Per la critica della filosofia della Rivoluzione
Negli anni 1997 e 1998 ho pubblicato due saggi sulla filosofia politica di Walter Benjamin (1892-1940). Il primo si intitolava: La Rivoluzione come Messia (Considerazioni sulla filosofia politica di Benjamin), in 'Trimestre', X, nn. 1-2, gennaio-giugno 1977, pp. 67-112. Il secondo: Felicità messianica (Interpretazione del frammento teologico-politico di Benjamin), in: 'Rivista internazionale di filosofia del diritto', LV, fasc. 3, 1978, pp. 583-629.
Benjamin era noto soprattutto come critico letterario di taglio marxista, anche se originale. Scrittore non facile, criptico e spigoloso, portato all'aforisma, affascinava tuttavia l'intellighenzia, soprattutto quella di sinistra, per l'acutezza di certe sue osservazioni, per le sue capacità di ricostruzione di ambienti ed atmosfere e per l'elemento visionario che lo pervadeva, evidente in special modo nelle sue Tesi di filosofia della storia, pubblicate postume nel 1950. In versione italiana esse apparvero in un volume che raccoglieva vari saggi di Benjamin: Angelus Novus. Saggi e frammenti, tr. it. e introduz. di Renato Solmi, Einaudi, Torino, 1962.
Su base rigorosamente materialistica, Benjamin proponeva un concetto messianico di Rivoluzione: lo scopo della vita era la felicità, che si doveva realizzare in questo mondo, azzerando tutto il passato e sbarazzandosi del trascendente ovvero dell'istanza religiosa stessa, impoverita da Benjamin a mera "teologia" e "teocrazia". Ma la tabula rasa rivoluzionaria doveva al fine risolversi in un ritorno alla natura, inteso alla Nietzsche, ossia in senso "cosmico", quale realtà della materia eterna che alla morte nuovamente ci accoglie, come in una "festa". Pertanto, la rivoluzione ed ogni politica rivoluzionaria dovevano realizzare messianicamene questo nichilismo, questa distruzione finale. Il Messia era alla fine la Natura.
La peculiare visione politico-rivoluzionaria di Benjamin mescola Marx e Nietzsche oltre a diverse altre fonti e si traduce alla fine in un irrazionalismo di tipo visionario, fascinoso non per quello che riusciva a spiegare (assai poco) ma piuttosto per quello che numinosamente prometteva, per l'oscurità baluginante dei lampi di un N u o v o che avrebbe comunque dissolto (si credeva) il vecchio mondo sino alle radici.
Nel periodo di fuoco della seconda metà degli anni Settanta del Secolo scorso, soprattutto in Italia l'eversione comunista, quella della sinistra extraparlamentare, era in piena offensiva rivoluzionaria per abbattere lo Stato borghese e il terrorismo "rosso" prevaleva nettamente su quello "nero". In quelli che sono stati poi chiamati "anni di piombo" una volta fallita quest'offensiva, il nutrito dibattito fra gli intellettuali che sostenevano lo sbocco rivoluzionario si svolgeva in genere in termini marxisti tradizionali, ossia con le pesanti bardature ideologiche e logorroiche del marxismo-leninismo. Tuttavia, non si può dire che mancasse la componente utopistico-visionaria; che anzi, al di là dell'insopportabile linguaggio vetero-marxista, non si sentisse alitare la presenza di un diffuso irrazionalismo, votato alla distruzione, il cui sbocco finale, come si è visto successivamente, non poteva non essere nel nichilismo più radicale, che è stato poi quello, attualmente ancora sulla breccia, del neo-marxismo innervato alla Rivoluzione Sessuale, ponte di passaggio Nietzsche con il suo "rovesciamento di tutti i valori".
In quegli anni tormentati, mi sembrò opportuno tentare una critica del pensiero rivoluzionario, quale si presentava per l'appunto in un autore per l'élite emblematico come Walter Benjamin, intellettuale ebreo tedesco di spicco, legato a Scholem, Bloch, ai fondatori della Scuola di Francoforte. Critico letterario, la sua opera più importante fu il libro Origini del dramma tedesco, con il quale tuttavia non riuscì a farsi cooptare nell'ambiente accademico del suo paese. Ostavano, oltre a ragioni politiche, anche il suo carattere introverso e anticonformista. Con l'avvento del nazismo si rifugiò in Francia. Quando le armate tedesche travolsero inaspettatamente quelle francesi, nell'estate del 1940, egli cercò rifugio in Ispagna, assieme ad altri. Dalla Spagna avrebbe potuto imbarcarsi verso gli Stati Uniti. Con i nazisti alle calcagna, sembrò ad un certo punto che il passaggio clandestino della frontiera non fosse più possibile: preso dalla disperazione, il povero Benjamin si avvelenò. Il suo gruppo riuscì a passare poco tempo dopo.
Perché ripubblicare questi saggi oggi, a 47 anni di distanza? Per il semplice motivo che mi sembrano ancora attuali. Il messianesimo rivoluzionario ha cambiato pelle, è diventato femminista e woke ma non è scomparso. Il nichilismo appare sempre di più la sua intima essenza.
Pubblico per primo il secondo articolo, quello del 1978, per il semplice motivo che non sono ancora riuscito a "digitare" il primo nel mio archivio elettronico. Ne ho finora riprodotto solo un terzo. Ma i due articoli possono stare da soli, sono in realtà indipendenti. Quello che pubblico è quindi un commento al cosiddetto, breve "frammento teologico-politico" di Benjamin, titolo dato dagli editori, dopo la morte dell'Autore. La traduzione è mia. [n.b. : per errore ho stampato due volte il saggio, non cancello la seconda per paura di scassare tutto].
* * *
Felicità messianica
(Interpretazione
del frammento teologico-politico di Benjamin)
di Paolo Pasqualucci (*)
«
Anche nel considerare la storia si può
assumere
la felicità come punto di
vista:
ma la storia non è il terreno
della
felicità. I periodi di felicità sono
in
essa pagine vuote » (Hegel).
«
Urlar li fa la pioggia come cani;
De
l’un dei lati fanno al’altro schermo:
Volgonsi
spesso i miseri profani ».
(Inferno,
VI, 19-21).
Aforismi, frammenti visionari, forme speculative decadenti.
Il frammento è per definizione qualcosa di parziale, anticipazione
o riffessione postuma, parte di un pensiero che raggiunge altrove la sua
pienezza. Da Nietzsche in poi la logica del frammento ha però cessato di essere
una logica dell’incompiuto. Il frammento viene consapevolmente costruito come
tale, microcosmo speculativo che non si ritiene inferiore al cosmo vero e
proprio. La mancanza di fede in un ordine universale delle cose, l’intuizione
di un disordine, costituiscono anzi la premessa del pensare per frammenti, che
oppone al carattere provvisorio della realtà la sicurezza contenuta nella
sentenza dell’aforisma. ll frammento diviene infatti aforisma, nel quale
trionfa il punto di vista di chi ha già giudicato il mondo e crede di essere
dalla parte del vero. Poiché l’aforisma non spiega ma illumina, nel senso che
deve essere accolto come illuminazione isolata ma totale e definitiva, nel buio
circostante: la realtà, la sua notte, viene squarciata da lampi che rivelano le
piccole solide isole del pensiero. Ma questa forma di pensiero non è solo il
tributo pagato ad una tradizione. Come nota Adorno, Benjamin si colloca nel
modo di far filosofia che risale a Novalis, Schlegel, però anche i suoi lavori
di ampio respiro conservano un’intima struttura frammentaria, sono un mosaico,
un universo inestricabile di tessere[1]. Se questa constatazione è
vera (e la si potrebbe applicare allo stesso Adorno), ciò significa che la
parte si è impadronita del tutto, che la forma frammentaria si è impadronita
dell’architettura del sistema, composto ora, per così dire, di quanta di
pensiero, duri e impenetrabili, persi in distanze abissali. L’insistenza di
Benjamin sull’immagine della «
costellazione » come sostitutiva del « sistema », dà appunto la misura della
mancanza di armonia, dei continui salti cui il pensiero ora si
abbandona. I frammenti non possono costituire un sistema ma solo una
costellazione, i cui enormi spazi sono rappresentati da finzioni, ossia
allegorie. Benjamin è, notoriamente, un pensatore criptico, un inventore di
immagini. Da qui la strana sensazione di chi ne affronta i testi,
quellfimpressione di un’intuizione che subito si inaridisce, si chiude nel
tessuto notturno dell’allegoria, che pure ha permesso all’intuizione stessa di
prender forma. Una sensazione simile a quella provocata dalla musica atonale,
quando dal caos dei suoni emerge un tema che però viene subito accuratamente
abbandonato: l’apparire e lo sparire subitaneo hanno voluto costituire un’allegoria
di ciò che doveva essere, della pienezza musicale che si ricerca al di là dei
valori conosciuti, ma che non esiste, evidentemente, senza di essi, per cui ci
si deve accontentare di un surrogato, di una cifra che faccia cogliere
l’ineffabile, il non detto, l’inespresso: al limite, il silenzio. La musica
atonale è forse mistica ma di un misticismo stridente e ambiguo come può
esserlo quello dell’uomo profano, sfociante nell’indefinito, nella
confusione dei valori, nell’accenno perpetuo, a suo agio nelle paludi
dell’anima: esemplari, in questo senso, per il fascino esercitato su Benjamin
un poeta-precursore come Baudelaire e uno scrittore per l’appunto ambiguamento
« mistico » come Kafka.
Secondo Adorno, la speculazione
dovrebbe procedere come la musica. « Anche la musica, e ogni arte, non vede
subito adempiuto l’impulso, che di volta in volta anima la prima battuta, bensì
solo nell’articolazione dello sviluppo. In questo senso, per quanto essa stessa
sia apparenza come totalità, critica l’apparenza, quella della presenza del
contenuto qui e ora. Tale mediazione si addice non meno alla filosofia ». A me
sembra che parte cospicua del pensiero tedesco attuale, con la sua passione per
il frammento compiuto, in musica e filosofia sia rimasto invece all’impulso
della « prima battuta », perché proprio questo è uno dei risultati del pensare
per frammenti: restare all’inizio, all’intuizione che si trasforma poi in
allegoria, ma non procede, manca di vero sviluppo, di vita compiuta[2]. Da questo punto di vista, l’apoteosi
filosofico-musicale dell’Aforisma rappresenta uno degli aspetti della decadenza
dello spirito tedesco rispetto a se stesso, a quello che era al tempo
dei Novalis, degli Schlegel, di Goethe, dell’Idealismo, della musica di
Beethoven. Una decadenza che ha inficiato sia il modo di intendere la parte che
quello di intendere il tutto poiché né gli aforismi di Benjamin sono
paragonabili a quelli di Novalis o ai frammenti filosofici di Hölderlin, né le
grandi costruzioni di un Mahler, un Heidegger, un Mann sono certo paragonabili
a quelle di Hegel, Beethoven, Goethe. I sistemi più che slanciarsi verso l’alto
si dispongono a strati massicci e petrosi, corrosi da acque sotterranee, dai
quali emergono come spaventi il casto Giuseppe o l’essere di Parmenide e nei
quali il pensiero sembra stemperarsi in un magma lenticolare. Da un lato lo
spirito occidentale sembra perdere il senso della misura, quando percorre
all’infinito e con tormento i sentieri dell’anima, del ricordo, del mito, del
tempo: forse è il peso ormai enorme del passato che trasforma le grandi imprese
filosofiche e narrative in labirinti inestricabili. Dall’altro, si fissa
sull’immagine subitanea, quella che per gli antenati era solo materia
preparatoria per il lavoro dello spirito: l’assenza di misura si fa qui vedere
nella trasformazione del provvisorio in definitivo[3].
Il pensiero non sembra più capace di
costruire veri sistemi di idee, ha perduto la dimensione architettonica ma non
rinuncia alla sua hybris, che anzi ne risulta accresciuta: l’epigramma,
l’aforisma esprimono una libertà assoluta, che esime dall’onere di fondare ciò
che si dice, di sostenere il pensiero con il pensiero. L’onere della prova
spetta all’avversario, al lettore, la micrologica del frammento non ne ha alcun
bisogno. È Nietzsche che ha introdotto questo modo di sentire nel frammento e
ha dato all’aforisma il tono apocalittico così caro agli epigoni; è Nietzsche,
e non il Preromantico, l’antenato vero di Benjamin, come di Adorno e degli
altri. Senza Nietzsche tutti costoro sarebbero forse stati onesti parroci dello
spirito. Nietzsche ha introdotto nel pensiero una violenza prima sconosciuta:
non lascia mai spazio all’avversario; speculativamente, le sue opere non sono
che un bagno di sangue. La forma frammentaria esprime perciò in maniera finita
qualcosa di indefinito, un desiderio indeterminato ma violento di superare
l’uomo, il mondo, la vita, di far apparire quel
nuovo cui l’animo contemporaneo a torto o a ragione
aspira[4]. Come profeta di un uomo
nuovo necessariamente inconoscibile, indefinibile – si sa solo cosa non deve
essere – Benjamin è figlio d’arte ovvero di Nietzsche e della sua forma
speculativa, la parva philosophia: è un irrazionalista e mistico
materialista, specie diffusa nel nostro tempo, che, in maniera del tutto
coerente, tende a risolvere il suo pensiero in un marxismo d’intuito,
messianico e apocalittico, distruttore. Il nichilismo di Benjamin, nel quale
conffuiscono, fatte le debite proporzioni, la violenza speculativa nietzschiana
e quella di Marx, risulta quindi in maniera non frammentaria dai suoi ben
costruiti frammenti, tra i quali assume un particolare rilievo quello detto «
teologico-politico ». Esso ha un significato emblematico. Si tratta di un testo
ermetico e religioso, della religione degli atei, la politica, dalla
quale molti si attendono ancora oggi salvezza poiché gli atei, che
dall’Illuminismo in poi formano l’opinione dell’Occidente, non credono che essa
abbia tutto corrotto, anche le sue proprie categorie. Vale a dire: Benjamin,
come pensatore « di sinistra » persegue una concezione teologica della
politica, della politica come teologia, costituendo così il pendant di
chi, come Carl Schmitt, elaborava in quegli stessi anni una « teologia politica
» come pensatore « di destra ». Ma, per
l’appunto, c’è da chiedersi se l’irrazionalismo che domina nelle concezioni
politiche del XX secolo, non sia tale da andare al di là delle usuali
distinzioni di « destra » e « sinistra », sì da far apparire Destra e Sinistra
i relitti storici che sono, ovvero espressioni di un unico cosmico e universale
Nichilismo[5].
Il frammento teologico-politico di Walter Benjamin
« Solo il Messia in persona porta a compimento tutto l’accadere
storico, vale a dire nel senso che solo lui ne scioglie, completa, crea il
rapporto con la sfera messianica vera e propria. Quindi niente di ciò che è
storia può volersi rapportare da sé fuori di sé, alla dimensione messianica. Il
Regno di Dio non è allora lo scopo della Dynamis storica: esso non può
essere posto come fine. Dal punto di vista della storia non è fine ma la fine.
Quindi l’ordinamento di ciò che è profano non può essere costruito pensando al
Regno di Dio: per questo la teocrazia non ha alcun significato politico ma solo
religioso. Il merito più alto del Geist der Utopie di Bloch consiste
nell’aver negato con la massima intensità il significato politico della
teocrazia.
L’ordinamento di ciò che è profano
deve costruirsi in base alla idea della felicità. Il rapporto di questo
ordinamento con il Messianico è uno dei brocardi fondamentali della filosofia
della storia: per questo in base a quel rapporto è possibile una concezione
mistica della storia, il cui problema può esser colto in un’immagine. Si
rappresenti con un vettore lo scopo verso il quale tende la Dynamis del Profano
e con un altro vettore la direzione dell’intensità messianica. Si vedrà che la
ricerca della felicità della libera umanità cercherà di sottrarsi alla
direzione messianica; però, come una forza sul suo cammino può promuoverne
un’altra che sia diretta in senso opposto, così anche l’ordinarnento profano
del Profano può promuovere la venuta del regno messianico. Ciò che è profano
non è però una categoria del Regno ma è categoria – una delle più vere – della
sua più silenziosa vicinanza. Poiché nella felicità tutto ciò che è terreno
aspira al suo tramonto, ma solo nella felicità il tramonto gli è dato
sicuramente. Mentre al contrario l’immediata intensità messianica del cuore,
dell’interiorità dell’uomo singolo sopravvive per opera dell’infelicità intesa
come sofferenza. Alla restitutio in integrum spirituale che conduce
all’immortalità, ne corrisponde una mondana, che conduce nell’eternità di un
tramonto e il ritmo di questo eterno trapassare, di questo regno mondano che
trapassa nella sua totalità, spaziale e temporale, il ritmo della natura
messianica è la felicità. Poiché la natura, nel suo totale ed eterno
trapassare, è messianica.
Aspirare alla compiutezza di ciò che è
trapassato, anche per quegli stadi dell’umano che sono natura, è il compito
della politica mondiale, il cui metodo deve chiamarsi nichilismo »[6].
I.
Il punto di partenza degli aforismi di
Benjamin è dato da una definizione dell’agire messianico quale espressione di
una possibilità taumaturgica nei confronti del finito, possibilità che non
inerisce al finito ma al soggetto che lo trasfigura. A Benjamin però non
interessa determinare la natura del Messia come persona, non importa sapere chi
sia ma come agisca nei confronti della storia. L’agire messianico, nel
quale spera la fede, risolve il mistero del finito, elevandolo purificato
all’immortalità. Il Messia è un tramite, Colui che media tra noi e il Padre, ed
è necessariamente persona: non si tratta infatti di un semplice concetto ma del
realizzarsi di una aspettativa di salvezza per opera di un individuo concreto,
per i Cristiani gia venuto nel mondo. Per Benjamin però il Messia – il Messia
che egli ascrive alla teologia – sembra essere essenzialmente un concetto: il
concetto di un’azione, che ha nome ma non figura, che non si incarna nella
persona salvifica. Benjamin non dice mai « Cristo » ma sempre e solo « Messia
». Egli si confronta con la possibilità di una risoluzione messianica del
finito espressa nel Vecchio Testamento: la fede nel Messia rivelato, la cui
morte da uomo ha già giudicato il mondo, gli è estranea. Benjamin pensa a un
Messia che non è ancora venuto e proprio per questo può portare a compimento
l’accadere storico: il Messia è quindi una possibilità, che si tratta di
negare, quando sia l’espressione di una rappresentazione religiosa del mondo
umano, il portato di una distorsione teologica.
L’accettazione-ripulsa dell’immagine del Messia, che il pensiero
di Benjamin tende a secolarizzare, coinvolge oggettivamente sia ebraismo che
cristianesimo, anche se, dal punto di vista di Benjamin, il discorso è condotto
solo nei confronti dell’ebraismo[7]. Il legame con la tradizione
religiosa degli avi presenta del resto il vantaggio di semplificare il problema
del senso messianico della storia. Che storia è mai quella sottoposta
all’Avvento di un Messia che è già venuto? Quale inganno si nasconde in essa,
quale superiore principio di follia? Ma i Cristiani sono per l’appunto folli
rispetto alla Legge e al pensiero razionalistico (1 Cor., 17-31).
Benjamin è un materialista mistico ma razionalista come deve cercare di esserlo
un figlio del XX secolo: muovendo da una concezione razionale della storia è
ancora accettabile l’idea di un Avvento futuro, capace di interrompere la
dialettica (apparentemente) lineare dello sviluppo storico, poiché il concetto dell’Avvento
che chiude cronologicamente i tempi è coerente al principio di causalità e alle
altre categorie usuali del pensiero. Si può persino arrivare a concepire
l’Avvento come risultato inevitabile della natura dello sviluppo storico,
risolverlo nell’apocalisse rivoluzionaria. Se il Messia è un’eterna possibilità
del mondo, se deve venire a fondare un regno spirituale e mondano, perché non
può aver luogo un messia del tutto profano, nato dal cuore del mondo? Se si
crede invece al Messia che è già venuto, il pensiero è assalito dal dubbio che
tutta la storia sia stata una storia sbagliata, il cui errore può essere
risolto solo dal giudizio di Colui che è presente al mondo ma assiste in
silenzio alle sue opere di sangue. « Non me ne sono io rimasto in silenzio e da
gran tempo? / Per questo tu non mi temi più » (Isaia, 57,11, tr. Luzzi).
Questo dubbio non assale Benjamin, per il quale la storia è sbagliata solo per
permettere al pensiero di affermarne l’inevitabile redenzione profana, un
risultato apocalittico ma umano, coerente con la guerra civile – la lotta di
classe universale – che ha permesso alla storia di progredire fino alla sua
soluzione finale. (Questa problematica è affrontata da Benjamin nelle tesi «
Sul concetto della storia » o « Tesi di filosofia della storia »).
Qual è dunque il nesso tra storia e
Messia? Il Messia della fede opera dall’esterno rispetto alla realtà storica.
Egli non compie i fatti storici come tali, non è nell’accadere
spazio-temporale, sensibile, che chiamiamo storia. Secondo Benjamin, l’accadere
storico non può essere come tale messianico. Se l’accadere possiede una
ragion d’essere, una logica, una razionalità, questa rimanda all’ordine storico
stesso non alla sua trascendenza. Si hanno quindi due piani tra loro
incomunicabili, quello della storia e quello messianico: das Historische
e das Messianische, che si fronteggiano come due nature opposte,
impenetrabili, che però non possono essere ugualmente vere. Infatti il
Messianico, il modo di essere messianico, il Regno, non trapassa per sé nel suo
opposto, in ciò che è fatto e quindi è vincolato allo spazio e al
tempo, alla sofferenza e alla morte. Nell’isolamento del primo c’è già una
perdita di verità, una mancanza di pienezza.
È evidente, per Benjamin, che i fatti umani non possano pretendere
di avere un significato messianico, che può apparire solo alla fine dei tempi
ma non per opera dei fatti stessi, bensì per intervento del Messia, il quale
svela il senso riposto di ogni storia accaduta. Per questo il Messia, dice Benjamin,
« conduce a compimento » la fatticità ossia ne svela il nesso con la sfera
messianica, con ciò che non si vede e non si può vedere ma solo credere. Il
Messia è allora colui che, con la sua azione individuale, demiurgica, dà il
tocco finale, nel senso della trascendenza, a tutto un mondo: è soggetto,
qualificato dalla funzione non da una essenza o caratteristica
spazio-temporale, dall’esser stato quella persona reale, che ha
testimoniato la Verità, l’Essenza; soggetto che pone in relazione due mondi
eterodossi risolvendo l’uno nell’altro. In questo senso è un mediatore, nel
senso hölderliniano e giovane-hegeliano, anche se privato di ogni nostalgia
classica, di ogni spiritualità filo-ellenica; colui che concilia, anche se dal suo
punto di vista, la terra e il cielo, altrimenti inconciliabili, in modo del
tutto gratuito, perché vuole, non perché sia necessario[8].
Nel definire il modo di operare del
Messia, Benjamin usa tre verbi, in senso apparentemente ripetitivo. In realtà
essi esprimono una gradazione che può rappresentarsi nel seguente modo: a) il
Messia « libera » il rapporto
tra i fatti e l’essenza messianica, lo scioglie dai suoi ceppi, lo rende
evidente; b) perciò « completa » i fatti dal suo proprio punto di vista di
artefice (messianico), che non coincide con quello del mondo, dà loro un
significato finale ultimo, Voll-endung; c) in tal modo il Messia crea,
poiché ha creato, fatto venire in essere ciò che in sé non esiste nei fatti,
ovvero la loro relazione con la sfera messianica. Perciò il Messia è un artifex
che, agendo da artista, crea dal nulla, nel senso che dà alla realtà un
significato che è tale, esiste, solo se si ha fede nel Messia stesso, nella sua
capacità infinita di ricreare il mondo.
Il significato di ciò che è, è quindi il Messia che lo crea: la
fede deve intendere in tal modo il senso della realtà poiché sarà il Messia, e
non la vita stessa, a svelarlo. Il mondo costituisce il segreto del Messia e il
soggetto si affida con profonda serietà all’attesa; secondo la nota formulazione
di Maimonide: « credo fermamente nella venuta del Messia, e sebbene egli tardi,
io attendo ogni giorno la sua venuta ». Il carattere di ogni messianesimo
religioso risulta dal fatto che esso dipende necessariamente da una fede nella presenza
di Colui che si rivelerà come Messia o che si è già rivelato come Messia: anche
per gli Ebrei, Egli non è ancora venuto ma non è assente al mondo. Forse
che l’Eterno è assente alla creatura cui non si è ancora rivelato? Solo la
fede, ossia il non-razionale per eccellenza, può far dunque pensare ad un
significato finale del mondo, che sarà svelato da un soggetto, il quale verrà a
chiudere i tempi con opera di giudizio e salvezza. Per la fede l’uomo non può
giudicarsi né salvarsi, nè quindi comprendersi mai appieno, è esterno a se
stesso, il suo proprio nemico, la sua propria morte.
Ma il Regno di Dio non esiste: secondo
Benjamin la ragione non trova nulla, nella storia, che rimandi oggettivamente
ad esso: è un regno che si lascia dedurre da principi trascendenti, non indurre
dai fatti. Il regno dei fatti storici non può volersi innalzare alla dimensione
messianica e « il regno di Dio » non può costituire lo scopo della « forza »
che agisce nella storia. Proprio per essere una forza cosmica, che cioè agisce
costruendo un mondo ordinato (un cosmo, ordine) di relazioni e fatti, la
Dynamis che opera nella storia, che è la storia, non può desiderare di
innalzarsi al di la di sé, di snaturarsi, di risolversi nel nulla. Il « regno
di Dio »» non può rappresentare il fine, che sarebbe la morte della
storia. Si tratterebbe allora di una fine che è in contraddizione con il
fine, con lo scopo che gli uomini perseguono attraverso la storia, una fine
che è morte senza ritorno, annichilimento dell’« ordinamento profano » che gli
uomini costruiscono nel mondo.
Benjamin coglie con innata
sensibilità vetero-testamentaria il carattere apocalittico dell’immagine del
regno di Dio. Tuttavia egli ne espunge, da vero ateo, qualsiasi prospettiva di
salvezza e quindi ogni autentico significato, ogni significato di liberazione
trascendente, eterna: resta solo la distruzione, l’ineluttabilità di una
fine, alla quale il mondo degli individui sensibili non può voler aspirare:
arriva, la morte arriva ma non è accettata. Rappresentarsi il Regno di Dio come
pura distruzione di quello mondano e quindi in una luce offuscata dall’ombra
del mondo distrutto, è anche coerente con la definizione iniziale del Messia,
la cui opera viene presentata come qualcosa di gratuito e immotivato, che
esiste solo perché (e se) si vuole esista un Messia. Il Messia è l’estraneo, lo
Straniero, che può essere manifestato all’improvviso, ponendo la parola fine
alla Storia ma senza redimerla, se è vero che questa fine è intesa da Benjamin
come morte e corrompimento, contraddizione radicale e immotivata di ogni
aspirazione umana. L’uomo, perché deve aver fine e per opera di Qualcuno che
secondo la ragione non c’è?
Il punto di partenza del ragionamento di Benjamin ne spiega perciò
quello di arrivo. Perché « ciò che è storico » non potrebbe volersi innalzare
ad una dimensione messianica? Benjamin non lo dice, perché la sua esclusione
del « regno di Dio » dagli scopi dell’umanità, è ricavata non da una
considerazione del carattere oggettivo della storia ma dalla definizione
pregiudiziale del Messia come elemento esterno ed estraneo al processo storico,
arbitrario in senso assoluto. L’avversione per il Messia, e per il Cristo come
Messia, tipica del pensiero moderno, coinvolge anche il « regno di Dio » e il
suo rapporto alla storia: anche chi non crede in Cristo condanna il Regno che
fonda la speranza messianica. Da questa premessa di avversione discendono tutte
le conseguenze. La dimostrazione dell’incompatibilità assoluta tra mondo
dell’uomo e regno di Dio è perciò il risultato di una semplificazione
concettuale, ossia è costruita sulla base di un elemento esterno: la figura del
Messia, definita a priori in modo da giustificare l’incompatibilità che si vuole poi dimostrare.
Vale a dire: il concetto del Messia, come immotivato esser-altro del
trascendente, giustifica la separazione (arbitraria) tra cielo e terra, che a
sua volta giustifica la necessità di un Messia, dello straniero celeste, per
esser superata. ll Messia rimanda alla separazione e la separazione al Messia.
Ma, a prescindere dalla petitio
principii presente, a mio avviso, nel ragionamento di Benjamin, interessa
maggiormente all’interprete il punto d’arrivo cui esso conduce. Benjamin vuol
far vedere come, a causa della fede arbitraria in un Messia, sia stato
inventato un « regno del cielo » o meglio sia stato affermato nell’uomo un
dualismo permanente nella figura dell’opposizione tra « cielo » e « terra ». È
la vecchia cittadinanza dei due mondi, tema tradizionale del pensiero
occidentale da Machiavelli, a Rousseau, a Hegel. Non si tratta però solo di
questo. Benjamin vuol affermare la totale estraneità della religione al mondo
dell’uomo, che è politico: perciò il mondo in cui la religione crede non
può mai conciliarsi con l’altro.
Vi sono quindi nel suo ragionamento due momenti concettuali ben
distinti. Da un lato l’estraneità perenne di ogni prospettiva religiosa alla
realtà storica, che ha dentro di sé il suo scopo. Dall’altro, il fatto che
questa estraneità si traduce in una distorsione permanente, ossia nel sottoporre,
sul piano degli ideali, il mondo della storia ad una fine (quella messianica)
che non corrisponde mai, per definizione, al fine del mondo terreno. Il mondo
può essere un regno dei fini ma mai un regno di Dio. Quest’ultimo allora non
solo è astratto, nel senso caro agli immanentisti, ma è anche sbagliato
o addirittura malvagio, per quello che rappresenta e che implica nei confronti
della concezione dell’uomo. L’immagine del possibile regno di Dio e
dell’avvento del Messia implica una lotta continua contro i fantasmi, contro le
credenze che in qualche modo permangono nella umanità e che né il pensiero
filosofico né la scienza riescono ad esorcizzare: di qui l’odio dei
rivoluzionari – imbevuti di filosofia e del mito della scienza – nei confronti
della religione. Contro le potenze spirituali che la religione ha fatto sorgere
nel cuore degli uomini, vale allora l’opera meritoria di chi, come Ernst Bloch,
contribuisce a separare l’utopia dalle contaminazioni religiose, dalle pretese
di una fede che, per gli atei, può essere concepita solo in termini di «
teocrazia ». La « teocrazia » è il contraltare della « teologia » ossia l’altro
modo nel quale la religione esiste per l’ateo: i teologi non possono che essere
teocrati, la teocrazia è la forma realizzatasi, la prassi storicamente
rilevante della religione ossia della teologia[9].
Bloch cerca dunque di distinguere –
secondo Benjamin – il vero dal falso regno. Muovendo come Nietzsche dallo
spirito della musica (la «
filosofia della musica » occupa un posto centrale nel Geist der Utopie),
ha proclamato l’estraneità dell’uomo al trascendente, la necessità della redenzione
profana.
« I soggetti rappresentano ciò che è unico, che non si può
estinguere in tutta l’oscurità esteriore e sovrastante. Che il Salvatore viva e
voglia ritornare, questo è da sempre garantito al di là di ogni critica;
ma Egli e lo stesso Dio, come tutto ciò che è oggettivo, hanno perduto la forza
propria, specifica di venire e agire nella luce. È venuto il tempo di
dispiegare nel modo più totalmente luciferino e paracletico la magia del
soggetto, calata dapprima in noi da Gesù. Perciò la salvezza è una sola. Ad
essa conduce la connessione che si ribella, che si cerca al di là di tutto ciò
che le è estraneo: connessione tra l’io morale, che può ardere ancora solo
nella notte della luce esterna e superiore, connessione tra questo io e la
Divinità che tace, ci abbandona, che esita a mutarsi nello Spirito Santo;
connessione che ha luogo nelle invocazioni, nelle preghiere, nella profonda
capacità di attribuire posti di comando che è propria dello stesso “ ateismo ”
eroico-mistico » (Geist der Utopie, 1923², ed. Suhrkamp, 1973, pp. 203-4).
Il rapporto che qui si afferma tra il soggetto e la realtà vuol dimostrare – a
mio avviso – come non debba più aver luogo l’esigenza di un Salvatore
trascendente, alla quale si contrappone l’esaltazione dell’ateismo incarnato
nel soggetto, nell’io che possiede la « Ernennungskraft », la capacità di
attribuire cariche nel proprio universo speculativo; come a dire: Dio può
essere pensato come Colui che comanda ma solo perché l’uomo gli attribuisce il
posto di comando. Tutto questo però è più intuito che dimostrato o meglio
balugina attraverso la massa delle immagini blochiane, che rifuggono quasi
sempre i contorni ben definiti, l’affermazione netta cara ai veri mistici. La
proclamazione dell’« ateismo eroico-mistico » fa vedere una mistica
dell’ateismo pur senza tradursi in una chiara negazione della Divinità: sembra
anzi che, per Bloch, sia stata quest’ultima a negare il mondo e non il
contrario. Comunque, se il rapporto che si deve stabilire tra il soggetto e la
realtà è quello sopra visto, se la soggettività sfrenatasi nell’ateismo deve
prevalere, se in essa sola può prender forma l’inespresso e il non-detto (che la
musica moderna contiene come profezia, come possibilità di svelare il segreto
cosmico, op. cit., p. 208), allora « i luoghi di nascita del nostro
proprio cammino, storicamente interiore », del sentiero che l’uomo percorre
interiorizzando la storia nella coscienza, devono essere pensati, assieme all’iter
percorso, in funzione della Erlösung, della redenzione: « liberazione [Loslösung]
da tutte le opere, da ogni trascendenza, nella quale l’uomo non ha luogo;
liberazione infine per una etica e metafisica dell’interiorità, dell’intimità
affratellante, della segretezza autosvelatasi, che sia l’esplosione totale del
mondo e il mattino della verità nei confronti delle tombe che scompaiono »[10].
L’ideologia della
redenzione-liberazione, il desiderio di far esplodere il mondo perché la verità
trionfi, implica comunque un’idea fanatica della verità, quel fanatismo del
pensiero che caratterizza i sacerdoti del Profano ed è l’unico elemento
veramente chiaro al di là dei veli pesantemente simbolici e del misticismo
ambiguo che caratterizzano il loro discorso. Bisogna dunque rivendicare al
mondo il suo carattere profano, all’azione dell’uomo il suo intento profano.
La natura dell’esistente, caratterizzata in opposizione alla
chimera di un Regno di Dio, viene ricondotta da Benjamin all’idea della Ordnung,
l’ordine che si costituisce tramite la sua propria forza. Infatti i due poli,
collegati da un bagliore di allucinazione, sui quali l’intera mondanità sembra
rivolgersi, sono la « dynamis » e « l’ordinamento di ciò che è profano ». La
Dynamis, come forza non meglio specificata, rimanda a lontananze presocratiche,
ad immagini della materia plasticamente rivissute: essa è arcaica ed arcana. Ma
la prospettiva atea di Benjamin intende la Dynamis come un’energia del tutto
priva di afffato divino e quindi di impulso veramente cosmico, cioè ordinatore
del tempo e dello spazio, sovrumano; quell’impulso che costruisce la materia
secondo l’idea, la forma voluta dal puro spirito, l’impulso governato dal logos.
La Dynamis quindi non è definita in sé ma in relazione alla
storia: « forza storica » o « forza della storia ». Il contenuto fattuale della
storia, pieno di nerbo, è ciò che caratterizza la storia come universo chiuso,
dominato dalla espansione della sua propria forza. Questo mondo non può essere
determinato dall’esterno ma solo dall’interno, tramite l’ordine che plasma la
forza secondo intenti profani (poiché la materia storica stessa è in se profana
e non contiene promesse di pace ultraterrena). L’ordinamento di ciò che è profano,
del Profano in generale è quindi – secondo Benjamin – l’unico modo di essere
autentico della Dynamis operante nella storia: essa può esser allora definita
cosmica in senso deteriore o meramente quantitativo poiché l’orduinamento è
solo supra-individuale, è ordine rispetto al singolo, ma non è ordine divino.
La vita, in quanto forza o potenza storicamente accertabile, è organizzazione
profana della vita stessa. Cosi la vita viene caratterizzata in opposizione al
sacro, dichiarato privo di diritti: la vita stessa non è che organizzazione
della sua propria forza ed energia, essa contiene in se la sua magia e non ha
bisogno di attribuirla a un deus ex machina. L’idea
dell’ordine-ordinamento suggerisce l’immagine di un ente complesso, che
costruisce se stesso sistematicamente, secondo uno scopo non esoterico. Questo
ordine non è neutrale, dal momento che nasce opponendosi ad un’immagine falsa
di se stesso, alla visione trascendente dell’ordine. Occorre un « pensiero »
per costruire l’ordinamento, che non nasce da solo e non è frutto delle
circostanze. Ma l’idea che presiede allordinamento è ricavata innanzitutto per
esclusione ossia indicando qual è l’idea che non deve presiedere
all’ordinamento. Quest’idea è quella religiosa, è l’ideale del Regno di Dio,
l’immorale pretesa di una « teocrazia ».
Il destino storico dell’uomo, il suo
essere-nel-mondo considerato quale insieme della sua storia, viene concepito da
Benjamin come risultato della liberazione di una tensione vitale totale. La
tensione della Dynamis storico-cosmica ha bisogno di realizzarsi tramite una
opposizione e una negazione: deve opporsi al mondo delle idee religiose che
hanno sottomesso l’uomo alla « teocrazia » e deve concludere questa opposizione
in una negazione radicale, un fiat nichilistico. La conclusione dell’opposizione
è nella negazione; ossia: il mondo dell’uomo reale, consapevole a se stesso, è
un mondo che nasce con un atto di profanazione, un mondo che, già per il fatto
stesso di esistere, rappresenta la profanazione di ogni ierocrazia metafisica e
religiosa. Non è un mondo profanato ma un mondo che profana,
l’organizzazione sensibile dei veri atei, gli eletti secondo la carne
costruitasi nella storia.
Occorre quindi rendersi in primo luogo coscienti, dal punto di
vista di Benjamin, dell’esistenza di questa verità e della sua portata, ossia
riffettere sulla vera natura del mondo, la cui
potenza non può essere
dissolta da alcuna fantasticheria religiosa (teologica). Il mondo esiste, esso
è potenza, forza che si fa storia ed è la storia di questa
potenza, totalmente mondana, immagine di se stessa, della sua propria mondanità
priva di confini. In sé, il mondo ha già ucciso Dio (che invece non ha ancora
ucciso il mondo), è già la dimostrazione della falsità di ogni aspettativa
salvifico-messianica che pretenda di riplasmare il mondo secondo lo spirito di
un creatore. La presa di coscienza del carattere oggettivo del mondo è perciò
una nuova nascita, una resurrezione spirituale: già il nascere è un risorgere
che concilia lo spirito con la materia. Questo mondo è quindi l’ordinamento che ha
escluso il Sacro, che vive di una profanazione come del suo atto costitutivo: è
un mondo di violenza perché profanare è atto di violenza, è un mondo che ha
bisogno della violenza poiché la profanazione è il suo modo di essere.
Il concetto di « ciò che è profano », das
Profane, possiede pregnanza di significato, è contemporaneamente
descrittivo e valutativo. Indica ciò che è semplicemente diverso dal sacro e la
contrapposizione scientemente voluta cui la diversità stessa dà luogo. E, come
si è detto, la contrapposizione si traduce in una negazione radicale. Ma
Benjamin, in questa prima parte del suo frammento non fa ancora l’apologia del
Negativo totale, non si inebria della negazione cosmica. Egli ricerca una
negazione determinata, quella della religione, che sente come condizione
preliminare per l’instaurazione dell’ordine. La Dynamis pura e semplice
appartiene come tale al caos, alla materia intatta e indiscriminata. Ma la
Dynamis nega e costruisce, costruisce in quanto abbia saputo negare. La potenza
che è nella storia, che è la storia, si qualifica di colpo, scaturisce dal caos
della pura forza, historia sive natura, come un « ordinamento di ciò che
è profano »; il passaggio all’ordine Benjamin lo fa avvenire con
l’instaurazione di un ordinamento che non è in primo luogo giuridico ma è in
primo luogo non-religioso, è scisso da Dio e dalla sua immagine messianica.
La negazione permette la costruzione di ciò che da essa si nutre,
il mondo profano, ma la costruzione non è indipendente da quella negazione,
anzi è già nel negare stesso, nell’affermare l’uomo come il contrario di Dio.
Il costruire dal negare, il negare come modo di costruire, questa avarizia del
pensiero si traduce nel nichilismo rivoluzionario, nella volontà di potenza del
pensiero negativo, che incenerisce platonismo, cristianesimo,
metafisica. Il passaggio dal caos all’ordine è perciò concettualmente repentino,
si nutre del carattere repentino e violento della negazione, anche se
l’immagine dell’ordinamento profano suggerisce l’idea di qualcosa che si
costruisce nella e durante la storia, in modo organico nel tempo. Il pensiero
di Benjamin aborre da categorie che implichino la gradualità e la mediazione:
esso si insanguina all’insegna del « tutto e subito » speculativo. Così lo
stilema aforistico permette di saltare, per cosi dire, da un eone
di pensiero ad un altro, senza nemmeno ricorrere ad intermezzi analitici, a
ricostruzioni storico-esemplari. Hobbes, che fa nascere l’ordine dalla pura decisione
del sovrano, spada che scaturisce dalla notte dei tempi, ha pur dovuto descrivere
il caos nella forma di uno stato di natura omicida. Partendo dalla critica
della religione, contrabbandata come teologia, si è dunque giunti ad affermare
l’esistenza di un mondo: dalla negazione dell’al di là è nato un mondo terreno,
la cui natura è la negazione stessa.
II.
L’ordinamento profano del mondo si
libera dalle ceneri della teologia. Esso si affida ad un’idea terrena, quella
della felicità. « Die Ordnung des
Profanen hat sich aufzurichten an der Idee des Glücks ». La parola tedesca Glück
significa felicità e fortuna. Tuttavia non traspare qui la convinzione che la
felicità dipenda in misura rilevante dalla fortuna: non si vuole fondare
l’ordine profano sul principio del destino, su di una fortuna di tipo
machiavellico né sul fatalismo che domina nella vita quotidiana, la saggezza
che accetta i momenti di felicità come doni soprannaturali, opera della fortuna
o della Provvidenza più che dell’uomo, che ringrazia e si preoccupa di non
dover ricevere qualche sventura. Il pensiero moderno mostra la tendenza a
sottrarre la felicità e l’infelicità al dominio del fato; crede di saperne più
dei Greci e dei Romani, dei suoi stessi antenati: Machiavelli, Shakespeare. Verso
la fine del frammento Benjamin sembra identificare la felicità con
l’affermazione della natura, poiché fa apparire la prima quando ci sia la
terribile consapevolezza di essere, con la morte, all’unisono con il movimento
cosmico della natura, eterna e sovrana. In questa visione naturalistica della
felicità sembra ancora presente la concezione del bonheur dei pensatori
libertini, di molti illuministi, di Sade, convinti seguaci della natura.
