuale immagine del mondo, si veda la critica
metafisica al pensiero scientifico da parte di M. DE CORTE, L'intelligence
en péril de mort, Dion-Valmont, 19872, pp. 67 ss.; p. 111: "Un
monde qui n'est plus formellement appréhendé dans sa subordination à une cause
suprème qui lui confère son existence et son intelligibilité, n'est plus un
monde, un cosmos, un ensemble, un arrangement, un système de parties
congruentes. Privé des lumières superieures qui dessinaient en lui un ordre, il
devient un chaos .."; p. 117 ss.
La filosofia comincia dove la scienza finisce
o, se si preferisce, dove viene meno la sua pretesa all'universale. Che al di
là del soggetto, e quindi dell'unità di misura stabilita dal pensiero calcolante,
esista una realtà obiettiva, che non si può confondere con la mente che
la misura, è una verità della massima importanza, della quale sembra difficile
poter dubitare. Se la scienza si rifiuta di sottoscriverla, spetta comunque
alla metafisica di accertarne nel miglior modo possibile i termini.
Cosa risponde, allora, la recta ratio a questa
semplice domanda: l'io è contemporaneo o non, all'oggetto pensato, che si trovi
nello spazio di cui ha visione? Grazie alle scoperte dei Fisici, sappiamo che
l'immagine dell'oggetto in noi si forma in un intervallo di tempo che è quello
impiegato dalle onde elettromagnetiche emananti dall'oggetto alla velocità
della luce per colpire la nostra retina. Ma questo intervallo di tempo non
esiste tra me e l'oggetto che mi sta di fronte bensì tra l'oggetto e l'immagine
di esso che mi si forma nell'occhio e nella mente. Io e l'oggetto, in
quanto enti posti nello spazio e separati da una distanza, non ci succediamo
nel tempo, che invece ci ricomprende nella propria durata: ciò che nel
tempo è posteriore, all'esistenza dell'oggetto e mia, è qui solo la sua
immagine in me. lo e l'oggetto siamo dunque contemporanei, perché
esistenti divisi da un intervallo di spazio che non lo è di tempo, se non per
l'immagine dell'oggetto formatasi nella mente. L'immagine che ho dell'oggetto è
invece sempre ad esso successiva nel tempo, perché richiede l'intervallo di
tempo necessario al suo formarsi. Ma questo suo esser successivo non fa
venir meno la contemporaneità o simultaneità tra il soggetto e l'oggetto, dato
che quest'ultima concerne l'esistenza stessa, obiettiva, dei due enti e non la
loro immagine, in quanto fenomeno fisico che si produca in uno di loro. E senza
quest'esistenza non si avrebbe alcuna immagine.
Il pensiero è dunque cosciente di una differenza
poiché separa nel ragionamento ciò che è simultaneo da ciò che è successivo
ossia la simultaneità dell'esser reciproco (Dasein) degli enti dal venir
dopo della loro rappresentazione nella mente. Tuttavia, il ragionamento non
può arrestarsi qui perché deve arrivare alla conclusione che durante l'intervallo
di tempo impiegato dall' energia a percorrere la distanza tra l'oggetto e me,
se io non sono morto, ho continuato ad esistere, come dimostra il fatto che ho
poi formato in me l'immagine dell'oggetto. Il che significa allora che ho continuato ad esistere non
solo simultaneamente all'oggetto ma anche a qualsiasi fluido emanato da esso.
Perciò, se durante il moto del fluido dall'oggetto verso di me, l'oggetto (la
fonte) fosse venuto meno, io avrei comunque continuato ad esistere contemporaneamente
al fluido emanato prima dell'estinzione della sua fonte ed ancora per
via al momento dell'estinzione stessa. E questo fluido (luminoso,
elettromagnetico) avrebbe poi continuato il suo cammino sino a giungere a
destinazione, a formare cioè in me un'immagine dell'oggetto, che quindi io mi
troverei nella mente quando l'oggetto non è più. Possiamo rendere lo stesso
ragionamento con un esempio. Immaginiamo che durante una battaglia io,
inquadrato nei ranghi di una legione, sia stato colpito (sopravvivendo come l'Immortale
di Borges per scrivere questo saggio); colpito da un giavellotto scagliato
dalle file nemiche un attimo prima che il soldato artefice del lancio venisse
ucciso. Il fatto che io sia stato colpito dimostra che ho continuato ad
esistere finché l'arma viaggiava verso di me: io e il giavellotto non abbiamo
mai cessato di essere simultanei sino al prodursi di quell' evento rappresentato
dal nostro reciproco impatto.
L'immagine dell'oggetto esterno che si forma
nella nostra mente è il risultato di un processo causale. La contemporaneità
del soggetto percipiente al processo stesso può riguardare tutto il processo
sin dall'inizio, od una sua fase, quella per noi intermedia (la fase terminale
è l'immagine), costituita dal moto del fluido verso di noi, movimento che può
perdurare per un tratto di tempo determinato, anche dopo che la sua fonte sia
venuta meno. Nelle distanze molto piccole racchiuse nel nostro campo visivo,
questo venir meno si può tradurre per noi nello sparire quasi istantaneo
dell'oggetto assieme alla sua immagine. Quando le distanze si calcolano invece
in milioni di anni-luce, si deve supporre che il venir meno dell'effetto (la
luce di una stella) sia di molto posteriore all'affievolirsi della sua causa
(alla disintegrazione o al collasso della stella stessa). È quindi l'ampiezza
della distanza ad incidere sulla percezione di ciò che è a noi simultaneo, nel senso
che distanze abissali, richiedendo un tempo ugualmente abissale per esser
percorse, fanno sì che noi si sia contemporanei solo alle ultime fasi del
processo (sempre che i calcoli dei Fisici siano esatti) che si conclude con la
percezione di un'immagine. E ciò accade dal momento in cui la luce di
quella stella ha cominciato a brillare per la terra, se è vero che la
terra ha cominciato ad esistere quando quella luce era già in viaggio da molti
milioni di anni-luce, mentre la sua fonte si era nel frattempo estinta.
Ma siffatta constatazione nulla toglie al
principio in discussione (la simultaneità) perché si deve pur ammettere che noi
siamo contemporanei a tutto ciò che nello spazio stia viaggiando verso
di noi sotto forma di energia, quale che sia la sua velocità, anche se non
riuscissimo a vederlo; e che lo siamo comunque a tutto ciò che è nello spazio
mentre noi ora siamo, quale che sia la direzione e la velocità del suo
movimento.