Materialismo settecentesco, spunti nietzschiani e considerazioni
estetiche (estetico-rivoluzionarie) sembrano comunque costituire i connotati
della idea benjaminiana della felicità, assunta a unico principio della
mondanità cosciente di sé. La ricerca profana del senso della vita, più che
stabilire preliminarmente cosa sia la felicità, mira ad attuarla: essa
deve dare ad un certo punto per scontato il significato della felicità, di
quella felicità terrena che l’uomo può inseguire solo dopo aver espulso da sé
ogni presenza e tentazione del divino. Il dato che Benjamin deve ribadire è che
l’uomo deve ricercare la felicità – e non Dio – nell’ordinamento del mondo: si
tratta di una verità intuitiva, che relega in secondo piano la dimostrazione
puntuale di ciò che con la felicità debba chiaramente intendersi. Ma già nel vedere
le cose da questo punto di vista, nel liberarsi dall’ipoteca della religione
sul destino dell’uomo, c’è per Benjamin un principio di felicità: già nello
svincolarsi e rendersi indipendenti da Dio, deve esserci gioia. La profanazione
non è dolore ma gioia, essa conduce alla felicità ed è già una sua forma. Così
l’uomo moderno può dare anch’egli all’idea di felicità un significato positivo,
come sembrano averlo avuto gli Antichi.
Nel breve scritto Das Glück der antiken Menschen (1916),
Benjamin, che pure non è un nostalgico del mondo antico, vede nei Greci la
presenza di un ideale della felicità che non contrappone l’uomo né alla natura
né alla Città, come hanno fatto invece i moderni, colpevoli di aver relegato la
felicità nella dimensione puramente « sentimentale », svalutandola perché
impulso che può contrastare ai doveri dell’uomo e del cittadino. Secondo
Benjamin, la spiritualità ellenica fonda l’idea di felicità sulla hybris
e sul senso della vittoria, la vita come possibilità della vittoria nonostante
la sventura che gli Dei possano inffiggerci. Nella sfida al destino è la
accettazione dello stesso, conseguente alla proclamazione del fatto che l’uomo
deve strappare al destino la sua felicità e quindi ergersi in maniera
indipendente nei confronti di quegli Dei con i quali lo concilierà poi la
vittoria. Poiché si deve pensare, dal punto di vista degli Antichi, che gli Dei
hanno voluto elargirci la vittoria più che convincerci alla scelta della lotta:
la felicità appare quindi solo in un secondo momento come « dono degli Dei »,
figlia della fortuna. Abbiamo dovuto scendere in campo, rischiare e questa
decisione non ci ha veramente posto in contraddizione né con il nostro io
interiore, né con la natura, né con la divinità (anche se quest’ultimo assunto
sarà dimostrato dal risultato). La felicità degli Antichi si esaurisce allora
nella « celebrazione della vittoria », evento della polis, lo spazio
pubblico nel quale ha luogo la conciliazione tra la volontà prometeica e la
volontà degli Dei, che hanno permesso il rischio, la sfida al fato e la sua
felice conclusione. La felicità non è quindi infinita, non è indefinita e
indeterminata come il sentimento e necessariamente nascosta (come il vero
sentimento), ma finita, determinata da uno spazio che non si lascia facilmente
corrompere. « Hybris è per il Greco il tentativo di rappresentare se stesso –
l’individuo, l’uomo interiore – quale portatore della felicità; hybris è la
credenza che la felicità sia una caratteristica dell’uomo [ma] niente affatto
connessa alla modestia; hybris è la fede che la felicità sia qualcosa di
diverso da un dono degli Dei, dono che questa e ogni ora possono prendere, gli
Dei che ogni ora possono infliggere al vincitore un’inaudita sventura (come ad
Agamennone che ritorna). Perciò si suol dire che l’immagine, secondo la quale
la felicità visita l’uomo antico, è quella della vittoria... In questa ora, la
più alta, che muta l’uomo in eroe, Pindaro ha cantato i suoi inni al vincitore,
per tenere la riffessione lontano da lui, per versare su di lui in quest’ora la
consacrazione totale, che concilia il vittorioso con la sua città, con i boschi
sacri, con la pista: degli antenati e infine con la potenza degli stessi Dei. E
così per l’uomo antico nella felicità si trovano commisurati entrambi gli
elementi: vittoria e celebrazione, merito e innocenza... ». La conclusione
ultima è perciò la seguente, improntata ad un’immagine totalmente solare della
mentalità greca. « La felicità dell’uomo antico è racchiusa nella celebrazione
della vittoria: nella gloria della sua città, nell’orgoglio del suo distretto e
della sua famiglia, nella gioia degli Dei e nel sonno, che lo rapisce agli eroi
»[11].
Ma per l’uomo moderno la festa è
finita. All’uomo moderno, che ha a che fare con il Regno di Dio della
escatologia giudaica e cristiana, non è più possibile quella
conciliazione. L’impulso prometeico deve avere allora la prevalenza e
connettere l’idea della felicità al mito nietzschiano dell’eterno ritorno, alla
problematica della « redenzione » profana. Scrive infatti Benjamin, in Parco
centrale: « L’eterno ritorno è un tentativo di saldare insieme i due
principi antinomici della felicità: quello dell’eternità e quello dell’« ancora
una volta ». L’idea dell’eterno ritorno suscita per incanto, dalla miseria del
tempo, l’idea speculativa (o la fantasmagoria) della felicità. L’eroismo di
Nietzsche fa pendant a quello di Baudelaire, che evoca, dalla miseria
del filisteismo, la fantasmagoria del Moderno »[12].
Nietzsche e Baudelaire sono posti sullo stesso piano come « eroi »
(antiborghesi perché nemici dei « filistei »), poiché hanno affermato l’idea
della felicità, pagando un alto prezzo personale. Essi non dimostrano ma «
evocano » la felicità, come « fantasmagoria » del pensiero, verità di
illuminazione, che, ad un certo punto, lascia distinguere a fatica il filosofo
dal poeta. In realtà, dal punto di vista del senso comune, del sano istinto
popolare (cui si può dare ogni tanto la precedenza nei confronti della
filosofia), nulla appare più angoscioso della « felicità » evocata e proclamata
da Nietzsche. Non è che una mascherata, un voler chiamare con nomi di pace e
abbandono l’impulso distruttivo che si esalta nella ricerca antoimposta dell’«
uomo nuovo », del « mare nuovo », del « sole nuovo »: il Nuovo si dovrà
affermare sul nulla, sulla morte dei valori e Nietzsche vuol dimostrare a se
stesso che solo in questa consapevolezza è la vera felicità.
«In effetti... chi sa sentire la storia degli uomini nella sua
totalità come la sua propria storia, prova, generalizzandolo enormemente,
tutto quell’angoscioso struggimento dell’infermo che pensa alla salute, del
vegliardo che rammemora i sogni giovanili, dell’amante che è strappato
all’amata, del martire che assiste al tramonto del proprio ideale, dell’eroe,
la sera della battaglia che non ha deciso nulla... ma portare questo cumulo
immenso d’afffizioni d’ogni specie, poterlo portare, ed esser pur sempre ancora
l’eroe... essendo l’uomo che ha un orizzonte di millenni davanti e dietro di
sé, l’erede di ogni tratto aristocratico di tutto lo spirito passato, erede
gravato di obblighi; essendo il più nobile di tutti i nobili clell’antichità, e
al contempo il capostipite di una nobiltà nuova, di cui nessun tempo vide e
sognò l’eguale... questo dovrebbe avere come risultato una felicità, che
finora l’uomo non ha mai conosciuto: la felicità di un dio colmo di potenza e
d’amore, di lacrime e di riso, una felicità, che, come il sole alla sera, non
si stanca di effondere doni della sua ricchezza inestinguibile e li sparge nel
mare, e come il sole, soltanto allora si sente assolutamente ricca, quando
anche il più povero pescatore rema con un remo d’oro! Questo sentimento divino
si chiamerebbe allora – umanità! »[13].
L’illuminazione, veramente profana,
che la vita sia solo un eterno ritorno dell’attimo smisurato – l’attimo in cui
si coglie tutto il valore della storia trascorsa ed è, per questo, momento di
felicità – contiene l’elemento di verità che interessa Benjamin, in ordine al
concetto della felicità: contiene la possibilità di unire teoreticamente i due
« principi antinomici » del concetto stesso. Essi sono dati: 1) dall’idea della
durata eterna della felicità, perfettamente compiuta in se stessa, se si vuole
che la sua sensazione, la percezione che investe il soggetto come una totalità
irresistibile, sia veramente tale; 2) dall’idea opposta: se si desidera provare
la felicità « ancora una volta », questo significa che ciò che si è goduto non
ha esaurito la pienezza del godimento possibile e totale: il desiderio della
ripetizione – nuova, migliorata – esprime un margine di insoddisfazione e
quindi la mancata realizzazione di quella pienezza spirituale che si suppone in
chi è veramente felice. Nella mitologia nietzschiana dell’« eterno ritorno
dell’uguale » si realizzerebbe l’unione fisica dell’attimo, la risoluzione del
soggetto nella felicità dell’attimo che tutto consuma ed è per l’eternità.
Nietzsche, forse il più infelice tra i filosofi, ha dato secondo Benjamin un
contributo essenziale alla causa del Profano, che combatte per la felicità, così
come Baudelaire, forse il più infelice tra i poeti.
La felicità, proclamata dagli
infelici, dai malati, dai pazzi, dai malinconici, è dunque possibile tramite
l’idea dell’eterno ritorno, che fa trionfare l’eternità della materia, la sua
felicità, la gioia che è in questo trionfo, nei confronti del soggetto
che voglia credere nel trascendente e senta nello stesso tempo l’immortalità
come destino inevitabile. In tal modo l’idea della felicità acquista un
significato rivoluzionario, che si aggiunge a quello che possiede come
principio che consente di dichiarare la morte di Dio. L’idea della felicità
svela quindi il suo nesso con quella della « redenzione profana » ovvero della
rivoluzione in senso proprio e universale.
Nell’ultimo suo manoscritto, che contiene le note « tesi » sul
concetto della storia, Benjamin scrive: « La riffessione porta a concludere che
l’idea della felicità che possiamo coltivare è tutta tinta del tempo a cui ci
ha assegnato, una volta per tutte, il corso della nostra vita. Una gioia che
potrebbe suscitare la nostra invidia, è solo nell’aria che abbiamo respirato,
fra persone a cui avremmo potuto rivolgerci, con donne che avrebbero potuto
farci dono di sé. Nell’idea di felicità, in altre parole, vibra
indissolubilmente l’idea di redenzione »[14].
La felicità va pensata nel tempo in cui avrebbe potuto
realizzarsi: se guardiamo al nostro passato vediamo che essa va collocata nella
sfera di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Nulla di tangibile,
nessun fatto della nostra vita, nessuna situazione meritano retrospettivamente
di esser considerati felici. Gioia intensa provocano in noi solo le figure
ideali di coloro – mai visti, mai conosciuti, mai nati – che avrebbero potuto
esserci veri amici, di donne che ci avrebbero splendidamente amato: questi δαίμονες avrebbero potuto renderci felici e quindi salvarci da ciò che
siamo ora, redimerci. La felicità va vista nella redenzione, poiché non è
ancora esistita su questa terra, né per il singolo né per il genere: non c’è
mai stata ma proprio per questo sarà, come la rivoluzione. Il ricordo di
ciò che è stato ci fa sentire anche ciò che non è stato, l’inespresso; lo
spiritismo del ricordo ci fa partecipi del tempo che avrebbe potuto essere e al
quale non abbiamo rinunciato perché sentiamo di avere diritto a quel
tempo, vita di amicizia e amore, apoteosi[15]. L’infelicità per Benjamin
non è evidentemente da ascrivere ad una colpa del soggetto, non deriva da
limiti del carattere, da cattivi pensieri ma solo da un destino individuale e
storico di cui il soggetto è vittima. L’ideale decadente dello homme à
femmes, l’invidia proustiana per il passato prossimo, il ricordo come
malattia dello spirito, autoinganno; il senso della gioia pànica come attimo
che colma ogni misura, che non abbiamo mai provato ma che, proprio per questo, deve
investirci una volta nella vita; questo edonismo del pensiero, questa
astrazione dalla vita semplice, dalla vita che conosce i suoi limiti e il
valore della rinuncia, la disciplina della volontà; questa follia vuole far
esplodere il mondo nell’attimo del soggetto e il soggetto nell’attimo storico,
risolvendo l’infelicità personale nella gioia dell’atto che distrugge un
intiero mondo per redimerlo. La felicità ci redime dal dolore ma il dolore del
mondo, la sofferenza degli « avi asserviti » ha atteso la nostra per saldarla a
se stessa: la redenzione dell’individuo, la sua vera felicità sarà possibile
solo nella redenzione del genere, nell’opera della rivoluzione che appare come
un messia, anticipato dal ricordo[16].
L’idea messianica della felicità non
contraddice all’idea naturalistica, che ne è anzi il presupposto, poiché la
rivoluzione in cui crede Benjamin non è quella dello Spirito Santo, la
redenzione non è altro che il rovesciamento distruttore del materialismo
storico, che si può concepire come l’ultimo atto dell’apologia della natura
intesa come materia sapiente, forza plastica che forma il corpo, mondo di
pulsazioni, processo organico, infinito ed eterno. Il processo dei rapporti
materiali di produzione non è forse organico, come la natura, che è tutto; e,
come seconda natura, non è forse tutto? La materia del nostro corpo è forse
infelice? Non è lo spirito a negare la felicità al corpo, e quindi a se stesso,
combattendo una lotta vana contro la materia, che imporrà alla fine la sua propria
redenzione? Il materialista può dire, come Hotspur morente, che il pensiero è «
schiavo della vita », ma il « tempo della vita » non è « follia »: l’unica
follia consiste nel pensare che la vita non possa esser redenta dalla vita[17].
Il pensiero riffette la vita, che si
esalta nella (creduta) indipendenza della sua materia dal pensiero e dall’opera
di un Creatore, nella potenza della natura sensibile, corpo cosmico la cui
felicità è astrale. L’uomo libero è allora quello che si rivolta al destino (che
impone di per sé di prender coscienza del limite e crea quindi infelicità) in
nome della ricerca di una felicità che ci attende al di là del destino. La
felicità, la cui attuazione giustifica, secondo Benjamin, l’esistenza del mondo
dei profani come « ordinamento », è quindi il valore in cui si vede realizzarsi
la libertà dell’umanità. L’umanità « libera » è quella che vuole ricercare la
propria felicità, quella che sa di aver trovato nel principio di piacere,
nell’edonisrno universale, il filo conduttore di ogni storia profana. L’idea
della felicità viene perciò sentita da Benjamin come ciò che è assolutamente
oggettivo, a tal punto da poter costituire il concetto portante di un intiero
mondo. Non hanno più corso le critiche kantiane e poi hegeliane al settecentesco
bonheur, riflesso di ogni soggettivismo, matrice di ogni individualismo
esasperato. Da Feuerbach in poi, l’affermazione del primato della felicità sensibile
ignora con disinvoltura la vocazione anarchica che quella ricerca contiene, il
principio di dissoluzione di cui è oggettivamente portatrice, quando venga
assolutizzata. Del resto, la felicità di cui parla Benjamin, è andata ben oltre
le sue origini ancien régime, se ha trovato in Nietzsche e in Marx i
suoi profeti.
III.
Stabilito il principio universale
della felicità si tratta ora di vedere in che rapporto stia con la sfera
messianica, anche se in tal modo si richiamano in vita i morti, ossia non ci si
libera della sfera messianica. Il mondo profano – dice Benjamin – è ordine,
ordinamento, quello messianico – e il « Messianico » in generale – è « regno »,
ma non è ordine o ordinamento. ll regno è diverso dalla Ordnung, che
indica il modo di essere dell’uomo. Infatti il terreno e il celeste sono due
nature del tutto opposte; non si mediano: una vera, l’altra falsa; non ci può
essere tra di loro un confronto come tra due ordini diversi ma complementari,
due entità che confluiscano in un « ordinamento » superiore o più complesso
rispetto a quello che appare a prima vista. Come si è visto, il mondo dell’uomo
si caratterizza – per Benjamin – in opposizione a ciò che gli è per natura
contrario: la sfera messianica, inventata dall’uomo stesso, vittima della
debolezza ancestrale che lo ha dato in pasto a millenarie teocrazie dello
spirito. Tuttavia occorre considerare la possibilità di un rapporto tra
l’ordine umano che persegue il suo ideale di liberazione terreno e le
prospettive del messianesimo. E non solo perché la « filosofia della storia »
si è posta il problema di quel rapporto, sì da produrre una filosofia della
storia « mistica », il cui
compito specifico è dato dal ritrovamento del senso messianico del mondo. Il
nesso tra profano e messianico deve essere considerato in sé e per sé, poiché
le due direzioni di tendenza mirano ad incrociarsi, sia pure in modo
inspiegabile.
Lo schema di pensiero di Benjamin si riproduce, a mio avviso,
rigidamente. Si vorrebbe veder finalmente apparire il mondo profano con i suoi
propri caratteri, vederlo in sé e per sé, un soggetto ben definito, che ormai
ha la sua storia da narrare, sciolta da vincoli ultraterreni. Ma l’attesa va
delusa. Teoreticamente vittima della sua vocazione all’utopia, Benjamin non
definisce i contorni del suo protagonista. Del resto, lo stesso Marx, che cosa
ha potuto dire della società finalmente liberata dalla rivoluzione? Nulla, se
non che è ancora la società delle istituzioni borghesi, dirette ad altro fine
(il fine però mantiene le istituzioni). Cosi il mondo profano resta sempre
definito per esclusione, in relazione al mondo non-vero, al « regno », che non esiste ma del quale non si
può fare evidentemente a meno, quando si è costretti a pensare la
mondanità. Il pensiero ha bisogno di ciò che nega per poter affermare ciò che
vuole.
Ricorrendo all’immagine dei vettori
tipica della fisica teorica tradizionale, Benjamin afferma che la Dynamis
del mondo profano non è totalmente padrona di sé. Cosi come accade nella
fisica, dove una forza presente in un campo può attrarne un’altra che si muove
in senso opposto, la forza umana può, senza volerlo, favorire « la venuta del
regno messianico ». Nell’elaborata espressione di Benjamin: « Così anche
l’ordine profano di ciò che è profano può promuovere la venuta del regno
messianico ». Si è visto prima che il mondo umano è tale solo a condizione di
sapersi in opposizione ad ogni messianesimo, che non rappresenta una dynamis,
come la storia degli uomini, ma solo la falsa coscienza degli asserviti ad una
teocrazia morale. Ora invece anche la sfera messianica appare come una forza,
una Intensität, contro la quale l’uomo lotta come se si trattasse di
un’energia vitale contrapposta alla sua. All’improvviso la sfera messianica
appare allora dotata di forza propria, tant’è vero che essa si può ora
realizzare addirittura con la cooperazione involontaria delle forze liberate
dall’uomo profano. Quale ulteriore conseguenza, sorge il problema di far vedere
come la dimensione dei profani non possa esser assorbita da quella messianica,
non ne possa diventare una categoria. Perciò, procedendo con ordine: 1) il
mondo del tipo di uomo laico pensato da Benjamin si basa su di una professione
di ateismo, che dichiara privo di forza, mera illusione, ogni regno messianico;
2) il pensiero ha negato la fede per trovare nel mondo la sua salvezza: il
principio cui l’uomo si ispira e che domina nel mondo è ora solo la ricerca
terrena della felicità terrena, ricerca che sembra non trovare ostacoli; 3)
inaspettatamente, nell’ambito di questa ricerca, la forza liberata
dall’emancipazione profana può scontrarsi con quella che proviene dall’intensità
messianica e risolversi così nel suo opposto; 4) allora può succedere che la Sehnsucht
profana venga essa stessa profanata, dia dialetticamente vita al suo contrario,
al realizzarsi dell’obbrobrio, del Regno mistico degli spiriti.
Ciò che non appare, a mio avviso,
conseguente nel ragionamento di Benjamin – una volta chiarito il suo punto di
partenza, consistente nella negazione apodittica del Regno – è l’aver dato
improvvisamente corpo alle ombre, l’aver rappresentato il Messianico come una
forza reale, un’intensità provvista di magnetismo effettivamente
operante. Questa forza ora minaccia addirittura di sottomettersi l’altra, di
farla deviare per i suoi fini. Come a dire: una volta al potere, i
rivoluzionari continuano a sentire l’intensità della reazione, la reazione come
una forza perennemente in agguato, la cui intensità si trasferisce all’interno
del partito rivoluzionario, che comincia a distruggersi dopo aver distrutto la
reazione. L’ermetica simbologia di Benjamin può tuttavia esser interpretata
anche nel seguente modo: l’ideale vetero-idealista di una storia finalizzata
dalla Provvidenza, che si trova tanto più a suo agio quando ha a che fare con
ciò che le si oppone, torna a prendersi la sua rivincita? No, nella misura in cui
Benjamin non dà valore decisivo alla possibilità di collaborazione non voluta con
chi rappresenta per lui l’avversario, con l’Eterno che opera nel Messia.
Venga pure il Regno, l’illusione della fede si sveli pure come
vera e autentica forza: tutto questo non altera il carattere di ciò che è
profano, non lo media, non ne scalfisce la natura. La ribellione alla divinità,
la reiezione del sacro, l’apoteosi di ciò che è sensibile e dà la felicità
sensibile, tutto questo costituisce ormai un patrimonio al quale l’ateo non può
rinunciare. Ammettiamo pure che Benjamin sia còlto da un ripensamento: che
senta di dover ammettere che il Regno celeste non è solo una mera
finzione, l’ombra di una impossibilità, che l’idea della venuta del Messia
ultraterreno non è solo una speranza della fede e un’ossessione dello spirito
di Benjamin, ma una probabilità effettiva della storia umana, la cui vera
essenza e la cui direzione sono in fondo oggetto per noi di eterno dubbio. ln
ogni caso, egli deve far salva l’indipendenza e la dignità del mondo profano,
che resta per lui il mondo vero. Che cos’è allora questo mondo che ora deve
accettare la possibilità del confronto con quello messianico, che non può
considerare quest’ultimo mera fictio? Questo mondo è categoria,
ma non categoria inglobata nel Regno, anche quando abbia concorso alla sua
realizzazione. Esso è categoria che esprime al meglio la « sua più quieta
prossimità » al Regno. Con parole che rinviano a oscurità blochiane, Benjamin
scivola nell’ineffabile, nello sconcertante misticismo dell’ateo che ha
studiato il Vecchio Testamento e la filosofia classica tedesca[18].
La prossimità, l’esser-vicino, per di
più in maniera quieta, sembra ricordare – se si può stabilire un simile
paragone – i florilegi hegeliani sullo « spirito » che è « bei sich», presso di
sé, con sé in modo pieno e calmo, compiutezza dell’essere nello Spirito stesso.
Lo spirito non solo è « an sich », è in-se ed esce da sé per ritornare a se
stesso; è anche « presso di
sé » ed è libero senza per questo dividersi mai, frammentarsi in materia di
forme molteplici e nemiche, non riconducibili all’unità dello Spirito stesso[19]. Ma la « prossimità» del
mondo profano a quello messianico, anzi l’esser il Profano categoria della
silenziosa prossimità al Messianico, questa oscura espressione sembra voler
stabilire una somiglianza esteriore, una analogia formale. Vale a dire: ciò che
è profano può essere utilizzato per l’avvento del Regno, tuttavia esso conserva
la sua natura, che è impenetrabile alla trascendenza: continua a realizzare se
stesso, ad essere quello che è, a restare « presso di sé », a considerarsi
realtà autonoma, a fortificarsi nel suo silenzio (se costretto al silenzio),
capace alla fine di opporre un suo proprio messianesimo (quello della natura)
al Regno. Infatti, dice Benjamin, tutto ciò che è terreno, l’uomo come prodotto
della sua Dynamis, tramonta solo nella sua felicità. Il Regno
rappresenta la pienezza dei tempi, la fine dell’umanità che conosciamo, il suo
tramonto che è però nuova aurora. Invece la realtà terrena e profana dell’uomo
ha anch’essa la sua fine, il suo tramonto, che è da vedersi nella felicità e
coincide quindi con lo scopo stesso della vita liberata dalla trascendenza. E
proprio questa è l’analogia: il profano è tramonto allo stesso modo del Regno.
Per questo il Profano, strutturalmente, come categoria, è vicino al Regno, con
in più il vantaggio di far coincidere il fine della vita con la sua fine:
eterno riposo nel nulla dopo la morte. L’ordinamento profano ha nella gioia il
suo principio e il suo tramonto: è tramonto di sé stesso non di qualcos’altro.
Attraverso l’immagine nietzschiana del tramonto, l’uomo che si è voluto
liberare di Dio, riafferma il valore della sua ribellione: si rinchiude in se
stesso, nel cerchio che ritorna in eterno del suo proprio ordine, dove la
felicità è principio e fine. Solo ammettendo il principio della felicità come
scopo del mondo si può rinchiudere il mondo in quello scopo e pensare che trovi
in esso il proprio tramonto.
Ma il cuore che sente l’intensità
messianica, la sente, in interiore homine, soprattutto alla scuola della
sventura, dell’infelicità che dà sofferenza. Mediante il sentimento, dominato
dalla aspettativa del Signore (l’anima pia sa che il Regno è dentro di noi), il
soggetto si sottrae al tramonto cui conduce l’ideale della felicità: non è
felice però non tramonta. Un simile cuore è però miserabile, dal punto di vista
di Benjamin, perché appartiene all’uomo che rifiuta di essere se stesso;
respinge la gioia che nella vita viene dalla felicità che si sa conquistare e
godere: quest’uomo, spiritualmente sottomesso, non vuol dar corpo a pensieri di
amicizia e amore perfetti, non odia l’ordine costituito, che è sempre
imperfetto e spesso ingiusto. ll suo rifiuto risulta dal fatto che l’intensità
messianica viene percepita solo tramite la sventura, il dolore, il male. ll
Messia prende l’uomo alla gola, lo priva della gioia della felicità dietro
promessa di una felicità diversa e più alta, nuova, eterna. Allora la
cognizione del dolore diviene la condizione necessaria per passare attraverso
il tramonto dell’uomo, per pensare di poter esser eterni. La sublimazione, qui
necessariamente cristiana, della sofferenza, viene intesa da Benjamin come una
specie di ricatto del Messia nei confronti dei poveri di spirito e
l’immortalità diventa – sprezzantemente – una semplice restitutio in
integrum spirituale. L’uso del termine è significativo. L’immortalità che
si raggiunge tramite la salvezza nel Messia è solo un ripristino, di che cosa?
Un ripristinare la vita, la felicità che si è avuta e della quale si avrà dopo
la morte un surrogato: ogni restitutio in integrum è infatti sempre
inferiore all’originale. L’uso del termine giuridico fa vedere come per
Benjamin la immortalità religiosa sia il risultato di una astuzia avvocatesca.
In ogni caso egli rovescia abilmente il rapporto tra mortalità e immortalità: è
ora l’immortalità – qualcosa di vuoto, di perennemente astratto – ad essere il
surrogato della Dynamis, della forza vitale, dell’ordinamento vòlto alla
felicità. Chi è stato così vile da non ricercare la felicità nella vita, per
paura del dolore e della morte, dovrà accontentarsi di un surrogato
nell’aldilà, copia scialba e sbiadita. L’esistente non viene dichiarato
illusorio, la vera vita non è nell’aldilà: lì può esserci solo la caricatura
del mondo profano, un ripristino ehe non compensa mai la carne perduta.
Il rovesciamento benjaminiano del
rapporto tra l’uomo mortale e l’immortalità fa allora vedere qualcosa di
terribile, un suo intrinseco demonismo. Infatti, non si tratta solo di
negare l’esistenza dell’altro mondo in generale e della sua forma di Regno di
Dio in particolare; di dire, basandosi sull’evidenza sensibile immediata e
sulla ragione, che l’altro mondo non esiste: siamo stati a lungo ingannati e
ora non crediamo più all’inganno. Si tratta invece di dire, e questo è il
demonismo: esista pure l’altro mondo, è meglio questo. Il mondo terreno sia
stato pure il prodotto di una illusione, non sia altro che uno strumento nelle
mani della Provvidenza: ebbene, il carattere virile dell’uomo profano non
accetta di esser stato usato come zimbello dell’Eterno e rifiuta
orgogliosamente la prospettiva salvifica dell’immortalità. Questa forza di
carattere spinge allora a rovesciare il rapporto del soggetto con la morte, ad
accettarla orgogliosamente come passaggio del vivente alla natura, a volere questo
trapasso materialista, a proclamarlo addirittura una festa, in barba ad
ogni trascendenza: qui si vede il carattere dell’uomo moderno, il « carattere
distruttivo ».
L’ambiguità che si è vista
in precedenza, derivante dal fatto che Benjamin sembra riammettere l’esistenza
e la preponderanza del Regno, dopo averla negata, quasi si potesse dire che Dio
esiste e non esiste, c’è e non c’è, non c’è però può pure esistere;
quell’ambiguità viene quindi risolta dalla forza di carattere dell’ateo
orgoglioso, che non accetta la negazione della sua negazione, non accetta la
profanazione del suo proprio mondo da parte del Messia e del cuore semplice.
Benjamin, l’uomo moderno che egli vuol rappresentare, deve rimanere nei
confronti della divinità un angelus Satana, colui che annuncia la perpetua
ribellione, anche se l’eterno ribelle più che la forza del carattere
sembra esprimere una violenza dell’animo, quella agognata assenza di
limiti, quell’ànsito prometeico che non indietreggia di fronte alla glorificazione
della morte, dell’autodistruzione pur di non venir meno al proprio unilaterale
punto di vista. Del resto, il titanismo del giovane Marx, di Nietzsche, dei loro
eredi irrazionalisti, berlinesi, francofortesi, tubinghesi, non nasconde la
debolezza dei violenti, degli energumeni dello spirito? Dove c’è violenza manca
però la forza, la chiarezza di rapporti, la legge e la soluzione delle
ambiguità è apparente[20].
Alla immortalità vuota, pneumatica,
viene dunque contrapposta da Benjamin una restitutio in integrum mondana
che però non è veramente tale, ossia non restituisce o ripristina nulla –
niente si può in-
fatti
effettivamente restituire – non è la brutta copia di nulla ma solo
l’affermazione dell’eternità della natura. Per la coscienza individuale non si
tratta ora di contrapporre la società e la storia alla immortalità promessa dal
Messia: ma contrapporre la propria mortalità individuale, scoprire in essa un carattere
eterno. Benjamin contrappone eternità a immortalità, facendo forza sulla lingua
comune che le intende come sinonimi.
«La vita del principe Myškin [l’idiota di Dostoevskij] si
configura come episodio solo per rendere simbolicamente visibile l’immortalità
di questa vita. La sua vita di fatto non si può estinguere, altrettanto poco –
anzi, meno ancora della stessa vita naturale, con cui ha nondimeno un profondo
rapporto. La natura è forse eterna, ma la vita del principe è certamente
immortale – e ciò deve essere inteso in senso interiore e spirituale. La sua
vita come la vita di tutti nel suo gravitare verso di lui. La vita immortale
non è quella eterna della natura, anche se pare assai prossima ad essa, poiché
nel concetto di eternità [Ewigkeit] l’infinitezza [Unendlichkeit]
è superata e soppressa [aufgehoben], mentre nell’immortalità [Unsterblichkeit]
essa giunge al suo sommo splendore. La vita immortale di cui testimonia questo
romanzo non ha nulla a che fare con l’immortalità nel senso abituale. Poiché in
questo secondo caso mortale è proprio la vita, mentre immortale è la carne, la
forza, la persona, lo spirito, secondo le diverse versioni. Così Goethe ha
parlato, con Eckermann, di un’immortalità di coloro che agiscono, per cui la
natura è tenuta a darci un nuovo spazio in cui agire, quando questo qui ci è
tolto. Tutto ciò è molto lontano dall’immortalità della vita, dalla vita che fa
vibrare infinitamente la propria immortalità nel significato e a cui
l’immortalità dà forma. Poiché qui non si tratta di durata. Ma quale vita è
quella immortale, se non è quella della natura, e neanche della persona? Del
principe Myškin si può dire, al contrario, che la sua persona resta indietro
rispetto alla sua vita, come il fiore rispetto al suo profumo o la stella
rispetto al suo scintillio. La vita immortale è indimenticabile, è questo il
segno da cui la riconosciamo. È la vita che dovrebbe essere indimenticata senza
bisogno di monumenti e di ricordi, anzi, forse senza bisogno di testimonianze.
Non può essere dimenticata. Questa vita resta imperitura per così dire senza
recipiente né forma. E « indimenticabile » non significa solo che noi non
possiamo dimenticarla, vuol dire qualcosa di più: allude a qualcosa
nell’essenza stessa dell’indimenticabile, per cui è indimenticabile. La stessa
perdita della memoria del principe nella sua successiva malattia e simbolo
della indimenticabilità della sua vita; poiché essa giace ora sprofondata, in
apparenza, nell’abisso della sua memoria di sé, da cui non risale più »[21].
Questo passo, veramente notevole, di
Benjamin offre forse la chiave per cogliere i significati e le contraddizioni
inerenti alla antitesi eternità-immortalità, di per sé non poco esoterica[22]. L’occasione che getta luce
sul rapporto tra l’uomo e l’infinito è offerta dal mito ossia dalla
interpretazione della figura dell’Idiota, l’individuo che è « rimasto indietro
rispetto alla sua vita » e si è quindi fissato in una dimensione di purezza
originaria, naturale e nello stesso tempo lontana, poiché una lontananza astrale
separa, a ben vedere, il fiore dal suo profumo, la stella dal suo scintillio:
la contiguità non è per l’appunto continuità, non realizza la compenetrazione
di causa ed effetto o di tutta una vita con i suoi momenti. Chi o cosa
interviene ad unire allora per noi la causa al suo effetto, se non il ricordo,
che conferisce alla vita il suo significato profondo? Ma il ricordo non è
evidentemente natura e la natura non ricorda. L’immortalità, come significato
universale della vita, deve essere distinta dal significato universale della
natura, che è quello di essere eterna. La premessa del ragionamento che conduce
alla definizione dell’immortale, vuol essere allora una premessa teoretica,
capace di fondare concettualmente la distinzione, che altrimenti sarebbe solo
verbale e quindi incomprensibile. Nel concetto dell’eternità si ha, per
Benjamin, l’estinzione di ciò che è finito: il finito, l’uomo viene superato
nell’eternità della natura, ma in modo da scomparire in essa. Infatti, non si
può certo dire che la natura onnipotente e arcana conservi la sua individualità
al singolo, al soggetto che, morendo, è scomparso in essa. Nell’eternità
naturale, ovvero nella natura considerata come materia infinita, l’individuo
trova il suo abisso: l’eternità lo inghiotte e non può costituire essa stessa
la dimensione in cui egli venga ricordato.
L’individuo è invece immortale, ossia vive dopo la morte, non in
sé ma nel ricordo, che conserva il soggetto allo spirito della posterità. Il
ricordo è la categoria ermeneutica principale di Benjamin, anche se ha poco o
nulla a che vedere con il suo antecedente platonico. L’individualità giunge al
suo « splendore » non in sé ma nel ricordo, nel conservarsi dell’elemento
spiritualmente indimenticabile che essa contiene. L’immortalità di una vita
dipende perciò dalla sua qualità, non si tratta di durata: è qualcosa che è
sottratto al tempo. Infatti, non ogni individuo realizza nella vita qualcosa di
indimenticabile: e allora questo individuo non è immortale. L’idea
comune di immortalità (che Benjamin critica) è connessa alla durata: nonostante
la morte del corpo, si pensa e crede che la vita dell’anima duri per
sempre; la vita di ciascuno. anche di chi non avrebbe alcun desiderio
particolare di continuare a vivere dopo la morte. L’immortalità è allora
sottratta alla disponibilità del soggetto, come il tempo, ed è nonostante
il ricordo. È anzi un errore dire – da questo punto di vista – che l’uomo è
mortale poiché già per il fatto di nascere è stato posto in una vita immortale,
della quale la vicenda del corpo è solo la prima fase. Se però tutti sono
immortali, tutti devono poter essere ricordati, cosa impossibile dal punto di
vista dell’uomo, della posterità che estrae l’indimenticabile dalle macerie di
un mondo anteriore. Ma la fede non si preoccupa di questo poiché essa vede nel
Salvatore l’artefice del ricordo: in Lui saremo tutti ricordati alla fine dei
tempi. Il protagonista del ricordo è Dio, il Demiurgo universale della memoria:
nessuno sarà dimenticato come è vero che tutti i nostri capelli sono stati
contati: « Quand’anche le madri dimenticassero, / non io dimenticherò te » (Isaia,
49,15).
Ma se il ricordo, che conferisce
immortalità ad una vita, è invece opera dell’uomo, è ricordo profano,
l’immortalità è allora essa stessa profana, è una qualità della vita che non
scalfisce la durata eterna della stessa e la lascia in balia della natura. E la
vita resa così immortale non ha «recipiente né forma» ovvero è, per così dire,
la pura indimenticabilità: non solo la pura essenza della vita conservata
dal ricordo, ma il ricordo come pura essenza, poiché la vita supera se stessa,
il carattere finito, la morte, se la sua essenza sa essere indimenticabile, sa
contenere il ricordo come necessità interiore, che non potrà non impadronirsi
dei posteri e tramite loro della vita stessa. Il ricordo fissa allora la vita,
rendendola immortale, sottraendola all’eternità annichilante della natura.
L’ideale dell’immortalità profana, terrena, si connette allora al mito della
gioventù. « Ma la pura parola che esprime la vita nella sua immortalità è:
gioventù. È questo il grande lamento di Dostoevskij in questo libro: il
fallimento del movimento della gioventù [der Bewegung der Jugend]. La
sua vita resta immortale, ma si perde nella propria luce: “ l’Idiota ”. Dostoevskij
lamenta il fatto che la Russia non possa serbare presso di sé la sua vita
immortale – poiché questi uomini portano in sé il cuore giovane della Russia –,
assorbirla in sé. Essa va a cadere su un terreno straniero, va oltre il suo
confine e si arena in Europa, “ in questa vana Europa ”... » (op. cit.,
p. 77; GS, I, cit., p. 240). La gioventù non è più una fase della vita ma « la
vita nella sua immortalità »: è nella gioventù, una gioventù spirituale ma
terrena (e quindi non sottratta alla problematica della felicità), che la vita
trova allora la sua dimensione universale, trova la spiritualità necessaria al
ricordo. Il mondo profano, il mondo che sa darsi l’immortalità senza
consegnarsi alla durata su cui speculano i credenti, è un mondo giovane
e che concepisce la gioventù come mito liberatore: dalla gioventù dovrà
scaturire la liberazione morale e politica di un mondo[23].
Tuttavia Benjamin non può dimenticare
che per l’uomo morto, l’esser-ricordato è solo una probabilità. Noi infatti
ricordiamo l’Idiota, ma quanti sono stati e saranno come lui? (L’Idiota è stato
creato dal genio; per esser ricordati occorre allora la creazione, un
creatore?). Il carattere indimenticabile della vita sembra inerire alla vita
singola, di colui che ha saputo renderla degna di ricordo, non alla vita di
tutti: la vita del principe Myškin non è, per così dire, alla portata di tutti.
Se l’immortalità è quindi solo ipotetica, perché aristocratica, affidata alla ἀρετή che si fa ricordare e quindi alla giovinezza poiché in essa è la
virtù suprema; sicura è invece l’eternità, ossia l’assorbimento
dell’uomo nel divenire cosmico della natura. L’eternità, separata
concettualmente dall’idea dell’immortalità e posta in posizione subordinata –
perché non esalta il finito – si prende, nel frammento teologico-politico, la
sua rivincita. Ché, dovendo contrapporre una immortalità integralmente profana
a quella « spirituale » della fede, si dovrà ricorrere allora all’elemento più
sicuro: la natura eterna, l’eterna materia, che conta anch’essa i suoi morti
uno per uno. Da questo punto di vista, il soggetto potrà allora liberarsi anche
del peso del ricordo, della sua necessità. Nella natura appare la liberazione
totale, nel movimento che tutto crea e tutto distrugge, come il fuoco cosmico
dei Presocratici: il mortale deve allora affidarsi all’eternità, alla quale non
occorre contrapporre il ricordo, l’immortalità profana che vive nel ricordo,
poiché è essa stessa profana in sommo grado, sino al punto da essere
messianica. Solo il carattere eterno della natura sembra capace, per Benjamin,
di svelare un messianesimo in grado di contrapporsi a quello del Regno di Dio.
Si tratta quindi di capire come si possa vedere nell’eternità il messianesimo,
come la natura possa infine esser considerata messianica.
Sappiamo dunque che l’uomo mortale,
finito scompare ma è eterno; il suo esser-stato, anche se trascorso per sempre,
è ormai qualcosa di eterno, inserito in un ciclo naturale, in un « ritmo » di
ampiezza cosmica che lo ha inghiottito. La restitutio in integrum
mondana non ha carattere compensativo, non si surroga a nulla: È un’immagine
usata per assonanza stilistica. Tanto poco c’è una restituzione di qualcosa,
nell’aldilà dell’ateo, che il soggetto è dissolto nella totalità naturale e
diventa eterno – non immortale – proprio per opera di questa dissoluzione: egli
compie un balzo nell’eternità della sua materia, nel gorgo privo di forma. La
morte di ogni singolo è ciò che conduce quest’ultimo « nell’eternità di un
tramonto ». Il tramonto è eterno perché c’è in ogni vita e la felicità è già il
tramonto del mondo terreno: non ci sono crepuscoli celesti. Il mondo (la «
mondanità ») ha perciò il carattere di ciò che muta e trapassa continuamente. È
un tramonto eterno ma, meglio ancora, È: un « ritmo » (non armonia, distrutta
dalla musica atonale degli amici di Benjamin), ritmo dell’eterno essere e
trapassare, finire del mondo con tutto il suo spazio e tutto il suo tempo. Ma
questo « ritmo » grandioso e colossale è ovviamente il ritmo della natura, che
è al di là del mondo, ed è l’unico solido piedestallo della « mondanità ».
L’ateo per elezione, il profano che sa cosa vuole, deve sapere, secondo
Benjamin, che il suo proprio tramonto è inscritto nel movimento generale della
natura, nel ritmo che distrugge, rendendoli già da ora infimi, gli spazi e i
tempi del mondo, nel ritmo che trasforma in eternità vissuta la sua propria
accidentale presenza nella vita, il ritmo in cui anch’egli risuona, come nota
sperduta nel battito colossale della materia.
Ma questo ritmo è ora « natura
messianica », è « felicità ». Con un colpo di mano tipico dello scrittore
epigrammatico, ma anche delle illuminazioni del mistico, Benjamin ci svela alla
fine chi sia per lui il vero Messia: la natura, che è felicità in quanto ritmo
cosmico, progredire della materia che redime, oltre i tempi della mondanità
appassita nelle sue miserie. Ma in tal modo, non solo la divinità fa posto alla
natura ma anche la storia: soluzione inevitabile se la storia era stata
concepita come il prodotto di una sorta di Dynamis primigenia. La felicità cui
l’uomo deve aspirare, se da un lato costituisce il tramonto dell’uomo,
dall’altro lo supera: la felicità trascende l’ordinamento profano poiché coincide
addirittura con il ritmo della natura messianica. Ma questa felicità è allora
felicità della natura non dell’uomo: la natura è la divinità che presiede
al destino dell’uomo e lo fa coincidere con il suo. La felicità in questo
destino è solo un frammento della felicità universale, della gioia che la
materia prova di se stessa. Benjamin ha evidentemente bisogno di ricreare una
forma di trascendenza divinizzando la natura, affermando nell’eternità della
materia una componente messianica, redentrice: il suo averroismo si colora di
un entusiasmo per così dire orgiastico, tramite il quale la natura è sentita
come puro movimento senza forma, autentico caos nel quale la materia ritorna
sempre e gioiosamente a se stessa, al di là dello spazio e del tempo. L’ateismo
tedesco, nella sua componente nietzschiano-francofortese, non disdegna di far
concorrenza alla vecchia mistica tedesca e sfocia in un naturalismo che
riabilita la natura degli alchimisti e dei maghi.
Ma da che punto di vista la natura può
essere definita messianica in senso proprio? Per Benjamin il carattere
messianico della natura sembra risultare dal suo « totale ed eterno atto di
trapasso, tramontare: aus ihrer ewigen und totalen Vergängnis ». La
natura è il vivente per eccellenza, còlto nella sua immediatezza più completa,
è la vita che c’è, ed è spontaneamente. Ma la natura non è persona, quindi non
si può dire, a rigore, che sia essa stessa il Messia. Tuttavia la natura sembra
personificare, per Benjamin, il suo proprio divenire, come se lo facesse
apparire manifestazione di una sua volontà: la natura ha personalità e capacità
per imprimere un significato naturalistico, in senso descrittivamente cosmico,
al divenire delle cose. In tal modo essa rapporta – sul piano della figurazione
– ciò che è umano a ciò che è naturale, fa vedere come l’uomo abbia il suo
senso solo nella dimensione naturale che lo trascende. Se la natura è «
messianica »; se la definizione di Messia è ancora quella enunciata in apertura
del frammento da Benjamin, la similitudine da lui instaurata è dunque la
seguente: come il Messia svela il rapporto dell’uomo con il Regno così la
natura svela il rapporto dell’uomo con la natura. Ché in questo caso il regno è
la natura stessa: il movimento, nell’ambito del quale l’uomo è inserito nella
natura, non esce da se stesso, è, per così dire, un processo senza soggetto,
poiché il processo stesso – la Natura saturnina – è il Soggetto.
Il messianesimo della natura sarebbe
quindi ricavato da Benjamin per analogia da quello trascendente della religione.
Alla restitutio in integrum spirituale va contrapposta quella mondana,
che rivendica un suo messianesimo: la riproduzione in negativo del mondo
ultraterreno è compiuta. Tuttavia la secolarizzazione è qui necessariamente
imperfetta, come in fondo ogni secolarizzazione, perché il messianesimo della
natura – proprio perché manca la persona, il soggetto autentico, l’Artefice –
non apre gli orizzonti a nuove dimensioni, non implica un trapasso qualitativo
(per l’appunto l’immortalità dei credenti) ma solo l’accettazione eterna del
mondo sensibile come unica realtà eterna e immutabile. Il messianesimo è
qui stravolto
nella sua brutta copia profana e per conseguenza definito in una prospettiva
diversa da quella iniziale. Infatti, esso consiste ora del carattere « eterno »
e « totale » del trapasso continuo di cui si alimenta la natura. Il
messianesimo non è perciò nella prospettiva della dimensione nuova, della Vita
Nuova, raggiungibile tramite l’intervento di un Salvatore, prospettiva che il
pensiero immanentista e profano dichiara fallace, imputabile solo
all’intervento esterno di un Messia sulla storia, alla fede in questo
intervento. Il messianesimo è ora nella cosa stessa, ossia nella natura,
che non fa cambiare qualità all’uomo, non può dargliene una diversa da quella
della materia: per definizione, l’uomo, l’uomo còlto nella sua immediatezza, è
natura ed è nella natura.
Ma la natura non contiene una promessa di vita ultraterrena, che
si realizza necessariamente al di là e contro la natura; la natura può
rappresentare infatti solo la fine spazio-temporale dell’uomo, la sua fine
sensibile ossia il puro nulla, se si crede che oltre quella fine non ci sia
altro. Il salto di qualità che la natura-messia fa operare al soggetto è un
salto nel nulla ossia nell’assenza di qualità: dov’è qui l’intervento di un
Messia, se il nulla è la nuova qualità del soggetto? Il messianesimo della
natura si conclude quindi nella affermazione del nichilismo: il
nichilismo diventa così, per Benjamin, una sorta di messianesimo profano. Da un
lato bisogna quindi dire che la natura non può appartenere a ciò che è
messianico, se quest’ultimo per realizzarsi ha bisogno della persona di un
Messia, la persona che esprime l’unione misteriosa e indissolubile di spirito e
corpo. Dall’altro, la dichiarazione di un contenuto messianico del Naturale,
pervicacemente inseguita da Benjamin, esprime l’esigenza che il Profano sente
di costruirsi un mondo suo ma contrapposto, come luce ad ombra ed ombra a luce,
a quello trascendente, tanto da arrivare a concepire una nuova qualità della
vita addirittura nel salto nel nulla che la morte produce, quindi nella
negazione totale contrapposta all’affermazione totale rappresentata dal Regno
di Dio.
Questo viene alla fine proclamato da Benjamin: il Messia deve
esser sentito nel corso, ritmo universale di una natura la cui felicità sia la
nostra felicità, la cui continua necessità di tramonto, di distruzione fisica,
sia ugualmente gioia e felicità per la creatura che scompare. L’eterna
immensità della natura contiene in sé la felicità della
materia, è per noi la promessa del nulla eterno, che può esser rappresentata
come la gioia più alta, la perfezione più ambita. Poiché questo sembra
all’interprete essere il pensiero segreto di Benjamin: nessuna perfezione è più
completa di quella del nulla in cui tutto si è risolto, tutto è scomparso. Il
mondo è, ma quando non sarà più, sarà come non fosse mai stato: il mondo
contiene il suo proprio nichilismo, poiché si lascerà alle spalle uno spazio
interamente vuoto, ossia nessuno spazio, come l’uomo che muore tutti i giorni.
Nessuno infatti si ricorda del ricordo; i pronipoti hanno dimenticato gli avi;
la materia dimenticherà il mondo e questo, dal punto di vista di un Benjamin,
sarà bene,
il pensiero di questa fine deve già essere percepito in termini di felicità
profana, di appagamento per le opere che il giorno presente offre con dovizia.
La felicità deve essere allora nel massimo di infelicità, nel pensiero del
nulla cosmico o meglio del caos esplodente all’infinito, distruzione galattica.
Nel sapere che la morte ci offre per sempre alla natura, che però non muore,
dovrebbe quindi affermarsi la consapevolezza di una eternità dell’uomo, che è
una forma di permanenza. Se la natura non è in se stessa il nulla, non è essa
stessa il nichilismo, tuttavia lo contiene e lo sviluppa perché si presenta a
noi come un messia che trova nel nostro annullamento, a tempo e luogo debiti,
il suo proprio appagamento: trova il suo e completa il nostro. Ma così,
esaltando la natura nullificante, identificandola con la materia, confondendo
natura e materia, Benjamin non propugna un nichilismo che alla fine distrugge
la stessa natura, trasformata in un messia che vive della sua propria
distruzione, come se la vita non dovesse concludersi che in una sorta di
suicidio universale?
IV.
Nella prospettiva del messianesimo
profano e naturalistico, dello pseudo-messianesimo di Benjamin, cosa resta
allora dell’aspirazione dell’uomo alla felicità e dell’esigenza di salvezza,
che è alla base della fede dell’uomo nel Messia? Se, per restare nell’immagine,
la Natura è l’inviata dell’Eterno, in che modo essa può redimere l’uomo dal suo
proprio male e renderlo felice? In nessun modo. Tutto ciò che Benjamin sa
offrire, dopo aver negato il trascendente e aver fatto l’apologia del mondo
profano e della natura messianica, è l’immagine della morte come festa,
in nome della felicità – non nostra, ma della natura: in questa festa e in
quella gioia è il nichilismo più superbo, che supera anche l’esigenza profana
dell’immortalità terrena, data dal ricordo.
C’è un frammento postumo di Nietzsche che sembra scritto apposta
per il suo epigono teologico-politico. « Essere liberato dalla vita e ritornare
morta natura, può essere sentito come una festa – da coloro che vogliono
morire. Amare la natura! Rimettere in onore ciò che è morto! Non l’opposto,
bensì la matrice, la regola, ha più senso dell’eccezione: infatti irrazionalità
e dolore si trovano soltanto nel cosiddetto mondo finalistico, nell’elemento
vivente » (Gaia Scienza, cit., p. 341, 11 [194]). Ritornare alla natura,
non al modo di Rousseau o dei Romantici, che hanno sentito la natura come il
vivente contrapposto alla società, nella quale era la maschera, la morte
spirituale; ritornarci con una violenza diversa da quella che – si crede –
ricondurrà l’uomo a nuova vita, dato che la natura in cui credono i
rivoluzionari purifica, ricrea e ci sarà accanto nella costruzione di una nuova
società; ritornare invece alla natura tramite la morte, ritornare « morta natura
» ossia scomparire nella natura. Questo ritorno è effettivamente eterno poiché
esso stesso non ritorna mai più: la morte non restituisce, ci fa passare nella
vita della natura, nel caos del suo movimento, non ci ricrea a nuova vita. Ma
proprio nel ritorno definitivo alla natura che un tempo ci ha creati, è la
festa, che è nella morte ed è la festa per coloro « che vogliono morire ». Se
si lascia la vita liberandosene è perché la natura ci ha creato quasi
allontanandoci da se stessa con dolore; e allora ritornare « morta natura » è
la vera festa per colui che vuole morire, dal momento che nella vita non è
alcuna festa. L’apologia nietzschiana della natura è in realtà una apologia
della morte o meglio del desiderio di morte, del suicidio spirituale, prima ancora
che fisico, di chi, solo tramite la sua fine nella natura, pensa di poter
superare « irrazionalità e dolore », che sono di casa nella vita normale, nel
mondo umano, che non è natura. L’idea della festa rappresenta
emblematicamente la felicità: la felicità vera è nella festa ma
quest’ultima si può celebrare solo con il trapasso nella natura, nel nulla che
ci inghiotte per sempre.
Il pensiero di Benjamin sembra
indubbiamente aver accolto e sviluppato la volontà di autodistruzione, che
costituisce una delle tendenze principali della speculazione di Nietzsche. La
natura diviene il luogo o lo scenario dove il sacrificio umano si consuma. Del
resto, una volta che l’uomo abbia respinto Dio e tuttavia si senta ancora
addosso la febbre del trascendente, quella vocazione dell’assoluto che solo la
fede può placare senza catastrofi morali, non è forse inevitabile che egli si
rivolga alla natura, invocandola come un Messia; che chieda alla natura, nuova
divinità, di dargli con la morte la felicità che si era da ogni lato preclusa
in questo mondo? Il rifugio nel nichilismo sembra essere l’alternativa finale
alla fede o meglio la conseguenza ultima del suo ripudio. Ed è nichilismo che
finisce con il distruggere anche la natura, facendola apparire come l’eternità
che per noi si realizza tramite la morte: alla natura si attribuisce un
carattere omicida, poiché si vede in essa una capacità di essere festa, di
darci gioia, solo quando ci fa morire.
Si sarebbe tentati di
attribuire al senso della festa e della felicità affermati da Benjamin un
carattere ironico, ma è evidente, da quanto visto, che il suo pensiero è
del tutto impenetrabile all’ironia, anche intesa in senso eterodosso. La
serietà mortale delle intenzioni speculative benjaminiane è la espressione di
quella melanconia di carattere che tanto colpiva Scholem, e viceversa[24]. La mancanza di ogni ironia
è del resto confermata dal desiderio di Benjamin di collegare la natura
messianica alla politica, poiché nella politica come l’intende il nostro tempo,
quale prassi creatrice di un mondo e un uomo nuovi, attuazione di una
palingenesi finale dell’umanità, tutto è improntato alla massima serietà. Chi
crede nella politica come salvezza non è portato all’ironia: quando la
esercita, e ciò avviene solo nei confronti dell’avversario, è mera derisione.
Nella « politica mondiale » deve tradursi con la massima serietà il
messianesimo della natura. Esso non resta un’idea astratta, una vuota
aspirazione del misticismo ateo: se la natura è il Messia essa non può non
esigere che la politica adegui il suo metodo alle sue esigenze. Il nichilismo
diviene cosi il « metodo », il modo di essere anche della politica.
Il frammento di Benjamin si chiude
senza venir meno al suo angoscioso ermetismo, con un ultimo balenio, una sorta
di fosca visione. Tutto dovrebbe chiarirsi, nell’accenno finale alla politica,
invece aumentano le tenebre, si ha la sensazione di una caduta definitiva
dell’uomo nella tomba della propria disperazione. Se mi è lecito un paragone, è
un’oscurità dantesca ossia che ricorda quella delle atmosfere infernali, come
Dante ha saputo rendercele. Che vorrà dire, infatti, che il trapassare
messianico della natura deve costituire ora il compito della politica mondiale,
la quale, proprio per questo, deve esser concepita come Nihilismus? La
politica non è evidentemente per Benjamin ordinaria amministrazione ma ha un «
compito » universale; la politica che interessa il visionario del mondo profano
può essere solo la Weltpolitik. La politica mondiale non può perciò
essere qui intesa, a mio avviso, nel senso descrittivo di situazione politica
mondiale, dominata da una o più potenze, da una o più concezioni del mondo,
confusamente consapevoli delle proprie aspirazioni e direzioni. La « politica
mondiale » è invece la politica come modo di essere del mondo, politica nel
senso universale del termine, perché dimensione nella quale si attua alla fine
l’aspirazione dell’uomo a un mondo del tutto profano e quindi esclusivamente
politico, finalmente liberato dalle pretese e dai miti della
«
teocrazia ». Se la politica viene assunta come qualcosa di universale,
universale dovrà essere anche il suo « compito ». In esso dovrà apparire e
realizzarsi quella « aspirazione » dell’uomo che è alla base della sua ricerca
di un mondo tutto terreno e che sfocia alla fine nell’esaltazione della natura
messianica: la politica mondiale, ossia la prassi come valore universale
dell’uomo, dovrà realizzare un rapporto nuovo tra politica e natura,
dovrà far apparire, a livello della politica mondiale in senso stretto, quel
rapporto tra uomo e natura che trova nella felicità nichilistica la sua acme:
una politica naturalistica, ossia il vero nichilismo, dovrà dominare nel mondo.
Il contenuto della politica è dunque
la natura. Se questa interpretazione è esatta, ognuno può notare di quanto si
siano stravolti i termini di quel rapporto natura-società, le cui
contraddizioni il pensiero del Settecento (e di Rousseau in particolare) aveva
creduto di risolvere nell’affermazione della politica come valore universale,
etico e perfino estetico. Ora la natura deve ancora ispirare la politica, ma
nel senso che quest’ultima deve erstreben, anelare a risolversi in una
natura il cui Messia è il Nulla eterno: la politica deve aspirare all’eternità,
deve diventare il metodo che garantisce, su scala universale, l’immortalità
profana ossia l’eternità nella natura nullificante. Il compito della politica è
percio dato dall’aspirazione consapevole alla Vergängnis che appare
nella natura, quel divenire del trapassare, quel mutare continuo, quell’apparire
e scomparire che, per Benjamin, è l’unico momento compiuto dell’esistenza: la
dissoluzione è l’unica cosa compiuta. Il nichilismo che la politica deve
realizzare non va quindi inteso – a mio avviso – nel senso ristretto che gli
individui politici, artefici del Profano devono respingere nel nulla il
trascendente e le seduzioni del Regno. Il nichilismo è il « metodo » della
politica non semplicemente perché essa, come suo scopo, deve mirare a
distruggere sistematicamente le vestigia del vecchio mondo ma perche è nello
stesso tempo il contenuto della politica. Se quest’ultimo è in funzione
della redenzione messianica dell’umanità e se il Messia è la natura
nullificante allora il contenuto della politica è necessariamente il
nichilismo.
La politica mondiale, se vuol essere tale, deve, per Benjamin,
porre in essere un nichilismo mondiale, deve cioè essere integralmente
rivoluzionaria. Nella visione della politica che redime il mondo nel
nichilismo, che annuncia la natura messianica, « anche per quegli stadi
dell’umano che sono natura », vale a dire, (il riferimento mi sembra comunque
oscuro), anche per quel modo di essere meramente naturale dell’uomo, immediato,
non riflesso, che non percepisce il carattere di trapasso della vita e
messianico della natura caos-cosmica, ed è quindi semplice naturalità, vita
all’insegna del carpe diem; in questa visione finale, sorta di
corruzione della visione finale di Faust morente, sarebbe mantenuta (e anzi si
realizzerebbe) l’esigenza di redenzione. Una felicità che all’uomo può giungere
solo da un Messia profano, ed essere quindi il prodotto di una redenzione che,
per forza di cose, distrugge tutto un mondo (la redenzione non può mai essere
parziale). Una redenzione che pone perciò in essere la totalità e nel massimo della
distruzione realizza il massimo di perfezione: e questo estremo, che è il
Nulla, si può avere solo nella natura poiché solo la natura annichila il
finito; allora quella felicità, che è essa stessa messianica perché
fatta balenare nella promessa del messia profano, nell’attesa dell’attuarsi del
mondo profano che tutto deve rinnovare, si realizza nella politica che, sola,
deve realizzare per Benjamin la natura: un triplice cerchio, un triste
connubio, ove natura e politica danno corpo alle aspettative di avvento
dell’individuo che non crede più né alla possibilità di una felicità autentica
né alla possibilità di una redenzione autentica, ossia religiosa.
Lo stravolgimento che l’uomo nuovo Benjamin fa dell’aspirazione
umana alla felicità e dell’esigenza umana di una salvezza morale, trova quindi
il suo compimento – dopo che l’esigenza di salvezza è stata assimilata
all’aspirazione alla felicità – nella riduzione finale della politica al puro
nichilismo. Aver voluto prendere le mosse dal supposto nesso tra teologia e
politica, aver voluto superare la prima nella seconda, aver creato infine una
teologia della politica, tutto ciò conduce al dominio del Nulla sul mondo. Né
serve opporre istintivamente il pensiero che il nulla, se è tale, non esiste:
il nulla infatti per Benjamin più che essenza è scopo, traguardo finale della
storia, è un nulla teleologico più che ontologico. Allora: la politica in cui
crede l’ateo rivoluzionario mantiene il mondo ma contemporaneamente lo dissolve
poiché essa aspira al nulla, alla morte cui il mondo deve giungere per
redimersi. Ma una filosofia del nulla, come quella di Benjamin, non è forse una
malattia del pensiero, il cui carattere il pensiero stesso non riesce più a
spiegare[25]?
Quella filosofia non risolve le domande che pone, poiché le stravolge in
paradossi cui essa stessa è paradossale risposta: e i paradossi, al pari delle
buone intenzioni, lastricano evidentemente le vie dell’inferno filosofico, nel
quale anche noi siamo stati rinchiusi, noi che vogliamo essere migliori e ci
crediamo liberi. Altrimenti, perché il nostro secolo sembra il tramonto di
tutto?
* Professore
incaricato nell’Università di Perugia. [Questo saggio è apparso sulla ‘Rivista
Internazionale di Filosofia del Diritto’, LV, Fasc. 3, 1978, pp. 583-629. Ringrazio la Direzione della Rivista per aver
gentilmente acconsentito alla presente riproduzione su internet. All’epoca ero professore incaricato di
Filosofia del Diritto nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di
Perugia. Avrei vinto il concorso a cattedra nell’estate del 1980].
[1] Cfr. Th.
W. Adorno, Einleitung zu Benjamins ‘Schriften’, 1955, ora in Id., Ueber Walter Benjamin,
Francoforte/M., 1970, pp. 33-51; pp. 37-38. Il volume raccoglie tutti gli
scritti commemorativi di Adorno su Benjamin, tra i quali il primo e più
importante è la Charakteristik Walter Benjamins, 1950, op. cit., pp.
11-29. Tra la letteratura che si occupa di Benjamin in generale, e che in
Germania comincia ad essere cospicua, ho tenuto presente: R. Tiedemann, Studien
zur Philosophie Walter Benjamins, Francoforte/M., 1965, specialmente la
parte III, pp. 103-136; lo studio di H. Arendt,
Walter Benjamin, apparso nella annata 1968 del ‘Merkur’; dal volume
collettaneo Zur Aktualität Walter Benjamins, Francoforte/M., 1972, i
contributi: H. Schweppenhäuser, Physiognomie
einer Physiognomikers, pp. 139-171; I. Habermas,
Bewusstmachende oder rettende Kritik – die Aktualität Walter Benjamins,
pp. 175-221. Inoltre, i due brevi studi di G. Scholem, che citerò nella
traduzione italiana, apparsa mentre stavo ultimando questo lavoro: G. Scholem, Walter Benjamin e il suo
angelo, Milano, 1978, tr. it. M.T. Mandalari, che comprende il
saggio-commemorazione del 1968 dal titolo Walter Benjamin. Infine: H. Guenther, Walter Benjamin. Zwischen
Marxismus und Theologie, Olten, 1974, sp. pp. 21-90; il volume collettaneo Materialen
zu Benjamins Thesen ‘Ueber den Begriff der Geschichte’. Beiträge and
Interpretationen, a cura di P. Bulthaup, Francoforte/M., 1975; P. Szondi, Hoffnung im Vergangenen.
Ueber Walter Benjamin, 1963, in Satz und Gegensatz. Sechs Essays, Francoforte/M.,
1976, pp. 79-97. Per ciò che riguarda il
« frammento teologico-politico » oggetto specifico del mio lavoro, se ne
trovano pochissimi cenni presso gli autori citati: per un elenco puntuale cfr.
la successiva nota n. 6. Per gli autori italiani, che si occupano però
prevalentemente del Benjamin critico letterario, cfr. M. Cacciari, Di alcuni motivi in Walter
Benjamin, in Nuova Corrente, 67º, 1975, pp. 209-423; F. Masini, Per una genealogia dei
significati e Melancholia illa allegorica, rist. in Brecht e Benjamin.
Scienza della letteratura e ermeneutica materialistica, Bari, 1977, pp.
107-112, 113-131. A titolo informativo, per porre in evidenza l’allargarsi
dell’interesse odierno su Benjamin, segnalo lo studio di S. Buck-Morss, The origin of negative
dialectics: Theodor W. Adorno, Walter Benjamin and The Frankfurt Institute,
Hassocks, Harvester, 1977 (§ 20.20).
[2] Il parallelo è tratto da Th. W. Adorno, Dialettica negativa,
tr. it., C.A. Donolo, Torino, 1970, Introduzione, p. 15. Nella citata Einleitung
alle Schriften di Benjamin, Adorno sostiene comunque che la filosofia di
Benjamin deve paragonarsi alla Neue Musik, per il suo carattere «
atematico » e « frammentario »: Ueber W. B., cit., p. 46. Risulta meno
chiaro allora il nesso, affermato da Adorno, tra Benjamin e romantici come
Novalis, Schlegel, ossia con il modo di fare filosofia per frammenti da parte
dei romantici: la musica romantica non è infatti atonale. In realtà lo stesso
Benjamin ha cercato di dare un fondamento teoretico al suo modo di pensare,
dichiarando che il « sistema » conserva al suo interno l’ordito di « mosaico »:
per cui anche i « trattati » devono rivelare l’intima tessitura molecolare del
pensiero. « Il valore dei frammenti di pensiero è tanto più decisivo quanto
meno essi sanno commisurarsi immediatamente con la concezione di fondo, e da
esso dipende lo splendore della rappresentazione nella stessa misura in cui
quello del mosaico dipende dalla qualità del vetro fuso. La relazione
dell’elaborazione micrologica con l’entità del tutto figurativa e intellettuale
esprime il fatto che il contenuto di verità può essere colto soltanto
penetrando con estrema precisione i particolari di un certo stato di cose » (Premessa
gnoseologica a W. Benjamin, Il
dramma barocco tedesco, tr. it., E. Filippini, Torino, 1971, p. 9 (Gesammelte
Schriften [=GS], a cura di Tiedemann e Schweppenhäuser, Francoforte/M., I,
1, pp. 208-209. Le GS hanno cominciato ad uscire negli anni Settanta).
Inoppugnabile mi sembra ad ogni modo l’affermazione di Scholem, secondo la
quale la personalità di Benjamin è tale da conferire « anche a suoi brevi
lavori o scritti un carattere frammentario e nel contempo definitivo » (Scholem, op. cit., p. 81). Forse
per questo Adorno dice che « Der Blick
seiner Philosophie ist medusisch » (op. cit., p. 17).
[3] Ciò che per gli antenati in filosofia, ossia
gli Hoelderlin, gli Hegel, è lavoro preparatorio, meditazione giovanile, ancora
sparsa, diviene poi forma definitiva del pensiero presso i discendenti. Si
paragonino, p.e., i manoscritti filosofici di Hoelderlin noti come Ueber das
Gesetz der Freiheit e Das Werden im Vergehen (Sämtlicbe Werke,
ed. Mieth, rist. Darmstadt, 1970, I, pp. 835-6; 900-5), con il modo di scrivere
di Adorno, di Benjamin. Il fiammeggiare isolato dell’intuizione di Hoelderlin
sembra costituire l’archetipo della monade speculativa della « costellazione » dei teorici critici. Il
processo stilistico di cui Nietzsche è stato il grande mediatore, ma in senso
negativo, dirompente, è ora finalmente compiuto all’inizio del XX secolo.
L’incapacità di pensare sistematicamente da parte dei discendenti ultimi si
nasconde però dietro l’alibi politico, l’ideologia, le cui virtù sono
evidentemente innumerevoli, come quelle delle erbe magiche.
[4] Quello stesso desiderio che si trova
espresso con grande chiarezza, determinazione e violenza intellettuale nelle
pagine del Marx degli anni Quaranta, impregnate di spirito antireligioso, di
titanismo prometeico, alla ricerca di una palingenesi totale e definitiva,
insomma di valori rivoluzionari intesi messianicamente, per i quali Marx non ha
ancora costruito il piedestallo « scientifico » e che comunque non ha poi certo
rinnegato, in nome di una più pacata, perché scientifica, visione della
rivoluzione. Nel numero 264 del 5 aprile 1849 della Neue Rheinische Zeitung,
egli scrive, ripensando all’esperienza del ’48, le note parole, ossia « che
ogni sollevazione rivoluzionaria, per quanto il suo scopo possa sembrare ancora
remoto dalla lotta di classe, deve naufragare fino a che la classe operaia
rivoluzionaria non riporti la vittoria, e che ogni riforma sociale resta
un’utopia, fino a che la rivoluzione proletaria e la controrivoluzione feudale
non si misurino con le armi in una guerra mondiale » (Lohnarbeit und
Kapital, in K. Marx, Werke,
ed. Lieher e B. Kautsky, Darmstad, 19753, VI, pp. 758-759).
[5] Circa il nesso tra Benjamin e C. Schmitt,
cfr. H. Günther, op. cit.,
p. 61, per l’uso che Benjamin fa, in chiave ermeneutica, della categoria
schmittiana della sovranità intesa dal punto di vista della « teologia politica
» nel cit. Il dramma barocco tedesco (tr. it., p. 51 ss.; GS, I, l, p.
245 ss). Interessante mi sembra l’osservazione di Fr.-A. Hausen-LöWe, Zwischen Gestern und Heute. Zu den
Schriften Walter Benjamins, recensione in Hochland, 49º, 1956-7, pp.
268-273, secondo la quale il frammento del Nostro intitolato Der destruktive
Charakter (GS, IV, 1, pp. 396-8; il testo è degli anni Trenta), non sarebbe
dispiaciuto ad uno Ernst Jünger (e magari, aggiungo, ad uno Ernst von Salomon).
Il giudizio di Scholem su questo frammento è invece diverso. Non ci vede
ovviamente un Benjamin per così dire « fascista » ma solo l’espressione di una
fase ulteriore della sua sensibilità per « l’elemento sovversivo »
presente nell’opera e nella individualità creatrici, elemento la cui scoperta
sarebbe pur sempre frutto della rielaborazione benjaminiana del messianesimo
ebraico, con la visione di distruzione creatrice che contiene (Scholem, op. cit., p. 106). In
ogni modo, nel frammento c’è una apologia della gioventù, della distruzione,
del movimento, del superomismo, tali da conferire al testo un’aura di tipo
futurista. « Il carattere distruttivo conosce una sola parola d’ordine: fare
largo; solo un’attività: far piazza pulita (räumen). Il suo bisogno di
aria fresca e spazio libero è più forte di ogni odio. Il carattere distruttivo
è giovane e allegro. Infatti il distruggere ringiovanisce poiché elimina dal
cammino le tracce della nostra propria età e si rasserena poiché il far piazza
pulita esprime una riduzione perfetta, un radicarsi della sua propria
condizione Il carattere distruttivo è
sempre alacre al lavoro (…) non ha immagini davanti agli occhi (…) è un segnale
(…) non si cura di essere capito (…) sta nel fronte dei tradizionalisti (…) non vede nulla di stabile e durevole (…).
Poiché vede sentieri dappertutto sta egli stesso sempre all’incrocio. Nessun
attimo può sapere cosa porterà il successivo. [Infine] il carattere distruttivo
non vive perché convinto che la vita abbia valore, bensi che non valga la pena
suicidarsi ». Simili affermazioni non hanno ovviamente impedito a Benjamin di
essere canonizzato tra i profeti della c.d. « Nuova Sinistra » tedesca. « La
fama postuma di Benjamin, iniziatasi con l’edizione degli Scritti curata da
Adorno [1955] e rafforzatasi sempre più negli anni Sessanta, rappresenta anche
un momento della politicizzazione dell’opposizione studentesca. Quest’ultima,
una volta restaurati nella Repubblica Federale Tedesca il capitalismo,
l’anticomunismo e le scienze dello spirito, si legò a Bloch e alla « teoria
critica », prima di riscoprire Marx, Lenin e le lotte di classe.
Provvisoriamente e non senza distorcimenti, Benjamin sembrò esser stato quasi
l’unico ad aver creato prospettive sovrastrutturali di tipo marxista, senza ipostatizzare
l’arte borghese e tradire la rivoluzione » (dalla. Vorbemerkung di B. Lindner al numero di ‘Text+Kritik’
dedicato a Benjamin nell’ottobre 1971: H. 31-32, pp. 1-2).
[6] Theologisch-politisches Fragment, GS, II, 1, pp. 203-204. ll manoscritto originale è privo di titolo
che, nella sua forma spinoziana, è dovuto ad Adorno, già nelle Schriften
di Benjamin. Incerta anche la data. Scholem, seguito da Tiedemann, la situa
all’inizio degli anni venti, quando Benjamin era verosimilmente sotto
l’inffusso del Geist der Utopie di Bloch, apparso nel 1918. Secondo
Adorno invece il testo potrebbe risalire al 1938, quando Benjamin era già
completamente comunista. Per ulteriori dettagli, cfr. l’apparato critico delle
GS, II, 3, pp. 946-949. Circa interpretazioni specifiche di questo, che è forse
uno dei testi più difficili di Benjamin, ho tenuto presente G. Kaiser, Benjamin. Adorno. Zwei
Studien, (1972 e 1973), Francoforte/M., 1974. Nel saggio Walter Benjamin; ‘
Geschichtsphilosophische Thesen ’, op. cit., pp. 1-77, l’autore tenta
un’analisi puntuale del frammento teologico-politico alle pp. 58-63,
dichiarando priva di valore, dal punto di vista puramente concettuale, la
disputa sulla sua datazione: il frammento si inquadrerebbe infatti
perfettamente nella problematica benjaminiana, così come è dato vederla
nell’ultima opera, le note « tesi » sul concetto della storia (op. cit.,
pp. 1-5). Riferimenti a concetti espressi nel frammento, ho trovato in: Adorno, Einleitung, cit., pp.
42-43; Tiedemann, op. cit.,
p. 135; H. Salzinger, Walter
Benjamin – Theologie der Revolution, in Kürbiskern, 4/68, pp.
629-647, sp. pp. 639-641; Schweppenhäuser,
op. cit., p. 151; Habermas,
op. cit., p. 135; Guenther,
op. cit., p. 51; H.-D. Kittsteiner,
Die ‘ Geschichtsphilosophische Thesen ’, in Materialen, cit., pp.
28-42, sp. nota a p. 41.
[7] La « mentalità teologica » di Benjamin,
assai pronunciata nei suoi anni giovanili (…) era – quasi d’istinto, avrei
detto – orientata su concetti ebraici. Le idee cristiane non hanno mai
esercitato un’attrazione su di lui. Era anzi scoperta la sua antipatia per il
neocattolicesimo, che imperversava allora in Germania e Francia tra gli
intellettuali ebrei » (Scholem, op.
cit., p. 103). Secondo Guenther,
determinante è stata l’influenza dell’ex-hegeliano e mistico ebreo Franz
Rosenzweig su Benjamin: op. cit., pp. 45-53. In Rosenzweig, ci sarebbe
già, tra l’altro, una negazione anarcoide e nichilistica dello Stato e
l’equazione, cara a Benjamin, diritto=violenza. (Sulla personalità di
Rosenzweig, cfr. la Introduzione all’edizione italiana di Remo Bodei,
all’opera di F. Rosenzweig, Hegel
e lo Stato, Bologna, 1976, tr. it., Künkler-Giavotto e Curino-Cerrato, pp.
IX-XXXIX. con un riferimento a Benjamin a p. XXXI).
[8] Circa la familiarità di Benjamin con
Hoelderlin, cfr. lo studio giovanile Zwei Gedichte von Friedrich
Hölderlin. « Dichtermut » - «
Blödigkeit », (1914-1915), GS, pp. l05-126, sp. p. 112 ss., p. 118 per
l’analisi del rapporto tra le due Ordnungen divina e umana e la
impossibilità di una loro autentica mediazione (secondo Benjamin), quella
mediazione cui aspirava invece Hoelderlin. Circa la sua conoscenza del primo
Hegel, Adorno nota come ne avesse avuto un’infarinatura (« den er kaum kannte
»: Charakteristik, cit., p. 22).
[9] In antitesi a questa mancanza
di distinzione, cfr. I. Donoso Cortes,
che è stato uno dei più attenti indagatori del nesso tra teologia e politica: «
Come la sottomissione ai precetti divini non porta con sé, né esplicitamente né
implicitamente l’istituzione di un Governo teocratico, così il riconoscimento,
in teoria e in pratica, delle verità fondamentali di cui è depositaria la
Chiesa, non porta con sé, né esplicitamente né implicitamente, la sua
dominazione negli affari temporali. La Chiesa giammai ha confuso queste due
cose, cosi differenti tra loro » (Risposta al Signor de Broglie, del
15.XI.1852, in Id., Il potere
cristiano, antologia, a cura di G. De Rosa, tr. L. Cipriani-Panunzio,
Brescia, 1964, p. 152). ll Cattolicesimo intende il « Regno di Dio » in senso
prettamente spirituale, realtà che è « dentro di noi »; e sarà quel
Regno a realizzarsi tramite il Messia. Benjamin, che esaspera la prospettiva
del messianesimo ebraico, intende l’avvento del Regno in termini di teocrazia,
una dimensione di governo e potere, di liberazione del Popolo, non
escatologica. Per il Cristiano invece la liberazione è concettualmente già
avvenuta nel momento in cui crede e vive in Cristo, che realizza il miracolo
del Regno già dentro di noi, in modo puramente spirituale. L’ebraismo di
Benjamin favorisce quindi la confusione tra teologia e teocrazia, aiuta a
concepire la seconda come sbocco ultimo e necessario della prima, che, del
resto, esprime un modo distorto di intendere la fede da parte dei non-credenti.
(Per un confronto tra Donoso e Benjamin, cfr. G. Mensching, Zeit und Fortschritt in den
geschichtsphilosophischen Thesen Walter Benjamins, in Materialien,
cit., pp. 170-190, 188-190, che nota in Benjamin l’uso di motivi del pensiero
della Restaurazione a fini rivoluzionari, il capovolgimento in senso rivoluzionario
del rapporto tra teologia e politica).
[10] Op. cit., p, 205. La via per giungere al vero Regno, all’umanità nuova, si
realizza in modo estatico, liberando la soggettività sommersa dalle nubi del
passato, della religione, del presente in generale, in primo luogo mediante la
musica. Bloch si affida ad un elemento dionisiaco, ad un neo-paganesimo non
propriamente nuovo, mediato dalle categorie dell’ineffabile pseudo-cristiano,
ossia blochiano: il gotico, l’interiorità, la caligine, la chiaroveggenza, la
luce-sole, ai limiti del feuilleton teoretico. « Se noi potessimo conoscerci,
verrebbe il nostro Capo e la musica è l’unica teurgia soggettiva. Essa ci
conduce nella stanza calda, profonda e gotica dell’interiorità, l’unica che
ancora riluce nella oscurità non chiara [in dem unklaren Dunkel]. E solo
da quella stanza può venire la luce che manda in rovina e fa esplodere tra di
loro il groviglio, l’arida potenza del semplice esistente, il crudo e
persecutorio brancolare della cecità demiurgica, quando non addirittura la bara
dell’essere stesso, abbandonato da Dio. Il Regno infatti è stato promesso non
ai morti ma ai vivi: e proprio questa nostra interiorità gotica, a mala pena
conosciuta, ma calda e profonda, si rivelerà al levar del sole come il regno celeste
rivelato » (op. cit., p. 208).
[11] Das Glück des antiken Menschen, 1916, GS, II, 1, pp. 126-129. Per il concetto della festa, cfr. però
l’articolo scritto nel 1913 per Der Anfang, pubblicazione del «
movimento della gioventù » di Gustav Wyneken, intitolato Gedanken ueber
Gerhart Hauptmanns Festspiel. « Nella battaglia non si guadagna combattendo
altro che la libertà, che è la necessità primaria nel mondo delle potenze.
Nella festa il giorno e l’attività inconsapevole possono giungere a coscienza
dello spirito, La festa celebra la pace come significato riposto della
lotta. La pace guadagnata combattendo conduce la cultura » (GS, II, 1, p. 59).
[12] Parco centrale, in W. Benjamin, Angelus
Novus. Saggi e frammenti, tr. it., A. Solmi, Torino, 1962, p. 136 (GS, I,
2, pp. 682-683). Per il rifemento a Nietzsche, cfr. quanto Benjamin scrive nel
giovanile dialogo Ueber die Religiosität dcr Gegenwart, 1913: « Credo
inoltre che abbiamo già avuto dei profeti: Tolstoi, Nietzsche, Strindberg, che
alla fine la nostra epoca, gravida d’avvenire, troverà un uomo nuovo» (GS, II,
1, p. 34).
[13] F. Nietzsche, Opere, ed. Colli-Montinari, V, II, La
gaia scienza, aforisma n. 337, p. 197. Cfr. anche l’aforisma n. 56, pp.
76-77 (Werke, ed. Kröner, V, pp. 259-260; p. 90).
[14] Tesi di filosofia della storia,
tesi II, in Angelus Novus, cit., pp. 72-73; GS,
I, 2, pp. 69-1-704. 693, Il tema della felicità è ovviamente ricorrente nel
pensiero di Beniamin. sin dall’epoca giovanile. Nello scritto Das
Dornröschen, 1911, impregnato della mistica della gioventù, egli nota come
« felicità e ideale siano spesso in contraddizione » (GS, II, 1, p. 11). Però,
scrive nel già citato dialogo sulla religiosità del presente, i tempi aspirano
« audacemente » alla felicità o meglio ad una nuova forma di « gioiosità » (ivi,
p. 18), che ha messo in crisi la religiosità tradizionale o « romantica ». La
religione del resto non ha nulla a che vedere con la felicità: « le religioni
sono prodotte dalla necessità e non dalla felicità » (ivi, p. 25; anche
p. 31). Una definizione della felicità in linea con il passo della Tesi, si
trova nei manoscritti del lavoro sui Passages parigini, « Was die
Wissenschaft ‘festgestellt’ hat, kann das Eingedenken modifizieren. Das
Eingedenken kann das Unabgeschlossene (das Glück) zu einem Abgeschlossenen und
das Abgescholssene (das Leid) zu einem Unabgeschlossenen machen. Das ist
Theologie; aber im Eingedenken machen wir eine Erfahrung, die uns verbietet,
die Geschichte grundsätzlich atheologisch zu begreifen, so wenig wir sie in
unmittelbar theologischen Begriffen zu schreiben versuchen würden » (cit. da Tiedermann, Studien, cit., p,
118). Cfr. anche la riffessione sulla « dialettica della felicità » in GS, III,
p. 357 (citata da Guenther, op.
cit., pp. 155-156) nonché la definizione in Einbahnstrasse: « Esser
felici significa potersi render conto di se stessi senza timore » (GS, IV, p.