Questo esistere contemporaneo degli enti nello
spazio sfuggirà pure ad una misurazione obiettiva ed universale, come
sostengono i Fisici, tuttavia ci dà la certezza dell'esistenza di una
realtà obiettiva, con una sua dimensione
spaziale e
temporale esattamente determinata, in cui ciò che è successivo nel
tempo, perché risultato di un rapporto causale in cui la materia e l'energia si
integrano senza confondersi, si inscrive nello stesso tempo nell'ambito della durata,
che tutto ricomprende simultaneamente in modo incrollabile,
fintantoché resta ente. Solo del non-ente infatti non può darsi
contemporaneità con alcunché. Si potrebbe anzi affermare che la misurazione
dell'intervallo di tempo impiegato da una determinata energia per percorrere lo
spazio tra un ente ed un altro è resa possibile proprio dal fatto che esiste
sempre qualcosa contemporaneamente a qualcos'altro, si tratti dei due
enti e dell'energia che va dall'uno all'altro o di uno solo e dell'energia in
viaggio verso di esso. La simultaneità della materia e dell'energia dovrebbe
allora considerarsi condizione preliminare ad ogni possibile misurazione
(ancorché inficiata dalla relatività del "corpo di
riferimento") non solo nel tempo ma anche nello spazio.
L'immagine del mondo elaborata dai Fisici vuoi
quindi ridurre l'universo ad un coesistere di entità che non si situano nello
spazio (perché non c'è uno spazio in sé) e non esistono simultaneamente. Il
mondo diventa allora una massa informe, in cui non si riesce a distinguere
più nulla. L'individualità, la corposità, la sostanza stessa della materia - nelle
quali si manifesta l'onnipotenza geniale del Creatore - scompaiono completamente,
in conseguenza dell'asserita equivalenza di materia ed energia, che ridurrebbe
la materia ad una semplice "forma" dell'energia. Essa non sarebbe
altro che energia maggiormente "concentrata" e tutta la realtà
dovrebbe esser interpretata esclusivamente in termini di variazioni di
densità. "Ciò che fa impressione sui nostri sensi come materia è in
realtà una grande concentrazione di energia, in uno spazio relativamente
limitato. Sembra quindi lecito assimilare la materia a regioni spaziali, nelle
quali il campo è estremamente forte. In tal modo potremmo crearci un nuovo
sfondo filosofico, il cui obiettivo finale sarebbe la spiegazione di tutti gli
eventi naturali, mediante le leggi strutturali, ovunque e sempre valide. Da
tale punto di vista, un sasso lanciato in aria è un campo variabile nel quale
gli stati di maggiore intensità del campo attraversano lo spazio con la
velocità del sasso stesso. Nella nostra nuova fisica non vi sarebbe allora più
posto per il binomio campo e materia; non rimarrebbe che una sola realtà: il
campo"178.
Il
"nuovo sfondo filosofico" che la "nuova fisica" crede di
poter delineare (i Fisici pretendono di aver posto le basi di una nuova ed
imperitura filosofia), ha come suo postulato l'interpretazione dell'oggetto in
termini di energia.
178 EINSTEIN-INFELD, L'evoluzione della fisica. Dai concetti iniziali
alla relatività e ai quanti, tr. it. A. Graziadei, Torino, 1965, p. 253.
Un sasso non è materia, è energia concentrata
in certo modo ed in una certa "regione"; esso non rappresenta un
corpo ma solo una variazione di densità nell'energia che costituisce il
campo cioè il tutto. Il moto stesso di un corpo nello spazio diventa, in questa
"filosofia", qualcosa di irreale: non si ha più un corpo che
attraversa lo spazio ma "un campo variabile" nel quale "gli
stati di maggiore intensità del campo attraversano lo spazio con la velocità
del sasso stesso". L'oggetto viene dissolto negli stati o stadi del suo movimento,
come nelle rappresentazioni artistiche dei Futuristi. Una simile visione della
realtà, più che filosofica o scientifica, sembra infatti di tipo artistico, però
di quell'arte particolare, protesa all'invenzione di un dinamismo perpetuo ed
onnivoro dell'Informe, che ha caratterizzato e caratterizza (nelle sue varie
forme) il nostro tempo sciagurato. Il sasso di Einstein ricorda le figure in
movimento delle sculture di Boccioni. Si tratta di un' estetica astratta, che
non ha alcun fondamento rigoroso, né filosofico né scientifico. Circa
quest'ultimo, va rilevato che Einstein è stato costretto a subordinare la validità
della sua ipotesi alla soluzione di un "problema finale", costituito
dalla "modificazione delle leggi del campo, in guisa tale che non cessino
di esser valide nelle regioni di grandissima concentrazione dell'energia. Ma
finora non siamo ancora riusciti a realizzare questo programma in forma
convincente e coerente ... Per ora, in tutte le nostre concezioni teoriche, dobbiamo
continuare ad ammettere due realtà: campo e materia"179.
Queste parole furono scritte nel
1938 e da allora il dualismo di "campo" e "materia", cioè
di materia ed energia, si è pervicacemente mantenuto. La "modificazione
delle leggi del campo" vale a dire la loro applicazione alla realtà
sensibile, macrofisica, dei corpi nei loro diversi stati e rapporti come cadono
sotto i nostri sensi, non è stata possibile, se non mediante ipotesi e teorie
rimaste tali. Le "regioni di grandissima concentrazione dell'energia"
cioè i corpi, la materia nella sua individualità ben definita in una
forma, esprimono evidentemente un ordine e un ordinamento che non può essere
vincolato alle stesse leggi che si crede di aver scoperto per l'energia
(diciamo "si crede" perché il principio di indeterminazione di
Heisenberg getta un'ombra sulla effettiva validità o comunque sulla portata
universale di queste leggi). Ciò significa però che l'immagine del mondo oggi
dominante, divenuta confusamente familiare grazie alla cultura di massa, non
corrisponde alla realtà, perché essa si fonda sul dissolvimento della materia
nell'energia, come se la scienza fosse riuscita a dimostrare effettivamente
la perfetta equivalenza tra le due. Ma questo non corrisponde al vero.
Così come non è vero che possano considerarsi oggettivamente fondate
l'identificazione di spazio e corpo e la negazione della simultaneità.
179
Op. cit., ivi.
L'universo newtoniano è concettualmente ben
diviso tra spazio, corpo, forza di gravitazione universale. L'energia della
gravitazione universale proviene dai corpi posti nello spazio. Nell'immagine
del mondo della Nuova Fisica, invece, i corpi sono il risultato dell'energia,
sue modificazioni, perché la gravitazione universale è concepita come un
"campo" di energia (che è lo spazio) al cui interno si danno quelle
variazioni di densità o concentrazioni che sono i corpi. Il rapporto tra
materia ed energia è rovesciato, rispetto all' universo newtoniano, all'
insegna dell'identità e dell'indistinzione delle parti nel tutto e senza che
siano state elaborate delle leggi di natura effettivamente capaci di comprovare
il rovesciamento su scala universale.
Quest'immagine della realtà mostra la perdita
del senso della realtà. Un mondo senza spazio indipendente diventa un mondo
senza corpi, ridotti a mere astrazioni (quali le variazioni di densità del
"campo"); ed un mondo senza corpi diventa un mondo senza parti, come
la sostanza di Spinoza. Ed un mondo senza parti è un mondo informe, il
regno del caos, in cui si nega perfino la simultaneità degli enti in esso
esistenti. È un mondo tenebroso, la cui immagine sembra analoga
all'immagine dell'interiorità (il microcosmo) quale l'hanno elaborata i
filosofemi della psicoanalisi freudiana: un regno del caos, nel quale
l'istinto, la cosiddetta libido, sembra l'omologo dell'energia senza forma e
senza scopo che squassa il tutto.
15.
Il pensiero
Si è detto, al § 12 di questo lavoro, che il pensiero
può esser inteso come l'indeterminato in noi perché non si saprebbe dove
rilevarne i confini. Noi non facciamo infatti parte del tutto unicamente come
corpo o materia, cioè in quanto partecipi dell'estensione, ma anche in quanto
provvisti di una dimensione spirituale - il pensiero - di per sé indeterminata
perché non situabile in alcun modo nell'estensione, nello spazio. Questo è come
dire che il soggetto è contemporaneamente esteso ed inesteso, non potendosi
ammettere che la sua dimensione spirituale (che pur gli appartiene intimamente)
occupi uno spazio. E che questa dimensione non sia un'astrazione, lo si vede
dal fatto che pur essendo inestesa ed invisibile (non essendo quindi in alcun
modo materia), opera infaticabilmente, senza darci tregua: anche quando
dormiamo, pensiamo. Il pensiero poi sembra indivisibile, come se fosse
costituito di una sostanza impenetrabile e compatta, più indistruttibile di
ogni materia, posta al di là dell'intelligere in senso stretto, di quell'attività
che calcola e comprende, dividendo ed unificando, e che costituisce
propriamente il pensare in atto.
Per questo motivo, il pensiero ci
dà l'impressione di essere qualcosa di indeterminato, nonostante la precisione
delle sue operazioni e la compiutezza di cui è capace il concetto: indeterminato,
non nel senso della vacuità, del perdersi nel nulla, ma della profondità.
Quella profondità di cui già parlava Eraclito a proposito dell'anima:
"I confini dell'anima vai e non li trovi, anche a percorrere tutte le
strade: così profondo è il suo logos"180. Nell'anima immortale
è infatti l'origine di tutto il nostro pensare, al quale il corpo serve solo
di luogo e fondamento, perché non è costitutivo della natura del pensiero ma
solo della sua attività. Non possiamo dire, infatti, che il pensiero si
origini dalla materia ma solo che si esercita per suo tramite. Alla
morte del corpo, non possiamo dire in alcun modo che sia morto anche il
pensiero perché l'anima sarebbe stata distrutta con il corpo. Non possiamo
dimostrare nulla, empiricamente parlando. Possiamo solo credere. Ma
l'anima determina la salute del nostro corpo, non questo di quella; come è vero
che quando proviamo una forte delusione o un grande rimorso o una grande gioia,
l'influenza sul corpo di questo fatto dello spirito (siamo affetti dal significato
di ciò che è accaduto) è quasi immediata, in modo persino violento. Mentre
non si può dire che sia vero il contrario, poiché i piaceri ed i dolori fisici
trovano nell'anima un ostacolo: gli uni nell'infelicità che segue sempre
l'appagamento animalesco; gli altri, nella forza d'animo che ce li fa
sopportare. E chi pone la propria soddisfazione ed il senso della sua vita nel culto
del corpo, fa così perché la propria anima, pervertitasi, ne ha corrotto il
pensiero. Egli vuole che il corpo con i suoi desideri sia il suo maestro ma
questa convinzione è un pensiero che non gli viene dal corpo bensì dall'anima
che erra. Come può allora il logos dell'anima svanire alla morte di quel corpo
che essa può governare nel bene e nel male, proprio in quanto sia anima, cioè
realtà e forza puramente spirituali?
a. Se i confini del
pensiero, come quelli dell'anima, "non si trovano", ciò non significa
che però il pensiero coincida con il tutto. Il pensiero è individuale, come
l'anima. Il panpsichismo confonde lo spirito con la materia. Pur essendo
indeterminato a causa della profondità della sua natura, il pensiero è nello
stesso tempo determinato, in quanto racchiuso nell'individualità di
ciascuno, individualità che anzi si esprime per suo tramite. Il soggetto non è
determinato solo dal lato del corpo: lo è anche da quello dell'anima e quindi
del pensiero. Se così non fosse bisognerebbe attribuire al pensiero un carattere
addirittura indefinito, rendendolo vacuo ed inconsistente, come se fosse
una "bolla di gas".
180 ERACL., I frammenti e le testimonianze, ed. Diano-Serra, Milano, 1980, fr. 51, pp.
26-7. Questo frammento dimostrerebbe che Eraclito non intende l'anima solo come
soffio vitale.
Si pone quindi il problema del rapporto del
pensiero con il tutto e con la definizione dell'uno (vedi supra, § 5 d).
Possiamo dire che esso sia parte del tutto? se il pensiero fosse la stessa
cosa del tutto, se coincidesse con esso, dovremmo attribuire al pensiero la
stessa estensione del tutto. E non solo l'estensione, ma anche la durata. E
dovremmo dire che esso coincide con tutte le parti del tutto e quindi che tutta
la materia è pensiero. Dovremmo forse far nostro un verso di Parmenide:
"il pieno infatti è pensiero"181, se il suo significato è
quello di attribuire al "pieno", cioè all'essere, il pensiero,
estendendo alla totalità indifferenziata dell'essere l'identità di essere e
pensare.
Una
realtà inestesa ed invisibile, come si è detto esser quella del
pensiero, non ha né grandezza né quantità; è per l'appunto indeterminata.
Perché allora non potrebbe coincidere con il tutto? Quanto grande è un
pensiero? Se la misura della grandezza non può applicarsi a ciò che non ha
estensione, un mio pensiero non può essere tanto esteso quanto tutto lo spazio?
Che cosa glielo impedisce? l'inesteso non è ad un tempo infinitamente grande ed
infinitamente piccolo? Ma il pensiero ha in realtà, come si è detto, il proprio
limite nel tempo, perché i singoli pensieri si succedono nel tempo. Se
infatti si distinguono gli uni dagli altri, allora hanno un contenuto
determinato, finito. E difatti non possiamo pensare due cose
contemporaneamente, dare cioè ad uno stesso atto di pensiero due contenuti
diversi. Tuttavia, la facoltà di pensare non appare né divisibile né
determinata, nemmeno dal lato del tempo. Bisogna perciò distinguere il pensiero
in atto dal pensiero come facoltà, il pensiero singolo dal
pensare. Ma questa distinzione tradizionale, peraltro necessaria alla chiarezza
dei concetti, non sembra comportare alcuna contraddizione, perché il pensiero
singolo non è la negazione ma il determinarsi positivo, consequenziale di ciò
che è in potenza, cioè della facoltà di pensare. La facoltà, o il pensare, ha
l'indeterminatezza di quella profondità, la cui origine è nell'anima (come si è
detto); mentre il pensiero in atto, come atto di pensiero con un contenuto
determinato, è quell'operazione della mente, finita nel tempo, che ha luogo nel
tutto come sua parte. Se coincidesse con il tutto, essa dovrebbe essere estesa
e concepirsi come materia, come il tutto dell'universale "pieno". Ma
noi possiamo dire che il pensiero è (in noi) unito alla materia, della quale si
serve; e non che la materia come tale pensi182.