113). Questa definizione, tutto sommato abbastanza anodina, non svincola
comunque la problematica della felicità da quella del mondo profano da
realizzare: infatti, come può l’uomo sapere chi veramente è se non nella
affermazione del senso (solo) profano della sua vita? (Per l’infelicità cfr.
invece una notazione di Zentralpark: « Man kann sagen: das Glück
durchschauerte ihm; vom Unglück kann man Analoges nicht sagen. Unglück kann im
Naturzustand nicht in uns eingehen » (GS, I, 2, pp. 658-659). Sul concetto di
felicità in Benjamin: Adorno, Charakteristik,
cit., p. 13; Tiedemann, op.
cit., p. 118 ss., 135 ss.; Scholem,
op. cit., p. 51 ss.; Habermas,
op. cit., pp. 199-200, 217-219; Kaiser,
op. cit., pp. 43 ss., 60 ss.; Guenther,
op. cit., pp. 155-156; K.R. Greffrath,
Der historische Materialist als dialektischer Historischer, in Materialien,
cit., pp. 193-230, 209 ss.
[15] Sul concetto, non meramente
letterario, dello « inespresso », cfr. il saggio su Goethe, Le affinità
elettive, in Angelus Novus, cit., pp. 212-213; GS, I, 1, pp.
180-181; e su quello affine dello « incomunieabile », cfr. Sulla lingua in
generale e sulla lingua degli uomini, in Angelus Novus, cit., pp.
51-67; GS, II, 1, p. 156, per la lingua come « Symbol des Nichtmitteilbaren ».
La felicità, una volta realizzatasi, dovrà render esplicito ciò che è rimasto
finora inespresso e incomunicabile, cui la lingua non è riuscita a dar corpo.
La lingua come la vita, la lingua non sorretta da pensieri o dominata da
pensieri che non possono esprimersi, inondare la prassi. Si profila così in
Benjamin, a mio avviso, una mistica dell’inesprimibile, una eterna scontentezza
che nessuna realtà potrà mai soddisfare. Se si crede, con Benjamin, che solo
ciò che non si è potuto esprimere, per colpa di altri, potrà dare un giorno
senso alla vita, allora bisogna per l’appunto pensare una redenzione totale e
profana del vivente come unica possibilità per l’inespresso e l’incomunicabile
di farsi valere: come a dire, distruggiamo tutto e chi finora ha taciuto si
metterà di colpo a parlare (o a uccidere?). La redenzione redimerà il silenzio,
non ci sarà più il silenzio che tutto consuma. (Il nesso tra silenzio e dialogo
è analizzato da Benjamin già nello scritto giovanile Methaphysik der Jugend,
GS, II, 1, pp. 91-104, nella parte intitolata Das Gespräch, pp. 91-96).
Evidentemente, anche per Benjamin vale la massima conclusiva del Tractatus
di Wittgestein: « Wovon man nicht sprechen kann, darüber muss man schweigen »,
ma solo fino al momento della redenzione profana. Nell’attesa, felicità non c’è
mai e la vita non è mai bella. Anche Aleksandr Blok – erano quelli anni fatali
– esprime un’aspettativa universale, la convinzione che l’inespresso e il
non-accaduto avranno luogo, sullo slancio della rivoluzione, ma con quanta
maggior semplicità, bontà e ingenua freschezza rispetto a Benjamin: « Val la
pena di vivere solo per pretendere dalla vita smisurate esigenze: tutto o
niente; attendere l’inatteso; credere non in ‘ ciò che non esiste al mondo ’,
ma in ciò che dovrebbe esistervi, anche se per ora non c’è e per lungo tempo
non ei sarà. Ma la vita ce lo renderà, perché è bella » (Intelligencja
e rivoluzione, 1918, tr. it. Olsufieva e Michaelles, nell’antologia dallo
stesso titolo, Milano, 1978, p. 64).
[16] Cfr. le Tesi sul concetto
della storia (o di filosofia della storia). Oltre all’ampia letteratura
tedesca, raccolta nel volume dei Materialien, cit., mi permetto rinviare
al mio saggio: P. Pasqualucci, La
rivoluzione come messia. Considerazioni sulla filosofia politica di Benjamin,
in Trimestre, X, 1-2, 1977, pp. 67-112.
[17] Il passo di Shakespeare recita:
« But thought’s the slave of life, / and life time’s fool; / And time, that
takes survey of all the world, / Must have a stop » (Henry IV, Pt I, act
V).
[18] Circa questo essere categoria
del Profano come « seines leisesten Nahens » del Regno, cfr. Bloch per un
accostamento formale, quando scrive che nel passato imperava una
rappresentazione mitica delle « cose esteriori », impregnate di spiriti,
angeli: dominarono « die bunte Wolken des nächtlichen Himmels und die ganze
Nähe der anderen Welt » (Geist der Utopie, cit., p. 202). Per
l’interpretazione della categoria della vicinanza, cfr. Schweppenhäuser, op. cit., pp. 151-152; Guenther, op. cit., p. 51 (che
sostiene l’origine rosenzweighiana dell’immagine); Kaiser, op. cit., p. 65. Tuttavia, la « vicinanza »
del profano al Regno può essere intesa secondo un’ulteriore sfumatura, se si
interpreta in un certo modo l’affermazione sopra vista secondo la quale « l’ordinamento profano …
può promuovere la venuta del regno mcssianico ». Se ci si attiene rigidamente
al concetto che il regno messianico « è promosso » da quello profano, il primo
non è quindi una forza reale. A maggior ragione bisogna allora evitare che la
liberazione profana corra il rischio di essere intesa in senso « religioso »,
come è avvenuto e può avvenire nei movimenti politici popolari (questo è
successo anche nella Rivoluzione Russa). La sua « vicinanza » alla prospettiva
della liberazione religiosa non deve quindi trarre in inganno, bisogna sapere
che si tratta solo di una vicinanza, una prossimità che non incide sulla
natura di ciò che è prossimo, non lo muta. Forse anche per questo, Benjamin,
riprendendo Nietzsche, si preoccupa poi di affermare che la natura, con il suo
« ritmo di eterno tramontare » è la sola e vera realtà « messianica ». In ogni
caso, l’ateismo di Benjamin appare sempre radicale, perché sembra preoccuparsi
di eliminare anche l’aura «religiosa » in senso «messianico », che può
rivestire l’impresa di liberazione profana. Quest’ultima dovrà comprendere la
felicità anche nel momento del suo tramontare ciclico, senza commettere
l’errore di attribuire al « tramonto » caratteri di infelicità e sofferenza che
riconducono fatalmente all’idea del Regno, a negare il senso della visione
profana della storia.
[19] Cfr. Hegel, Die Vernunft in der Geschichte, ed.
Hoffmeister, Amburgo, l970³: « So ist der Geist seiner Natur nach bei sich
selbst, oder es ist frei »; «Frei bin ich, wenn ich bei mir selbst bin » (pp.
54 e 55; traduzione italiana: Lezioni sulla filosofia della storia,
Firenze, 1963, I, pp. 37 e 38).
[20] Sul simbolo di se stesso come
Angelus Satana (= Agesilaus Santander), cfr. la decrittazione del simbolo in Scholem, op. cit., p. 17 ss. Per
una collocazione del pensiero di Benjamin nell’ambito del discorso
contemporaneo sulla violenza, cfr. S. Cotta,
Perché la violenza? Una interpretazione filosofica, L’Aquila, 1978, p.
105 ss.
[21] L’Idiota di Dostoevskij, 1920, in Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura,
tr. A. Marietti, Torino, 1973, pp. 76-77; GS, II, 1, pp. 239-241.
[22] Circa l’idea di eternità è da
notare un riferimento a Valéry. « Valéry conclude la sua riflessione con queste
parole: ‘ È come se il venir meno negli spiriti dell’idea di eternità
coincidesse con la crescente avversione per i lavori lunghi e pazienti ’. Il
pensiero dell’eternità ha sempre avuto la sua fonte essenziale nella morte. Se
quell’idea sparisce, possiamo inferirne una trasformazione nell’aspetto della
morte » (Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Angelus
Novus, cit., p. 245; GS, II, 2, p. 449). Secondo Adorno, la mitologia
dell’eternità-natura può essere venuta a Benjamin da Blanqui, che in prigione
aveva cominciato a scrivere un libro intitolato L’éternité par les astres,
che anticiperebbe la dottrina nietzschiana dell’eterno ritorno dell’uguale:
cfr. Charakteristik, cit., p. 25. Sul punto, cfr. anche Tiedemann, Studien, cit., p. 105.
Cfr. del resto l’accostamento di Benjamin fra Blanqui, Baudelaire e Nietzsche
nella note sparse di Zentralpark, GS, I, 2, p. 673.
[23] Verso la fine di questo scritto
Benjamin afferma che « tutto il movimento del libro assomiglia a un immane
inabissarsi in un cratere. Poiché mancano la natura e l’infanzia, l’umanità può
essere raggiunta solo nella catastrofe, con l’autodistruzione» (op. cit.,
p. 77; GS, cit., p. 240). Natura e infanzia, ovvero la gioventù. Benjamin
riafferma qui il mito della gioventù, liberata e liberatrice, che lo aveva
affascinato all’epoca della sua appartenenza alla Jugendbewegung, quando
scriveva: « Wir leben im Zeitalter des Sozialismus, der Frauenbewegung, des
Verkehrs, des Individualismus. Gehen wir nicht dem Zeitalter der Jugend
entgegen? » (GS, II, 1, p. 9). Il concetto della gioventù come categoria
rivoluzionaria dcll’esistenza, elemento apportatore di nuovi valori, si trova
espresso in modo impressionante nello scritto del 1913-1914: Romantik. Eine
nicht gehaltene Rede an die Schuljugend, GS, II, l, pp. 42-47, apparso
sullo Anfang. Benjamin rigetta in esso il « romanticismo » insegnato a
scuola ossia la cultura tradizionale, classica e idealistica, da « scienza
dello spirito ». A questa cultura, Benjamin contrappone l’insegnamento di
Nietzsche, la cui « Mission unter der Schuljugend » è stata certamente quella
di richiamare i giovani a se stessi, al vero spirito, alla sincerità. « Noi,
noi che con Nietzsche volemmo essere aristocratici, diversi, veri, belli; per
noi la verità non fu ordinamento, non ci fu una scuola della verità »
(...). « Nessuno Schiller e nessun Hoelderlin ci sono di aiuto. Nessuna
gioventù ci è d’aiuto quando perde tempo con i suoi amati poeti e lascia che la
scuola sia solo scuola ». Per cui vero « Romanticismo vuol dire allora: volontà
attuale di realizzare una nuova gioventù e una nuova scuola » (lo scritto Metaphysik
der Jugend, cit., non tratta in realtà del concetto della gioventù o della
sua missione, ampiamente esposta negli articoli e scritti raccolti in GS, II,
1, pp. 9-87, tutti anteriori alla I g.m. Però ancora nel 1920, come dimostra lo
scritto sull’Idiota, Benjamin è in linea con i suoi ideali anteguerra).
[24] Tra gli interpreti, Scholem
insiste più di ogni altro sulla melanconia come componente determinante
della spiritualità di Benjamin e quindi di alcuni suoi concetti base: cfr. op.
cit., pp. 52 ss., 63.
[25] Gli elementi che confluiscono
nel nichilismo di Benjamin sono indubbiamente molteplici: Nietzsche; il
surrealismo (Tiedemann, op.
cit., p. 120); il materialismo; una certa lettura del Tao-te-king.
Circa quest’ultimo confrontare il riferimento al Tao come « quel nulla che
rende servibile il qualcosa » (Franz Kafka, in Angelus Novus,
cit., p. 286; GS, II, 2, p. 435). I capitoli del Tao-te-king che
autorizzano, sia pure con molte riserve, una filosofia del non-essere e del
nulla, possono essere a mio avviso i seguenti: I, II, IV, XI (cfr. tr. it. a
cura di Paolo Siao Sci-Yi, Bari, 1947²). Sull’affermazione del nichilismo nel
frammento teologico-politico, cfr. Kaiser,
op. cit., p. 63.
Felicità
messianica
(Interpretazione
del frammento teologico-politico di Benjamin)
di
Paolo Pasqualucci (*)
«
Anche nel considerare la storia si può
assumere
la felicità come punto di
vista:
ma la storia non è il terreno
della
felicità. I periodi di felicità sono
in
essa pagine vuote » (Hegel).
«
Urlar li fa la pioggia come cani;
De
l’un dei lati fanno al’altro schermo:
Volgonsi
spesso i miseri profani ».
(Inferno,
VI, 19-21).
Aforismi, frammenti visionari, forme speculative decadenti.
Il frammento è per definizione qualcosa di parziale, anticipazione
o riffessione postuma, parte di un pensiero che raggiunge altrove la sua
pienezza. Da Nietzsche in poi la logica del frammento ha però cessato di essere
una logica dell’incompiuto. Il frammento viene consapevolmente costruito come
tale, microcosmo speculativo che non si ritiene inferiore al cosmo vero e
proprio. La mancanza di fede in un ordine universale delle cose, l’intuizione
di un disordine, costituiscono anzi la premessa del pensare per frammenti, che
oppone al carattere provvisorio della realtà la sicurezza contenuta nella
sentenza dell’aforisma. ll frammento diviene infatti aforisma, nel quale
trionfa il punto di vista di chi ha già giudicato il mondo e crede di essere
dalla parte del vero. Poiché l’aforisma non spiega ma illumina, nel senso che
deve essere accolto come illuminazione isolata ma totale e definitiva, nel buio
circostante: la realtà, la sua notte, viene squarciata da lampi che rivelano le
piccole solide isole del pensiero. Ma questa forma di pensiero non è solo il
tributo pagato ad una tradizione. Come nota Adorno, Benjamin si colloca nel
modo di far filosofia che risale a Novalis, Schlegel, però anche i suoi lavori
di ampio respiro conservano un’intima struttura frammentaria, sono un mosaico,
un universo inestricabile di tessere[1]. Se questa constatazione è
vera (e la si potrebbe applicare allo stesso Adorno), ciò significa che la
parte si è impadronita del tutto, che la forma frammentaria si è impadronita
dell’architettura del sistema, composto ora, per così dire, di quanta di
pensiero, duri e impenetrabili, persi in distanze abissali. L’insistenza di
Benjamin sull’immagine della «
costellazione » come sostitutiva del « sistema », dà appunto la misura della
mancanza di armonia, dei continui salti cui il pensiero ora si
abbandona. I frammenti non possono costituire un sistema ma solo una
costellazione, i cui enormi spazi sono rappresentati da finzioni, ossia
allegorie. Benjamin è, notoriamente, un pensatore criptico, un inventore di
immagini. Da qui la strana sensazione di chi ne affronta i testi,
quellfimpressione di un’intuizione che subito si inaridisce, si chiude nel
tessuto notturno dell’allegoria, che pure ha permesso all’intuizione stessa di
prender forma. Una sensazione simile a quella provocata dalla musica atonale,
quando dal caos dei suoni emerge un tema che però viene subito accuratamente
abbandonato: l’apparire e lo sparire subitaneo hanno voluto costituire un’allegoria
di ciò che doveva essere, della pienezza musicale che si ricerca al di là dei
valori conosciuti, ma che non esiste, evidentemente, senza di essi, per cui ci
si deve accontentare di un surrogato, di una cifra che faccia cogliere
l’ineffabile, il non detto, l’inespresso: al limite, il silenzio. La musica
atonale è forse mistica ma di un misticismo stridente e ambiguo come può
esserlo quello dell’uomo profano, sfociante nell’indefinito, nella
confusione dei valori, nell’accenno perpetuo, a suo agio nelle paludi
dell’anima: esemplari, in questo senso, per il fascino esercitato su Benjamin
un poeta-precursore come Baudelaire e uno scrittore per l’appunto ambiguamento
« mistico » come Kafka.
Secondo Adorno, la speculazione
dovrebbe procedere come la musica. « Anche la musica, e ogni arte, non vede
subito adempiuto l’impulso, che di volta in volta anima la prima battuta, bensì
solo nell’articolazione dello sviluppo. In questo senso, per quanto essa stessa
sia apparenza come totalità, critica l’apparenza, quella della presenza del
contenuto qui e ora. Tale mediazione si addice non meno alla filosofia ». A me
sembra che parte cospicua del pensiero tedesco attuale, con la sua passione per
il frammento compiuto, in musica e filosofia sia rimasto invece all’impulso
della « prima battuta », perché proprio questo è uno dei risultati del pensare
per frammenti: restare all’inizio, all’intuizione che si trasforma poi in
allegoria, ma non procede, manca di vero sviluppo, di vita compiuta[2]. Da questo punto di vista, l’apoteosi
filosofico-musicale dell’Aforisma rappresenta uno degli aspetti della decadenza
dello spirito tedesco rispetto a se stesso, a quello che era al tempo
dei Novalis, degli Schlegel, di Goethe, dell’Idealismo, della musica di
Beethoven. Una decadenza che ha inficiato sia il modo di intendere la parte che
quello di intendere il tutto poiché né gli aforismi di Benjamin sono
paragonabili a quelli di Novalis o ai frammenti filosofici di Hölderlin, né le
grandi costruzioni di un Mahler, un Heidegger, un Mann sono certo paragonabili
a quelle di Hegel, Beethoven, Goethe. I sistemi più che slanciarsi verso l’alto
si dispongono a strati massicci e petrosi, corrosi da acque sotterranee, dai
quali emergono come spaventi il casto Giuseppe o l’essere di Parmenide e nei
quali il pensiero sembra stemperarsi in un magma lenticolare. Da un lato lo
spirito occidentale sembra perdere il senso della misura, quando percorre
all’infinito e con tormento i sentieri dell’anima, del ricordo, del mito, del
tempo: forse è il peso ormai enorme del passato che trasforma le grandi imprese
filosofiche e narrative in labirinti inestricabili. Dall’altro, si fissa
sull’immagine subitanea, quella che per gli antenati era solo materia
preparatoria per il lavoro dello spirito: l’assenza di misura si fa qui vedere
nella trasformazione del provvisorio in definitivo[3].
Il pensiero non sembra più capace di
costruire veri sistemi di idee, ha perduto la dimensione architettonica ma non
rinuncia alla sua hybris, che anzi ne risulta accresciuta: l’epigramma,
l’aforisma esprimono una libertà assoluta, che esime dall’onere di fondare ciò
che si dice, di sostenere il pensiero con il pensiero. L’onere della prova
spetta all’avversario, al lettore, la micrologica del frammento non ne ha alcun
bisogno. È Nietzsche che ha introdotto questo modo di sentire nel frammento e
ha dato all’aforisma il tono apocalittico così caro agli epigoni; è Nietzsche,
e non il Preromantico, l’antenato vero di Benjamin, come di Adorno e degli
altri. Senza Nietzsche tutti costoro sarebbero forse stati onesti parroci dello
spirito. Nietzsche ha introdotto nel pensiero una violenza prima sconosciuta:
non lascia mai spazio all’avversario; speculativamente, le sue opere non sono
che un bagno di sangue. La forma frammentaria esprime perciò in maniera finita
qualcosa di indefinito, un desiderio indeterminato ma violento di superare
l’uomo, il mondo, la vita, di far apparire quel
nuovo cui l’animo contemporaneo a torto o a ragione
aspira[4]. Come profeta di un uomo
nuovo necessariamente inconoscibile, indefinibile – si sa solo cosa non deve
essere – Benjamin è figlio d’arte ovvero di Nietzsche e della sua forma
speculativa, la parva philosophia: è un irrazionalista e mistico
materialista, specie diffusa nel nostro tempo, che, in maniera del tutto
coerente, tende a risolvere il suo pensiero in un marxismo d’intuito,
messianico e apocalittico, distruttore. Il nichilismo di Benjamin, nel quale
conffuiscono, fatte le debite proporzioni, la violenza speculativa nietzschiana
e quella di Marx, risulta quindi in maniera non frammentaria dai suoi ben
costruiti frammenti, tra i quali assume un particolare rilievo quello detto «
teologico-politico ». Esso ha un significato emblematico. Si tratta di un testo
ermetico e religioso, della religione degli atei, la politica, dalla
quale molti si attendono ancora oggi salvezza poiché gli atei, che
dall’Illuminismo in poi formano l’opinione dell’Occidente, non credono che essa
abbia tutto corrotto, anche le sue proprie categorie. Vale a dire: Benjamin,
come pensatore « di sinistra » persegue una concezione teologica della
politica, della politica come teologia, costituendo così il pendant di
chi, come Carl Schmitt, elaborava in quegli stessi anni una « teologia politica
» come pensatore « di destra ». Ma, per
l’appunto, c’è da chiedersi se l’irrazionalismo che domina nelle concezioni
politiche del XX secolo, non sia tale da andare al di là delle usuali
distinzioni di « destra » e « sinistra », sì da far apparire Destra e Sinistra
i relitti storici che sono, ovvero espressioni di un unico cosmico e universale
Nichilismo[5].
Il frammento teologico-politico di Walter Benjamin
« Solo il Messia in persona porta a compimento tutto l’accadere
storico, vale a dire nel senso che solo lui ne scioglie, completa, crea il
rapporto con la sfera messianica vera e propria. Quindi niente di ciò che è
storia può volersi rapportare da sé fuori di sé, alla dimensione messianica. Il
Regno di Dio non è allora lo scopo della Dynamis storica: esso non può
essere posto come fine. Dal punto di vista della storia non è fine ma la fine.
Quindi l’ordinamento di ciò che è profano non può essere costruito pensando al
Regno di Dio: per questo la teocrazia non ha alcun significato politico ma solo
religioso. Il merito più alto del Geist der Utopie di Bloch consiste
nell’aver negato con la massima intensità il significato politico della
teocrazia.
L’ordinamento di ciò che è profano
deve costruirsi in base alla idea della felicità. Il rapporto di questo
ordinamento con il Messianico è uno dei brocardi fondamentali della filosofia
della storia: per questo in base a quel rapporto è possibile una concezione
mistica della storia, il cui problema può esser colto in un’immagine. Si
rappresenti con un vettore lo scopo verso il quale tende la Dynamis del Profano
e con un altro vettore la direzione dell’intensità messianica. Si vedrà che la
ricerca della felicità della libera umanità cercherà di sottrarsi alla
direzione messianica; però, come una forza sul suo cammino può promuoverne
un’altra che sia diretta in senso opposto, così anche l’ordinarnento profano
del Profano può promuovere la venuta del regno messianico. Ciò che è profano
non è però una categoria del Regno ma è categoria – una delle più vere – della
sua più silenziosa vicinanza. Poiché nella felicità tutto ciò che è terreno
aspira al suo tramonto, ma solo nella felicità il tramonto gli è dato
sicuramente. Mentre al contrario l’immediata intensità messianica del cuore,
dell’interiorità dell’uomo singolo sopravvive per opera dell’infelicità intesa
come sofferenza. Alla restitutio in integrum spirituale che conduce
all’immortalità, ne corrisponde una mondana, che conduce nell’eternità di un
tramonto e il ritmo di questo eterno trapassare, di questo regno mondano che
trapassa nella sua totalità, spaziale e temporale, il ritmo della natura
messianica è la felicità. Poiché la natura, nel suo totale ed eterno
trapassare, è messianica.
Aspirare alla compiutezza di ciò che è
trapassato, anche per quegli stadi dell’umano che sono natura, è il compito
della politica mondiale, il cui metodo deve chiamarsi nichilismo »[6].
I.
Il punto di partenza degli aforismi di
Benjamin è dato da una definizione dell’agire messianico quale espressione di
una possibilità taumaturgica nei confronti del finito, possibilità che non
inerisce al finito ma al soggetto che lo trasfigura. A Benjamin però non
interessa determinare la natura del Messia come persona, non importa sapere chi
sia ma come agisca nei confronti della storia. L’agire messianico, nel
quale spera la fede, risolve il mistero del finito, elevandolo purificato
all’immortalità. Il Messia è un tramite, Colui che media tra noi e il Padre, ed
è necessariamente persona: non si tratta infatti di un semplice concetto ma del
realizzarsi di una aspettativa di salvezza per opera di un individuo concreto,
per i Cristiani gia venuto nel mondo. Per Benjamin però il Messia – il Messia
che egli ascrive alla teologia – sembra essere essenzialmente un concetto: il
concetto di un’azione, che ha nome ma non figura, che non si incarna nella
persona salvifica. Benjamin non dice mai « Cristo » ma sempre e solo « Messia
». Egli si confronta con la possibilità di una risoluzione messianica del
finito espressa nel Vecchio Testamento: la fede nel Messia rivelato, la cui
morte da uomo ha già giudicato il mondo, gli è estranea. Benjamin pensa a un
Messia che non è ancora venuto e proprio per questo può portare a compimento
l’accadere storico: il Messia è quindi una possibilità, che si tratta di
negare, quando sia l’espressione di una rappresentazione religiosa del mondo
umano, il portato di una distorsione teologica.
L’accettazione-ripulsa dell’immagine del Messia, che il pensiero
di Benjamin tende a secolarizzare, coinvolge oggettivamente sia ebraismo che
cristianesimo, anche se, dal punto di vista di Benjamin, il discorso è condotto
solo nei confronti dell’ebraismo[7]. Il legame con la tradizione
religiosa degli avi presenta del resto il vantaggio di semplificare il problema
del senso messianico della storia. Che storia è mai quella sottoposta
all’Avvento di un Messia che è già venuto? Quale inganno si nasconde in essa,
quale superiore principio di follia? Ma i Cristiani sono per l’appunto folli
rispetto alla Legge e al pensiero razionalistico (1 Cor., 17-31).
Benjamin è un materialista mistico ma razionalista come deve cercare di esserlo
un figlio del XX secolo: muovendo da una concezione razionale della storia è
ancora accettabile l’idea di un Avvento futuro, capace di interrompere la
dialettica (apparentemente) lineare dello sviluppo storico, poiché il concetto dell’Avvento
che chiude cronologicamente i tempi è coerente al principio di causalità e alle
altre categorie usuali del pensiero. Si può persino arrivare a concepire
l’Avvento come risultato inevitabile della natura dello sviluppo storico,
risolverlo nell’apocalisse rivoluzionaria. Se il Messia è un’eterna possibilità
del mondo, se deve venire a fondare un regno spirituale e mondano, perché non
può aver luogo un messia del tutto profano, nato dal cuore del mondo? Se si
crede invece al Messia che è già venuto, il pensiero è assalito dal dubbio che
tutta la storia sia stata una storia sbagliata, il cui errore può essere
risolto solo dal giudizio di Colui che è presente al mondo ma assiste in
silenzio alle sue opere di sangue. « Non me ne sono io rimasto in silenzio e da
gran tempo? / Per questo tu non mi temi più » (Isaia, 57,11, tr. Luzzi).
Questo dubbio non assale Benjamin, per il quale la storia è sbagliata solo per
permettere al pensiero di affermarne l’inevitabile redenzione profana, un
risultato apocalittico ma umano, coerente con la guerra civile – la lotta di
classe universale – che ha permesso alla storia di progredire fino alla sua
soluzione finale. (Questa problematica è affrontata da Benjamin nelle tesi «
Sul concetto della storia » o « Tesi di filosofia della storia »).
Qual è dunque il nesso tra storia e
Messia? Il Messia della fede opera dall’esterno rispetto alla realtà storica.
Egli non compie i fatti storici come tali, non è nell’accadere
spazio-temporale, sensibile, che chiamiamo storia. Secondo Benjamin, l’accadere
storico non può essere come tale messianico. Se l’accadere possiede una
ragion d’essere, una logica, una razionalità, questa rimanda all’ordine storico
stesso non alla sua trascendenza. Si hanno quindi due piani tra loro
incomunicabili, quello della storia e quello messianico: das Historische
e das Messianische, che si fronteggiano come due nature opposte,
impenetrabili, che però non possono essere ugualmente vere. Infatti il
Messianico, il modo di essere messianico, il Regno, non trapassa per sé nel suo
opposto, in ciò che è fatto e quindi è vincolato allo spazio e al
tempo, alla sofferenza e alla morte. Nell’isolamento del primo c’è già una
perdita di verità, una mancanza di pienezza.
È evidente, per Benjamin, che i fatti umani non possano pretendere
di avere un significato messianico, che può apparire solo alla fine dei tempi
ma non per opera dei fatti stessi, bensì per intervento del Messia, il quale
svela il senso riposto di ogni storia accaduta. Per questo il Messia, dice Benjamin,
« conduce a compimento » la fatticità ossia ne svela il nesso con la sfera
messianica, con ciò che non si vede e non si può vedere ma solo credere. Il
Messia è allora colui che, con la sua azione individuale, demiurgica, dà il
tocco finale, nel senso della trascendenza, a tutto un mondo: è soggetto,
qualificato dalla funzione non da una essenza o caratteristica
spazio-temporale, dall’esser stato quella persona reale, che ha
testimoniato la Verità, l’Essenza; soggetto che pone in relazione due mondi
eterodossi risolvendo l’uno nell’altro. In questo senso è un mediatore, nel
senso hölderliniano e giovane-hegeliano, anche se privato di ogni nostalgia
classica, di ogni spiritualità filo-ellenica; colui che concilia, anche se dal suo
punto di vista, la terra e il cielo, altrimenti inconciliabili, in modo del
tutto gratuito, perché vuole, non perché sia necessario[8].
Nel definire il modo di operare del
Messia, Benjamin usa tre verbi, in senso apparentemente ripetitivo. In realtà
essi esprimono una gradazione che può rappresentarsi nel seguente modo: a) il
Messia « libera » il rapporto
tra i fatti e l’essenza messianica, lo scioglie dai suoi ceppi, lo rende
evidente; b) perciò « completa » i fatti dal suo proprio punto di vista di
artefice (messianico), che non coincide con quello del mondo, dà loro un
significato finale ultimo, Voll-endung; c) in tal modo il Messia crea,
poiché ha creato, fatto venire in essere ciò che in sé non esiste nei fatti,
ovvero la loro relazione con la sfera messianica. Perciò il Messia è un artifex
che, agendo da artista, crea dal nulla, nel senso che dà alla realtà un
significato che è tale, esiste, solo se si ha fede nel Messia stesso, nella sua
capacità infinita di ricreare il mondo.
Il significato di ciò che è, è quindi il Messia che lo crea: la
fede deve intendere in tal modo il senso della realtà poiché sarà il Messia, e
non la vita stessa, a svelarlo. Il mondo costituisce il segreto del Messia e il
soggetto si affida con profonda serietà all’attesa; secondo la nota formulazione
di Maimonide: « credo fermamente nella venuta del Messia, e sebbene egli tardi,
io attendo ogni giorno la sua venuta ». Il carattere di ogni messianesimo
religioso risulta dal fatto che esso dipende necessariamente da una fede nella presenza
di Colui che si rivelerà come Messia o che si è già rivelato come Messia: anche
per gli Ebrei, Egli non è ancora venuto ma non è assente al mondo. Forse
che l’Eterno è assente alla creatura cui non si è ancora rivelato? Solo la
fede, ossia il non-razionale per eccellenza, può far dunque pensare ad un
significato finale del mondo, che sarà svelato da un soggetto, il quale verrà a
chiudere i tempi con opera di giudizio e salvezza. Per la fede l’uomo non può
giudicarsi né salvarsi, nè quindi comprendersi mai appieno, è esterno a se
stesso, il suo proprio nemico, la sua propria morte.
Ma il Regno di Dio non esiste: secondo
Benjamin la ragione non trova nulla, nella storia, che rimandi oggettivamente
ad esso: è un regno che si lascia dedurre da principi trascendenti, non indurre
dai fatti. Il regno dei fatti storici non può volersi innalzare alla dimensione
messianica e « il regno di Dio » non può costituire lo scopo della « forza »
che agisce nella storia. Proprio per essere una forza cosmica, che cioè agisce
costruendo un mondo ordinato (un cosmo, ordine) di relazioni e fatti, la
Dynamis che opera nella storia, che è la storia, non può desiderare di
innalzarsi al di la di sé, di snaturarsi, di risolversi nel nulla. Il « regno
di Dio »» non può rappresentare il fine, che sarebbe la morte della
storia. Si tratterebbe allora di una fine che è in contraddizione con il
fine, con lo scopo che gli uomini perseguono attraverso la storia, una fine
che è morte senza ritorno, annichilimento dell’« ordinamento profano » che gli
uomini costruiscono nel mondo.
Benjamin coglie con innata
sensibilità vetero-testamentaria il carattere apocalittico dell’immagine del
regno di Dio. Tuttavia egli ne espunge, da vero ateo, qualsiasi prospettiva di
salvezza e quindi ogni autentico significato, ogni significato di liberazione
trascendente, eterna: resta solo la distruzione, l’ineluttabilità di una
fine, alla quale il mondo degli individui sensibili non può voler aspirare:
arriva, la morte arriva ma non è accettata. Rappresentarsi il Regno di Dio come
pura distruzione di quello mondano e quindi in una luce offuscata dall’ombra
del mondo distrutto, è anche coerente con la definizione iniziale del Messia,
la cui opera viene presentata come qualcosa di gratuito e immotivato, che
esiste solo perché (e se) si vuole esista un Messia. Il Messia è l’estraneo, lo
Straniero, che può essere manifestato all’improvviso, ponendo la parola fine
alla Storia ma senza redimerla, se è vero che questa fine è intesa da Benjamin
come morte e corrompimento, contraddizione radicale e immotivata di ogni
aspirazione umana. L’uomo, perché deve aver fine e per opera di Qualcuno che
secondo la ragione non c’è?
Il punto di partenza del ragionamento di Benjamin ne spiega perciò
quello di arrivo. Perché « ciò che è storico » non potrebbe volersi innalzare
ad una dimensione messianica? Benjamin non lo dice, perché la sua esclusione
del « regno di Dio » dagli scopi dell’umanità, è ricavata non da una
considerazione del carattere oggettivo della storia ma dalla definizione
pregiudiziale del Messia come elemento esterno ed estraneo al processo storico,
arbitrario in senso assoluto. L’avversione per il Messia, e per il Cristo come
Messia, tipica del pensiero moderno, coinvolge anche il « regno di Dio » e il
suo rapporto alla storia: anche chi non crede in Cristo condanna il Regno che
fonda la speranza messianica. Da questa premessa di avversione discendono tutte
le conseguenze. La dimostrazione dell’incompatibilità assoluta tra mondo
dell’uomo e regno di Dio è perciò il risultato di una semplificazione
concettuale, ossia è costruita sulla base di un elemento esterno: la figura del
Messia, definita a priori in modo da giustificare l’incompatibilità che si vuole poi dimostrare.
Vale a dire: il concetto del Messia, come immotivato esser-altro del
trascendente, giustifica la separazione (arbitraria) tra cielo e terra, che a
sua volta giustifica la necessità di un Messia, dello straniero celeste, per
esser superata. ll Messia rimanda alla separazione e la separazione al Messia.
Ma, a prescindere dalla petitio
principii presente, a mio avviso, nel ragionamento di Benjamin, interessa
maggiormente all’interprete il punto d’arrivo cui esso conduce. Benjamin vuol
far vedere come, a causa della fede arbitraria in un Messia, sia stato
inventato un « regno del cielo » o meglio sia stato affermato nell’uomo un
dualismo permanente nella figura dell’opposizione tra « cielo » e « terra ». È
la vecchia cittadinanza dei due mondi, tema tradizionale del pensiero
occidentale da Machiavelli, a Rousseau, a Hegel. Non si tratta però solo di
questo. Benjamin vuol affermare la totale estraneità della religione al mondo
dell’uomo, che è politico: perciò il mondo in cui la religione crede non
può mai conciliarsi con l’altro.
Vi sono quindi nel suo ragionamento due momenti concettuali ben
distinti. Da un lato l’estraneità perenne di ogni prospettiva religiosa alla
realtà storica, che ha dentro di sé il suo scopo. Dall’altro, il fatto che
questa estraneità si traduce in una distorsione permanente, ossia nel sottoporre,
sul piano degli ideali, il mondo della storia ad una fine (quella messianica)
che non corrisponde mai, per definizione, al fine del mondo terreno. Il mondo
può essere un regno dei fini ma mai un regno di Dio. Quest’ultimo allora non
solo è astratto, nel senso caro agli immanentisti, ma è anche sbagliato
o addirittura malvagio, per quello che rappresenta e che implica nei confronti
della concezione dell’uomo. L’immagine del possibile regno di Dio e
dell’avvento del Messia implica una lotta continua contro i fantasmi, contro le
credenze che in qualche modo permangono nella umanità e che né il pensiero
filosofico né la scienza riescono ad esorcizzare: di qui l’odio dei
rivoluzionari – imbevuti di filosofia e del mito della scienza – nei confronti
della religione. Contro le potenze spirituali che la religione ha fatto sorgere
nel cuore degli uomini, vale allora l’opera meritoria di chi, come Ernst Bloch,
contribuisce a separare l’utopia dalle contaminazioni religiose, dalle pretese
di una fede che, per gli atei, può essere concepita solo in termini di «
teocrazia ». La « teocrazia » è il contraltare della « teologia » ossia l’altro
modo nel quale la religione esiste per l’ateo: i teologi non possono che essere
teocrati, la teocrazia è la forma realizzatasi, la prassi storicamente
rilevante della religione ossia della teologia[9].
Bloch cerca dunque di distinguere –
secondo Benjamin – il vero dal falso regno. Muovendo come Nietzsche dallo
spirito della musica (la «
filosofia della musica » occupa un posto centrale nel Geist der Utopie),
ha proclamato l’estraneità dell’uomo al trascendente, la necessità della redenzione
profana.
« I soggetti rappresentano ciò che è unico, che non si può
estinguere in tutta l’oscurità esteriore e sovrastante. Che il Salvatore viva e
voglia ritornare, questo è da sempre garantito al di là di ogni critica;
ma Egli e lo stesso Dio, come tutto ciò che è oggettivo, hanno perduto la forza
propria, specifica di venire e agire nella luce. È venuto il tempo di
dispiegare nel modo più totalmente luciferino e paracletico la magia del
soggetto, calata dapprima in noi da Gesù. Perciò la salvezza è una sola. Ad
essa conduce la connessione che si ribella, che si cerca al di là di tutto ciò
che le è estraneo: connessione tra l’io morale, che può ardere ancora solo
nella notte della luce esterna e superiore, connessione tra questo io e la
Divinità che tace, ci abbandona, che esita a mutarsi nello Spirito Santo;
connessione che ha luogo nelle invocazioni, nelle preghiere, nella profonda
capacità di attribuire posti di comando che è propria dello stesso “ ateismo ”
eroico-mistico » (Geist der Utopie, 1923², ed. Suhrkamp, 1973, pp. 203-4).
Il rapporto che qui si afferma tra il soggetto e la realtà vuol dimostrare – a
mio avviso – come non debba più aver luogo l’esigenza di un Salvatore
trascendente, alla quale si contrappone l’esaltazione dell’ateismo incarnato
nel soggetto, nell’io che possiede la « Ernennungskraft », la capacità di
attribuire cariche nel proprio universo speculativo; come a dire: Dio può
essere pensato come Colui che comanda ma solo perché l’uomo gli attribuisce il
posto di comando. Tutto questo però è più intuito che dimostrato o meglio
balugina attraverso la massa delle immagini blochiane, che rifuggono quasi
sempre i contorni ben definiti, l’affermazione netta cara ai veri mistici. La
proclamazione dell’« ateismo eroico-mistico » fa vedere una mistica
dell’ateismo pur senza tradursi in una chiara negazione della Divinità: sembra
anzi che, per Bloch, sia stata quest’ultima a negare il mondo e non il
contrario. Comunque, se il rapporto che si deve stabilire tra il soggetto e la
realtà è quello sopra visto, se la soggettività sfrenatasi nell’ateismo deve
prevalere, se in essa sola può prender forma l’inespresso e il non-detto (che la
musica moderna contiene come profezia, come possibilità di svelare il segreto
cosmico, op. cit., p. 208), allora « i luoghi di nascita del nostro
proprio cammino, storicamente interiore », del sentiero che l’uomo percorre
interiorizzando la storia nella coscienza, devono essere pensati, assieme all’iter
percorso, in funzione della Erlösung, della redenzione: « liberazione [Loslösung]
da tutte le opere, da ogni trascendenza, nella quale l’uomo non ha luogo;
liberazione infine per una etica e metafisica dell’interiorità, dell’intimità
affratellante, della segretezza autosvelatasi, che sia l’esplosione totale del
mondo e il mattino della verità nei confronti delle tombe che scompaiono »[10].
L’ideologia della
redenzione-liberazione, il desiderio di far esplodere il mondo perché la verità
trionfi, implica comunque un’idea fanatica della verità, quel fanatismo del
pensiero che caratterizza i sacerdoti del Profano ed è l’unico elemento
veramente chiaro al di là dei veli pesantemente simbolici e del misticismo
ambiguo che caratterizzano il loro discorso. Bisogna dunque rivendicare al
mondo il suo carattere profano, all’azione dell’uomo il suo intento profano.
La natura dell’esistente, caratterizzata in opposizione alla
chimera di un Regno di Dio, viene ricondotta da Benjamin all’idea della Ordnung,
l’ordine che si costituisce tramite la sua propria forza. Infatti i due poli,
collegati da un bagliore di allucinazione, sui quali l’intera mondanità sembra
rivolgersi, sono la « dynamis » e « l’ordinamento di ciò che è profano ». La
Dynamis, come forza non meglio specificata, rimanda a lontananze presocratiche,
ad immagini della materia plasticamente rivissute: essa è arcaica ed arcana. Ma
la prospettiva atea di Benjamin intende la Dynamis come un’energia del tutto
priva di afffato divino e quindi di impulso veramente cosmico, cioè ordinatore
del tempo e dello spazio, sovrumano; quell’impulso che costruisce la materia
secondo l’idea, la forma voluta dal puro spirito, l’impulso governato dal logos.
La Dynamis quindi non è definita in sé ma in relazione alla
storia: « forza storica » o « forza della storia ». Il contenuto fattuale della
storia, pieno di nerbo, è ciò che caratterizza la storia come universo chiuso,
dominato dalla espansione della sua propria forza. Questo mondo non può essere
determinato dall’esterno ma solo dall’interno, tramite l’ordine che plasma la
forza secondo intenti profani (poiché la materia storica stessa è in se profana
e non contiene promesse di pace ultraterrena). L’ordinamento di ciò che è profano,
del Profano in generale è quindi – secondo Benjamin – l’unico modo di essere
autentico della Dynamis operante nella storia: essa può esser allora definita
cosmica in senso deteriore o meramente quantitativo poiché l’orduinamento è
solo supra-individuale, è ordine rispetto al singolo, ma non è ordine divino.
La vita, in quanto forza o potenza storicamente accertabile, è organizzazione
profana della vita stessa. Cosi la vita viene caratterizzata in opposizione al
sacro, dichiarato privo di diritti: la vita stessa non è che organizzazione
della sua propria forza ed energia, essa contiene in se la sua magia e non ha
bisogno di attribuirla a un deus ex machina. L’idea
dell’ordine-ordinamento suggerisce l’immagine di un ente complesso, che
costruisce se stesso sistematicamente, secondo uno scopo non esoterico. Questo
ordine non è neutrale, dal momento che nasce opponendosi ad un’immagine falsa
di se stesso, alla visione trascendente dell’ordine. Occorre un « pensiero »
per costruire l’ordinamento, che non nasce da solo e non è frutto delle
circostanze. Ma l’idea che presiede allordinamento è ricavata innanzitutto per
esclusione ossia indicando qual è l’idea che non deve presiedere
all’ordinamento. Quest’idea è quella religiosa, è l’ideale del Regno di Dio,
l’immorale pretesa di una « teocrazia ».
Il destino storico dell’uomo, il suo
essere-nel-mondo considerato quale insieme della sua storia, viene concepito da
Benjamin come risultato della liberazione di una tensione vitale totale. La
tensione della Dynamis storico-cosmica ha bisogno di realizzarsi tramite una
opposizione e una negazione: deve opporsi al mondo delle idee religiose che
hanno sottomesso l’uomo alla « teocrazia » e deve concludere questa opposizione
in una negazione radicale, un fiat nichilistico. La conclusione dell’opposizione
è nella negazione; ossia: il mondo dell’uomo reale, consapevole a se stesso, è
un mondo che nasce con un atto di profanazione, un mondo che, già per il fatto
stesso di esistere, rappresenta la profanazione di ogni ierocrazia metafisica e
religiosa. Non è un mondo profanato ma un mondo che profana,
l’organizzazione sensibile dei veri atei, gli eletti secondo la carne
costruitasi nella storia.
Occorre quindi rendersi in primo luogo coscienti, dal punto di
vista di Benjamin, dell’esistenza di questa verità e della sua portata, ossia
riffettere sulla vera natura del mondo, la cui
potenza non può essere
dissolta da alcuna fantasticheria religiosa (teologica). Il mondo esiste, esso
è potenza, forza che si fa storia ed è la storia di questa
potenza, totalmente mondana, immagine di se stessa, della sua propria mondanità
priva di confini. In sé, il mondo ha già ucciso Dio (che invece non ha ancora
ucciso il mondo), è già la dimostrazione della falsità di ogni aspettativa
salvifico-messianica che pretenda di riplasmare il mondo secondo lo spirito di
un creatore. La presa di coscienza del carattere oggettivo del mondo è perciò
una nuova nascita, una resurrezione spirituale: già il nascere è un risorgere
che concilia lo spirito con la materia. Questo mondo è quindi l’ordinamento che ha
escluso il Sacro, che vive di una profanazione come del suo atto costitutivo: è
un mondo di violenza perché profanare è atto di violenza, è un mondo che ha
bisogno della violenza poiché la profanazione è il suo modo di essere.
Il concetto di « ciò che è profano », das
Profane, possiede pregnanza di significato, è contemporaneamente
descrittivo e valutativo. Indica ciò che è semplicemente diverso dal sacro e la
contrapposizione scientemente voluta cui la diversità stessa dà luogo. E, come
si è detto, la contrapposizione si traduce in una negazione radicale. Ma
Benjamin, in questa prima parte del suo frammento non fa ancora l’apologia del
Negativo totale, non si inebria della negazione cosmica. Egli ricerca una
negazione determinata, quella della religione, che sente come condizione
preliminare per l’instaurazione dell’ordine. La Dynamis pura e semplice
appartiene come tale al caos, alla materia intatta e indiscriminata. Ma la
Dynamis nega e costruisce, costruisce in quanto abbia saputo negare. La potenza
che è nella storia, che è la storia, si qualifica di colpo, scaturisce dal caos
della pura forza, historia sive natura, come un « ordinamento di ciò che
è profano »; il passaggio all’ordine Benjamin lo fa avvenire con
l’instaurazione di un ordinamento che non è in primo luogo giuridico ma è in
primo luogo non-religioso, è scisso da Dio e dalla sua immagine messianica.
La negazione permette la costruzione di ciò che da essa si nutre,
il mondo profano, ma la costruzione non è indipendente da quella negazione,
anzi è già nel negare stesso, nell’affermare l’uomo come il contrario di Dio.
Il costruire dal negare, il negare come modo di costruire, questa avarizia del
pensiero si traduce nel nichilismo rivoluzionario, nella volontà di potenza del
pensiero negativo, che incenerisce platonismo, cristianesimo,
metafisica. Il passaggio dal caos all’ordine è perciò concettualmente repentino,
si nutre del carattere repentino e violento della negazione, anche se
l’immagine dell’ordinamento profano suggerisce l’idea di qualcosa che si
costruisce nella e durante la storia, in modo organico nel tempo. Il pensiero
di Benjamin aborre da categorie che implichino la gradualità e la mediazione:
esso si insanguina all’insegna del « tutto e subito » speculativo. Così lo
stilema aforistico permette di saltare, per cosi dire, da un eone
di pensiero ad un altro, senza nemmeno ricorrere ad intermezzi analitici, a
ricostruzioni storico-esemplari. Hobbes, che fa nascere l’ordine dalla pura decisione
del sovrano, spada che scaturisce dalla notte dei tempi, ha pur dovuto descrivere
il caos nella forma di uno stato di natura omicida. Partendo dalla critica
della religione, contrabbandata come teologia, si è dunque giunti ad affermare
l’esistenza di un mondo: dalla negazione dell’al di là è nato un mondo terreno,
la cui natura è la negazione stessa.
II.
L’ordinamento profano del mondo si
libera dalle ceneri della teologia. Esso si affida ad un’idea terrena, quella
della felicità. « Die Ordnung des
Profanen hat sich aufzurichten an der Idee des Glücks ». La parola tedesca Glück
significa felicità e fortuna. Tuttavia non traspare qui la convinzione che la
felicità dipenda in misura rilevante dalla fortuna: non si vuole fondare
l’ordine profano sul principio del destino, su di una fortuna di tipo
machiavellico né sul fatalismo che domina nella vita quotidiana, la saggezza
che accetta i momenti di felicità come doni soprannaturali, opera della fortuna
o della Provvidenza più che dell’uomo, che ringrazia e si preoccupa di non
dover ricevere qualche sventura. Il pensiero moderno mostra la tendenza a
sottrarre la felicità e l’infelicità al dominio del fato; crede di saperne più
dei Greci e dei Romani, dei suoi stessi antenati: Machiavelli, Shakespeare. Verso
la fine del frammento Benjamin sembra identificare la felicità con
l’affermazione della natura, poiché fa apparire la prima quando ci sia la
terribile consapevolezza di essere, con la morte, all’unisono con il movimento
cosmico della natura, eterna e sovrana. In questa visione naturalistica della
felicità sembra ancora presente la concezione del bonheur dei pensatori
libertini, di molti illuministi, di Sade, convinti seguaci della natura.
Materialismo settecentesco, spunti nietzschiani e considerazioni
estetiche (estetico-rivoluzionarie) sembrano comunque costituire i connotati
della idea benjaminiana della felicità, assunta a unico principio della
mondanità cosciente di sé. La ricerca profana del senso della vita, più che
stabilire preliminarmente cosa sia la felicità, mira ad attuarla: essa
deve dare ad un certo punto per scontato il significato della felicità, di
quella felicità terrena che l’uomo può inseguire solo dopo aver espulso da sé
ogni presenza e tentazione del divino. Il dato che Benjamin deve ribadire è che
l’uomo deve ricercare la felicità – e non Dio – nell’ordinamento del mondo: si
tratta di una verità intuitiva, che relega in secondo piano la dimostrazione
puntuale di ciò che con la felicità debba chiaramente intendersi. Ma già nel vedere
le cose da questo punto di vista, nel liberarsi dall’ipoteca della religione
sul destino dell’uomo, c’è per Benjamin un principio di felicità: già nello
svincolarsi e rendersi indipendenti da Dio, deve esserci gioia. La profanazione
non è dolore ma gioia, essa conduce alla felicità ed è già una sua forma. Così
l’uomo moderno può dare anch’egli all’idea di felicità un significato positivo,
come sembrano averlo avuto gli Antichi.
Nel breve scritto Das Glück der antiken Menschen (1916),
Benjamin, che pure non è un nostalgico del mondo antico, vede nei Greci la
presenza di un ideale della felicità che non contrappone l’uomo né alla natura
né alla Città, come hanno fatto invece i moderni, colpevoli di aver relegato la
felicità nella dimensione puramente « sentimentale », svalutandola perché
impulso che può contrastare ai doveri dell’uomo e del cittadino. Secondo
Benjamin, la spiritualità ellenica fonda l’idea di felicità sulla hybris
e sul senso della vittoria, la vita come possibilità della vittoria nonostante
la sventura che gli Dei possano inffiggerci. Nella sfida al destino è la
accettazione dello stesso, conseguente alla proclamazione del fatto che l’uomo
deve strappare al destino la sua felicità e quindi ergersi in maniera
indipendente nei confronti di quegli Dei con i quali lo concilierà poi la
vittoria. Poiché si deve pensare, dal punto di vista degli Antichi, che gli Dei
hanno voluto elargirci la vittoria più che convincerci alla scelta della lotta:
la felicità appare quindi solo in un secondo momento come « dono degli Dei »,
figlia della fortuna. Abbiamo dovuto scendere in campo, rischiare e questa
decisione non ci ha veramente posto in contraddizione né con il nostro io
interiore, né con la natura, né con la divinità (anche se quest’ultimo assunto
sarà dimostrato dal risultato). La felicità degli Antichi si esaurisce allora
nella « celebrazione della vittoria », evento della polis, lo spazio
pubblico nel quale ha luogo la conciliazione tra la volontà prometeica e la
volontà degli Dei, che hanno permesso il rischio, la sfida al fato e la sua
felice conclusione. La felicità non è quindi infinita, non è indefinita e
indeterminata come il sentimento e necessariamente nascosta (come il vero
sentimento), ma finita, determinata da uno spazio che non si lascia facilmente
corrompere. « Hybris è per il Greco il tentativo di rappresentare se stesso –
l’individuo, l’uomo interiore – quale portatore della felicità; hybris è la
credenza che la felicità sia una caratteristica dell’uomo [ma] niente affatto
connessa alla modestia; hybris è la fede che la felicità sia qualcosa di
diverso da un dono degli Dei, dono che questa e ogni ora possono prendere, gli
Dei che ogni ora possono infliggere al vincitore un’inaudita sventura (come ad
Agamennone che ritorna). Perciò si suol dire che l’immagine, secondo la quale
la felicità visita l’uomo antico, è quella della vittoria... In questa ora, la
più alta, che muta l’uomo in eroe, Pindaro ha cantato i suoi inni al vincitore,
per tenere la riffessione lontano da lui, per versare su di lui in quest’ora la
consacrazione totale, che concilia il vittorioso con la sua città, con i boschi
sacri, con la pista: degli antenati e infine con la potenza degli stessi Dei. E
così per l’uomo antico nella felicità si trovano commisurati entrambi gli
elementi: vittoria e celebrazione, merito e innocenza... ». La conclusione
ultima è perciò la seguente, improntata ad un’immagine totalmente solare della
mentalità greca. « La felicità dell’uomo antico è racchiusa nella celebrazione
della vittoria: nella gloria della sua città, nell’orgoglio del suo distretto e
della sua famiglia, nella gioia degli Dei e nel sonno, che lo rapisce agli eroi
»[11].
Ma per l’uomo moderno la festa è
finita. All’uomo moderno, che ha a che fare con il Regno di Dio della
escatologia giudaica e cristiana, non è più possibile quella
conciliazione. L’impulso prometeico deve avere allora la prevalenza e
connettere l’idea della felicità al mito nietzschiano dell’eterno ritorno, alla
problematica della « redenzione » profana. Scrive infatti Benjamin, in Parco
centrale: « L’eterno ritorno è un tentativo di saldare insieme i due
principi antinomici della felicità: quello dell’eternità e quello dell’« ancora
una volta ». L’idea dell’eterno ritorno suscita per incanto, dalla miseria del
tempo, l’idea speculativa (o la fantasmagoria) della felicità. L’eroismo di
Nietzsche fa pendant a quello di Baudelaire, che evoca, dalla miseria
del filisteismo, la fantasmagoria del Moderno »[12].
Nietzsche e Baudelaire sono posti sullo stesso piano come « eroi »
(antiborghesi perché nemici dei « filistei »), poiché hanno affermato l’idea
della felicità, pagando un alto prezzo personale. Essi non dimostrano ma «
evocano » la felicità, come « fantasmagoria » del pensiero, verità di
illuminazione, che, ad un certo punto, lascia distinguere a fatica il filosofo
dal poeta. In realtà, dal punto di vista del senso comune, del sano istinto
popolare (cui si può dare ogni tanto la precedenza nei confronti della
filosofia), nulla appare più angoscioso della « felicità » evocata e proclamata
da Nietzsche. Non è che una mascherata, un voler chiamare con nomi di pace e
abbandono l’impulso distruttivo che si esalta nella ricerca antoimposta dell’«
uomo nuovo », del « mare nuovo », del « sole nuovo »: il Nuovo si dovrà
affermare sul nulla, sulla morte dei valori e Nietzsche vuol dimostrare a se
stesso che solo in questa consapevolezza è la vera felicità.
«In effetti... chi sa sentire la storia degli uomini nella sua
totalità come la sua propria storia, prova, generalizzandolo enormemente,
tutto quell’angoscioso struggimento dell’infermo che pensa alla salute, del
vegliardo che rammemora i sogni giovanili, dell’amante che è strappato
all’amata, del martire che assiste al tramonto del proprio ideale, dell’eroe,
la sera della battaglia che non ha deciso nulla... ma portare questo cumulo
immenso d’afffizioni d’ogni specie, poterlo portare, ed esser pur sempre ancora
l’eroe... essendo l’uomo che ha un orizzonte di millenni davanti e dietro di
sé, l’erede di ogni tratto aristocratico di tutto lo spirito passato, erede
gravato di obblighi; essendo il più nobile di tutti i nobili clell’antichità, e
al contempo il capostipite di una nobiltà nuova, di cui nessun tempo vide e
sognò l’eguale... questo dovrebbe avere come risultato una felicità, che
finora l’uomo non ha mai conosciuto: la felicità di un dio colmo di potenza e
d’amore, di lacrime e di riso, una felicità, che, come il sole alla sera, non
si stanca di effondere doni della sua ricchezza inestinguibile e li sparge nel
mare, e come il sole, soltanto allora si sente assolutamente ricca, quando
anche il più povero pescatore rema con un remo d’oro! Questo sentimento divino
si chiamerebbe allora – umanità! »[13].
L’illuminazione, veramente profana,
che la vita sia solo un eterno ritorno dell’attimo smisurato – l’attimo in cui
si coglie tutto il valore della storia trascorsa ed è, per questo, momento di
felicità – contiene l’elemento di verità che interessa Benjamin, in ordine al
concetto della felicità: contiene la possibilità di unire teoreticamente i due
« principi antinomici » del concetto stesso. Essi sono dati: 1) dall’idea della
durata eterna della felicità, perfettamente compiuta in se stessa, se si vuole
che la sua sensazione, la percezione che investe il soggetto come una totalità
irresistibile, sia veramente tale; 2) dall’idea opposta: se si desidera provare
la felicità « ancora una volta », questo significa che ciò che si è goduto non
ha esaurito la pienezza del godimento possibile e totale: il desiderio della
ripetizione – nuova, migliorata – esprime un margine di insoddisfazione e
quindi la mancata realizzazione di quella pienezza spirituale che si suppone in
chi è veramente felice. Nella mitologia nietzschiana dell’« eterno ritorno
dell’uguale » si realizzerebbe l’unione fisica dell’attimo, la risoluzione del
soggetto nella felicità dell’attimo che tutto consuma ed è per l’eternità.
Nietzsche, forse il più infelice tra i filosofi, ha dato secondo Benjamin un
contributo essenziale alla causa del Profano, che combatte per la felicità, così
come Baudelaire, forse il più infelice tra i poeti.
La felicità, proclamata dagli
infelici, dai malati, dai pazzi, dai malinconici, è dunque possibile tramite
l’idea dell’eterno ritorno, che fa trionfare l’eternità della materia, la sua
felicità, la gioia che è in questo trionfo, nei confronti del soggetto
che voglia credere nel trascendente e senta nello stesso tempo l’immortalità
come destino inevitabile. In tal modo l’idea della felicità acquista un
significato rivoluzionario, che si aggiunge a quello che possiede come
principio che consente di dichiarare la morte di Dio. L’idea della felicità
svela quindi il suo nesso con quella della « redenzione profana » ovvero della
rivoluzione in senso proprio e universale.
Nell’ultimo suo manoscritto, che contiene le note « tesi » sul
concetto della storia, Benjamin scrive: « La riffessione porta a concludere che
l’idea della felicità che possiamo coltivare è tutta tinta del tempo a cui ci
ha assegnato, una volta per tutte, il corso della nostra vita. Una gioia che
potrebbe suscitare la nostra invidia, è solo nell’aria che abbiamo respirato,
fra persone a cui avremmo potuto rivolgerci, con donne che avrebbero potuto
farci dono di sé. Nell’idea di felicità, in altre parole, vibra
indissolubilmente l’idea di redenzione »[14].
La felicità va pensata nel tempo in cui avrebbe potuto
realizzarsi: se guardiamo al nostro passato vediamo che essa va collocata nella
sfera di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Nulla di tangibile,
nessun fatto della nostra vita, nessuna situazione meritano retrospettivamente
di esser considerati felici. Gioia intensa provocano in noi solo le figure
ideali di coloro – mai visti, mai conosciuti, mai nati – che avrebbero potuto
esserci veri amici, di donne che ci avrebbero splendidamente amato: questi δαίμονες avrebbero potuto renderci felici e quindi salvarci da ciò che
siamo ora, redimerci. La felicità va vista nella redenzione, poiché non è
ancora esistita su questa terra, né per il singolo né per il genere: non c’è
mai stata ma proprio per questo sarà, come la rivoluzione. Il ricordo di
ciò che è stato ci fa sentire anche ciò che non è stato, l’inespresso; lo
spiritismo del ricordo ci fa partecipi del tempo che avrebbe potuto essere e al
quale non abbiamo rinunciato perché sentiamo di avere diritto a quel
tempo, vita di amicizia e amore, apoteosi[15]. L’infelicità per Benjamin
non è evidentemente da ascrivere ad una colpa del soggetto, non deriva da
limiti del carattere, da cattivi pensieri ma solo da un destino individuale e
storico di cui il soggetto è vittima. L’ideale decadente dello homme à
femmes, l’invidia proustiana per il passato prossimo, il ricordo come
malattia dello spirito, autoinganno; il senso della gioia pànica come attimo
che colma ogni misura, che non abbiamo mai provato ma che, proprio per questo, deve
investirci una volta nella vita; questo edonismo del pensiero, questa
astrazione dalla vita semplice, dalla vita che conosce i suoi limiti e il
valore della rinuncia, la disciplina della volontà; questa follia vuole far
esplodere il mondo nell’attimo del soggetto e il soggetto nell’attimo storico,
risolvendo l’infelicità personale nella gioia dell’atto che distrugge un
intiero mondo per redimerlo. La felicità ci redime dal dolore ma il dolore del
mondo, la sofferenza degli « avi asserviti » ha atteso la nostra per saldarla a
se stessa: la redenzione dell’individuo, la sua vera felicità sarà possibile
solo nella redenzione del genere, nell’opera della rivoluzione che appare come
un messia, anticipato dal ricordo[16].
L’idea messianica della felicità non
contraddice all’idea naturalistica, che ne è anzi il presupposto, poiché la
rivoluzione in cui crede Benjamin non è quella dello Spirito Santo, la
redenzione non è altro che il rovesciamento distruttore del materialismo
storico, che si può concepire come l’ultimo atto dell’apologia della natura
intesa come materia sapiente, forza plastica che forma il corpo, mondo di
pulsazioni, processo organico, infinito ed eterno. Il processo dei rapporti
materiali di produzione non è forse organico, come la natura, che è tutto; e,
come seconda natura, non è forse tutto? La materia del nostro corpo è forse
infelice? Non è lo spirito a negare la felicità al corpo, e quindi a se stesso,
combattendo una lotta vana contro la materia, che imporrà alla fine la sua propria
redenzione? Il materialista può dire, come Hotspur morente, che il pensiero è «
schiavo della vita », ma il « tempo della vita » non è « follia »: l’unica
follia consiste nel pensare che la vita non possa esser redenta dalla vita[17].
Il pensiero riffette la vita, che si
esalta nella (creduta) indipendenza della sua materia dal pensiero e dall’opera
di un Creatore, nella potenza della natura sensibile, corpo cosmico la cui
felicità è astrale. L’uomo libero è allora quello che si rivolta al destino (che
impone di per sé di prender coscienza del limite e crea quindi infelicità) in
nome della ricerca di una felicità che ci attende al di là del destino. La
felicità, la cui attuazione giustifica, secondo Benjamin, l’esistenza del mondo
dei profani come « ordinamento », è quindi il valore in cui si vede realizzarsi
la libertà dell’umanità. L’umanità « libera » è quella che vuole ricercare la
propria felicità, quella che sa di aver trovato nel principio di piacere,
nell’edonisrno universale, il filo conduttore di ogni storia profana. L’idea
della felicità viene perciò sentita da Benjamin come ciò che è assolutamente
oggettivo, a tal punto da poter costituire il concetto portante di un intiero
mondo. Non hanno più corso le critiche kantiane e poi hegeliane al settecentesco
bonheur, riflesso di ogni soggettivismo, matrice di ogni individualismo
esasperato. Da Feuerbach in poi, l’affermazione del primato della felicità sensibile
ignora con disinvoltura la vocazione anarchica che quella ricerca contiene, il
principio di dissoluzione di cui è oggettivamente portatrice, quando venga
assolutizzata. Del resto, la felicità di cui parla Benjamin, è andata ben oltre
le sue origini ancien régime, se ha trovato in Nietzsche e in Marx i
suoi profeti.
III.
Stabilito il principio universale
della felicità si tratta ora di vedere in che rapporto stia con la sfera
messianica, anche se in tal modo si richiamano in vita i morti, ossia non ci si
libera della sfera messianica. Il mondo profano – dice Benjamin – è ordine,
ordinamento, quello messianico – e il « Messianico » in generale – è « regno »,
ma non è ordine o ordinamento. ll regno è diverso dalla Ordnung, che
indica il modo di essere dell’uomo. Infatti il terreno e il celeste sono due
nature del tutto opposte; non si mediano: una vera, l’altra falsa; non ci può
essere tra di loro un confronto come tra due ordini diversi ma complementari,
due entità che confluiscano in un « ordinamento » superiore o più complesso
rispetto a quello che appare a prima vista. Come si è visto, il mondo dell’uomo
si caratterizza – per Benjamin – in opposizione a ciò che gli è per natura
contrario: la sfera messianica, inventata dall’uomo stesso, vittima della
debolezza ancestrale che lo ha dato in pasto a millenarie teocrazie dello
spirito. Tuttavia occorre considerare la possibilità di un rapporto tra
l’ordine umano che persegue il suo ideale di liberazione terreno e le
prospettive del messianesimo. E non solo perché la « filosofia della storia »
si è posta il problema di quel rapporto, sì da produrre una filosofia della
storia « mistica », il cui
compito specifico è dato dal ritrovamento del senso messianico del mondo. Il
nesso tra profano e messianico deve essere considerato in sé e per sé, poiché
le due direzioni di tendenza mirano ad incrociarsi, sia pure in modo
inspiegabile.
Lo schema di pensiero di Benjamin si riproduce, a mio avviso,
rigidamente. Si vorrebbe veder finalmente apparire il mondo profano con i suoi
propri caratteri, vederlo in sé e per sé, un soggetto ben definito, che ormai
ha la sua storia da narrare, sciolta da vincoli ultraterreni. Ma l’attesa va
delusa. Teoreticamente vittima della sua vocazione all’utopia, Benjamin non
definisce i contorni del suo protagonista. Del resto, lo stesso Marx, che cosa
ha potuto dire della società finalmente liberata dalla rivoluzione? Nulla, se
non che è ancora la società delle istituzioni borghesi, dirette ad altro fine
(il fine però mantiene le istituzioni). Cosi il mondo profano resta sempre
definito per esclusione, in relazione al mondo non-vero, al « regno », che non esiste ma del quale non si
può fare evidentemente a meno, quando si è costretti a pensare la
mondanità. Il pensiero ha bisogno di ciò che nega per poter affermare ciò che
vuole.
Ricorrendo all’immagine dei vettori
tipica della fisica teorica tradizionale, Benjamin afferma che la Dynamis
del mondo profano non è totalmente padrona di sé. Cosi come accade nella
fisica, dove una forza presente in un campo può attrarne un’altra che si muove
in senso opposto, la forza umana può, senza volerlo, favorire « la venuta del
regno messianico ». Nell’elaborata espressione di Benjamin: « Così anche
l’ordine profano di ciò che è profano può promuovere la venuta del regno
messianico ». Si è visto prima che il mondo umano è tale solo a condizione di
sapersi in opposizione ad ogni messianesimo, che non rappresenta una dynamis,
come la storia degli uomini, ma solo la falsa coscienza degli asserviti ad una
teocrazia morale. Ora invece anche la sfera messianica appare come una forza,
una Intensität, contro la quale l’uomo lotta come se si trattasse di
un’energia vitale contrapposta alla sua. All’improvviso la sfera messianica
appare allora dotata di forza propria, tant’è vero che essa si può ora
realizzare addirittura con la cooperazione involontaria delle forze liberate
dall’uomo profano. Quale ulteriore conseguenza, sorge il problema di far vedere
come la dimensione dei profani non possa esser assorbita da quella messianica,
non ne possa diventare una categoria. Perciò, procedendo con ordine: 1) il
mondo del tipo di uomo laico pensato da Benjamin si basa su di una professione
di ateismo, che dichiara privo di forza, mera illusione, ogni regno messianico;
2) il pensiero ha negato la fede per trovare nel mondo la sua salvezza: il
principio cui l’uomo si ispira e che domina nel mondo è ora solo la ricerca
terrena della felicità terrena, ricerca che sembra non trovare ostacoli; 3)
inaspettatamente, nell’ambito di questa ricerca, la forza liberata
dall’emancipazione profana può scontrarsi con quella che proviene dall’intensità
messianica e risolversi così nel suo opposto; 4) allora può succedere che la Sehnsucht
profana venga essa stessa profanata, dia dialetticamente vita al suo contrario,
al realizzarsi dell’obbrobrio, del Regno mistico degli spiriti.
Ciò che non appare, a mio avviso,
conseguente nel ragionamento di Benjamin – una volta chiarito il suo punto di
partenza, consistente nella negazione apodittica del Regno – è l’aver dato
improvvisamente corpo alle ombre, l’aver rappresentato il Messianico come una
forza reale, un’intensità provvista di magnetismo effettivamente
operante. Questa forza ora minaccia addirittura di sottomettersi l’altra, di
farla deviare per i suoi fini. Come a dire: una volta al potere, i
rivoluzionari continuano a sentire l’intensità della reazione, la reazione come
una forza perennemente in agguato, la cui intensità si trasferisce all’interno
del partito rivoluzionario, che comincia a distruggersi dopo aver distrutto la
reazione. L’ermetica simbologia di Benjamin può tuttavia esser interpretata
anche nel seguente modo: l’ideale vetero-idealista di una storia finalizzata
dalla Provvidenza, che si trova tanto più a suo agio quando ha a che fare con
ciò che le si oppone, torna a prendersi la sua rivincita? No, nella misura in cui
Benjamin non dà valore decisivo alla possibilità di collaborazione non voluta con
chi rappresenta per lui l’avversario, con l’Eterno che opera nel Messia.
Venga pure il Regno, l’illusione della fede si sveli pure come
vera e autentica forza: tutto questo non altera il carattere di ciò che è
profano, non lo media, non ne scalfisce la natura. La ribellione alla divinità,
la reiezione del sacro, l’apoteosi di ciò che è sensibile e dà la felicità
sensibile, tutto questo costituisce ormai un patrimonio al quale l’ateo non può
rinunciare. Ammettiamo pure che Benjamin sia còlto da un ripensamento: che
senta di dover ammettere che il Regno celeste non è solo una mera
finzione, l’ombra di una impossibilità, che l’idea della venuta del Messia
ultraterreno non è solo una speranza della fede e un’ossessione dello spirito
di Benjamin, ma una probabilità effettiva della storia umana, la cui vera
essenza e la cui direzione sono in fondo oggetto per noi di eterno dubbio. ln
ogni caso, egli deve far salva l’indipendenza e la dignità del mondo profano,
che resta per lui il mondo vero. Che cos’è allora questo mondo che ora deve
accettare la possibilità del confronto con quello messianico, che non può
considerare quest’ultimo mera fictio? Questo mondo è categoria,
ma non categoria inglobata nel Regno, anche quando abbia concorso alla sua
realizzazione. Esso è categoria che esprime al meglio la « sua più quieta
prossimità » al Regno. Con parole che rinviano a oscurità blochiane, Benjamin
scivola nell’ineffabile, nello sconcertante misticismo dell’ateo che ha
studiato il Vecchio Testamento e la filosofia classica tedesca[18].
La prossimità, l’esser-vicino, per di
più in maniera quieta, sembra ricordare – se si può stabilire un simile
paragone – i florilegi hegeliani sullo « spirito » che è « bei sich», presso di
sé, con sé in modo pieno e calmo, compiutezza dell’essere nello Spirito stesso.
Lo spirito non solo è « an sich », è in-se ed esce da sé per ritornare a se
stesso; è anche « presso di
sé » ed è libero senza per questo dividersi mai, frammentarsi in materia di
forme molteplici e nemiche, non riconducibili all’unità dello Spirito stesso[19]. Ma la « prossimità» del
mondo profano a quello messianico, anzi l’esser il Profano categoria della
silenziosa prossimità al Messianico, questa oscura espressione sembra voler
stabilire una somiglianza esteriore, una analogia formale. Vale a dire: ciò che
è profano può essere utilizzato per l’avvento del Regno, tuttavia esso conserva
la sua natura, che è impenetrabile alla trascendenza: continua a realizzare se
stesso, ad essere quello che è, a restare « presso di sé », a considerarsi
realtà autonoma, a fortificarsi nel suo silenzio (se costretto al silenzio),
capace alla fine di opporre un suo proprio messianesimo (quello della natura)
al Regno. Infatti, dice Benjamin, tutto ciò che è terreno, l’uomo come prodotto
della sua Dynamis, tramonta solo nella sua felicità. Il Regno
rappresenta la pienezza dei tempi, la fine dell’umanità che conosciamo, il suo
tramonto che è però nuova aurora. Invece la realtà terrena e profana dell’uomo
ha anch’essa la sua fine, il suo tramonto, che è da vedersi nella felicità e
coincide quindi con lo scopo stesso della vita liberata dalla trascendenza. E
proprio questa è l’analogia: il profano è tramonto allo stesso modo del Regno.
Per questo il Profano, strutturalmente, come categoria, è vicino al Regno, con
in più il vantaggio di far coincidere il fine della vita con la sua fine:
eterno riposo nel nulla dopo la morte. L’ordinamento profano ha nella gioia il
suo principio e il suo tramonto: è tramonto di sé stesso non di qualcos’altro.
Attraverso l’immagine nietzschiana del tramonto, l’uomo che si è voluto
liberare di Dio, riafferma il valore della sua ribellione: si rinchiude in se
stesso, nel cerchio che ritorna in eterno del suo proprio ordine, dove la
felicità è principio e fine. Solo ammettendo il principio della felicità come
scopo del mondo si può rinchiudere il mondo in quello scopo e pensare che trovi
in esso il proprio tramonto.
Ma il cuore che sente l’intensità
messianica, la sente, in interiore homine, soprattutto alla scuola della
sventura, dell’infelicità che dà sofferenza. Mediante il sentimento, dominato
dalla aspettativa del Signore (l’anima pia sa che il Regno è dentro di noi), il
soggetto si sottrae al tramonto cui conduce l’ideale della felicità: non è
felice però non tramonta. Un simile cuore è però miserabile, dal punto di vista
di Benjamin, perché appartiene all’uomo che rifiuta di essere se stesso;
respinge la gioia che nella vita viene dalla felicità che si sa conquistare e
godere: quest’uomo, spiritualmente sottomesso, non vuol dar corpo a pensieri di
amicizia e amore perfetti, non odia l’ordine costituito, che è sempre
imperfetto e spesso ingiusto. ll suo rifiuto risulta dal fatto che l’intensità
messianica viene percepita solo tramite la sventura, il dolore, il male. ll
Messia prende l’uomo alla gola, lo priva della gioia della felicità dietro
promessa di una felicità diversa e più alta, nuova, eterna. Allora la
cognizione del dolore diviene la condizione necessaria per passare attraverso
il tramonto dell’uomo, per pensare di poter esser eterni. La sublimazione, qui
necessariamente cristiana, della sofferenza, viene intesa da Benjamin come una
specie di ricatto del Messia nei confronti dei poveri di spirito e
l’immortalità diventa – sprezzantemente – una semplice restitutio in
integrum spirituale. L’uso del termine è significativo. L’immortalità che
si raggiunge tramite la salvezza nel Messia è solo un ripristino, di che cosa?
Un ripristinare la vita, la felicità che si è avuta e della quale si avrà dopo
la morte un surrogato: ogni restitutio in integrum è infatti sempre
inferiore all’originale. L’uso del termine giuridico fa vedere come per
Benjamin la immortalità religiosa sia il risultato di una astuzia avvocatesca.
In ogni caso egli rovescia abilmente il rapporto tra mortalità e immortalità: è
ora l’immortalità – qualcosa di vuoto, di perennemente astratto – ad essere il
surrogato della Dynamis, della forza vitale, dell’ordinamento vòlto alla
felicità. Chi è stato così vile da non ricercare la felicità nella vita, per
paura del dolore e della morte, dovrà accontentarsi di un surrogato
nell’aldilà, copia scialba e sbiadita. L’esistente non viene dichiarato
illusorio, la vera vita non è nell’aldilà: lì può esserci solo la caricatura
del mondo profano, un ripristino ehe non compensa mai la carne perduta.
Il rovesciamento benjaminiano del
rapporto tra l’uomo mortale e l’immortalità fa allora vedere qualcosa di
terribile, un suo intrinseco demonismo. Infatti, non si tratta solo di
negare l’esistenza dell’altro mondo in generale e della sua forma di Regno di
Dio in particolare; di dire, basandosi sull’evidenza sensibile immediata e
sulla ragione, che l’altro mondo non esiste: siamo stati a lungo ingannati e
ora non crediamo più all’inganno. Si tratta invece di dire, e questo è il
demonismo: esista pure l’altro mondo, è meglio questo. Il mondo terreno sia
stato pure il prodotto di una illusione, non sia altro che uno strumento nelle
mani della Provvidenza: ebbene, il carattere virile dell’uomo profano non
accetta di esser stato usato come zimbello dell’Eterno e rifiuta
orgogliosamente la prospettiva salvifica dell’immortalità. Questa forza di
carattere spinge allora a rovesciare il rapporto del soggetto con la morte, ad
accettarla orgogliosamente come passaggio del vivente alla natura, a volere questo
trapasso materialista, a proclamarlo addirittura una festa, in barba ad
ogni trascendenza: qui si vede il carattere dell’uomo moderno, il « carattere
distruttivo ».
L’ambiguità che si è vista
in precedenza, derivante dal fatto che Benjamin sembra riammettere l’esistenza
e la preponderanza del Regno, dopo averla negata, quasi si potesse dire che Dio
esiste e non esiste, c’è e non c’è, non c’è però può pure esistere;
quell’ambiguità viene quindi risolta dalla forza di carattere dell’ateo
orgoglioso, che non accetta la negazione della sua negazione, non accetta la
profanazione del suo proprio mondo da parte del Messia e del cuore semplice.
Benjamin, l’uomo moderno che egli vuol rappresentare, deve rimanere nei
confronti della divinità un angelus Satana, colui che annuncia la perpetua
ribellione, anche se l’eterno ribelle più che la forza del carattere
sembra esprimere una violenza dell’animo, quella agognata assenza di
limiti, quell’ànsito prometeico che non indietreggia di fronte alla glorificazione
della morte, dell’autodistruzione pur di non venir meno al proprio unilaterale
punto di vista. Del resto, il titanismo del giovane Marx, di Nietzsche, dei loro
eredi irrazionalisti, berlinesi, francofortesi, tubinghesi, non nasconde la
debolezza dei violenti, degli energumeni dello spirito? Dove c’è violenza manca
però la forza, la chiarezza di rapporti, la legge e la soluzione delle
ambiguità è apparente[20].
Alla immortalità vuota, pneumatica,
viene dunque contrapposta da Benjamin una restitutio in integrum mondana
che però non è veramente tale, ossia non restituisce o ripristina nulla –
niente si può in-
fatti
effettivamente restituire – non è la brutta copia di nulla ma solo
l’affermazione dell’eternità della natura. Per la coscienza individuale non si
tratta ora di contrapporre la società e la storia alla immortalità promessa dal
Messia: ma contrapporre la propria mortalità individuale, scoprire in essa un carattere
eterno. Benjamin contrappone eternità a immortalità, facendo forza sulla lingua
comune che le intende come sinonimi.
«La vita del principe Myškin [l’idiota di Dostoevskij] si
configura come episodio solo per rendere simbolicamente visibile l’immortalità
di questa vita. La sua vita di fatto non si può estinguere, altrettanto poco –
anzi, meno ancora della stessa vita naturale, con cui ha nondimeno un profondo
rapporto. La natura è forse eterna, ma la vita del principe è certamente
immortale – e ciò deve essere inteso in senso interiore e spirituale. La sua
vita come la vita di tutti nel suo gravitare verso di lui. La vita immortale
non è quella eterna della natura, anche se pare assai prossima ad essa, poiché
nel concetto di eternità [Ewigkeit] l’infinitezza [Unendlichkeit]
è superata e soppressa [aufgehoben], mentre nell’immortalità [Unsterblichkeit]
essa giunge al suo sommo splendore. La vita immortale di cui testimonia questo
romanzo non ha nulla a che fare con l’immortalità nel senso abituale. Poiché in
questo secondo caso mortale è proprio la vita, mentre immortale è la carne, la
forza, la persona, lo spirito, secondo le diverse versioni. Così Goethe ha
parlato, con Eckermann, di un’immortalità di coloro che agiscono, per cui la
natura è tenuta a darci un nuovo spazio in cui agire, quando questo qui ci è
tolto. Tutto ciò è molto lontano dall’immortalità della vita, dalla vita che fa
vibrare infinitamente la propria immortalità nel significato e a cui
l’immortalità dà forma. Poiché qui non si tratta di durata. Ma quale vita è
quella immortale, se non è quella della natura, e neanche della persona? Del
principe Myškin si può dire, al contrario, che la sua persona resta indietro
rispetto alla sua vita, come il fiore rispetto al suo profumo o la stella
rispetto al suo scintillio. La vita immortale è indimenticabile, è questo il
segno da cui la riconosciamo. È la vita che dovrebbe essere indimenticata senza
bisogno di monumenti e di ricordi, anzi, forse senza bisogno di testimonianze.
Non può essere dimenticata. Questa vita resta imperitura per così dire senza
recipiente né forma. E « indimenticabile » non significa solo che noi non
possiamo dimenticarla, vuol dire qualcosa di più: allude a qualcosa
nell’essenza stessa dell’indimenticabile, per cui è indimenticabile. La stessa
perdita della memoria del principe nella sua successiva malattia e simbolo
della indimenticabilità della sua vita; poiché essa giace ora sprofondata, in
apparenza, nell’abisso della sua memoria di sé, da cui non risale più »[21].
Questo passo, veramente notevole, di
Benjamin offre forse la chiave per cogliere i significati e le contraddizioni
inerenti alla antitesi eternità-immortalità, di per sé non poco esoterica[22]. L’occasione che getta luce
sul rapporto tra l’uomo e l’infinito è offerta dal mito ossia dalla
interpretazione della figura dell’Idiota, l’individuo che è « rimasto indietro
rispetto alla sua vita » e si è quindi fissato in una dimensione di purezza
originaria, naturale e nello stesso tempo lontana, poiché una lontananza astrale
separa, a ben vedere, il fiore dal suo profumo, la stella dal suo scintillio:
la contiguità non è per l’appunto continuità, non realizza la compenetrazione
di causa ed effetto o di tutta una vita con i suoi momenti. Chi o cosa
interviene ad unire allora per noi la causa al suo effetto, se non il ricordo,
che conferisce alla vita il suo significato profondo? Ma il ricordo non è
evidentemente natura e la natura non ricorda. L’immortalità, come significato
universale della vita, deve essere distinta dal significato universale della
natura, che è quello di essere eterna. La premessa del ragionamento che conduce
alla definizione dell’immortale, vuol essere allora una premessa teoretica,
capace di fondare concettualmente la distinzione, che altrimenti sarebbe solo
verbale e quindi incomprensibile. Nel concetto dell’eternità si ha, per
Benjamin, l’estinzione di ciò che è finito: il finito, l’uomo viene superato
nell’eternità della natura, ma in modo da scomparire in essa. Infatti, non si
può certo dire che la natura onnipotente e arcana conservi la sua individualità
al singolo, al soggetto che, morendo, è scomparso in essa. Nell’eternità
naturale, ovvero nella natura considerata come materia infinita, l’individuo
trova il suo abisso: l’eternità lo inghiotte e non può costituire essa stessa
la dimensione in cui egli venga ricordato.
L’individuo è invece immortale, ossia vive dopo la morte, non in
sé ma nel ricordo, che conserva il soggetto allo spirito della posterità. Il
ricordo è la categoria ermeneutica principale di Benjamin, anche se ha poco o
nulla a che vedere con il suo antecedente platonico. L’individualità giunge al
suo « splendore » non in sé ma nel ricordo, nel conservarsi dell’elemento
spiritualmente indimenticabile che essa contiene. L’immortalità di una vita
dipende perciò dalla sua qualità, non si tratta di durata: è qualcosa che è
sottratto al tempo. Infatti, non ogni individuo realizza nella vita qualcosa di
indimenticabile: e allora questo individuo non è immortale. L’idea
comune di immortalità (che Benjamin critica) è connessa alla durata: nonostante
la morte del corpo, si pensa e crede che la vita dell’anima duri per
sempre; la vita di ciascuno. anche di chi non avrebbe alcun desiderio
particolare di continuare a vivere dopo la morte. L’immortalità è allora
sottratta alla disponibilità del soggetto, come il tempo, ed è nonostante
il ricordo. È anzi un errore dire – da questo punto di vista – che l’uomo è
mortale poiché già per il fatto di nascere è stato posto in una vita immortale,
della quale la vicenda del corpo è solo la prima fase. Se però tutti sono
immortali, tutti devono poter essere ricordati, cosa impossibile dal punto di
vista dell’uomo, della posterità che estrae l’indimenticabile dalle macerie di
un mondo anteriore. Ma la fede non si preoccupa di questo poiché essa vede nel
Salvatore l’artefice del ricordo: in Lui saremo tutti ricordati alla fine dei
tempi. Il protagonista del ricordo è Dio, il Demiurgo universale della memoria:
nessuno sarà dimenticato come è vero che tutti i nostri capelli sono stati
contati: « Quand’anche le madri dimenticassero, / non io dimenticherò te » (Isaia,
49,15).