181 PARM., fr.
16,ed. cit.,pp.116-7:"τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ νόημα".
182
PASCAL, Oeuvres complètes, cit., pp. 1110-1: "Car il est impossible que la partie
qui raisonne en nous soit autre que spirituelle; et quand on prétendrait que
nous serions simplement corporels, cela nous exclurait bien davantage de la
connaissance des choses, n'y ayant rien de si inconcevable que de dire que la
matière se connait soi-meme; il ne nous est pas possible de connaitre comment
elle se connaîtrait".
Una facoltà che appare addirittura infinita, come
quella di pensare, può però ben esprimersi in atti, che sono finiti, anche se
questo loro esser-finiti ha luogo per noi solo dal lato del tempo. E ciò che si
è determinato in un atto specifico ha acquistato l'individualità di un
contenuto e si è per ciò stesso posto come parte del tutto.
Non si può dire perciò che il pensiero si identifichi
con il tutto, in quanto atto in cui si manifesti il pensiero singolo. Anzi,
proprio in quest'atto si conferma la differenza tra il tutto e la parte, già
presente nell'ambito dell'estensione come differenza tra corpo e spazio. Ora
essa si conferma anche dal lato del pensiero, non tanto per ciò che
l'uomo pensa, ma per il fatto stesso di pensare. "L'estensione
visibile del mondo ci oltrepassa in maniera visibile"183: ma ci
"oltrepassa" non solo perché siamo corpo posto nell'immensità dello
spazio ma anche come corpo che pensa (soggetto pensante); e quindi oltrepassa
anche il nostro atto di pensiero, in quanto atto che ha luogo nel tempo (dato
che nel "mondo", oltre allo spazio vi è anche la durata, cioè il
tempo). Ma la sproporzione tra l'estensione del tutto e l'atto di pensiero in
essa ricompreso, è tale da far sorgere il dubbio sulla capacità del pensiero
stesso di cogliere il significato del tutto. L'oltrepassamento avrebbe
quindi luogo anche in relazione alla qualità del nostro pensiero,
mettendone in dubbio la capacità di afferrare il significato e quindi la verità
del tutto. Infatti, poiché "nous sommes quelque chose, et ne sommes pas
tout", ci si deve chiedere "comment se pourrait-il qu'une partie connût
le tout?"184. Com'è possibile che la parte "conosca il
tutto"? Non c'è qui un limite invalicabile? La prima cosa di cui il
pensiero si rende conto, sembra esser data proprio dalla consapevolezza di
"esser qualcosa" e quindi "di non esser il tutto". La contrapposizione
fra il tutto e la parte è dunque una delle prime verità che il soggetto
pensante acquisisce. Immediatamente dopo, egli è come sopraffatto
dall'immensità del compito che su di lui incombe: conoscere il tutto! Come è
possibile conoscere una realtà in cui "toutes choses sont sorties du néant
et portées jusqu'à l'infini"185?
Il rapporto del pensiero con la
realtà non è quello di un'entità che si conosce pensando a se stessa. Vogliamo
dire che nel pensiero del tutto non è il tutto a pensare se stesso, come
se per l'appunto il pensiero coincidesse con il tutto e ne fosse
l'autocoscienza che si fa nell'empiria quotidiana, nell' hic et nunc vincolato
alla finitezza. Non può esser un rapporto di questo tipo perché un
simile nesso dà per scontato che la parte non si distingua dal tutto,
183
PASCAL, Op. cit., p. 1108.
184 Op. cit., p. 1108 e 1110.
185 Op.cit., p. 1107. Ed il testo prosegue: "Qui suivra ces
étonnantes démarches? L'auteur de ces merveilles les comprend. Tout autre ne le
peut faire".
il che è inconcepibile. È giusto la sostanza
spinoziana - concepita come tutto privo di parti - ad autocontemplarsi in una mens
intesa come suo informe modo od emanazione (vedi supra, § 13). Il pensiero
non viene a noi dal tutto ma è una caratteristica della parte, in quanto
costituita da un soggetto per l'appunto pensante. Nonostante le sue
limitazioni, che si concretano nell'incapacità di giungere ad una conoscenza
ultima e definitiva, il pensiero costituisce pur sempre l'attributo di maggior
gloria dell'uomo186, quello per il quale egli si distingue dall'
animale ed è simile a Dio. Grazie al pensiero, l'uomo può innalzarsi su se
stesso e nei confronti della natura: egli può comprendere ciò che lo comprende.
Nelle famose parole: "Par l'espace, l'univers me comprend et m'engloutit
comme un point; par la pensèe, je le comprends"187. Abbiamo qui
due tipi di comprehensio: quella dello spazio e quella del pensiero. La
prima è quella dell'estensione che, come tutto, ci circonda da ogni lato: noi
ne siamo inghiottiti così come lo è "un punto" nell'immensità dello
spazio. La seconda è invece quella del pensiero che afferra ciò che lo afferra.
La prima è materiale, la seconda del tutto spirituale. Ma che vuol dire comprendere?
Identificarsi con l'oggetto? Farlo proprio? Solo per metafora. Infatti, il
pensiero lo è sempre di un soggetto determinato: è "il punto" a
pensare, è la sua capacità di conoscere il mondo che scende in campo e si fa
cosa, cioè rappresentazione e ragionamento. Questo pensiero, modo di essere
della parte, resta sempre se stesso e non diventa la stessa cosa del
proprio oggetto, non si identifica e non coincide con esso. E proprio per
questo, lo conosce come qualcosa di vero, se la verità deve avere un significato
oggettivo, ossia separato in sé da ciò che è il soggetto pensante e da
ciò che esso abbia potuto o cercato di porre nell' oggetto.
b. La conoscenza è il
diventar coscienti della natura di ciò che costituisce l'oggetto del
nostro atto di pensiero. Quando cerchiamo di conoscere l'universo, cerchiamo di
conoscerlo per come esso è, di scoprirne le caratteristiche e le proprietà. Chi
dice che la conoscenza altro non è che la proiezione delle categorie mentali
del soggetto nei confronti dell'oggetto, sì da realizzarsi in un'identità
(soggetto ed oggetto) che è costruzione del soggetto, presuppone che l'unica
verità possibile sia quella posta in essere dal soggetto; che non esista nulla
di oggettivamente vero al di fuori del soggetto che fabbrica i significati,
filando il bozzolo delle sue categorie.
186 Op. cit., pp. 1156 ss. Al contrario di certi umanisti, Pascal
nota però come la "grandezza dell'uomo" consista soprattutto nel
riconoscere la sua pochezza e miseria, cioè i suoi propri limiti.
187 Op. cti., p. 1157.
Se la conoscenza fosse solo questo, non
arricchirebbe mai il soggetto. La maturità che quest'ultimo acquisisce nel duro
esercizio del conoscere risulta proprio da un continuo arrecare cose nuove e
diverse, le quali, proprio a causa di ciò che sono (nuove e diverse) rendono la
mente fertile e la maturano nel ragionamento, che compara, seleziona, accumula,
spende, riacquista. L'esercizio teoretico della mente non è quindi mera
autocontemplazione del soggetto, se le categorie che esso usa acquistano senso solo
in relazione al contenuto cui si applicano, all' oggetto, la cui
verità diventa in tal modo nostra. Così per esempio la quantità e la qualità lo
sono sempre di qualcosa o del pensiero in quanto cosa, cioè oggetto di conoscenza.
Il modo di pensare, come potrebbe avere ad autentico oggetto sempre e. solo il
modo di pensare? Si cadrebbe nella stessa indistinzione conseguente alla
negazione della differenza tra il corpo e lo spazio. Si avrebbe un pensiero
senza un vero e proprio oggetto cui applicarsi perché il modo di pensare resta
ancora interno al pensiero in atto (è il modo in cui esso si manifesta) sì
da non possedere quell'esteriorità che è requisito essenziale e preliminare
del conosciuto rispetto al conoscente. È qualcosa che non esce dal
pensiero in atto e quindi dal soggetto. Se la conoscenza della cosa non
è che ripetizione del soggetto nelle sue categorie, allora il soggetto (cioè il
pensiero) non esce mai da se stesso e non conosce nulla.
Il modo di pensare costituisce l'oggetto della
conoscenza solo quando sia espressamente posto a suo contenuto, dato che sapere
di conoscere in generale (sapere, mentre conosco cose del tutto
diverse da questo stesso sapere) non toglie né aggiunge nulla al mio conoscere,
nemmeno quando quest'ultimo ha l'io a proprio contenuto. Infatti, nel conoscere,
l'io si applica al proprio oggetto per coglierne la verità, e poiché questa
riguarda l'oggetto e non il soggetto, non è toccata dalla considerazione che
l'io è cosciente del fatto che ora, in questo momento, è proteso alla ricerca di
essa. Questa consapevolezza concerne un oggetto diverso da quello della
propria ricerca, e si esaurisce alla fine nella mera constatazione di uno stato
d'animo. E ciò vale anche per quella verità che si ricerchi nel proprio io (per
l'io in quanto oggetto della ricerca), poiché l'analisi dell'interiorità - di
ciò che essa sente e perché lo sente ed a qual fine - non giunge a svelare
nulla se si sofferma continuamente - come verificando il proprio supposto
fondamento - sull'ovvia consapevolezza del fatto che il pensiero in atto è
cosciente di compierla. So di conoscere me stesso che conosce se stesso: e
allora? quid ad nos? L'autocoscienza di ciò che si è e si fa è, a ben
vedere, qualcosa di inutile o di vuoto: una aggiunta posticcia alla sfera della
coscienza, della quale si è compiaciuta la pedanteria piena di superbia
dell'Idealismo. Si è trattato di un escamotage per poter dichiarare che la
realtà è un prodotto del pensiero, il quale prima conoscerebbe se stesso nella
conoscenza del mondo e poi nell'autocoscienza, cioè nella coscienza di questo
conoscere, interiorizzerebbe il mondo, facendone un momento della propria
verità, l'unica che il pensiero ammetta.
Ma è il concetto stesso della verità ad
escludere a priori l'identità di soggetto ed oggetto (proclamata
nell'autocoscienza dell'io che conosce) come fine ed autentico contenuto del
conoscere. Ciò che è vero, infatti, non risulta da alcuna identità con altro da
sé ma dalla qualità per la quale è in sé ciò che è, indipendentemente
dal soggetto che lo pensa, indipendentemente dal rapporto di soggetto ed
oggetto. L'esistenza dell'io pensante non è necessaria all'esistenza della
verità di ciò che è: la stessa verità dell'io è qualcosa di indipendente
dall'opinione che l'io ne abbia, tant'è vero che molti la intendono in modo
erroneo, non distinguendo l'uomo dall'animale ed il pensiero dall'istinto. E
questo è come dire che la verità del pensiero, nella sua obiettività, è
indipendente dal pensiero stesso; è una qualità o significato che il pensiero
deve cogliere e rappresentarsi, nella forma della coscienza di sé, senza poter
dire di averla fatta venire in essere esclusivamente con il proprio
atto, di pensiero che pensa se stesso. Non vi è dunque distinzione tra la
verità di ciò che è fuori di noi e di noi stessi in quanto soggetti pensanti.
Sia l'oggetto in generale che l'io che lo pensa non sono posti dal pensiero
(l'io pensante non è il suo proprio prodotto ma è stato a sua volta posto - creato
- come attributo dell'ente e quindi parte dell'essere). La loro verità è
quindi un che di oggettivo, il cui esser in sé non può identificarsi con l'atto
di pensiero che lo pone per noi. Quest'atto può solo riconoscerlo per ciò
che è, nello sforzo ben orientato (sorretto dalla recta ratio), volto a
penetrarne l'essenza.
Se ciò che è possiede una verità, che per noi
consiste nella sua qualità o significato, non possiamo dunque dire che è la
coscienza di ciascuno a creare questa verità. Se la coscienza, invece di
crearla, la riconosce ed accerta, allora la verità in quanto tale inerisce alla
cosa in sé e non è un prodotto della coscienza: prima è nella cosa - nell'intenzione,
nell'atto, nell'ente - e poi nella coscienza che la riconosce. (Così il
significato morale di un atto è intrinseco ad esso in rapporto all'intenzione
di chi lo compie e la coscienza lo riconosce solamente). Ma proprio la
concezione della verità come valore obiettivo, che la coscienza (rettamente
guidata) può solo riconoscere e cercare di attuare, è stata abbandonata dal
pensiero moderno, che invece attribuisce alla presa di coscienza del soggetto
individuale (e persino collettivo), la capacità intrinseca di produrre
la verità, di essere anzi l'unica verità di cui il soggetto sia capace.
La verità, sia teoretica che morale, è sentita quindi come prodotto della
coscienza: non è più la coscienza ad esser il prodotto della verità. In questo rovesciamento appare già la
falsa coscienza poiché il concetto stesso dell'esistenza della verità come
qualcosa di assoluto e valido per tutti, che tutti devono sforzarsi di trovare
e riconoscere, viene alla fine distrutto e la verità viene a coincidere con la
semplice autodeterminazione di ciascuno, dissolvendosi nell'anarchia
etica e teoretica più radicali. La falsità di questa coscienza consiste
proprio nel fatto che essa crede di rappresentare di per sé - in quanto autodeterminatasi
- un valore universale, mentre è proprio questo suo concepirsi come pura
autodeterminazione a negarle ogni universalità. Questa coscienza è dunque falsa
perché crede di essere ciò che non è: crede di essere universale mentre è del
tutto particolare, chiusa in se stessa, atomistica. Crede di contenere, il
mondo e non contiene altro che la propria immagine.