Ma se il ricordo, che conferisce
immortalità ad una vita, è invece opera dell’uomo, è ricordo profano,
l’immortalità è allora essa stessa profana, è una qualità della vita che non
scalfisce la durata eterna della stessa e la lascia in balia della natura. E la
vita resa così immortale non ha «recipiente né forma» ovvero è, per così dire,
la pura indimenticabilità: non solo la pura essenza della vita conservata
dal ricordo, ma il ricordo come pura essenza, poiché la vita supera se stessa,
il carattere finito, la morte, se la sua essenza sa essere indimenticabile, sa
contenere il ricordo come necessità interiore, che non potrà non impadronirsi
dei posteri e tramite loro della vita stessa. Il ricordo fissa allora la vita,
rendendola immortale, sottraendola all’eternità annichilante della natura.
L’ideale dell’immortalità profana, terrena, si connette allora al mito della
gioventù. « Ma la pura parola che esprime la vita nella sua immortalità è:
gioventù. È questo il grande lamento di Dostoevskij in questo libro: il
fallimento del movimento della gioventù [der Bewegung der Jugend]. La
sua vita resta immortale, ma si perde nella propria luce: “ l’Idiota ”. Dostoevskij
lamenta il fatto che la Russia non possa serbare presso di sé la sua vita
immortale – poiché questi uomini portano in sé il cuore giovane della Russia –,
assorbirla in sé. Essa va a cadere su un terreno straniero, va oltre il suo
confine e si arena in Europa, “ in questa vana Europa ”... » (op. cit.,
p. 77; GS, I, cit., p. 240). La gioventù non è più una fase della vita ma « la
vita nella sua immortalità »: è nella gioventù, una gioventù spirituale ma
terrena (e quindi non sottratta alla problematica della felicità), che la vita
trova allora la sua dimensione universale, trova la spiritualità necessaria al
ricordo. Il mondo profano, il mondo che sa darsi l’immortalità senza
consegnarsi alla durata su cui speculano i credenti, è un mondo giovane
e che concepisce la gioventù come mito liberatore: dalla gioventù dovrà
scaturire la liberazione morale e politica di un mondo[23].
Tuttavia Benjamin non può dimenticare
che per l’uomo morto, l’esser-ricordato è solo una probabilità. Noi infatti
ricordiamo l’Idiota, ma quanti sono stati e saranno come lui? (L’Idiota è stato
creato dal genio; per esser ricordati occorre allora la creazione, un
creatore?). Il carattere indimenticabile della vita sembra inerire alla vita
singola, di colui che ha saputo renderla degna di ricordo, non alla vita di
tutti: la vita del principe Myškin non è, per così dire, alla portata di tutti.
Se l’immortalità è quindi solo ipotetica, perché aristocratica, affidata alla ἀρετή che si fa ricordare e quindi alla giovinezza poiché in essa è la
virtù suprema; sicura è invece l’eternità, ossia l’assorbimento
dell’uomo nel divenire cosmico della natura. L’eternità, separata
concettualmente dall’idea dell’immortalità e posta in posizione subordinata –
perché non esalta il finito – si prende, nel frammento teologico-politico, la
sua rivincita. Ché, dovendo contrapporre una immortalità integralmente profana
a quella « spirituale » della fede, si dovrà ricorrere allora all’elemento più
sicuro: la natura eterna, l’eterna materia, che conta anch’essa i suoi morti
uno per uno. Da questo punto di vista, il soggetto potrà allora liberarsi anche
del peso del ricordo, della sua necessità. Nella natura appare la liberazione
totale, nel movimento che tutto crea e tutto distrugge, come il fuoco cosmico
dei Presocratici: il mortale deve allora affidarsi all’eternità, alla quale non
occorre contrapporre il ricordo, l’immortalità profana che vive nel ricordo,
poiché è essa stessa profana in sommo grado, sino al punto da essere
messianica. Solo il carattere eterno della natura sembra capace, per Benjamin,
di svelare un messianesimo in grado di contrapporsi a quello del Regno di Dio.
Si tratta quindi di capire come si possa vedere nell’eternità il messianesimo,
come la natura possa infine esser considerata messianica.
Sappiamo dunque che l’uomo mortale,
finito scompare ma è eterno; il suo esser-stato, anche se trascorso per sempre,
è ormai qualcosa di eterno, inserito in un ciclo naturale, in un « ritmo » di
ampiezza cosmica che lo ha inghiottito. La restitutio in integrum
mondana non ha carattere compensativo, non si surroga a nulla: È un’immagine
usata per assonanza stilistica. Tanto poco c’è una restituzione di qualcosa,
nell’aldilà dell’ateo, che il soggetto è dissolto nella totalità naturale e
diventa eterno – non immortale – proprio per opera di questa dissoluzione: egli
compie un balzo nell’eternità della sua materia, nel gorgo privo di forma. La
morte di ogni singolo è ciò che conduce quest’ultimo « nell’eternità di un
tramonto ». Il tramonto è eterno perché c’è in ogni vita e la felicità è già il
tramonto del mondo terreno: non ci sono crepuscoli celesti. Il mondo (la «
mondanità ») ha perciò il carattere di ciò che muta e trapassa continuamente. È
un tramonto eterno ma, meglio ancora, È: un « ritmo » (non armonia, distrutta
dalla musica atonale degli amici di Benjamin), ritmo dell’eterno essere e
trapassare, finire del mondo con tutto il suo spazio e tutto il suo tempo. Ma
questo « ritmo » grandioso e colossale è ovviamente il ritmo della natura, che
è al di là del mondo, ed è l’unico solido piedestallo della « mondanità ».
L’ateo per elezione, il profano che sa cosa vuole, deve sapere, secondo
Benjamin, che il suo proprio tramonto è inscritto nel movimento generale della
natura, nel ritmo che distrugge, rendendoli già da ora infimi, gli spazi e i
tempi del mondo, nel ritmo che trasforma in eternità vissuta la sua propria
accidentale presenza nella vita, il ritmo in cui anch’egli risuona, come nota
sperduta nel battito colossale della materia.
Ma questo ritmo è ora « natura
messianica », è « felicità ». Con un colpo di mano tipico dello scrittore
epigrammatico, ma anche delle illuminazioni del mistico, Benjamin ci svela alla
fine chi sia per lui il vero Messia: la natura, che è felicità in quanto ritmo
cosmico, progredire della materia che redime, oltre i tempi della mondanità
appassita nelle sue miserie. Ma in tal modo, non solo la divinità fa posto alla
natura ma anche la storia: soluzione inevitabile se la storia era stata
concepita come il prodotto di una sorta di Dynamis primigenia. La felicità cui
l’uomo deve aspirare, se da un lato costituisce il tramonto dell’uomo,
dall’altro lo supera: la felicità trascende l’ordinamento profano poiché coincide
addirittura con il ritmo della natura messianica. Ma questa felicità è allora
felicità della natura non dell’uomo: la natura è la divinità che presiede
al destino dell’uomo e lo fa coincidere con il suo. La felicità in questo
destino è solo un frammento della felicità universale, della gioia che la
materia prova di se stessa. Benjamin ha evidentemente bisogno di ricreare una
forma di trascendenza divinizzando la natura, affermando nell’eternità della
materia una componente messianica, redentrice: il suo averroismo si colora di
un entusiasmo per così dire orgiastico, tramite il quale la natura è sentita
come puro movimento senza forma, autentico caos nel quale la materia ritorna
sempre e gioiosamente a se stessa, al di là dello spazio e del tempo. L’ateismo
tedesco, nella sua componente nietzschiano-francofortese, non disdegna di far
concorrenza alla vecchia mistica tedesca e sfocia in un naturalismo che
riabilita la natura degli alchimisti e dei maghi.
Ma da che punto di vista la natura può
essere definita messianica in senso proprio? Per Benjamin il carattere
messianico della natura sembra risultare dal suo « totale ed eterno atto di
trapasso, tramontare: aus ihrer ewigen und totalen Vergängnis ». La
natura è il vivente per eccellenza, còlto nella sua immediatezza più completa,
è la vita che c’è, ed è spontaneamente. Ma la natura non è persona, quindi non
si può dire, a rigore, che sia essa stessa il Messia. Tuttavia la natura sembra
personificare, per Benjamin, il suo proprio divenire, come se lo facesse
apparire manifestazione di una sua volontà: la natura ha personalità e capacità
per imprimere un significato naturalistico, in senso descrittivamente cosmico,
al divenire delle cose. In tal modo essa rapporta – sul piano della figurazione
– ciò che è umano a ciò che è naturale, fa vedere come l’uomo abbia il suo
senso solo nella dimensione naturale che lo trascende. Se la natura è «
messianica »; se la definizione di Messia è ancora quella enunciata in apertura
del frammento da Benjamin, la similitudine da lui instaurata è dunque la
seguente: come il Messia svela il rapporto dell’uomo con il Regno così la
natura svela il rapporto dell’uomo con la natura. Ché in questo caso il regno è
la natura stessa: il movimento, nell’ambito del quale l’uomo è inserito nella
natura, non esce da se stesso, è, per così dire, un processo senza soggetto,
poiché il processo stesso – la Natura saturnina – è il Soggetto.
Il messianesimo della natura sarebbe
quindi ricavato da Benjamin per analogia da quello trascendente della religione.
Alla restitutio in integrum spirituale va contrapposta quella mondana,
che rivendica un suo messianesimo: la riproduzione in negativo del mondo
ultraterreno è compiuta. Tuttavia la secolarizzazione è qui necessariamente
imperfetta, come in fondo ogni secolarizzazione, perché il messianesimo della
natura – proprio perché manca la persona, il soggetto autentico, l’Artefice –
non apre gli orizzonti a nuove dimensioni, non implica un trapasso qualitativo
(per l’appunto l’immortalità dei credenti) ma solo l’accettazione eterna del
mondo sensibile come unica realtà eterna e immutabile. Il messianesimo è
qui stravolto
nella sua brutta copia profana e per conseguenza definito in una prospettiva
diversa da quella iniziale. Infatti, esso consiste ora del carattere « eterno »
e « totale » del trapasso continuo di cui si alimenta la natura. Il
messianesimo non è perciò nella prospettiva della dimensione nuova, della Vita
Nuova, raggiungibile tramite l’intervento di un Salvatore, prospettiva che il
pensiero immanentista e profano dichiara fallace, imputabile solo
all’intervento esterno di un Messia sulla storia, alla fede in questo
intervento. Il messianesimo è ora nella cosa stessa, ossia nella natura,
che non fa cambiare qualità all’uomo, non può dargliene una diversa da quella
della materia: per definizione, l’uomo, l’uomo còlto nella sua immediatezza, è
natura ed è nella natura.
Ma la natura non contiene una promessa di vita ultraterrena, che
si realizza necessariamente al di là e contro la natura; la natura può
rappresentare infatti solo la fine spazio-temporale dell’uomo, la sua fine
sensibile ossia il puro nulla, se si crede che oltre quella fine non ci sia
altro. Il salto di qualità che la natura-messia fa operare al soggetto è un
salto nel nulla ossia nell’assenza di qualità: dov’è qui l’intervento di un
Messia, se il nulla è la nuova qualità del soggetto? Il messianesimo della
natura si conclude quindi nella affermazione del nichilismo: il
nichilismo diventa così, per Benjamin, una sorta di messianesimo profano. Da un
lato bisogna quindi dire che la natura non può appartenere a ciò che è
messianico, se quest’ultimo per realizzarsi ha bisogno della persona di un
Messia, la persona che esprime l’unione misteriosa e indissolubile di spirito e
corpo. Dall’altro, la dichiarazione di un contenuto messianico del Naturale,
pervicacemente inseguita da Benjamin, esprime l’esigenza che il Profano sente
di costruirsi un mondo suo ma contrapposto, come luce ad ombra ed ombra a luce,
a quello trascendente, tanto da arrivare a concepire una nuova qualità della
vita addirittura nel salto nel nulla che la morte produce, quindi nella
negazione totale contrapposta all’affermazione totale rappresentata dal Regno
di Dio.
Questo viene alla fine proclamato da Benjamin: il Messia deve
esser sentito nel corso, ritmo universale di una natura la cui felicità sia la
nostra felicità, la cui continua necessità di tramonto, di distruzione fisica,
sia ugualmente gioia e felicità per la creatura che scompare. L’eterna
immensità della natura contiene in sé la felicità della
materia, è per noi la promessa del nulla eterno, che può esser rappresentata
come la gioia più alta, la perfezione più ambita. Poiché questo sembra
all’interprete essere il pensiero segreto di Benjamin: nessuna perfezione è più
completa di quella del nulla in cui tutto si è risolto, tutto è scomparso. Il
mondo è, ma quando non sarà più, sarà come non fosse mai stato: il mondo
contiene il suo proprio nichilismo, poiché si lascerà alle spalle uno spazio
interamente vuoto, ossia nessuno spazio, come l’uomo che muore tutti i giorni.
Nessuno infatti si ricorda del ricordo; i pronipoti hanno dimenticato gli avi;
la materia dimenticherà il mondo e questo, dal punto di vista di un Benjamin,
sarà bene,
il pensiero di questa fine deve già essere percepito in termini di felicità
profana, di appagamento per le opere che il giorno presente offre con dovizia.
La felicità deve essere allora nel massimo di infelicità, nel pensiero del
nulla cosmico o meglio del caos esplodente all’infinito, distruzione galattica.
Nel sapere che la morte ci offre per sempre alla natura, che però non muore,
dovrebbe quindi affermarsi la consapevolezza di una eternità dell’uomo, che è
una forma di permanenza. Se la natura non è in se stessa il nulla, non è essa
stessa il nichilismo, tuttavia lo contiene e lo sviluppa perché si presenta a
noi come un messia che trova nel nostro annullamento, a tempo e luogo debiti,
il suo proprio appagamento: trova il suo e completa il nostro. Ma così,
esaltando la natura nullificante, identificandola con la materia, confondendo
natura e materia, Benjamin non propugna un nichilismo che alla fine distrugge
la stessa natura, trasformata in un messia che vive della sua propria
distruzione, come se la vita non dovesse concludersi che in una sorta di
suicidio universale?
IV.
Nella prospettiva del messianesimo
profano e naturalistico, dello pseudo-messianesimo di Benjamin, cosa resta
allora dell’aspirazione dell’uomo alla felicità e dell’esigenza di salvezza,
che è alla base della fede dell’uomo nel Messia? Se, per restare nell’immagine,
la Natura è l’inviata dell’Eterno, in che modo essa può redimere l’uomo dal suo
proprio male e renderlo felice? In nessun modo. Tutto ciò che Benjamin sa
offrire, dopo aver negato il trascendente e aver fatto l’apologia del mondo
profano e della natura messianica, è l’immagine della morte come festa,
in nome della felicità – non nostra, ma della natura: in questa festa e in
quella gioia è il nichilismo più superbo, che supera anche l’esigenza profana
dell’immortalità terrena, data dal ricordo.
C’è un frammento postumo di Nietzsche che sembra scritto apposta
per il suo epigono teologico-politico. « Essere liberato dalla vita e ritornare
morta natura, può essere sentito come una festa – da coloro che vogliono
morire. Amare la natura! Rimettere in onore ciò che è morto! Non l’opposto,
bensì la matrice, la regola, ha più senso dell’eccezione: infatti irrazionalità
e dolore si trovano soltanto nel cosiddetto mondo finalistico, nell’elemento
vivente » (Gaia Scienza, cit., p. 341, 11 [194]). Ritornare alla natura,
non al modo di Rousseau o dei Romantici, che hanno sentito la natura come il
vivente contrapposto alla società, nella quale era la maschera, la morte
spirituale; ritornarci con una violenza diversa da quella che – si crede –
ricondurrà l’uomo a nuova vita, dato che la natura in cui credono i
rivoluzionari purifica, ricrea e ci sarà accanto nella costruzione di una nuova
società; ritornare invece alla natura tramite la morte, ritornare « morta natura
» ossia scomparire nella natura. Questo ritorno è effettivamente eterno poiché
esso stesso non ritorna mai più: la morte non restituisce, ci fa passare nella
vita della natura, nel caos del suo movimento, non ci ricrea a nuova vita. Ma
proprio nel ritorno definitivo alla natura che un tempo ci ha creati, è la
festa, che è nella morte ed è la festa per coloro « che vogliono morire ». Se
si lascia la vita liberandosene è perché la natura ci ha creato quasi
allontanandoci da se stessa con dolore; e allora ritornare « morta natura » è
la vera festa per colui che vuole morire, dal momento che nella vita non è
alcuna festa. L’apologia nietzschiana della natura è in realtà una apologia
della morte o meglio del desiderio di morte, del suicidio spirituale, prima ancora
che fisico, di chi, solo tramite la sua fine nella natura, pensa di poter
superare « irrazionalità e dolore », che sono di casa nella vita normale, nel
mondo umano, che non è natura. L’idea della festa rappresenta
emblematicamente la felicità: la felicità vera è nella festa ma
quest’ultima si può celebrare solo con il trapasso nella natura, nel nulla che
ci inghiotte per sempre.
Il pensiero di Benjamin sembra
indubbiamente aver accolto e sviluppato la volontà di autodistruzione, che
costituisce una delle tendenze principali della speculazione di Nietzsche. La
natura diviene il luogo o lo scenario dove il sacrificio umano si consuma. Del
resto, una volta che l’uomo abbia respinto Dio e tuttavia si senta ancora
addosso la febbre del trascendente, quella vocazione dell’assoluto che solo la
fede può placare senza catastrofi morali, non è forse inevitabile che egli si
rivolga alla natura, invocandola come un Messia; che chieda alla natura, nuova
divinità, di dargli con la morte la felicità che si era da ogni lato preclusa
in questo mondo? Il rifugio nel nichilismo sembra essere l’alternativa finale
alla fede o meglio la conseguenza ultima del suo ripudio. Ed è nichilismo che
finisce con il distruggere anche la natura, facendola apparire come l’eternità
che per noi si realizza tramite la morte: alla natura si attribuisce un
carattere omicida, poiché si vede in essa una capacità di essere festa, di
darci gioia, solo quando ci fa morire.
Si sarebbe tentati di
attribuire al senso della festa e della felicità affermati da Benjamin un
carattere ironico, ma è evidente, da quanto visto, che il suo pensiero è
del tutto impenetrabile all’ironia, anche intesa in senso eterodosso. La
serietà mortale delle intenzioni speculative benjaminiane è la espressione di
quella melanconia di carattere che tanto colpiva Scholem, e viceversa[24]. La mancanza di ogni ironia
è del resto confermata dal desiderio di Benjamin di collegare la natura
messianica alla politica, poiché nella politica come l’intende il nostro tempo,
quale prassi creatrice di un mondo e un uomo nuovi, attuazione di una
palingenesi finale dell’umanità, tutto è improntato alla massima serietà. Chi
crede nella politica come salvezza non è portato all’ironia: quando la
esercita, e ciò avviene solo nei confronti dell’avversario, è mera derisione.
Nella « politica mondiale » deve tradursi con la massima serietà il
messianesimo della natura. Esso non resta un’idea astratta, una vuota
aspirazione del misticismo ateo: se la natura è il Messia essa non può non
esigere che la politica adegui il suo metodo alle sue esigenze. Il nichilismo
diviene cosi il « metodo », il modo di essere anche della politica.
Il frammento di Benjamin si chiude
senza venir meno al suo angoscioso ermetismo, con un ultimo balenio, una sorta
di fosca visione. Tutto dovrebbe chiarirsi, nell’accenno finale alla politica,
invece aumentano le tenebre, si ha la sensazione di una caduta definitiva
dell’uomo nella tomba della propria disperazione. Se mi è lecito un paragone, è
un’oscurità dantesca ossia che ricorda quella delle atmosfere infernali, come
Dante ha saputo rendercele. Che vorrà dire, infatti, che il trapassare
messianico della natura deve costituire ora il compito della politica mondiale,
la quale, proprio per questo, deve esser concepita come Nihilismus? La
politica non è evidentemente per Benjamin ordinaria amministrazione ma ha un «
compito » universale; la politica che interessa il visionario del mondo profano
può essere solo la Weltpolitik. La politica mondiale non può perciò
essere qui intesa, a mio avviso, nel senso descrittivo di situazione politica
mondiale, dominata da una o più potenze, da una o più concezioni del mondo,
confusamente consapevoli delle proprie aspirazioni e direzioni. La « politica
mondiale » è invece la politica come modo di essere del mondo, politica nel
senso universale del termine, perché dimensione nella quale si attua alla fine
l’aspirazione dell’uomo a un mondo del tutto profano e quindi esclusivamente
politico, finalmente liberato dalle pretese e dai miti della
«
teocrazia ». Se la politica viene assunta come qualcosa di universale,
universale dovrà essere anche il suo « compito ». In esso dovrà apparire e
realizzarsi quella « aspirazione » dell’uomo che è alla base della sua ricerca
di un mondo tutto terreno e che sfocia alla fine nell’esaltazione della natura
messianica: la politica mondiale, ossia la prassi come valore universale
dell’uomo, dovrà realizzare un rapporto nuovo tra politica e natura,
dovrà far apparire, a livello della politica mondiale in senso stretto, quel
rapporto tra uomo e natura che trova nella felicità nichilistica la sua acme:
una politica naturalistica, ossia il vero nichilismo, dovrà dominare nel mondo.
Il contenuto della politica è dunque
la natura. Se questa interpretazione è esatta, ognuno può notare di quanto si
siano stravolti i termini di quel rapporto natura-società, le cui
contraddizioni il pensiero del Settecento (e di Rousseau in particolare) aveva
creduto di risolvere nell’affermazione della politica come valore universale,
etico e perfino estetico. Ora la natura deve ancora ispirare la politica, ma
nel senso che quest’ultima deve erstreben, anelare a risolversi in una
natura il cui Messia è il Nulla eterno: la politica deve aspirare all’eternità,
deve diventare il metodo che garantisce, su scala universale, l’immortalità
profana ossia l’eternità nella natura nullificante. Il compito della politica è
percio dato dall’aspirazione consapevole alla Vergängnis che appare
nella natura, quel divenire del trapassare, quel mutare continuo, quell’apparire
e scomparire che, per Benjamin, è l’unico momento compiuto dell’esistenza: la
dissoluzione è l’unica cosa compiuta. Il nichilismo che la politica deve
realizzare non va quindi inteso – a mio avviso – nel senso ristretto che gli
individui politici, artefici del Profano devono respingere nel nulla il
trascendente e le seduzioni del Regno. Il nichilismo è il « metodo » della
politica non semplicemente perché essa, come suo scopo, deve mirare a
distruggere sistematicamente le vestigia del vecchio mondo ma perche è nello
stesso tempo il contenuto della politica. Se quest’ultimo è in funzione
della redenzione messianica dell’umanità e se il Messia è la natura
nullificante allora il contenuto della politica è necessariamente il
nichilismo.
La politica mondiale, se vuol essere tale, deve, per Benjamin,
porre in essere un nichilismo mondiale, deve cioè essere integralmente
rivoluzionaria. Nella visione della politica che redime il mondo nel
nichilismo, che annuncia la natura messianica, « anche per quegli stadi
dell’umano che sono natura », vale a dire, (il riferimento mi sembra comunque
oscuro), anche per quel modo di essere meramente naturale dell’uomo, immediato,
non riflesso, che non percepisce il carattere di trapasso della vita e
messianico della natura caos-cosmica, ed è quindi semplice naturalità, vita
all’insegna del carpe diem; in questa visione finale, sorta di
corruzione della visione finale di Faust morente, sarebbe mantenuta (e anzi si
realizzerebbe) l’esigenza di redenzione. Una felicità che all’uomo può giungere
solo da un Messia profano, ed essere quindi il prodotto di una redenzione che,
per forza di cose, distrugge tutto un mondo (la redenzione non può mai essere
parziale). Una redenzione che pone perciò in essere la totalità e nel massimo della
distruzione realizza il massimo di perfezione: e questo estremo, che è il
Nulla, si può avere solo nella natura poiché solo la natura annichila il
finito; allora quella felicità, che è essa stessa messianica perché
fatta balenare nella promessa del messia profano, nell’attesa dell’attuarsi del
mondo profano che tutto deve rinnovare, si realizza nella politica che, sola,
deve realizzare per Benjamin la natura: un triplice cerchio, un triste
connubio, ove natura e politica danno corpo alle aspettative di avvento
dell’individuo che non crede più né alla possibilità di una felicità autentica
né alla possibilità di una redenzione autentica, ossia religiosa.
Lo stravolgimento che l’uomo nuovo Benjamin fa dell’aspirazione
umana alla felicità e dell’esigenza umana di una salvezza morale, trova quindi
il suo compimento – dopo che l’esigenza di salvezza è stata assimilata
all’aspirazione alla felicità – nella riduzione finale della politica al puro
nichilismo. Aver voluto prendere le mosse dal supposto nesso tra teologia e
politica, aver voluto superare la prima nella seconda, aver creato infine una
teologia della politica, tutto ciò conduce al dominio del Nulla sul mondo. Né
serve opporre istintivamente il pensiero che il nulla, se è tale, non esiste:
il nulla infatti per Benjamin più che essenza è scopo, traguardo finale della
storia, è un nulla teleologico più che ontologico. Allora: la politica in cui
crede l’ateo rivoluzionario mantiene il mondo ma contemporaneamente lo dissolve
poiché essa aspira al nulla, alla morte cui il mondo deve giungere per
redimersi. Ma una filosofia del nulla, come quella di Benjamin, non è forse una
malattia del pensiero, il cui carattere il pensiero stesso non riesce più a
spiegare[25]?
Quella filosofia non risolve le domande che pone, poiché le stravolge in
paradossi cui essa stessa è paradossale risposta: e i paradossi, al pari delle
buone intenzioni, lastricano evidentemente le vie dell’inferno filosofico, nel
quale anche noi siamo stati rinchiusi, noi che vogliamo essere migliori e ci
crediamo liberi. Altrimenti, perché il nostro secolo sembra il tramonto di
tutto?
* Professore
incaricato nell’Università di Perugia. [Questo saggio è apparso sulla ‘Rivista
Internazionale di Filosofia del Diritto’, LV, Fasc. 3, 1978, pp. 583-629. Ringrazio la Direzione della Rivista per aver
gentilmente acconsentito alla presente riproduzione su internet. All’epoca ero professore incaricato di
Filosofia del Diritto nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di
Perugia. Avrei vinto il concorso a cattedra nell’estate del 1980].
[1] Cfr. Th.
W. Adorno, Einleitung zu Benjamins ‘Schriften’, 1955, ora in Id., Ueber Walter Benjamin,
Francoforte/M., 1970, pp. 33-51; pp. 37-38. Il volume raccoglie tutti gli
scritti commemorativi di Adorno su Benjamin, tra i quali il primo e più
importante è la Charakteristik Walter Benjamins, 1950, op. cit., pp.
11-29. Tra la letteratura che si occupa di Benjamin in generale, e che in
Germania comincia ad essere cospicua, ho tenuto presente: R. Tiedemann, Studien
zur Philosophie Walter Benjamins, Francoforte/M., 1965, specialmente la
parte III, pp. 103-136; lo studio di H. Arendt,
Walter Benjamin, apparso nella annata 1968 del ‘Merkur’; dal volume
collettaneo Zur Aktualität Walter Benjamins, Francoforte/M., 1972, i
contributi: H. Schweppenhäuser, Physiognomie
einer Physiognomikers, pp. 139-171; I. Habermas,
Bewusstmachende oder rettende Kritik – die Aktualität Walter Benjamins,
pp. 175-221. Inoltre, i due brevi studi di G. Scholem, che citerò nella
traduzione italiana, apparsa mentre stavo ultimando questo lavoro: G. Scholem, Walter Benjamin e il suo
angelo, Milano, 1978, tr. it. M.T. Mandalari, che comprende il
saggio-commemorazione del 1968 dal titolo Walter Benjamin. Infine: H. Guenther, Walter Benjamin. Zwischen
Marxismus und Theologie, Olten, 1974, sp. pp. 21-90; il volume collettaneo Materialen
zu Benjamins Thesen ‘Ueber den Begriff der Geschichte’. Beiträge and
Interpretationen, a cura di P. Bulthaup, Francoforte/M., 1975; P. Szondi, Hoffnung im Vergangenen.
Ueber Walter Benjamin, 1963, in Satz und Gegensatz. Sechs Essays, Francoforte/M.,
1976, pp. 79-97. Per ciò che riguarda il
« frammento teologico-politico » oggetto specifico del mio lavoro, se ne
trovano pochissimi cenni presso gli autori citati: per un elenco puntuale cfr.
la successiva nota n. 6. Per gli autori italiani, che si occupano però
prevalentemente del Benjamin critico letterario, cfr. M. Cacciari, Di alcuni motivi in Walter
Benjamin, in Nuova Corrente, 67º, 1975, pp. 209-423; F. Masini, Per una genealogia dei
significati e Melancholia illa allegorica, rist. in Brecht e Benjamin.
Scienza della letteratura e ermeneutica materialistica, Bari, 1977, pp.
107-112, 113-131. A titolo informativo, per porre in evidenza l’allargarsi
dell’interesse odierno su Benjamin, segnalo lo studio di S. Buck-Morss, The origin of negative
dialectics: Theodor W. Adorno, Walter Benjamin and The Frankfurt Institute,
Hassocks, Harvester, 1977 (§ 20.20).
[2] Il parallelo è tratto da Th. W. Adorno, Dialettica negativa,
tr. it., C.A. Donolo, Torino, 1970, Introduzione, p. 15. Nella citata Einleitung
alle Schriften di Benjamin, Adorno sostiene comunque che la filosofia di
Benjamin deve paragonarsi alla Neue Musik, per il suo carattere «
atematico » e « frammentario »: Ueber W. B., cit., p. 46. Risulta meno
chiaro allora il nesso, affermato da Adorno, tra Benjamin e romantici come
Novalis, Schlegel, ossia con il modo di fare filosofia per frammenti da parte
dei romantici: la musica romantica non è infatti atonale. In realtà lo stesso
Benjamin ha cercato di dare un fondamento teoretico al suo modo di pensare,
dichiarando che il « sistema » conserva al suo interno l’ordito di « mosaico »:
per cui anche i « trattati » devono rivelare l’intima tessitura molecolare del
pensiero. « Il valore dei frammenti di pensiero è tanto più decisivo quanto
meno essi sanno commisurarsi immediatamente con la concezione di fondo, e da
esso dipende lo splendore della rappresentazione nella stessa misura in cui
quello del mosaico dipende dalla qualità del vetro fuso. La relazione
dell’elaborazione micrologica con l’entità del tutto figurativa e intellettuale
esprime il fatto che il contenuto di verità può essere colto soltanto
penetrando con estrema precisione i particolari di un certo stato di cose » (Premessa
gnoseologica a W. Benjamin, Il
dramma barocco tedesco, tr. it., E. Filippini, Torino, 1971, p. 9 (Gesammelte
Schriften [=GS], a cura di Tiedemann e Schweppenhäuser, Francoforte/M., I,
1, pp. 208-209. Le GS hanno cominciato ad uscire negli anni Settanta).
Inoppugnabile mi sembra ad ogni modo l’affermazione di Scholem, secondo la
quale la personalità di Benjamin è tale da conferire « anche a suoi brevi
lavori o scritti un carattere frammentario e nel contempo definitivo » (Scholem, op. cit., p. 81). Forse
per questo Adorno dice che « Der Blick
seiner Philosophie ist medusisch » (op. cit., p. 17).
[3] Ciò che per gli antenati in filosofia, ossia
gli Hoelderlin, gli Hegel, è lavoro preparatorio, meditazione giovanile, ancora
sparsa, diviene poi forma definitiva del pensiero presso i discendenti. Si
paragonino, p.e., i manoscritti filosofici di Hoelderlin noti come Ueber das
Gesetz der Freiheit e Das Werden im Vergehen (Sämtlicbe Werke,
ed. Mieth, rist. Darmstadt, 1970, I, pp. 835-6; 900-5), con il modo di scrivere
di Adorno, di Benjamin. Il fiammeggiare isolato dell’intuizione di Hoelderlin
sembra costituire l’archetipo della monade speculativa della « costellazione » dei teorici critici. Il
processo stilistico di cui Nietzsche è stato il grande mediatore, ma in senso
negativo, dirompente, è ora finalmente compiuto all’inizio del XX secolo.
L’incapacità di pensare sistematicamente da parte dei discendenti ultimi si
nasconde però dietro l’alibi politico, l’ideologia, le cui virtù sono
evidentemente innumerevoli, come quelle delle erbe magiche.
[4] Quello stesso desiderio che si trova
espresso con grande chiarezza, determinazione e violenza intellettuale nelle
pagine del Marx degli anni Quaranta, impregnate di spirito antireligioso, di
titanismo prometeico, alla ricerca di una palingenesi totale e definitiva,
insomma di valori rivoluzionari intesi messianicamente, per i quali Marx non ha
ancora costruito il piedestallo « scientifico » e che comunque non ha poi certo
rinnegato, in nome di una più pacata, perché scientifica, visione della
rivoluzione. Nel numero 264 del 5 aprile 1849 della Neue Rheinische Zeitung,
egli scrive, ripensando all’esperienza del ’48, le note parole, ossia « che
ogni sollevazione rivoluzionaria, per quanto il suo scopo possa sembrare ancora
remoto dalla lotta di classe, deve naufragare fino a che la classe operaia
rivoluzionaria non riporti la vittoria, e che ogni riforma sociale resta
un’utopia, fino a che la rivoluzione proletaria e la controrivoluzione feudale
non si misurino con le armi in una guerra mondiale » (Lohnarbeit und
Kapital, in K. Marx, Werke,
ed. Lieher e B. Kautsky, Darmstad, 19753, VI, pp. 758-759).
[5] Circa il nesso tra Benjamin e C. Schmitt,
cfr. H. Günther, op. cit.,
p. 61, per l’uso che Benjamin fa, in chiave ermeneutica, della categoria
schmittiana della sovranità intesa dal punto di vista della « teologia politica
» nel cit. Il dramma barocco tedesco (tr. it., p. 51 ss.; GS, I, l, p.
245 ss). Interessante mi sembra l’osservazione di Fr.-A. Hausen-LöWe, Zwischen Gestern und Heute. Zu den
Schriften Walter Benjamins, recensione in Hochland, 49º, 1956-7, pp.
268-273, secondo la quale il frammento del Nostro intitolato Der destruktive
Charakter (GS, IV, 1, pp. 396-8; il testo è degli anni Trenta), non sarebbe
dispiaciuto ad uno Ernst Jünger (e magari, aggiungo, ad uno Ernst von Salomon).
Il giudizio di Scholem su questo frammento è invece diverso. Non ci vede
ovviamente un Benjamin per così dire « fascista » ma solo l’espressione di una
fase ulteriore della sua sensibilità per « l’elemento sovversivo »
presente nell’opera e nella individualità creatrici, elemento la cui scoperta
sarebbe pur sempre frutto della rielaborazione benjaminiana del messianesimo
ebraico, con la visione di distruzione creatrice che contiene (Scholem, op. cit., p. 106). In
ogni modo, nel frammento c’è una apologia della gioventù, della distruzione,
del movimento, del superomismo, tali da conferire al testo un’aura di tipo
futurista. « Il carattere distruttivo conosce una sola parola d’ordine: fare
largo; solo un’attività: far piazza pulita (räumen). Il suo bisogno di
aria fresca e spazio libero è più forte di ogni odio. Il carattere distruttivo
è giovane e allegro. Infatti il distruggere ringiovanisce poiché elimina dal
cammino le tracce della nostra propria età e si rasserena poiché il far piazza
pulita esprime una riduzione perfetta, un radicarsi della sua propria
condizione Il carattere distruttivo è
sempre alacre al lavoro (…) non ha immagini davanti agli occhi (…) è un segnale
(…) non si cura di essere capito (…) sta nel fronte dei tradizionalisti (…) non vede nulla di stabile e durevole (…).
Poiché vede sentieri dappertutto sta egli stesso sempre all’incrocio. Nessun
attimo può sapere cosa porterà il successivo. [Infine] il carattere distruttivo
non vive perché convinto che la vita abbia valore, bensi che non valga la pena
suicidarsi ». Simili affermazioni non hanno ovviamente impedito a Benjamin di
essere canonizzato tra i profeti della c.d. « Nuova Sinistra » tedesca. « La
fama postuma di Benjamin, iniziatasi con l’edizione degli Scritti curata da
Adorno [1955] e rafforzatasi sempre più negli anni Sessanta, rappresenta anche
un momento della politicizzazione dell’opposizione studentesca. Quest’ultima,
una volta restaurati nella Repubblica Federale Tedesca il capitalismo,
l’anticomunismo e le scienze dello spirito, si legò a Bloch e alla « teoria
critica », prima di riscoprire Marx, Lenin e le lotte di classe.
Provvisoriamente e non senza distorcimenti, Benjamin sembrò esser stato quasi
l’unico ad aver creato prospettive sovrastrutturali di tipo marxista, senza ipostatizzare
l’arte borghese e tradire la rivoluzione » (dalla. Vorbemerkung di B. Lindner al numero di ‘Text+Kritik’
dedicato a Benjamin nell’ottobre 1971: H. 31-32, pp. 1-2).
[6] Theologisch-politisches Fragment, GS, II, 1, pp. 203-204. ll manoscritto originale è privo di titolo
che, nella sua forma spinoziana, è dovuto ad Adorno, già nelle Schriften
di Benjamin. Incerta anche la data. Scholem, seguito da Tiedemann, la situa
all’inizio degli anni venti, quando Benjamin era verosimilmente sotto
l’inffusso del Geist der Utopie di Bloch, apparso nel 1918. Secondo
Adorno invece il testo potrebbe risalire al 1938, quando Benjamin era già
completamente comunista. Per ulteriori dettagli, cfr. l’apparato critico delle
GS, II, 3, pp. 946-949. Circa interpretazioni specifiche di questo, che è forse
uno dei testi più difficili di Benjamin, ho tenuto presente G. Kaiser, Benjamin. Adorno. Zwei
Studien, (1972 e 1973), Francoforte/M., 1974. Nel saggio Walter Benjamin; ‘
Geschichtsphilosophische Thesen ’, op. cit., pp. 1-77, l’autore tenta
un’analisi puntuale del frammento teologico-politico alle pp. 58-63,
dichiarando priva di valore, dal punto di vista puramente concettuale, la
disputa sulla sua datazione: il frammento si inquadrerebbe infatti
perfettamente nella problematica benjaminiana, così come è dato vederla
nell’ultima opera, le note « tesi » sul concetto della storia (op. cit.,
pp. 1-5). Riferimenti a concetti espressi nel frammento, ho trovato in: Adorno, Einleitung, cit., pp.
42-43; Tiedemann, op. cit.,
p. 135; H. Salzinger, Walter
Benjamin – Theologie der Revolution, in Kürbiskern, 4/68, pp.
629-647, sp. pp. 639-641; Schweppenhäuser,
op. cit., p. 151; Habermas,
op. cit., p. 135; Guenther,
op. cit., p. 51; H.-D. Kittsteiner,
Die ‘ Geschichtsphilosophische Thesen ’, in Materialen, cit., pp.
28-42, sp. nota a p. 41.
[7] La « mentalità teologica » di Benjamin,
assai pronunciata nei suoi anni giovanili (…) era – quasi d’istinto, avrei
detto – orientata su concetti ebraici. Le idee cristiane non hanno mai
esercitato un’attrazione su di lui. Era anzi scoperta la sua antipatia per il
neocattolicesimo, che imperversava allora in Germania e Francia tra gli
intellettuali ebrei » (Scholem, op.
cit., p. 103). Secondo Guenther,
determinante è stata l’influenza dell’ex-hegeliano e mistico ebreo Franz
Rosenzweig su Benjamin: op. cit., pp. 45-53. In Rosenzweig, ci sarebbe
già, tra l’altro, una negazione anarcoide e nichilistica dello Stato e
l’equazione, cara a Benjamin, diritto=violenza. (Sulla personalità di
Rosenzweig, cfr. la Introduzione all’edizione italiana di Remo Bodei,
all’opera di F. Rosenzweig, Hegel
e lo Stato, Bologna, 1976, tr. it., Künkler-Giavotto e Curino-Cerrato, pp.
IX-XXXIX. con un riferimento a Benjamin a p. XXXI).
[8] Circa la familiarità di Benjamin con
Hoelderlin, cfr. lo studio giovanile Zwei Gedichte von Friedrich
Hölderlin. « Dichtermut » - «
Blödigkeit », (1914-1915), GS, pp. l05-126, sp. p. 112 ss., p. 118 per
l’analisi del rapporto tra le due Ordnungen divina e umana e la
impossibilità di una loro autentica mediazione (secondo Benjamin), quella
mediazione cui aspirava invece Hoelderlin. Circa la sua conoscenza del primo
Hegel, Adorno nota come ne avesse avuto un’infarinatura (« den er kaum kannte
»: Charakteristik, cit., p. 22).
[9] In antitesi a questa mancanza
di distinzione, cfr. I. Donoso Cortes,
che è stato uno dei più attenti indagatori del nesso tra teologia e politica: «
Come la sottomissione ai precetti divini non porta con sé, né esplicitamente né
implicitamente l’istituzione di un Governo teocratico, così il riconoscimento,
in teoria e in pratica, delle verità fondamentali di cui è depositaria la
Chiesa, non porta con sé, né esplicitamente né implicitamente, la sua
dominazione negli affari temporali. La Chiesa giammai ha confuso queste due
cose, cosi differenti tra loro » (Risposta al Signor de Broglie, del
15.XI.1852, in Id., Il potere
cristiano, antologia, a cura di G. De Rosa, tr. L. Cipriani-Panunzio,
Brescia, 1964, p. 152). ll Cattolicesimo intende il « Regno di Dio » in senso
prettamente spirituale, realtà che è « dentro di noi »; e sarà quel
Regno a realizzarsi tramite il Messia. Benjamin, che esaspera la prospettiva
del messianesimo ebraico, intende l’avvento del Regno in termini di teocrazia,
una dimensione di governo e potere, di liberazione del Popolo, non
escatologica. Per il Cristiano invece la liberazione è concettualmente già
avvenuta nel momento in cui crede e vive in Cristo, che realizza il miracolo
del Regno già dentro di noi, in modo puramente spirituale. L’ebraismo di
Benjamin favorisce quindi la confusione tra teologia e teocrazia, aiuta a
concepire la seconda come sbocco ultimo e necessario della prima, che, del
resto, esprime un modo distorto di intendere la fede da parte dei non-credenti.