L'autodeterminazione del soggetto è infatti il valore assoluto cui si subordina,
oggi, ogni riconoscimento dell'Altro in generale; è il modo in cui lo
spirito del tempo intende l'aver coscienza di sé: ciò che io penso ed in cui
credo è vero per il solo fatto che io lo pensi e creda. La verità è
vista solo nella presa di coscienza, perché atto in cui il soggetto si
determina: puro atto dell'autodeterminarsi, altrimenti indeterminato.
Naturalmente, la verità non può esser separata dalla coscienza, non può farne a
meno, ma solo per noi, dato che ciò che è in sé vero -perché accaduto o
per il suo significato - diventa vero per il soggetto solo se costui se ne
convince, conoscendolo e acquisendolo come suo patrimonio. La verità, può
diventare opinione e convinzione del soggetto che pensa solo tramite
una presa di coscienza da parte di quest'ultimo. Il valore rappresentato
dalla verità, indipendentemente dalla nostra opinione, per esser creduto deve
quindi esser interiorizzato ad opera della coscienza. E in tal modo non si crea
una doppia verità: una fuori di noi e una della coscienza, se non nel caso di
errore. Ciò che è vero, lo è prima in sé e poi per me: ma si tratta sempre
della stessa verità.
Ma la presa di coscienza cui si riferisce
l'uomo moderno e contemporaneo è di ben altro tipo. Essa non è al servizio della
verità, non è concepita come lo strumento che permetta alla verità di rivelarsi
a noi e di insediarsi nel nostro animo; non è un determinarsi dell'io di fronte
a ciò che è vero in sé, per riconoscerlo ed attuarlo. Per l'io moderno e
contemporaneo non si tratta di riaffermare che il vero deve diventar nostro
grazie alla coscienza ma, al contrario, che ciò che sentiamo come nostro,
grazie alla coscienza che si determina in assoluta libertà, è per ciò stesso
vero, e deve esser riconosciuto come tale da tutti. E ciò che sentiamo come
nostro, e per ciò stesso vero, è innanzitutto il nostro io. La
determinazione di sé, l'autodeterminazione del proprio io, questo
unilaterale e libero atto di volontà, è perciò il contenuto di verità che si
ascrive alla presa di coscienza ed anzi l'unico contenuto. Non altro
significato può infatti avere la proposizione fondamentale in cui crede oggi
l'atomo della massa, il quale è convinto che ciò in cui egli crede sia ipso facto
vero e sia l'unica autorità che debba essere riconosciuta.
Ma sostenere che ciò che il soggetto pensa sia
vero per il solo fatto di esser da esso pensato; l'aver ridotto il pensiero a
questa libera quanto irrazionale autodeterminazione, fa sì che il concetto
della verità si riduca a sua volta a questa vuota tautologia: è vero ciò che
penso, perché lo penso. Qui è scomparsa ogni effettiva capacità di conoscere,
dal momento che essa implica l'analisi e il giudizio, nonché la capacità di distinguere;
cose tutte che svaniscono nell'identità con sé di cui si bea la coscienza
chiusa nella sua autodeterminazione assoluta. Questa coscienza, che rende ogni
giorno culto e testimonianza a se stessa, rappresenta l'ultimo stadio di
decadenza cui è giunto il pensiero moderno.
Infatti, quando l'unico criterio della verità
lo si vuol porre nella coscienza individuale, nemmeno più concepita in senso
etico, come drammatico modo di essere dell'anima di fronte al bene e al male,
ma meramente psichico, intendendosi la psiche come funzione biologica, dominata
dagli istinti che i filosofemi della psicoanalisi qualificano come sfera
dell'inconscio; cioè dagli istinti, che nella realtà dominerebbero la
coscienza dall' interno, senza che essa se ne renda conto, onde la scoperta
della verità dell'uomo, di ciò che egli effettivamente è per natura, avrebbe
luogo solo mediante l'analisi con cui la coscienza esplicita ed acquisisce la
sua dipendenza dall'istinto; quando si crede a tutto questo, si assegna alla
coscienza il compito di legittimare l'istinto, favorendone in definitiva la liberazione.
Allora, la coscienza individuale, concepita come unica fonte della verità,
è svilita a giustificare l'istinto, sull'assurdo presupposto che l'uomo sia
nient'altro che materia guidata dall'istinto e quindi fascio indistinto di
energia vitale, animale, belluina. La ricerca della verità diventa, allora,
analisi delle cosiddette categorie dell'inconscio, costruite secondo fantasiosi
parallelismi, che il soggetto deve ritrovare in se stesso e nel mondo fuori di
sé, come se esse soggiacessero ai rapporti sociali in guisa di archetipi
collettivi.
La riduzione della coscienza a mera appendice
dell'istinto, poiché il riconoscimento della validità delle pulsioni dell'istinto
dentro di sé è il compito che si ascrive alla coscienza, che non è più il
presupposto di ogni attività di pensiero ma ha l'istinto a suo presupposto - l'istinto,
del quale diventa una protasi; questo modo di concepire la coscienza,
che pure è l'unico in cui oggi si riconosca il soggetto liberamente
autodeterminatosi (liberatosi cioè da ogni legge, etica e teoretica), mostra a
quale approdo tenebroso sia giunta la coscienza, dal momento in cui l'io,
alcuni secoli fa, ha deciso di interiorizzare la realtà, cioè di riconoscerla
come vera solo nell'orgogliosa autonomia del proprio atto di pensiero,
del proprio sapere di sé. In un'ottica siffatta, tutto ciò che è deve esser
posto ad opera dell'io stesso, deve anzi diventare momento del processo del porsi,
nel quale l'io sa (crede di sapere) se stesso. Il significato della realtà
e quindi il valore che essa possiede in quanto tale devono provenire dall'interno
dell'io, con l'esclusione di ogni fondamento di valore della realtà, che
sia esterno, esterno e superiore. Ma questo porre la realtà come un
prodotto dell'io, sia individuale che collettivo, ha finito con il dissolvere
l'io stesso, in quanto entità spirituale determinata (capace di ratio e voluntas),
dal momento che la coscienza (per un processo inevitabile) ha finito con
l'esser concepita come riflesso di quell'interiore essere di ogni uomo
rappresentato dagli istinti. L'attività spirituale del cosiddetto soggetto si è
perciò ridotta ad adeguare mestamente il super-io all'inconscio, ossia la coscienza
alle pulsioni dell' istinto. Ed i "superuomini", inflazionati ormai
come stereotipi dell'uomo-massa, scambiando la propria volontà di potenza per i
fatti della realtà - all'insegna del motto secondo il quale "non
esistono fatti ma solo interpretazioni"188 - finiscono con il
cozzare duramente contro i fatti, trascinando la loro esistenza all'insegna
dell'egoismo più edonistico che si possa immaginare, "veluti pecora, quae
natura prona atque ventri oboedentia finxit".
c. La riaffermazione del significato oggettivo del vero (il vero non è
tale in quanto fatto proprio dal pensiero ma fatto proprio in quanto vero) vuol
dunque esprimere la necessità di riproporre al pensiero un principio assolutamente
realistico sul quale fondare la conoscenza, non solo quella del mondo
esterno, ma anche quella dell'interiorità, del soggetto che pensa se stesso.
Siffatto realismo, che nega il primato del pensiero sull'essere, primato
che ha condotto ad identificare il pensiero con il tutto della sostanza ab
aeterno increata e susseguentemente a dichiarare l'autocoscienza l'unica
sostanza ed il vero in senso assoluto, come se in essa il tutto fosse l'uno; questo
realismo non si può riconoscere in quel cogito cartesiano che, pur
essendo (come sappiamo) all'inizio di tutto il processo i cui ultimi,
sconfortanti esiti ci affliggono crudelmente, viene tuttavia periodicamente
invocato come l'ancora di salvezza cui il pensiero dovrebbe aggrapparsi, per
resistere agli stravolgimenti che sempre più torbidi incalzano da ogni lato. Ristabilire
la giusta proporzione tra il pensiero e l'essere (fra la parte e il tutto)
richiede allora che, in via preliminare, si cerchi di ribadire l'aporia che
sembra inficiare dall'origine l'orgoglioso cogito.
Il dubbio metodico cartesiano
è quel principio in conseguenza del quale il soggetto ha assoluta certezza del
proprio pensiero, della cui esistenza non
188 NIETSCHE, Der
Wille zur Macht, ed. Gast, Stuttgart, 1964, afor. 481 e 552 (pp. 337 e
377): "gerade Tatsachen gibt es nicht, nur Interpretationen... 'Wahrheit'
ist somit nicht etwas, das da wäre und das aufzufinden, zu entdecken wäre - sondern
etwas, das zu schaffen ist und das den Namen für eines Prozess abgibt, mehr
noch fiir einen Willen der Ueberwältigung, der an sich kein Ende hat.".
può dubitare, dal momento che lo stesso dubbio la
dimostra. Non potendo dubitare del mio dubitare (del pensiero che dubita di
tutto) sono poi certo di esistere: il mio pensiero che dubita indubbiamente è,
cioè esiste, e ciò lo si può considerare una conoscenza chiara e distinta.
Non l'esistenza come tale ma la mia certezza di essa deriva perciò dalla certezza
dell'esistenza del mio pensiero che dubita di tutto: "pendant que je
voulais ainsi penser que tout était faux, il fallait necessairement que moi,
qui le pensais, fusse quelque chose. Et remarquant que cette verité: je
pense, donc je suis, était si ferme et si assurée ... "189.
Va però osservato: ho certezza di questo mio
pensiero perché è un pensiero che dubita di tutto o per il solo fatto di esser
un atto di pensiero? Ossia: la certezza interiore deriva dalla consapevolezza
della semplice esistenza dell'atto di pensiero o della sua particolare natura,
di atto che dubita e quindi nega? La domanda ci sembra legittima dal
momento che il pensiero, oltre a negare e dubitare, afferma. Perché il
pensiero che dubita dovrebbe offrirmi la certezza della mia esistenza di
"sostanza" che pensa in luogo di quello che afferma? Perché quello
che mette in dubbio la mia esistenza di res extensa - e anzi l'esistenza
della res extensa in quanto tale - e non invece quello che la afferma?
Non sono entrambi atti di pensiero allo stesso modo?
Cartesio costruisce il suo
principio speculativo muovendo dal dubbio metodico, cioè da un pensiero con un
contenuto determinato, per concludere poi con il pensare in generale
(cogito ergo sum). Ma nel pensare in generale si deve però considerare come
necessariamente ricompreso anche l'opposto del dubitare. Se è quindi il pensare
in generale (ogni atto di pensiero) a dimostrare con chiarezza a me
stesso che io esisto, allora la natura o qualità di siffatto pensare, il suo
contenuto - dubitativo, negativo od affermativo - dovrebbe esser indifferente
ai fini della dimostrazione stessa. Dubitare di tutta la realtà o non
dubitare affatto di essa: questi due pensieri dovrebbero conferire in ogni caso
al soggetto la medesima certezza, di essere cioè un essere pensante, dal
momento che in entrambi i casi egli è comunque sicuro di pensare. Se la
certezza di essere ciò che sono mi deriva dal pensare, dal je pense di
cui mi rendo cosciente, ciò che concretamente penso non può influire sull'acquisizione
della certezza stessa. lo so di pensare, per il solo fatto di pensare e
non perché pensi questo o quello, non per la qualità intrinseca del pensiero
del momento. (Se così non fosse, non potrei concepirmi come essere pensante ma
solo come entità che ha pensato questo
189 DESCARTES, Discours de la méthode, ed. Gilson, Paris, 1970, rist. 3a ediz.,
p. 89 (ID., Opere filosofiche, a cura di B. Widmar, Torino, 1969, p.
154).
o quello senza poter mai stabilire se nel momento
successivo a quello in cui ho pensato, sarà ancora capace di pensare).
Ma siffatta conclusione, che appare necessaria
in relazione alle premesse, vanificherebbe a ben vedere l'ipotesi del dubbio
metodico quale fondamento della proposizione speculativa cartesiana. E che tale
fondamento sia da riconoscersi nel dubbio metodico, non può esser in alcun modo
negato. Infatti, Cartesio giunge alla certezza del cogito ergo sum muovendo
dal dubbio sistematico nei confronti di tutta la realtà, ivi
compreso il soggetto che pensa, non da un qualsiasi altro contenuto di
pensiero. Perciò il soggetto giunge alla certezza di sapere, e quindi di
esistere, esclusivamente perché il suo sapere si è sviluppato in una serie di
pensieri che dubitavano di tutto. Questa certezza non nasce quindi dal semplice
fatto di sapere (in generale) ma solo dal fatto specifico di sapere di
dubitare. È solo questo sapere a consentire all' io, come in
un'illuminazione, di stabilire con assoluta certezza che il suo pensiero che
dubita di tutto, purtuttavia è. In tal modo l'io si procura, secondo Cartesio,
la possibilità di risalire dal pensiero all'essere ed anzi di far dipendere la
certezza dell'essere dalla certezza del suo atto di pensiero. La certezza di sé
dell'io pensante viene perciò raggiunta mediante la negazione di una negazione:
il dubitare di tutto per ciò stesso si nega, risolvendosi in un'incontrovertibile
affermazione, quando voglia applicarsi all'atto speculativo che contiene il
dubbio.