(Per un confronto tra Donoso e Benjamin, cfr. G. Mensching, Zeit und Fortschritt in den
geschichtsphilosophischen Thesen Walter Benjamins, in Materialien,
cit., pp. 170-190, 188-190, che nota in Benjamin l’uso di motivi del pensiero
della Restaurazione a fini rivoluzionari, il capovolgimento in senso rivoluzionario
del rapporto tra teologia e politica).
[10] Op. cit., p, 205. La via per giungere al vero Regno, all’umanità nuova, si
realizza in modo estatico, liberando la soggettività sommersa dalle nubi del
passato, della religione, del presente in generale, in primo luogo mediante la
musica. Bloch si affida ad un elemento dionisiaco, ad un neo-paganesimo non
propriamente nuovo, mediato dalle categorie dell’ineffabile pseudo-cristiano,
ossia blochiano: il gotico, l’interiorità, la caligine, la chiaroveggenza, la
luce-sole, ai limiti del feuilleton teoretico. « Se noi potessimo conoscerci,
verrebbe il nostro Capo e la musica è l’unica teurgia soggettiva. Essa ci
conduce nella stanza calda, profonda e gotica dell’interiorità, l’unica che
ancora riluce nella oscurità non chiara [in dem unklaren Dunkel]. E solo
da quella stanza può venire la luce che manda in rovina e fa esplodere tra di
loro il groviglio, l’arida potenza del semplice esistente, il crudo e
persecutorio brancolare della cecità demiurgica, quando non addirittura la bara
dell’essere stesso, abbandonato da Dio. Il Regno infatti è stato promesso non
ai morti ma ai vivi: e proprio questa nostra interiorità gotica, a mala pena
conosciuta, ma calda e profonda, si rivelerà al levar del sole come il regno celeste
rivelato » (op. cit., p. 208).
[11] Das Glück des antiken Menschen, 1916, GS, II, 1, pp. 126-129. Per il concetto della festa, cfr. però
l’articolo scritto nel 1913 per Der Anfang, pubblicazione del «
movimento della gioventù » di Gustav Wyneken, intitolato Gedanken ueber
Gerhart Hauptmanns Festspiel. « Nella battaglia non si guadagna combattendo
altro che la libertà, che è la necessità primaria nel mondo delle potenze.
Nella festa il giorno e l’attività inconsapevole possono giungere a coscienza
dello spirito, La festa celebra la pace come significato riposto della
lotta. La pace guadagnata combattendo conduce la cultura » (GS, II, 1, p. 59).
[12] Parco centrale, in W. Benjamin, Angelus
Novus. Saggi e frammenti, tr. it., A. Solmi, Torino, 1962, p. 136 (GS, I,
2, pp. 682-683). Per il rifemento a Nietzsche, cfr. quanto Benjamin scrive nel
giovanile dialogo Ueber die Religiosität dcr Gegenwart, 1913: « Credo
inoltre che abbiamo già avuto dei profeti: Tolstoi, Nietzsche, Strindberg, che
alla fine la nostra epoca, gravida d’avvenire, troverà un uomo nuovo» (GS, II,
1, p. 34).
[13] F. Nietzsche, Opere, ed. Colli-Montinari, V, II, La
gaia scienza, aforisma n. 337, p. 197. Cfr. anche l’aforisma n. 56, pp.
76-77 (Werke, ed. Kröner, V, pp. 259-260; p. 90).
[14] Tesi di filosofia della storia,
tesi II, in Angelus Novus, cit., pp. 72-73; GS,
I, 2, pp. 69-1-704. 693, Il tema della felicità è ovviamente ricorrente nel
pensiero di Beniamin. sin dall’epoca giovanile. Nello scritto Das
Dornröschen, 1911, impregnato della mistica della gioventù, egli nota come
« felicità e ideale siano spesso in contraddizione » (GS, II, 1, p. 11). Però,
scrive nel già citato dialogo sulla religiosità del presente, i tempi aspirano
« audacemente » alla felicità o meglio ad una nuova forma di « gioiosità » (ivi,
p. 18), che ha messo in crisi la religiosità tradizionale o « romantica ». La
religione del resto non ha nulla a che vedere con la felicità: « le religioni
sono prodotte dalla necessità e non dalla felicità » (ivi, p. 25; anche
p. 31). Una definizione della felicità in linea con il passo della Tesi, si
trova nei manoscritti del lavoro sui Passages parigini, « Was die
Wissenschaft ‘festgestellt’ hat, kann das Eingedenken modifizieren. Das
Eingedenken kann das Unabgeschlossene (das Glück) zu einem Abgeschlossenen und
das Abgescholssene (das Leid) zu einem Unabgeschlossenen machen. Das ist
Theologie; aber im Eingedenken machen wir eine Erfahrung, die uns verbietet,
die Geschichte grundsätzlich atheologisch zu begreifen, so wenig wir sie in
unmittelbar theologischen Begriffen zu schreiben versuchen würden » (cit. da Tiedermann, Studien, cit., p,
118). Cfr. anche la riffessione sulla « dialettica della felicità » in GS, III,
p. 357 (citata da Guenther, op.
cit., pp. 155-156) nonché la definizione in Einbahnstrasse: « Esser
felici significa potersi render conto di se stessi senza timore » (GS, IV, p.
113). Questa definizione, tutto sommato abbastanza anodina, non svincola
comunque la problematica della felicità da quella del mondo profano da
realizzare: infatti, come può l’uomo sapere chi veramente è se non nella
affermazione del senso (solo) profano della sua vita? (Per l’infelicità cfr.
invece una notazione di Zentralpark: « Man kann sagen: das Glück
durchschauerte ihm; vom Unglück kann man Analoges nicht sagen. Unglück kann im
Naturzustand nicht in uns eingehen » (GS, I, 2, pp. 658-659). Sul concetto di
felicità in Benjamin: Adorno, Charakteristik,
cit., p. 13; Tiedemann, op.
cit., p. 118 ss., 135 ss.; Scholem,
op. cit., p. 51 ss.; Habermas,
op. cit., pp. 199-200, 217-219; Kaiser,
op. cit., pp. 43 ss., 60 ss.; Guenther,
op. cit., pp. 155-156; K.R. Greffrath,
Der historische Materialist als dialektischer Historischer, in Materialien,
cit., pp. 193-230, 209 ss.
[15] Sul concetto, non meramente
letterario, dello « inespresso », cfr. il saggio su Goethe, Le affinità
elettive, in Angelus Novus, cit., pp. 212-213; GS, I, 1, pp.
180-181; e su quello affine dello « incomunieabile », cfr. Sulla lingua in
generale e sulla lingua degli uomini, in Angelus Novus, cit., pp.
51-67; GS, II, 1, p. 156, per la lingua come « Symbol des Nichtmitteilbaren ».
La felicità, una volta realizzatasi, dovrà render esplicito ciò che è rimasto
finora inespresso e incomunicabile, cui la lingua non è riuscita a dar corpo.
La lingua come la vita, la lingua non sorretta da pensieri o dominata da
pensieri che non possono esprimersi, inondare la prassi. Si profila così in
Benjamin, a mio avviso, una mistica dell’inesprimibile, una eterna scontentezza
che nessuna realtà potrà mai soddisfare. Se si crede, con Benjamin, che solo
ciò che non si è potuto esprimere, per colpa di altri, potrà dare un giorno
senso alla vita, allora bisogna per l’appunto pensare una redenzione totale e
profana del vivente come unica possibilità per l’inespresso e l’incomunicabile
di farsi valere: come a dire, distruggiamo tutto e chi finora ha taciuto si
metterà di colpo a parlare (o a uccidere?). La redenzione redimerà il silenzio,
non ci sarà più il silenzio che tutto consuma. (Il nesso tra silenzio e dialogo
è analizzato da Benjamin già nello scritto giovanile Methaphysik der Jugend,
GS, II, 1, pp. 91-104, nella parte intitolata Das Gespräch, pp. 91-96).
Evidentemente, anche per Benjamin vale la massima conclusiva del Tractatus
di Wittgestein: « Wovon man nicht sprechen kann, darüber muss man schweigen »,
ma solo fino al momento della redenzione profana. Nell’attesa, felicità non c’è
mai e la vita non è mai bella. Anche Aleksandr Blok – erano quelli anni fatali
– esprime un’aspettativa universale, la convinzione che l’inespresso e il
non-accaduto avranno luogo, sullo slancio della rivoluzione, ma con quanta
maggior semplicità, bontà e ingenua freschezza rispetto a Benjamin: « Val la
pena di vivere solo per pretendere dalla vita smisurate esigenze: tutto o
niente; attendere l’inatteso; credere non in ‘ ciò che non esiste al mondo ’,
ma in ciò che dovrebbe esistervi, anche se per ora non c’è e per lungo tempo
non ei sarà. Ma la vita ce lo renderà, perché è bella » (Intelligencja
e rivoluzione, 1918, tr. it. Olsufieva e Michaelles, nell’antologia dallo
stesso titolo, Milano, 1978, p. 64).
[16] Cfr. le Tesi sul concetto
della storia (o di filosofia della storia). Oltre all’ampia letteratura
tedesca, raccolta nel volume dei Materialien, cit., mi permetto rinviare
al mio saggio: P. Pasqualucci, La
rivoluzione come messia. Considerazioni sulla filosofia politica di Benjamin,
in Trimestre, X, 1-2, 1977, pp. 67-112.
[17] Il passo di Shakespeare recita:
« But thought’s the slave of life, / and life time’s fool; / And time, that
takes survey of all the world, / Must have a stop » (Henry IV, Pt I, act
V).
[18] Circa questo essere categoria
del Profano come « seines leisesten Nahens » del Regno, cfr. Bloch per un
accostamento formale, quando scrive che nel passato imperava una
rappresentazione mitica delle « cose esteriori », impregnate di spiriti,
angeli: dominarono « die bunte Wolken des nächtlichen Himmels und die ganze
Nähe der anderen Welt » (Geist der Utopie, cit., p. 202). Per
l’interpretazione della categoria della vicinanza, cfr. Schweppenhäuser, op. cit., pp. 151-152; Guenther, op. cit., p. 51 (che
sostiene l’origine rosenzweighiana dell’immagine); Kaiser, op. cit., p. 65. Tuttavia, la « vicinanza »
del profano al Regno può essere intesa secondo un’ulteriore sfumatura, se si
interpreta in un certo modo l’affermazione sopra vista secondo la quale « l’ordinamento profano …
può promuovere la venuta del regno mcssianico ». Se ci si attiene rigidamente
al concetto che il regno messianico « è promosso » da quello profano, il primo
non è quindi una forza reale. A maggior ragione bisogna allora evitare che la
liberazione profana corra il rischio di essere intesa in senso « religioso »,
come è avvenuto e può avvenire nei movimenti politici popolari (questo è
successo anche nella Rivoluzione Russa). La sua « vicinanza » alla prospettiva
della liberazione religiosa non deve quindi trarre in inganno, bisogna sapere
che si tratta solo di una vicinanza, una prossimità che non incide sulla
natura di ciò che è prossimo, non lo muta. Forse anche per questo, Benjamin,
riprendendo Nietzsche, si preoccupa poi di affermare che la natura, con il suo
« ritmo di eterno tramontare » è la sola e vera realtà « messianica ». In ogni
caso, l’ateismo di Benjamin appare sempre radicale, perché sembra preoccuparsi
di eliminare anche l’aura «religiosa » in senso «messianico », che può
rivestire l’impresa di liberazione profana. Quest’ultima dovrà comprendere la
felicità anche nel momento del suo tramontare ciclico, senza commettere
l’errore di attribuire al « tramonto » caratteri di infelicità e sofferenza che
riconducono fatalmente all’idea del Regno, a negare il senso della visione
profana della storia.
[19] Cfr. Hegel, Die Vernunft in der Geschichte, ed.
Hoffmeister, Amburgo, l970³: « So ist der Geist seiner Natur nach bei sich
selbst, oder es ist frei »; «Frei bin ich, wenn ich bei mir selbst bin » (pp.
54 e 55; traduzione italiana: Lezioni sulla filosofia della storia,
Firenze, 1963, I, pp. 37 e 38).
[20] Sul simbolo di se stesso come
Angelus Satana (= Agesilaus Santander), cfr. la decrittazione del simbolo in Scholem, op. cit., p. 17 ss. Per
una collocazione del pensiero di Benjamin nell’ambito del discorso
contemporaneo sulla violenza, cfr. S. Cotta,
Perché la violenza? Una interpretazione filosofica, L’Aquila, 1978, p.
105 ss.
[21] L’Idiota di Dostoevskij, 1920, in Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura,
tr. A. Marietti, Torino, 1973, pp. 76-77; GS, II, 1, pp. 239-241.
[22] Circa l’idea di eternità è da
notare un riferimento a Valéry. « Valéry conclude la sua riflessione con queste
parole: ‘ È come se il venir meno negli spiriti dell’idea di eternità
coincidesse con la crescente avversione per i lavori lunghi e pazienti ’. Il
pensiero dell’eternità ha sempre avuto la sua fonte essenziale nella morte. Se
quell’idea sparisce, possiamo inferirne una trasformazione nell’aspetto della
morte » (Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Angelus
Novus, cit., p. 245; GS, II, 2, p. 449). Secondo Adorno, la mitologia
dell’eternità-natura può essere venuta a Benjamin da Blanqui, che in prigione
aveva cominciato a scrivere un libro intitolato L’éternité par les astres,
che anticiperebbe la dottrina nietzschiana dell’eterno ritorno dell’uguale:
cfr. Charakteristik, cit., p. 25. Sul punto, cfr. anche Tiedemann, Studien, cit., p. 105.
Cfr. del resto l’accostamento di Benjamin fra Blanqui, Baudelaire e Nietzsche
nella note sparse di Zentralpark, GS, I, 2, p. 673.
[23] Verso la fine di questo scritto
Benjamin afferma che « tutto il movimento del libro assomiglia a un immane
inabissarsi in un cratere. Poiché mancano la natura e l’infanzia, l’umanità può
essere raggiunta solo nella catastrofe, con l’autodistruzione» (op. cit.,
p. 77; GS, cit., p. 240). Natura e infanzia, ovvero la gioventù. Benjamin
riafferma qui il mito della gioventù, liberata e liberatrice, che lo aveva
affascinato all’epoca della sua appartenenza alla Jugendbewegung, quando
scriveva: « Wir leben im Zeitalter des Sozialismus, der Frauenbewegung, des
Verkehrs, des Individualismus. Gehen wir nicht dem Zeitalter der Jugend
entgegen? » (GS, II, 1, p. 9). Il concetto della gioventù come categoria
rivoluzionaria dcll’esistenza, elemento apportatore di nuovi valori, si trova
espresso in modo impressionante nello scritto del 1913-1914: Romantik. Eine
nicht gehaltene Rede an die Schuljugend, GS, II, l, pp. 42-47, apparso
sullo Anfang. Benjamin rigetta in esso il « romanticismo » insegnato a
scuola ossia la cultura tradizionale, classica e idealistica, da « scienza
dello spirito ». A questa cultura, Benjamin contrappone l’insegnamento di
Nietzsche, la cui « Mission unter der Schuljugend » è stata certamente quella
di richiamare i giovani a se stessi, al vero spirito, alla sincerità. « Noi,
noi che con Nietzsche volemmo essere aristocratici, diversi, veri, belli; per
noi la verità non fu ordinamento, non ci fu una scuola della verità »
(...). « Nessuno Schiller e nessun Hoelderlin ci sono di aiuto. Nessuna
gioventù ci è d’aiuto quando perde tempo con i suoi amati poeti e lascia che la
scuola sia solo scuola ». Per cui vero « Romanticismo vuol dire allora: volontà
attuale di realizzare una nuova gioventù e una nuova scuola » (lo scritto Metaphysik
der Jugend, cit., non tratta in realtà del concetto della gioventù o della
sua missione, ampiamente esposta negli articoli e scritti raccolti in GS, II,
1, pp. 9-87, tutti anteriori alla I g.m. Però ancora nel 1920, come dimostra lo
scritto sull’Idiota, Benjamin è in linea con i suoi ideali anteguerra).
[24] Tra gli interpreti, Scholem
insiste più di ogni altro sulla melanconia come componente determinante
della spiritualità di Benjamin e quindi di alcuni suoi concetti base: cfr. op.
cit., pp. 52 ss., 63.
[25] Gli elementi che confluiscono
nel nichilismo di Benjamin sono indubbiamente molteplici: Nietzsche; il
surrealismo (Tiedemann, op.
cit., p. 120); il materialismo; una certa lettura del Tao-te-king.
Circa quest’ultimo confrontare il riferimento al Tao come « quel nulla che
rende servibile il qualcosa » (Franz Kafka, in Angelus Novus,
cit., p. 286; GS, II, 2, p. 435). I capitoli del Tao-te-king che
autorizzano, sia pure con molte riserve, una filosofia del non-essere e del
nulla, possono essere a mio avviso i seguenti: I, II, IV, XI (cfr. tr. it. a
cura di Paolo Siao Sci-Yi, Bari, 1947²). Sull’affermazione del nichilismo nel
frammento teologico-politico, cfr. Kaiser,
op. cit., p. 63.
Felicità
messianica
(Interpretazione
del frammento teologico-politico di Benjamin)
di
Paolo Pasqualucci (*)
«
Anche nel considerare la storia si può
assumere
la felicità come punto di
vista:
ma la storia non è il terreno
della
felicità. I periodi di felicità sono
in
essa pagine vuote » (Hegel).
«
Urlar li fa la pioggia come cani;
De
l’un dei lati fanno al’altro schermo:
Volgonsi
spesso i miseri profani ».
(Inferno,
VI, 19-21).
Aforismi, frammenti visionari, forme speculative decadenti.
Il frammento è per definizione qualcosa di parziale, anticipazione
o riffessione postuma, parte di un pensiero che raggiunge altrove la sua
pienezza. Da Nietzsche in poi la logica del frammento ha però cessato di essere
una logica dell’incompiuto. Il frammento viene consapevolmente costruito come
tale, microcosmo speculativo che non si ritiene inferiore al cosmo vero e
proprio. La mancanza di fede in un ordine universale delle cose, l’intuizione
di un disordine, costituiscono anzi la premessa del pensare per frammenti, che
oppone al carattere provvisorio della realtà la sicurezza contenuta nella
sentenza dell’aforisma. ll frammento diviene infatti aforisma, nel quale
trionfa il punto di vista di chi ha già giudicato il mondo e crede di essere
dalla parte del vero. Poiché l’aforisma non spiega ma illumina, nel senso che
deve essere accolto come illuminazione isolata ma totale e definitiva, nel buio
circostante: la realtà, la sua notte, viene squarciata da lampi che rivelano le
piccole solide isole del pensiero. Ma questa forma di pensiero non è solo il
tributo pagato ad una tradizione. Come nota Adorno, Benjamin si colloca nel
modo di far filosofia che risale a Novalis, Schlegel, però anche i suoi lavori
di ampio respiro conservano un’intima struttura frammentaria, sono un mosaico,
un universo inestricabile di tessere[1]. Se questa constatazione è
vera (e la si potrebbe applicare allo stesso Adorno), ciò significa che la
parte si è impadronita del tutto, che la forma frammentaria si è impadronita
dell’architettura del sistema, composto ora, per così dire, di quanta di
pensiero, duri e impenetrabili, persi in distanze abissali. L’insistenza di
Benjamin sull’immagine della «
costellazione » come sostitutiva del « sistema », dà appunto la misura della
mancanza di armonia, dei continui salti cui il pensiero ora si
abbandona. I frammenti non possono costituire un sistema ma solo una
costellazione, i cui enormi spazi sono rappresentati da finzioni, ossia
allegorie. Benjamin è, notoriamente, un pensatore criptico, un inventore di
immagini. Da qui la strana sensazione di chi ne affronta i testi,
quellfimpressione di un’intuizione che subito si inaridisce, si chiude nel
tessuto notturno dell’allegoria, che pure ha permesso all’intuizione stessa di
prender forma. Una sensazione simile a quella provocata dalla musica atonale,
quando dal caos dei suoni emerge un tema che però viene subito accuratamente
abbandonato: l’apparire e lo sparire subitaneo hanno voluto costituire un’allegoria
di ciò che doveva essere, della pienezza musicale che si ricerca al di là dei
valori conosciuti, ma che non esiste, evidentemente, senza di essi, per cui ci
si deve accontentare di un surrogato, di una cifra che faccia cogliere
l’ineffabile, il non detto, l’inespresso: al limite, il silenzio. La musica
atonale è forse mistica ma di un misticismo stridente e ambiguo come può
esserlo quello dell’uomo profano, sfociante nell’indefinito, nella
confusione dei valori, nell’accenno perpetuo, a suo agio nelle paludi
dell’anima: esemplari, in questo senso, per il fascino esercitato su Benjamin
un poeta-precursore come Baudelaire e uno scrittore per l’appunto ambiguamento
« mistico » come Kafka.
Secondo Adorno, la speculazione
dovrebbe procedere come la musica. « Anche la musica, e ogni arte, non vede
subito adempiuto l’impulso, che di volta in volta anima la prima battuta, bensì
solo nell’articolazione dello sviluppo. In questo senso, per quanto essa stessa
sia apparenza come totalità, critica l’apparenza, quella della presenza del
contenuto qui e ora. Tale mediazione si addice non meno alla filosofia ». A me
sembra che parte cospicua del pensiero tedesco attuale, con la sua passione per
il frammento compiuto, in musica e filosofia sia rimasto invece all’impulso
della « prima battuta », perché proprio questo è uno dei risultati del pensare
per frammenti: restare all’inizio, all’intuizione che si trasforma poi in
allegoria, ma non procede, manca di vero sviluppo, di vita compiuta[2]. Da questo punto di vista, l’apoteosi
filosofico-musicale dell’Aforisma rappresenta uno degli aspetti della decadenza
dello spirito tedesco rispetto a se stesso, a quello che era al tempo
dei Novalis, degli Schlegel, di Goethe, dell’Idealismo, della musica di
Beethoven. Una decadenza che ha inficiato sia il modo di intendere la parte che
quello di intendere il tutto poiché né gli aforismi di Benjamin sono
paragonabili a quelli di Novalis o ai frammenti filosofici di Hölderlin, né le
grandi costruzioni di un Mahler, un Heidegger, un Mann sono certo paragonabili
a quelle di Hegel, Beethoven, Goethe. I sistemi più che slanciarsi verso l’alto
si dispongono a strati massicci e petrosi, corrosi da acque sotterranee, dai
quali emergono come spaventi il casto Giuseppe o l’essere di Parmenide e nei
quali il pensiero sembra stemperarsi in un magma lenticolare. Da un lato lo
spirito occidentale sembra perdere il senso della misura, quando percorre
all’infinito e con tormento i sentieri dell’anima, del ricordo, del mito, del
tempo: forse è il peso ormai enorme del passato che trasforma le grandi imprese
filosofiche e narrative in labirinti inestricabili. Dall’altro, si fissa
sull’immagine subitanea, quella che per gli antenati era solo materia
preparatoria per il lavoro dello spirito: l’assenza di misura si fa qui vedere
nella trasformazione del provvisorio in definitivo[3].
Il pensiero non sembra più capace di
costruire veri sistemi di idee, ha perduto la dimensione architettonica ma non
rinuncia alla sua hybris, che anzi ne risulta accresciuta: l’epigramma,
l’aforisma esprimono una libertà assoluta, che esime dall’onere di fondare ciò
che si dice, di sostenere il pensiero con il pensiero. L’onere della prova
spetta all’avversario, al lettore, la micrologica del frammento non ne ha alcun
bisogno. È Nietzsche che ha introdotto questo modo di sentire nel frammento e
ha dato all’aforisma il tono apocalittico così caro agli epigoni; è Nietzsche,
e non il Preromantico, l’antenato vero di Benjamin, come di Adorno e degli
altri. Senza Nietzsche tutti costoro sarebbero forse stati onesti parroci dello
spirito. Nietzsche ha introdotto nel pensiero una violenza prima sconosciuta:
non lascia mai spazio all’avversario; speculativamente, le sue opere non sono
che un bagno di sangue. La forma frammentaria esprime perciò in maniera finita
qualcosa di indefinito, un desiderio indeterminato ma violento di superare
l’uomo, il mondo, la vita, di far apparire quel
nuovo cui l’animo contemporaneo a torto o a ragione
aspira[4]. Come profeta di un uomo
nuovo necessariamente inconoscibile, indefinibile – si sa solo cosa non deve
essere – Benjamin è figlio d’arte ovvero di Nietzsche e della sua forma
speculativa, la parva philosophia: è un irrazionalista e mistico
materialista, specie diffusa nel nostro tempo, che, in maniera del tutto
coerente, tende a risolvere il suo pensiero in un marxismo d’intuito,
messianico e apocalittico, distruttore. Il nichilismo di Benjamin, nel quale
conffuiscono, fatte le debite proporzioni, la violenza speculativa nietzschiana
e quella di Marx, risulta quindi in maniera non frammentaria dai suoi ben
costruiti frammenti, tra i quali assume un particolare rilievo quello detto «
teologico-politico ». Esso ha un significato emblematico. Si tratta di un testo
ermetico e religioso, della religione degli atei, la politica, dalla
quale molti si attendono ancora oggi salvezza poiché gli atei, che
dall’Illuminismo in poi formano l’opinione dell’Occidente, non credono che essa
abbia tutto corrotto, anche le sue proprie categorie. Vale a dire: Benjamin,
come pensatore « di sinistra » persegue una concezione teologica della
politica, della politica come teologia, costituendo così il pendant di
chi, come Carl Schmitt, elaborava in quegli stessi anni una « teologia politica
» come pensatore « di destra ». Ma, per
l’appunto, c’è da chiedersi se l’irrazionalismo che domina nelle concezioni
politiche del XX secolo, non sia tale da andare al di là delle usuali
distinzioni di « destra » e « sinistra », sì da far apparire Destra e Sinistra
i relitti storici che sono, ovvero espressioni di un unico cosmico e universale
Nichilismo[5].
Il frammento teologico-politico di Walter Benjamin
« Solo il Messia in persona porta a compimento tutto l’accadere
storico, vale a dire nel senso che solo lui ne scioglie, completa, crea il
rapporto con la sfera messianica vera e propria. Quindi niente di ciò che è
storia può volersi rapportare da sé fuori di sé, alla dimensione messianica. Il
Regno di Dio non è allora lo scopo della Dynamis storica: esso non può
essere posto come fine. Dal punto di vista della storia non è fine ma la fine.
Quindi l’ordinamento di ciò che è profano non può essere costruito pensando al
Regno di Dio: per questo la teocrazia non ha alcun significato politico ma solo
religioso. Il merito più alto del Geist der Utopie di Bloch consiste
nell’aver negato con la massima intensità il significato politico della
teocrazia.
L’ordinamento di ciò che è profano
deve costruirsi in base alla idea della felicità. Il rapporto di questo
ordinamento con il Messianico è uno dei brocardi fondamentali della filosofia
della storia: per questo in base a quel rapporto è possibile una concezione
mistica della storia, il cui problema può esser colto in un’immagine. Si
rappresenti con un vettore lo scopo verso il quale tende la Dynamis del Profano
e con un altro vettore la direzione dell’intensità messianica. Si vedrà che la
ricerca della felicità della libera umanità cercherà di sottrarsi alla
direzione messianica; però, come una forza sul suo cammino può promuoverne
un’altra che sia diretta in senso opposto, così anche l’ordinarnento profano
del Profano può promuovere la venuta del regno messianico. Ciò che è profano
non è però una categoria del Regno ma è categoria – una delle più vere – della
sua più silenziosa vicinanza. Poiché nella felicità tutto ciò che è terreno
aspira al suo tramonto, ma solo nella felicità il tramonto gli è dato
sicuramente. Mentre al contrario l’immediata intensità messianica del cuore,
dell’interiorità dell’uomo singolo sopravvive per opera dell’infelicità intesa
come sofferenza. Alla restitutio in integrum spirituale che conduce
all’immortalità, ne corrisponde una mondana, che conduce nell’eternità di un
tramonto e il ritmo di questo eterno trapassare, di questo regno mondano che
trapassa nella sua totalità, spaziale e temporale, il ritmo della natura
messianica è la felicità. Poiché la natura, nel suo totale ed eterno
trapassare, è messianica.
Aspirare alla compiutezza di ciò che è
trapassato, anche per quegli stadi dell’umano che sono natura, è il compito
della politica mondiale, il cui metodo deve chiamarsi nichilismo »[6].
I.
Il punto di partenza degli aforismi di
Benjamin è dato da una definizione dell’agire messianico quale espressione di
una possibilità taumaturgica nei confronti del finito, possibilità che non
inerisce al finito ma al soggetto che lo trasfigura. A Benjamin però non
interessa determinare la natura del Messia come persona, non importa sapere chi
sia ma come agisca nei confronti della storia. L’agire messianico, nel
quale spera la fede, risolve il mistero del finito, elevandolo purificato
all’immortalità. Il Messia è un tramite, Colui che media tra noi e il Padre, ed
è necessariamente persona: non si tratta infatti di un semplice concetto ma del
realizzarsi di una aspettativa di salvezza per opera di un individuo concreto,
per i Cristiani gia venuto nel mondo. Per Benjamin però il Messia – il Messia
che egli ascrive alla teologia – sembra essere essenzialmente un concetto: il
concetto di un’azione, che ha nome ma non figura, che non si incarna nella
persona salvifica. Benjamin non dice mai « Cristo » ma sempre e solo « Messia
». Egli si confronta con la possibilità di una risoluzione messianica del
finito espressa nel Vecchio Testamento: la fede nel Messia rivelato, la cui
morte da uomo ha già giudicato il mondo, gli è estranea. Benjamin pensa a un
Messia che non è ancora venuto e proprio per questo può portare a compimento
l’accadere storico: il Messia è quindi una possibilità, che si tratta di
negare, quando sia l’espressione di una rappresentazione religiosa del mondo
umano, il portato di una distorsione teologica.
L’accettazione-ripulsa dell’immagine del Messia, che il pensiero
di Benjamin tende a secolarizzare, coinvolge oggettivamente sia ebraismo che
cristianesimo, anche se, dal punto di vista di Benjamin, il discorso è condotto
solo nei confronti dell’ebraismo[7]. Il legame con la tradizione
religiosa degli avi presenta del resto il vantaggio di semplificare il problema
del senso messianico della storia. Che storia è mai quella sottoposta
all’Avvento di un Messia che è già venuto? Quale inganno si nasconde in essa,
quale superiore principio di follia? Ma i Cristiani sono per l’appunto folli
rispetto alla Legge e al pensiero razionalistico (1 Cor., 17-31).
Benjamin è un materialista mistico ma razionalista come deve cercare di esserlo
un figlio del XX secolo: muovendo da una concezione razionale della storia è
ancora accettabile l’idea di un Avvento futuro, capace di interrompere la
dialettica (apparentemente) lineare dello sviluppo storico, poiché il concetto dell’Avvento
che chiude cronologicamente i tempi è coerente al principio di causalità e alle
altre categorie usuali del pensiero. Si può persino arrivare a concepire
l’Avvento come risultato inevitabile della natura dello sviluppo storico,
risolverlo nell’apocalisse rivoluzionaria. Se il Messia è un’eterna possibilità
del mondo, se deve venire a fondare un regno spirituale e mondano, perché non
può aver luogo un messia del tutto profano, nato dal cuore del mondo? Se si
crede invece al Messia che è già venuto, il pensiero è assalito dal dubbio che
tutta la storia sia stata una storia sbagliata, il cui errore può essere
risolto solo dal giudizio di Colui che è presente al mondo ma assiste in
silenzio alle sue opere di sangue. « Non me ne sono io rimasto in silenzio e da
gran tempo? / Per questo tu non mi temi più » (Isaia, 57,11, tr. Luzzi).
Questo dubbio non assale Benjamin, per il quale la storia è sbagliata solo per
permettere al pensiero di affermarne l’inevitabile redenzione profana, un
risultato apocalittico ma umano, coerente con la guerra civile – la lotta di
classe universale – che ha permesso alla storia di progredire fino alla sua
soluzione finale. (Questa problematica è affrontata da Benjamin nelle tesi «
Sul concetto della storia » o « Tesi di filosofia della storia »).
Qual è dunque il nesso tra storia e
Messia? Il Messia della fede opera dall’esterno rispetto alla realtà storica.
Egli non compie i fatti storici come tali, non è nell’accadere
spazio-temporale, sensibile, che chiamiamo storia. Secondo Benjamin, l’accadere
storico non può essere come tale messianico. Se l’accadere possiede una
ragion d’essere, una logica, una razionalità, questa rimanda all’ordine storico
stesso non alla sua trascendenza. Si hanno quindi due piani tra loro
incomunicabili, quello della storia e quello messianico: das Historische
e das Messianische, che si fronteggiano come due nature opposte,
impenetrabili, che però non possono essere ugualmente vere. Infatti il
Messianico, il modo di essere messianico, il Regno, non trapassa per sé nel suo
opposto, in ciò che è fatto e quindi è vincolato allo spazio e al
tempo, alla sofferenza e alla morte. Nell’isolamento del primo c’è già una
perdita di verità, una mancanza di pienezza.
È evidente, per Benjamin, che i fatti umani non possano pretendere
di avere un significato messianico, che può apparire solo alla fine dei tempi
ma non per opera dei fatti stessi, bensì per intervento del Messia, il quale
svela il senso riposto di ogni storia accaduta. Per questo il Messia, dice Benjamin,
« conduce a compimento » la fatticità ossia ne svela il nesso con la sfera
messianica, con ciò che non si vede e non si può vedere ma solo credere. Il
Messia è allora colui che, con la sua azione individuale, demiurgica, dà il
tocco finale, nel senso della trascendenza, a tutto un mondo: è soggetto,
qualificato dalla funzione non da una essenza o caratteristica
spazio-temporale, dall’esser stato quella persona reale, che ha
testimoniato la Verità, l’Essenza; soggetto che pone in relazione due mondi
eterodossi risolvendo l’uno nell’altro. In questo senso è un mediatore, nel
senso hölderliniano e giovane-hegeliano, anche se privato di ogni nostalgia
classica, di ogni spiritualità filo-ellenica; colui che concilia, anche se dal suo
punto di vista, la terra e il cielo, altrimenti inconciliabili, in modo del
tutto gratuito, perché vuole, non perché sia necessario[8].
Nel definire il modo di operare del
Messia, Benjamin usa tre verbi, in senso apparentemente ripetitivo. In realtà
essi esprimono una gradazione che può rappresentarsi nel seguente modo: a) il
Messia « libera » il rapporto
tra i fatti e l’essenza messianica, lo scioglie dai suoi ceppi, lo rende
evidente; b) perciò « completa » i fatti dal suo proprio punto di vista di
artefice (messianico), che non coincide con quello del mondo, dà loro un
significato finale ultimo, Voll-endung; c) in tal modo il Messia crea,
poiché ha creato, fatto venire in essere ciò che in sé non esiste nei fatti,
ovvero la loro relazione con la sfera messianica. Perciò il Messia è un artifex
che, agendo da artista, crea dal nulla, nel senso che dà alla realtà un
significato che è tale, esiste, solo se si ha fede nel Messia stesso, nella sua
capacità infinita di ricreare il mondo.
Il significato di ciò che è, è quindi il Messia che lo crea: la
fede deve intendere in tal modo il senso della realtà poiché sarà il Messia, e
non la vita stessa, a svelarlo. Il mondo costituisce il segreto del Messia e il
soggetto si affida con profonda serietà all’attesa; secondo la nota formulazione
di Maimonide: « credo fermamente nella venuta del Messia, e sebbene egli tardi,
io attendo ogni giorno la sua venuta ». Il carattere di ogni messianesimo
religioso risulta dal fatto che esso dipende necessariamente da una fede nella presenza
di Colui che si rivelerà come Messia o che si è già rivelato come Messia: anche
per gli Ebrei, Egli non è ancora venuto ma non è assente al mondo. Forse
che l’Eterno è assente alla creatura cui non si è ancora rivelato? Solo la
fede, ossia il non-razionale per eccellenza, può far dunque pensare ad un
significato finale del mondo, che sarà svelato da un soggetto, il quale verrà a
chiudere i tempi con opera di giudizio e salvezza. Per la fede l’uomo non può
giudicarsi né salvarsi, nè quindi comprendersi mai appieno, è esterno a se
stesso, il suo proprio nemico, la sua propria morte.
Ma il Regno di Dio non esiste: secondo
Benjamin la ragione non trova nulla, nella storia, che rimandi oggettivamente
ad esso: è un regno che si lascia dedurre da principi trascendenti, non indurre
dai fatti. Il regno dei fatti storici non può volersi innalzare alla dimensione
messianica e « il regno di Dio » non può costituire lo scopo della « forza »
che agisce nella storia. Proprio per essere una forza cosmica, che cioè agisce
costruendo un mondo ordinato (un cosmo, ordine) di relazioni e fatti, la
Dynamis che opera nella storia, che è la storia, non può desiderare di
innalzarsi al di la di sé, di snaturarsi, di risolversi nel nulla. Il « regno
di Dio »» non può rappresentare il fine, che sarebbe la morte della
storia. Si tratterebbe allora di una fine che è in contraddizione con il
fine, con lo scopo che gli uomini perseguono attraverso la storia, una fine
che è morte senza ritorno, annichilimento dell’« ordinamento profano » che gli
uomini costruiscono nel mondo.
Benjamin coglie con innata
sensibilità vetero-testamentaria il carattere apocalittico dell’immagine del
regno di Dio. Tuttavia egli ne espunge, da vero ateo, qualsiasi prospettiva di
salvezza e quindi ogni autentico significato, ogni significato di liberazione
trascendente, eterna: resta solo la distruzione, l’ineluttabilità di una
fine, alla quale il mondo degli individui sensibili non può voler aspirare:
arriva, la morte arriva ma non è accettata. Rappresentarsi il Regno di Dio come
pura distruzione di quello mondano e quindi in una luce offuscata dall’ombra
del mondo distrutto, è anche coerente con la definizione iniziale del Messia,
la cui opera viene presentata come qualcosa di gratuito e immotivato, che
esiste solo perché (e se) si vuole esista un Messia. Il Messia è l’estraneo, lo
Straniero, che può essere manifestato all’improvviso, ponendo la parola fine
alla Storia ma senza redimerla, se è vero che questa fine è intesa da Benjamin
come morte e corrompimento, contraddizione radicale e immotivata di ogni
aspirazione umana. L’uomo, perché deve aver fine e per opera di Qualcuno che
secondo la ragione non c’è?
Il punto di partenza del ragionamento di Benjamin ne spiega perciò
quello di arrivo. Perché « ciò che è storico » non potrebbe volersi innalzare
ad una dimensione messianica? Benjamin non lo dice, perché la sua esclusione
del « regno di Dio » dagli scopi dell’umanità, è ricavata non da una
considerazione del carattere oggettivo della storia ma dalla definizione
pregiudiziale del Messia come elemento esterno ed estraneo al processo storico,
arbitrario in senso assoluto. L’avversione per il Messia, e per il Cristo come
Messia, tipica del pensiero moderno, coinvolge anche il « regno di Dio » e il
suo rapporto alla storia: anche chi non crede in Cristo condanna il Regno che
fonda la speranza messianica. Da questa premessa di avversione discendono tutte
le conseguenze. La dimostrazione dell’incompatibilità assoluta tra mondo
dell’uomo e regno di Dio è perciò il risultato di una semplificazione
concettuale, ossia è costruita sulla base di un elemento esterno: la figura del
Messia, definita a priori in modo da giustificare l’incompatibilità che si vuole poi dimostrare.
Vale a dire: il concetto del Messia, come immotivato esser-altro del
trascendente, giustifica la separazione (arbitraria) tra cielo e terra, che a
sua volta giustifica la necessità di un Messia, dello straniero celeste, per
esser superata. ll Messia rimanda alla separazione e la separazione al Messia.
Ma, a prescindere dalla petitio
principii presente, a mio avviso, nel ragionamento di Benjamin, interessa
maggiormente all’interprete il punto d’arrivo cui esso conduce. Benjamin vuol
far vedere come, a causa della fede arbitraria in un Messia, sia stato
inventato un « regno del cielo » o meglio sia stato affermato nell’uomo un
dualismo permanente nella figura dell’opposizione tra « cielo » e « terra ». È
la vecchia cittadinanza dei due mondi, tema tradizionale del pensiero
occidentale da Machiavelli, a Rousseau, a Hegel. Non si tratta però solo di
questo. Benjamin vuol affermare la totale estraneità della religione al mondo
dell’uomo, che è politico: perciò il mondo in cui la religione crede non
può mai conciliarsi con l’altro.
Vi sono quindi nel suo ragionamento due momenti concettuali ben
distinti. Da un lato l’estraneità perenne di ogni prospettiva religiosa alla
realtà storica, che ha dentro di sé il suo scopo. Dall’altro, il fatto che
questa estraneità si traduce in una distorsione permanente, ossia nel sottoporre,
sul piano degli ideali, il mondo della storia ad una fine (quella messianica)
che non corrisponde mai, per definizione, al fine del mondo terreno. Il mondo
può essere un regno dei fini ma mai un regno di Dio. Quest’ultimo allora non
solo è astratto, nel senso caro agli immanentisti, ma è anche sbagliato
o addirittura malvagio, per quello che rappresenta e che implica nei confronti
della concezione dell’uomo. L’immagine del possibile regno di Dio e
dell’avvento del Messia implica una lotta continua contro i fantasmi, contro le
credenze che in qualche modo permangono nella umanità e che né il pensiero
filosofico né la scienza riescono ad esorcizzare: di qui l’odio dei
rivoluzionari – imbevuti di filosofia e del mito della scienza – nei confronti
della religione. Contro le potenze spirituali che la religione ha fatto sorgere
nel cuore degli uomini, vale allora l’opera meritoria di chi, come Ernst Bloch,
contribuisce a separare l’utopia dalle contaminazioni religiose, dalle pretese
di una fede che, per gli atei, può essere concepita solo in termini di «
teocrazia ». La « teocrazia » è il contraltare della « teologia » ossia l’altro
modo nel quale la religione esiste per l’ateo: i teologi non possono che essere
teocrati, la teocrazia è la forma realizzatasi, la prassi storicamente
rilevante della religione ossia della teologia[9].