Ma si è detto che, dubiti o non
dubiti, ho sempre la consapevolezza di pensare, nonostante il significato volta
a volta opposto di ciò che io pensi. Perciò, io so di pensare anche quando non
dubito di nulla. E questa conclusione non può non ammettere lo stesso Cartesio,
quando scrive che il soggetto, in quanto "res cogitans" è
"dubitans, intelligens, affirmans, negans, volens, nolens, imaginans
quoque & sentiens"190. Tant'è vero che solo il pensiero non
può esser "divelto" dal soggetto. "Ego sum, ego existo; certum
est. Quamdiu autem? Nempe quamdiu cogito": "tutte le volte che
penso"191. Non dunque solo quando dubito, ma "tutte le
volte che penso", a prescindere quindi dal contenuto di ciò che penso. Ma
resta il fatto che il soggetto giunge alla rigorosa certezza di essere ciò che
è, solo mediante il dubbio metodico; che Cartesio si è servito solo di questo
tipo di pensiero. Perché? Il fatto è che il pensiero che non dubiti del reale
non può essere utilizzato per lo scopo che il Nostro si propone, che è quello
di arrivare a concepire la verità solo in
190
DESC., Meditationes de prima philosophia, med. Il, ed. Rodis-Lewis, Paris,
1970,
p. 29; tr. it. in Opere filos.,
cit., p. 207.
191 Op. cit., p. 27; tr. it. cit.,
p. 206.
base al principio dell'autodeterminazione del soggetto
che pensa, ovvero, riferito all'io dello stesso Cartesio, di "bâtir dans
un fonds qui est tout à moi"192. Ne consegue che il pensiero
che abbia un contenuto positivo, che cioè non dubiti della realtà, non può
essere da lui utilizzato, dal momento che la realtà da esso positivamente
riconosciuta verrebbe già a costituire quel fondamento certo di cui il
pensiero ha bisogno, e senza costringere quest'ultimo a rinchiudersi nella
certezza del proprio atto speculativo come l'unica validamente dimostrabile.
Il pensiero che non dubiti della realtà
obbligherebbe ad assumere a base della filosofia anche la certezza della
realtà esteriore, oltre a quella dello stesso pensiero che la pensa. E se
questa certezza non dimostra come tale la verità dell'affermazione,
bisogna ammettere che questa verità può conseguirsi solo con una verifica che
deve confrontare il pensiero con l'essere in sé della realtà e non con una
deduzione di questo essere implicita nell'atto con cui il pensiero pensa se
stesso.
L'aporia presente nel ragionamento cartesiano sarebbe allora
duplice: 1) se sono certo di esistere perché penso (per il solo fatto di
pensare), devo ammettere che a questa certezza la natura o qualità di ciò che
penso è indifferente, con la conseguenza che il pensiero che afferma ha lo stesso
valore di quello che dubita, ai fini dell' esistenza della certezza stessa.
In tal modo, però, il significato specifico del dubbio metodico, quale unico
atto di pensiero che mi dia la certezza di pensare e quindi di esistere,
svanisce completamente ed il cogito ergo sum diventa una proposizione
meramente descrittiva e persino tautologica. E questa è l'aporia principale. Ne
seguirebbe poi 2) una subordinata, di carattere per così dire metodologico,
poiché Cartesio sembra procedere in modo dualistico, nel senso che ora
attribuisce la certezza di esistere da parte dell'io alla qualità del
suo pensiero (l'esser un pensiero che dubita di tutto, l'esser quel pensiero);
ora invece al solo fatto di pensare, senza specificazione alcuna (nempe
quamdiu cogito), facendola dipendere dal mero dato quantitativo dell'esser
res cogitans, non ulteriormente determinata. E allora: qualità o quantità? un
solo, specifico pensiero, con quel contenuto o il pensare in quanto
tale, a cui ogni contenuto è indifferente?
A
quale certezza deve dunque affidarsi il pensiero: a quella che lo mutila
dall'essere o a quella che ve lo ricomprende? Il dubbio metodico o cogito cartesiano
isola il pensiero in se stesso. In quest'atto c'è come una separazione ed il
pensiero (ai fini del nostro discorso) viene a porsi come parte del tutto.
Ma questo è vero solo in apparenza. Infatti, questo stesso pensiero che si
separa dalla realtà per aver solo in se stesso la certezza di se
192 DESC., Discours de la méthode, cit., p. 64, tr. it. cit., p. 141.
stesso; grazie a questa certezza, deduce poi la
realtà da se stesso. Solo ciò che è pensato secondo le regole poste dal
pensiero che si è separato dal reale (poste dal proprio interno, dalla certezza
dell'io che si sa unicamente perché crede di poter dubitare di tutto
tranne che del proprio essere pensante); solo ciò che è posto dal pensiero in
questo modo è reale. Ma ciò significa, per l'appunto, dedurre la realtà dal
pensiero e porre la coscienza di sé quale unica ed assoluta verità. La res
cogitans si appropria della res extensa, non perché la riconosca
nella sua obiettività, ma perché la considera invece quale materiale da
costruzione per la certezza di sé, parte del processo mentale nel quale
la coscienza di sé si costituisce come mondo, anzi come l'unico mondo,
l'unica realtà di cui il soggetto debba tener conto. Il pensiero, come certezza
di sé dell'io, diventa allora il tutto e persino l'uno, diventa
cioè quella certezza assoluta di sé che crede di realizzare in se stessa (e
solo in se stessa) l'unità di tutto ciò che è. Il tutto viene
ricondotto, come all'unico centro che lo unifichi, al sapere di sé della
coscienza.
Ma questa concezione è
all'origine, come si è cercato di dimostrare, delle false rappresentazioni
dell'uomo e del mondo oggi dominanti. Il pensiero deve farsi umile, se
vuole avvicinarsi alla verità. Deve prender di nuovo coscienza del fatto che
esso è parte del tutto in senso sostanziale, obiettivo - perché il tutto
ha di per sé quella realtà dell'essere le cui leggi si applicano anche al
pensiero - anche se l'esser-parte del pensiero non si lascia rinchiudere nella
determinatezza della materia, grazie alla quale il pensiero agisce nella nostra
vita mortale. Il carattere spazialmente indeterminato del pensiero ed il suo
esser-parte nel tempo, questa sua realtà esclusivamente spirituale,
postula infatti un' immortalità che lo rende parte di un tutto rappresentato
da quel regno degli spiriti, diviso in eletti e reprobi193 , la
cui origine non è in terra, né nel pensiero stesso, ma in cielo, nella volontà
dell'Essere perfettissimo, la Monotriade che vive e regna nei secoli dei
secoli.
193 Matt., 25, 31-46. E questa è a ben vedere l'unica divisione
del tutto in parti, che veramente conti e che durerà in eterno.
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