Bloch cerca dunque di distinguere –
secondo Benjamin – il vero dal falso regno. Muovendo come Nietzsche dallo
spirito della musica (la «
filosofia della musica » occupa un posto centrale nel Geist der Utopie),
ha proclamato l’estraneità dell’uomo al trascendente, la necessità della redenzione
profana.
« I soggetti rappresentano ciò che è unico, che non si può
estinguere in tutta l’oscurità esteriore e sovrastante. Che il Salvatore viva e
voglia ritornare, questo è da sempre garantito al di là di ogni critica;
ma Egli e lo stesso Dio, come tutto ciò che è oggettivo, hanno perduto la forza
propria, specifica di venire e agire nella luce. È venuto il tempo di
dispiegare nel modo più totalmente luciferino e paracletico la magia del
soggetto, calata dapprima in noi da Gesù. Perciò la salvezza è una sola. Ad
essa conduce la connessione che si ribella, che si cerca al di là di tutto ciò
che le è estraneo: connessione tra l’io morale, che può ardere ancora solo
nella notte della luce esterna e superiore, connessione tra questo io e la
Divinità che tace, ci abbandona, che esita a mutarsi nello Spirito Santo;
connessione che ha luogo nelle invocazioni, nelle preghiere, nella profonda
capacità di attribuire posti di comando che è propria dello stesso “ ateismo ”
eroico-mistico » (Geist der Utopie, 1923², ed. Suhrkamp, 1973, pp. 203-4).
Il rapporto che qui si afferma tra il soggetto e la realtà vuol dimostrare – a
mio avviso – come non debba più aver luogo l’esigenza di un Salvatore
trascendente, alla quale si contrappone l’esaltazione dell’ateismo incarnato
nel soggetto, nell’io che possiede la « Ernennungskraft », la capacità di
attribuire cariche nel proprio universo speculativo; come a dire: Dio può
essere pensato come Colui che comanda ma solo perché l’uomo gli attribuisce il
posto di comando. Tutto questo però è più intuito che dimostrato o meglio
balugina attraverso la massa delle immagini blochiane, che rifuggono quasi
sempre i contorni ben definiti, l’affermazione netta cara ai veri mistici. La
proclamazione dell’« ateismo eroico-mistico » fa vedere una mistica
dell’ateismo pur senza tradursi in una chiara negazione della Divinità: sembra
anzi che, per Bloch, sia stata quest’ultima a negare il mondo e non il
contrario. Comunque, se il rapporto che si deve stabilire tra il soggetto e la
realtà è quello sopra visto, se la soggettività sfrenatasi nell’ateismo deve
prevalere, se in essa sola può prender forma l’inespresso e il non-detto (che la
musica moderna contiene come profezia, come possibilità di svelare il segreto
cosmico, op. cit., p. 208), allora « i luoghi di nascita del nostro
proprio cammino, storicamente interiore », del sentiero che l’uomo percorre
interiorizzando la storia nella coscienza, devono essere pensati, assieme all’iter
percorso, in funzione della Erlösung, della redenzione: « liberazione [Loslösung]
da tutte le opere, da ogni trascendenza, nella quale l’uomo non ha luogo;
liberazione infine per una etica e metafisica dell’interiorità, dell’intimità
affratellante, della segretezza autosvelatasi, che sia l’esplosione totale del
mondo e il mattino della verità nei confronti delle tombe che scompaiono »[10].
L’ideologia della
redenzione-liberazione, il desiderio di far esplodere il mondo perché la verità
trionfi, implica comunque un’idea fanatica della verità, quel fanatismo del
pensiero che caratterizza i sacerdoti del Profano ed è l’unico elemento
veramente chiaro al di là dei veli pesantemente simbolici e del misticismo
ambiguo che caratterizzano il loro discorso. Bisogna dunque rivendicare al
mondo il suo carattere profano, all’azione dell’uomo il suo intento profano.
La natura dell’esistente, caratterizzata in opposizione alla
chimera di un Regno di Dio, viene ricondotta da Benjamin all’idea della Ordnung,
l’ordine che si costituisce tramite la sua propria forza. Infatti i due poli,
collegati da un bagliore di allucinazione, sui quali l’intera mondanità sembra
rivolgersi, sono la « dynamis » e « l’ordinamento di ciò che è profano ». La
Dynamis, come forza non meglio specificata, rimanda a lontananze presocratiche,
ad immagini della materia plasticamente rivissute: essa è arcaica ed arcana. Ma
la prospettiva atea di Benjamin intende la Dynamis come un’energia del tutto
priva di afffato divino e quindi di impulso veramente cosmico, cioè ordinatore
del tempo e dello spazio, sovrumano; quell’impulso che costruisce la materia
secondo l’idea, la forma voluta dal puro spirito, l’impulso governato dal logos.
La Dynamis quindi non è definita in sé ma in relazione alla
storia: « forza storica » o « forza della storia ». Il contenuto fattuale della
storia, pieno di nerbo, è ciò che caratterizza la storia come universo chiuso,
dominato dalla espansione della sua propria forza. Questo mondo non può essere
determinato dall’esterno ma solo dall’interno, tramite l’ordine che plasma la
forza secondo intenti profani (poiché la materia storica stessa è in se profana
e non contiene promesse di pace ultraterrena). L’ordinamento di ciò che è profano,
del Profano in generale è quindi – secondo Benjamin – l’unico modo di essere
autentico della Dynamis operante nella storia: essa può esser allora definita
cosmica in senso deteriore o meramente quantitativo poiché l’orduinamento è
solo supra-individuale, è ordine rispetto al singolo, ma non è ordine divino.
La vita, in quanto forza o potenza storicamente accertabile, è organizzazione
profana della vita stessa. Cosi la vita viene caratterizzata in opposizione al
sacro, dichiarato privo di diritti: la vita stessa non è che organizzazione
della sua propria forza ed energia, essa contiene in se la sua magia e non ha
bisogno di attribuirla a un deus ex machina. L’idea
dell’ordine-ordinamento suggerisce l’immagine di un ente complesso, che
costruisce se stesso sistematicamente, secondo uno scopo non esoterico. Questo
ordine non è neutrale, dal momento che nasce opponendosi ad un’immagine falsa
di se stesso, alla visione trascendente dell’ordine. Occorre un « pensiero »
per costruire l’ordinamento, che non nasce da solo e non è frutto delle
circostanze. Ma l’idea che presiede allordinamento è ricavata innanzitutto per
esclusione ossia indicando qual è l’idea che non deve presiedere
all’ordinamento. Quest’idea è quella religiosa, è l’ideale del Regno di Dio,
l’immorale pretesa di una « teocrazia ».
Il destino storico dell’uomo, il suo
essere-nel-mondo considerato quale insieme della sua storia, viene concepito da
Benjamin come risultato della liberazione di una tensione vitale totale. La
tensione della Dynamis storico-cosmica ha bisogno di realizzarsi tramite una
opposizione e una negazione: deve opporsi al mondo delle idee religiose che
hanno sottomesso l’uomo alla « teocrazia » e deve concludere questa opposizione
in una negazione radicale, un fiat nichilistico. La conclusione dell’opposizione
è nella negazione; ossia: il mondo dell’uomo reale, consapevole a se stesso, è
un mondo che nasce con un atto di profanazione, un mondo che, già per il fatto
stesso di esistere, rappresenta la profanazione di ogni ierocrazia metafisica e
religiosa. Non è un mondo profanato ma un mondo che profana,
l’organizzazione sensibile dei veri atei, gli eletti secondo la carne
costruitasi nella storia.
Occorre quindi rendersi in primo luogo coscienti, dal punto di
vista di Benjamin, dell’esistenza di questa verità e della sua portata, ossia
riffettere sulla vera natura del mondo, la cui
potenza non può essere
dissolta da alcuna fantasticheria religiosa (teologica). Il mondo esiste, esso
è potenza, forza che si fa storia ed è la storia di questa
potenza, totalmente mondana, immagine di se stessa, della sua propria mondanità
priva di confini. In sé, il mondo ha già ucciso Dio (che invece non ha ancora
ucciso il mondo), è già la dimostrazione della falsità di ogni aspettativa
salvifico-messianica che pretenda di riplasmare il mondo secondo lo spirito di
un creatore. La presa di coscienza del carattere oggettivo del mondo è perciò
una nuova nascita, una resurrezione spirituale: già il nascere è un risorgere
che concilia lo spirito con la materia. Questo mondo è quindi l’ordinamento che ha
escluso il Sacro, che vive di una profanazione come del suo atto costitutivo: è
un mondo di violenza perché profanare è atto di violenza, è un mondo che ha
bisogno della violenza poiché la profanazione è il suo modo di essere.
Il concetto di « ciò che è profano », das
Profane, possiede pregnanza di significato, è contemporaneamente
descrittivo e valutativo. Indica ciò che è semplicemente diverso dal sacro e la
contrapposizione scientemente voluta cui la diversità stessa dà luogo. E, come
si è detto, la contrapposizione si traduce in una negazione radicale. Ma
Benjamin, in questa prima parte del suo frammento non fa ancora l’apologia del
Negativo totale, non si inebria della negazione cosmica. Egli ricerca una
negazione determinata, quella della religione, che sente come condizione
preliminare per l’instaurazione dell’ordine. La Dynamis pura e semplice
appartiene come tale al caos, alla materia intatta e indiscriminata. Ma la
Dynamis nega e costruisce, costruisce in quanto abbia saputo negare. La potenza
che è nella storia, che è la storia, si qualifica di colpo, scaturisce dal caos
della pura forza, historia sive natura, come un « ordinamento di ciò che
è profano »; il passaggio all’ordine Benjamin lo fa avvenire con
l’instaurazione di un ordinamento che non è in primo luogo giuridico ma è in
primo luogo non-religioso, è scisso da Dio e dalla sua immagine messianica.
La negazione permette la costruzione di ciò che da essa si nutre,
il mondo profano, ma la costruzione non è indipendente da quella negazione,
anzi è già nel negare stesso, nell’affermare l’uomo come il contrario di Dio.
Il costruire dal negare, il negare come modo di costruire, questa avarizia del
pensiero si traduce nel nichilismo rivoluzionario, nella volontà di potenza del
pensiero negativo, che incenerisce platonismo, cristianesimo,
metafisica. Il passaggio dal caos all’ordine è perciò concettualmente repentino,
si nutre del carattere repentino e violento della negazione, anche se
l’immagine dell’ordinamento profano suggerisce l’idea di qualcosa che si
costruisce nella e durante la storia, in modo organico nel tempo. Il pensiero
di Benjamin aborre da categorie che implichino la gradualità e la mediazione:
esso si insanguina all’insegna del « tutto e subito » speculativo. Così lo
stilema aforistico permette di saltare, per cosi dire, da un eone
di pensiero ad un altro, senza nemmeno ricorrere ad intermezzi analitici, a
ricostruzioni storico-esemplari. Hobbes, che fa nascere l’ordine dalla pura decisione
del sovrano, spada che scaturisce dalla notte dei tempi, ha pur dovuto descrivere
il caos nella forma di uno stato di natura omicida. Partendo dalla critica
della religione, contrabbandata come teologia, si è dunque giunti ad affermare
l’esistenza di un mondo: dalla negazione dell’al di là è nato un mondo terreno,
la cui natura è la negazione stessa.
II.
L’ordinamento profano del mondo si
libera dalle ceneri della teologia. Esso si affida ad un’idea terrena, quella
della felicità. « Die Ordnung des
Profanen hat sich aufzurichten an der Idee des Glücks ». La parola tedesca Glück
significa felicità e fortuna. Tuttavia non traspare qui la convinzione che la
felicità dipenda in misura rilevante dalla fortuna: non si vuole fondare
l’ordine profano sul principio del destino, su di una fortuna di tipo
machiavellico né sul fatalismo che domina nella vita quotidiana, la saggezza
che accetta i momenti di felicità come doni soprannaturali, opera della fortuna
o della Provvidenza più che dell’uomo, che ringrazia e si preoccupa di non
dover ricevere qualche sventura. Il pensiero moderno mostra la tendenza a
sottrarre la felicità e l’infelicità al dominio del fato; crede di saperne più
dei Greci e dei Romani, dei suoi stessi antenati: Machiavelli, Shakespeare. Verso
la fine del frammento Benjamin sembra identificare la felicità con
l’affermazione della natura, poiché fa apparire la prima quando ci sia la
terribile consapevolezza di essere, con la morte, all’unisono con il movimento
cosmico della natura, eterna e sovrana. In questa visione naturalistica della
felicità sembra ancora presente la concezione del bonheur dei pensatori
libertini, di molti illuministi, di Sade, convinti seguaci della natura.
Materialismo settecentesco, spunti nietzschiani e considerazioni
estetiche (estetico-rivoluzionarie) sembrano comunque costituire i connotati
della idea benjaminiana della felicità, assunta a unico principio della
mondanità cosciente di sé. La ricerca profana del senso della vita, più che
stabilire preliminarmente cosa sia la felicità, mira ad attuarla: essa
deve dare ad un certo punto per scontato il significato della felicità, di
quella felicità terrena che l’uomo può inseguire solo dopo aver espulso da sé
ogni presenza e tentazione del divino. Il dato che Benjamin deve ribadire è che
l’uomo deve ricercare la felicità – e non Dio – nell’ordinamento del mondo: si
tratta di una verità intuitiva, che relega in secondo piano la dimostrazione
puntuale di ciò che con la felicità debba chiaramente intendersi. Ma già nel vedere
le cose da questo punto di vista, nel liberarsi dall’ipoteca della religione
sul destino dell’uomo, c’è per Benjamin un principio di felicità: già nello
svincolarsi e rendersi indipendenti da Dio, deve esserci gioia. La profanazione
non è dolore ma gioia, essa conduce alla felicità ed è già una sua forma. Così
l’uomo moderno può dare anch’egli all’idea di felicità un significato positivo,
come sembrano averlo avuto gli Antichi.
Nel breve scritto Das Glück der antiken Menschen (1916),
Benjamin, che pure non è un nostalgico del mondo antico, vede nei Greci la
presenza di un ideale della felicità che non contrappone l’uomo né alla natura
né alla Città, come hanno fatto invece i moderni, colpevoli di aver relegato la
felicità nella dimensione puramente « sentimentale », svalutandola perché
impulso che può contrastare ai doveri dell’uomo e del cittadino. Secondo
Benjamin, la spiritualità ellenica fonda l’idea di felicità sulla hybris
e sul senso della vittoria, la vita come possibilità della vittoria nonostante
la sventura che gli Dei possano inffiggerci. Nella sfida al destino è la
accettazione dello stesso, conseguente alla proclamazione del fatto che l’uomo
deve strappare al destino la sua felicità e quindi ergersi in maniera
indipendente nei confronti di quegli Dei con i quali lo concilierà poi la
vittoria. Poiché si deve pensare, dal punto di vista degli Antichi, che gli Dei
hanno voluto elargirci la vittoria più che convincerci alla scelta della lotta:
la felicità appare quindi solo in un secondo momento come « dono degli Dei »,
figlia della fortuna. Abbiamo dovuto scendere in campo, rischiare e questa
decisione non ci ha veramente posto in contraddizione né con il nostro io
interiore, né con la natura, né con la divinità (anche se quest’ultimo assunto
sarà dimostrato dal risultato). La felicità degli Antichi si esaurisce allora
nella « celebrazione della vittoria », evento della polis, lo spazio
pubblico nel quale ha luogo la conciliazione tra la volontà prometeica e la
volontà degli Dei, che hanno permesso il rischio, la sfida al fato e la sua
felice conclusione. La felicità non è quindi infinita, non è indefinita e
indeterminata come il sentimento e necessariamente nascosta (come il vero
sentimento), ma finita, determinata da uno spazio che non si lascia facilmente
corrompere. « Hybris è per il Greco il tentativo di rappresentare se stesso –
l’individuo, l’uomo interiore – quale portatore della felicità; hybris è la
credenza che la felicità sia una caratteristica dell’uomo [ma] niente affatto
connessa alla modestia; hybris è la fede che la felicità sia qualcosa di
diverso da un dono degli Dei, dono che questa e ogni ora possono prendere, gli
Dei che ogni ora possono infliggere al vincitore un’inaudita sventura (come ad
Agamennone che ritorna). Perciò si suol dire che l’immagine, secondo la quale
la felicità visita l’uomo antico, è quella della vittoria... In questa ora, la
più alta, che muta l’uomo in eroe, Pindaro ha cantato i suoi inni al vincitore,
per tenere la riffessione lontano da lui, per versare su di lui in quest’ora la
consacrazione totale, che concilia il vittorioso con la sua città, con i boschi
sacri, con la pista: degli antenati e infine con la potenza degli stessi Dei. E
così per l’uomo antico nella felicità si trovano commisurati entrambi gli
elementi: vittoria e celebrazione, merito e innocenza... ». La conclusione
ultima è perciò la seguente, improntata ad un’immagine totalmente solare della
mentalità greca. « La felicità dell’uomo antico è racchiusa nella celebrazione
della vittoria: nella gloria della sua città, nell’orgoglio del suo distretto e
della sua famiglia, nella gioia degli Dei e nel sonno, che lo rapisce agli eroi
»[11].
Ma per l’uomo moderno la festa è
finita. All’uomo moderno, che ha a che fare con il Regno di Dio della
escatologia giudaica e cristiana, non è più possibile quella
conciliazione. L’impulso prometeico deve avere allora la prevalenza e
connettere l’idea della felicità al mito nietzschiano dell’eterno ritorno, alla
problematica della « redenzione » profana. Scrive infatti Benjamin, in Parco
centrale: « L’eterno ritorno è un tentativo di saldare insieme i due
principi antinomici della felicità: quello dell’eternità e quello dell’« ancora
una volta ». L’idea dell’eterno ritorno suscita per incanto, dalla miseria del
tempo, l’idea speculativa (o la fantasmagoria) della felicità. L’eroismo di
Nietzsche fa pendant a quello di Baudelaire, che evoca, dalla miseria
del filisteismo, la fantasmagoria del Moderno »[12].
Nietzsche e Baudelaire sono posti sullo stesso piano come « eroi »
(antiborghesi perché nemici dei « filistei »), poiché hanno affermato l’idea
della felicità, pagando un alto prezzo personale. Essi non dimostrano ma «
evocano » la felicità, come « fantasmagoria » del pensiero, verità di
illuminazione, che, ad un certo punto, lascia distinguere a fatica il filosofo
dal poeta. In realtà, dal punto di vista del senso comune, del sano istinto
popolare (cui si può dare ogni tanto la precedenza nei confronti della
filosofia), nulla appare più angoscioso della « felicità » evocata e proclamata
da Nietzsche. Non è che una mascherata, un voler chiamare con nomi di pace e
abbandono l’impulso distruttivo che si esalta nella ricerca antoimposta dell’«
uomo nuovo », del « mare nuovo », del « sole nuovo »: il Nuovo si dovrà
affermare sul nulla, sulla morte dei valori e Nietzsche vuol dimostrare a se
stesso che solo in questa consapevolezza è la vera felicità.
«In effetti... chi sa sentire la storia degli uomini nella sua
totalità come la sua propria storia, prova, generalizzandolo enormemente,
tutto quell’angoscioso struggimento dell’infermo che pensa alla salute, del
vegliardo che rammemora i sogni giovanili, dell’amante che è strappato
all’amata, del martire che assiste al tramonto del proprio ideale, dell’eroe,
la sera della battaglia che non ha deciso nulla... ma portare questo cumulo
immenso d’afffizioni d’ogni specie, poterlo portare, ed esser pur sempre ancora
l’eroe... essendo l’uomo che ha un orizzonte di millenni davanti e dietro di
sé, l’erede di ogni tratto aristocratico di tutto lo spirito passato, erede
gravato di obblighi; essendo il più nobile di tutti i nobili clell’antichità, e
al contempo il capostipite di una nobiltà nuova, di cui nessun tempo vide e
sognò l’eguale... questo dovrebbe avere come risultato una felicità, che
finora l’uomo non ha mai conosciuto: la felicità di un dio colmo di potenza e
d’amore, di lacrime e di riso, una felicità, che, come il sole alla sera, non
si stanca di effondere doni della sua ricchezza inestinguibile e li sparge nel
mare, e come il sole, soltanto allora si sente assolutamente ricca, quando
anche il più povero pescatore rema con un remo d’oro! Questo sentimento divino
si chiamerebbe allora – umanità! »[13].
L’illuminazione, veramente profana,
che la vita sia solo un eterno ritorno dell’attimo smisurato – l’attimo in cui
si coglie tutto il valore della storia trascorsa ed è, per questo, momento di
felicità – contiene l’elemento di verità che interessa Benjamin, in ordine al
concetto della felicità: contiene la possibilità di unire teoreticamente i due
« principi antinomici » del concetto stesso. Essi sono dati: 1) dall’idea della
durata eterna della felicità, perfettamente compiuta in se stessa, se si vuole
che la sua sensazione, la percezione che investe il soggetto come una totalità
irresistibile, sia veramente tale; 2) dall’idea opposta: se si desidera provare
la felicità « ancora una volta », questo significa che ciò che si è goduto non
ha esaurito la pienezza del godimento possibile e totale: il desiderio della
ripetizione – nuova, migliorata – esprime un margine di insoddisfazione e
quindi la mancata realizzazione di quella pienezza spirituale che si suppone in
chi è veramente felice. Nella mitologia nietzschiana dell’« eterno ritorno
dell’uguale » si realizzerebbe l’unione fisica dell’attimo, la risoluzione del
soggetto nella felicità dell’attimo che tutto consuma ed è per l’eternità.
Nietzsche, forse il più infelice tra i filosofi, ha dato secondo Benjamin un
contributo essenziale alla causa del Profano, che combatte per la felicità, così
come Baudelaire, forse il più infelice tra i poeti.
La felicità, proclamata dagli
infelici, dai malati, dai pazzi, dai malinconici, è dunque possibile tramite
l’idea dell’eterno ritorno, che fa trionfare l’eternità della materia, la sua
felicità, la gioia che è in questo trionfo, nei confronti del soggetto
che voglia credere nel trascendente e senta nello stesso tempo l’immortalità
come destino inevitabile. In tal modo l’idea della felicità acquista un
significato rivoluzionario, che si aggiunge a quello che possiede come
principio che consente di dichiarare la morte di Dio. L’idea della felicità
svela quindi il suo nesso con quella della « redenzione profana » ovvero della
rivoluzione in senso proprio e universale.
Nell’ultimo suo manoscritto, che contiene le note « tesi » sul
concetto della storia, Benjamin scrive: « La riffessione porta a concludere che
l’idea della felicità che possiamo coltivare è tutta tinta del tempo a cui ci
ha assegnato, una volta per tutte, il corso della nostra vita. Una gioia che
potrebbe suscitare la nostra invidia, è solo nell’aria che abbiamo respirato,
fra persone a cui avremmo potuto rivolgerci, con donne che avrebbero potuto
farci dono di sé. Nell’idea di felicità, in altre parole, vibra
indissolubilmente l’idea di redenzione »[14].
La felicità va pensata nel tempo in cui avrebbe potuto
realizzarsi: se guardiamo al nostro passato vediamo che essa va collocata nella
sfera di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Nulla di tangibile,
nessun fatto della nostra vita, nessuna situazione meritano retrospettivamente
di esser considerati felici. Gioia intensa provocano in noi solo le figure
ideali di coloro – mai visti, mai conosciuti, mai nati – che avrebbero potuto
esserci veri amici, di donne che ci avrebbero splendidamente amato: questi δαίμονες avrebbero potuto renderci felici e quindi salvarci da ciò che
siamo ora, redimerci. La felicità va vista nella redenzione, poiché non è
ancora esistita su questa terra, né per il singolo né per il genere: non c’è
mai stata ma proprio per questo sarà, come la rivoluzione. Il ricordo di
ciò che è stato ci fa sentire anche ciò che non è stato, l’inespresso; lo
spiritismo del ricordo ci fa partecipi del tempo che avrebbe potuto essere e al
quale non abbiamo rinunciato perché sentiamo di avere diritto a quel
tempo, vita di amicizia e amore, apoteosi[15]. L’infelicità per Benjamin
non è evidentemente da ascrivere ad una colpa del soggetto, non deriva da
limiti del carattere, da cattivi pensieri ma solo da un destino individuale e
storico di cui il soggetto è vittima. L’ideale decadente dello homme à
femmes, l’invidia proustiana per il passato prossimo, il ricordo come
malattia dello spirito, autoinganno; il senso della gioia pànica come attimo
che colma ogni misura, che non abbiamo mai provato ma che, proprio per questo, deve
investirci una volta nella vita; questo edonismo del pensiero, questa
astrazione dalla vita semplice, dalla vita che conosce i suoi limiti e il
valore della rinuncia, la disciplina della volontà; questa follia vuole far
esplodere il mondo nell’attimo del soggetto e il soggetto nell’attimo storico,
risolvendo l’infelicità personale nella gioia dell’atto che distrugge un
intiero mondo per redimerlo. La felicità ci redime dal dolore ma il dolore del
mondo, la sofferenza degli « avi asserviti » ha atteso la nostra per saldarla a
se stessa: la redenzione dell’individuo, la sua vera felicità sarà possibile
solo nella redenzione del genere, nell’opera della rivoluzione che appare come
un messia, anticipato dal ricordo[16].
L’idea messianica della felicità non
contraddice all’idea naturalistica, che ne è anzi il presupposto, poiché la
rivoluzione in cui crede Benjamin non è quella dello Spirito Santo, la
redenzione non è altro che il rovesciamento distruttore del materialismo
storico, che si può concepire come l’ultimo atto dell’apologia della natura
intesa come materia sapiente, forza plastica che forma il corpo, mondo di
pulsazioni, processo organico, infinito ed eterno. Il processo dei rapporti
materiali di produzione non è forse organico, come la natura, che è tutto; e,
come seconda natura, non è forse tutto? La materia del nostro corpo è forse
infelice? Non è lo spirito a negare la felicità al corpo, e quindi a se stesso,
combattendo una lotta vana contro la materia, che imporrà alla fine la sua propria
redenzione? Il materialista può dire, come Hotspur morente, che il pensiero è «
schiavo della vita », ma il « tempo della vita » non è « follia »: l’unica
follia consiste nel pensare che la vita non possa esser redenta dalla vita[17].
Il pensiero riffette la vita, che si
esalta nella (creduta) indipendenza della sua materia dal pensiero e dall’opera
di un Creatore, nella potenza della natura sensibile, corpo cosmico la cui
felicità è astrale. L’uomo libero è allora quello che si rivolta al destino (che
impone di per sé di prender coscienza del limite e crea quindi infelicità) in
nome della ricerca di una felicità che ci attende al di là del destino. La
felicità, la cui attuazione giustifica, secondo Benjamin, l’esistenza del mondo
dei profani come « ordinamento », è quindi il valore in cui si vede realizzarsi
la libertà dell’umanità. L’umanità « libera » è quella che vuole ricercare la
propria felicità, quella che sa di aver trovato nel principio di piacere,
nell’edonisrno universale, il filo conduttore di ogni storia profana. L’idea
della felicità viene perciò sentita da Benjamin come ciò che è assolutamente
oggettivo, a tal punto da poter costituire il concetto portante di un intiero
mondo. Non hanno più corso le critiche kantiane e poi hegeliane al settecentesco
bonheur, riflesso di ogni soggettivismo, matrice di ogni individualismo
esasperato. Da Feuerbach in poi, l’affermazione del primato della felicità sensibile
ignora con disinvoltura la vocazione anarchica che quella ricerca contiene, il
principio di dissoluzione di cui è oggettivamente portatrice, quando venga
assolutizzata. Del resto, la felicità di cui parla Benjamin, è andata ben oltre
le sue origini ancien régime, se ha trovato in Nietzsche e in Marx i
suoi profeti.
III.
Stabilito il principio universale
della felicità si tratta ora di vedere in che rapporto stia con la sfera
messianica, anche se in tal modo si richiamano in vita i morti, ossia non ci si
libera della sfera messianica. Il mondo profano – dice Benjamin – è ordine,
ordinamento, quello messianico – e il « Messianico » in generale – è « regno »,
ma non è ordine o ordinamento. ll regno è diverso dalla Ordnung, che
indica il modo di essere dell’uomo. Infatti il terreno e il celeste sono due
nature del tutto opposte; non si mediano: una vera, l’altra falsa; non ci può
essere tra di loro un confronto come tra due ordini diversi ma complementari,
due entità che confluiscano in un « ordinamento » superiore o più complesso
rispetto a quello che appare a prima vista. Come si è visto, il mondo dell’uomo
si caratterizza – per Benjamin – in opposizione a ciò che gli è per natura
contrario: la sfera messianica, inventata dall’uomo stesso, vittima della
debolezza ancestrale che lo ha dato in pasto a millenarie teocrazie dello
spirito. Tuttavia occorre considerare la possibilità di un rapporto tra
l’ordine umano che persegue il suo ideale di liberazione terreno e le
prospettive del messianesimo. E non solo perché la « filosofia della storia »
si è posta il problema di quel rapporto, sì da produrre una filosofia della
storia « mistica », il cui
compito specifico è dato dal ritrovamento del senso messianico del mondo. Il
nesso tra profano e messianico deve essere considerato in sé e per sé, poiché
le due direzioni di tendenza mirano ad incrociarsi, sia pure in modo
inspiegabile.
Lo schema di pensiero di Benjamin si riproduce, a mio avviso,
rigidamente. Si vorrebbe veder finalmente apparire il mondo profano con i suoi
propri caratteri, vederlo in sé e per sé, un soggetto ben definito, che ormai
ha la sua storia da narrare, sciolta da vincoli ultraterreni. Ma l’attesa va
delusa. Teoreticamente vittima della sua vocazione all’utopia, Benjamin non
definisce i contorni del suo protagonista. Del resto, lo stesso Marx, che cosa
ha potuto dire della società finalmente liberata dalla rivoluzione? Nulla, se
non che è ancora la società delle istituzioni borghesi, dirette ad altro fine
(il fine però mantiene le istituzioni). Cosi il mondo profano resta sempre
definito per esclusione, in relazione al mondo non-vero, al « regno », che non esiste ma del quale non si
può fare evidentemente a meno, quando si è costretti a pensare la
mondanità. Il pensiero ha bisogno di ciò che nega per poter affermare ciò che
vuole.
Ricorrendo all’immagine dei vettori
tipica della fisica teorica tradizionale, Benjamin afferma che la Dynamis
del mondo profano non è totalmente padrona di sé. Cosi come accade nella
fisica, dove una forza presente in un campo può attrarne un’altra che si muove
in senso opposto, la forza umana può, senza volerlo, favorire « la venuta del
regno messianico ». Nell’elaborata espressione di Benjamin: « Così anche
l’ordine profano di ciò che è profano può promuovere la venuta del regno
messianico ». Si è visto prima che il mondo umano è tale solo a condizione di
sapersi in opposizione ad ogni messianesimo, che non rappresenta una dynamis,
come la storia degli uomini, ma solo la falsa coscienza degli asserviti ad una
teocrazia morale. Ora invece anche la sfera messianica appare come una forza,
una Intensität, contro la quale l’uomo lotta come se si trattasse di
un’energia vitale contrapposta alla sua. All’improvviso la sfera messianica
appare allora dotata di forza propria, tant’è vero che essa si può ora
realizzare addirittura con la cooperazione involontaria delle forze liberate
dall’uomo profano. Quale ulteriore conseguenza, sorge il problema di far vedere
come la dimensione dei profani non possa esser assorbita da quella messianica,
non ne possa diventare una categoria. Perciò, procedendo con ordine: 1) il
mondo del tipo di uomo laico pensato da Benjamin si basa su di una professione
di ateismo, che dichiara privo di forza, mera illusione, ogni regno messianico;
2) il pensiero ha negato la fede per trovare nel mondo la sua salvezza: il
principio cui l’uomo si ispira e che domina nel mondo è ora solo la ricerca
terrena della felicità terrena, ricerca che sembra non trovare ostacoli; 3)
inaspettatamente, nell’ambito di questa ricerca, la forza liberata
dall’emancipazione profana può scontrarsi con quella che proviene dall’intensità
messianica e risolversi così nel suo opposto; 4) allora può succedere che la Sehnsucht
profana venga essa stessa profanata, dia dialetticamente vita al suo contrario,
al realizzarsi dell’obbrobrio, del Regno mistico degli spiriti.
Ciò che non appare, a mio avviso,
conseguente nel ragionamento di Benjamin – una volta chiarito il suo punto di
partenza, consistente nella negazione apodittica del Regno – è l’aver dato
improvvisamente corpo alle ombre, l’aver rappresentato il Messianico come una
forza reale, un’intensità provvista di magnetismo effettivamente
operante. Questa forza ora minaccia addirittura di sottomettersi l’altra, di
farla deviare per i suoi fini. Come a dire: una volta al potere, i
rivoluzionari continuano a sentire l’intensità della reazione, la reazione come
una forza perennemente in agguato, la cui intensità si trasferisce all’interno
del partito rivoluzionario, che comincia a distruggersi dopo aver distrutto la
reazione. L’ermetica simbologia di Benjamin può tuttavia esser interpretata
anche nel seguente modo: l’ideale vetero-idealista di una storia finalizzata
dalla Provvidenza, che si trova tanto più a suo agio quando ha a che fare con
ciò che le si oppone, torna a prendersi la sua rivincita? No, nella misura in cui
Benjamin non dà valore decisivo alla possibilità di collaborazione non voluta con
chi rappresenta per lui l’avversario, con l’Eterno che opera nel Messia.
Venga pure il Regno, l’illusione della fede si sveli pure come
vera e autentica forza: tutto questo non altera il carattere di ciò che è
profano, non lo media, non ne scalfisce la natura. La ribellione alla divinità,
la reiezione del sacro, l’apoteosi di ciò che è sensibile e dà la felicità
sensibile, tutto questo costituisce ormai un patrimonio al quale l’ateo non può
rinunciare. Ammettiamo pure che Benjamin sia còlto da un ripensamento: che
senta di dover ammettere che il Regno celeste non è solo una mera
finzione, l’ombra di una impossibilità, che l’idea della venuta del Messia
ultraterreno non è solo una speranza della fede e un’ossessione dello spirito
di Benjamin, ma una probabilità effettiva della storia umana, la cui vera
essenza e la cui direzione sono in fondo oggetto per noi di eterno dubbio. ln
ogni caso, egli deve far salva l’indipendenza e la dignità del mondo profano,
che resta per lui il mondo vero. Che cos’è allora questo mondo che ora deve
accettare la possibilità del confronto con quello messianico, che non può
considerare quest’ultimo mera fictio? Questo mondo è categoria,
ma non categoria inglobata nel Regno, anche quando abbia concorso alla sua
realizzazione. Esso è categoria che esprime al meglio la « sua più quieta
prossimità » al Regno. Con parole che rinviano a oscurità blochiane, Benjamin
scivola nell’ineffabile, nello sconcertante misticismo dell’ateo che ha
studiato il Vecchio Testamento e la filosofia classica tedesca[18].
La prossimità, l’esser-vicino, per di
più in maniera quieta, sembra ricordare – se si può stabilire un simile
paragone – i florilegi hegeliani sullo « spirito » che è « bei sich», presso di
sé, con sé in modo pieno e calmo, compiutezza dell’essere nello Spirito stesso.
Lo spirito non solo è « an sich », è in-se ed esce da sé per ritornare a se
stesso; è anche « presso di
sé » ed è libero senza per questo dividersi mai, frammentarsi in materia di
forme molteplici e nemiche, non riconducibili all’unità dello Spirito stesso[19]. Ma la « prossimità» del
mondo profano a quello messianico, anzi l’esser il Profano categoria della
silenziosa prossimità al Messianico, questa oscura espressione sembra voler
stabilire una somiglianza esteriore, una analogia formale. Vale a dire: ciò che
è profano può essere utilizzato per l’avvento del Regno, tuttavia esso conserva
la sua natura, che è impenetrabile alla trascendenza: continua a realizzare se
stesso, ad essere quello che è, a restare « presso di sé », a considerarsi
realtà autonoma, a fortificarsi nel suo silenzio (se costretto al silenzio),
capace alla fine di opporre un suo proprio messianesimo (quello della natura)
al Regno. Infatti, dice Benjamin, tutto ciò che è terreno, l’uomo come prodotto
della sua Dynamis, tramonta solo nella sua felicità. Il Regno
rappresenta la pienezza dei tempi, la fine dell’umanità che conosciamo, il suo
tramonto che è però nuova aurora. Invece la realtà terrena e profana dell’uomo
ha anch’essa la sua fine, il suo tramonto, che è da vedersi nella felicità e
coincide quindi con lo scopo stesso della vita liberata dalla trascendenza. E
proprio questa è l’analogia: il profano è tramonto allo stesso modo del Regno.
Per questo il Profano, strutturalmente, come categoria, è vicino al Regno, con
in più il vantaggio di far coincidere il fine della vita con la sua fine:
eterno riposo nel nulla dopo la morte. L’ordinamento profano ha nella gioia il
suo principio e il suo tramonto: è tramonto di sé stesso non di qualcos’altro.
Attraverso l’immagine nietzschiana del tramonto, l’uomo che si è voluto
liberare di Dio, riafferma il valore della sua ribellione: si rinchiude in se
stesso, nel cerchio che ritorna in eterno del suo proprio ordine, dove la
felicità è principio e fine. Solo ammettendo il principio della felicità come
scopo del mondo si può rinchiudere il mondo in quello scopo e pensare che trovi
in esso il proprio tramonto.
Ma il cuore che sente l’intensità
messianica, la sente, in interiore homine, soprattutto alla scuola della
sventura, dell’infelicità che dà sofferenza. Mediante il sentimento, dominato
dalla aspettativa del Signore (l’anima pia sa che il Regno è dentro di noi), il
soggetto si sottrae al tramonto cui conduce l’ideale della felicità: non è
felice però non tramonta. Un simile cuore è però miserabile, dal punto di vista
di Benjamin, perché appartiene all’uomo che rifiuta di essere se stesso;
respinge la gioia che nella vita viene dalla felicità che si sa conquistare e
godere: quest’uomo, spiritualmente sottomesso, non vuol dar corpo a pensieri di
amicizia e amore perfetti, non odia l’ordine costituito, che è sempre
imperfetto e spesso ingiusto. ll suo rifiuto risulta dal fatto che l’intensità
messianica viene percepita solo tramite la sventura, il dolore, il male. ll
Messia prende l’uomo alla gola, lo priva della gioia della felicità dietro
promessa di una felicità diversa e più alta, nuova, eterna. Allora la
cognizione del dolore diviene la condizione necessaria per passare attraverso
il tramonto dell’uomo, per pensare di poter esser eterni. La sublimazione, qui
necessariamente cristiana, della sofferenza, viene intesa da Benjamin come una
specie di ricatto del Messia nei confronti dei poveri di spirito e
l’immortalità diventa – sprezzantemente – una semplice restitutio in
integrum spirituale. L’uso del termine è significativo. L’immortalità che
si raggiunge tramite la salvezza nel Messia è solo un ripristino, di che cosa?
Un ripristinare la vita, la felicità che si è avuta e della quale si avrà dopo
la morte un surrogato: ogni restitutio in integrum è infatti sempre
inferiore all’originale. L’uso del termine giuridico fa vedere come per
Benjamin la immortalità religiosa sia il risultato di una astuzia avvocatesca.
In ogni caso egli rovescia abilmente il rapporto tra mortalità e immortalità: è
ora l’immortalità – qualcosa di vuoto, di perennemente astratto – ad essere il
surrogato della Dynamis, della forza vitale, dell’ordinamento vòlto alla
felicità. Chi è stato così vile da non ricercare la felicità nella vita, per
paura del dolore e della morte, dovrà accontentarsi di un surrogato
nell’aldilà, copia scialba e sbiadita. L’esistente non viene dichiarato
illusorio, la vera vita non è nell’aldilà: lì può esserci solo la caricatura
del mondo profano, un ripristino ehe non compensa mai la carne perduta.
Il rovesciamento benjaminiano del
rapporto tra l’uomo mortale e l’immortalità fa allora vedere qualcosa di
terribile, un suo intrinseco demonismo. Infatti, non si tratta solo di
negare l’esistenza dell’altro mondo in generale e della sua forma di Regno di
Dio in particolare; di dire, basandosi sull’evidenza sensibile immediata e
sulla ragione, che l’altro mondo non esiste: siamo stati a lungo ingannati e
ora non crediamo più all’inganno. Si tratta invece di dire, e questo è il
demonismo: esista pure l’altro mondo, è meglio questo. Il mondo terreno sia
stato pure il prodotto di una illusione, non sia altro che uno strumento nelle
mani della Provvidenza: ebbene, il carattere virile dell’uomo profano non
accetta di esser stato usato come zimbello dell’Eterno e rifiuta
orgogliosamente la prospettiva salvifica dell’immortalità. Questa forza di
carattere spinge allora a rovesciare il rapporto del soggetto con la morte, ad
accettarla orgogliosamente come passaggio del vivente alla natura, a volere questo
trapasso materialista, a proclamarlo addirittura una festa, in barba ad
ogni trascendenza: qui si vede il carattere dell’uomo moderno, il « carattere
distruttivo ».
L’ambiguità che si è vista
in precedenza, derivante dal fatto che Benjamin sembra riammettere l’esistenza
e la preponderanza del Regno, dopo averla negata, quasi si potesse dire che Dio
esiste e non esiste, c’è e non c’è, non c’è però può pure esistere;
quell’ambiguità viene quindi risolta dalla forza di carattere dell’ateo
orgoglioso, che non accetta la negazione della sua negazione, non accetta la
profanazione del suo proprio mondo da parte del Messia e del cuore semplice.
Benjamin, l’uomo moderno che egli vuol rappresentare, deve rimanere nei
confronti della divinità un angelus Satana, colui che annuncia la perpetua
ribellione, anche se l’eterno ribelle più che la forza del carattere
sembra esprimere una violenza dell’animo, quella agognata assenza di
limiti, quell’ànsito prometeico che non indietreggia di fronte alla glorificazione
della morte, dell’autodistruzione pur di non venir meno al proprio unilaterale
punto di vista. Del resto, il titanismo del giovane Marx, di Nietzsche, dei loro
eredi irrazionalisti, berlinesi, francofortesi, tubinghesi, non nasconde la
debolezza dei violenti, degli energumeni dello spirito? Dove c’è violenza manca
però la forza, la chiarezza di rapporti, la legge e la soluzione delle
ambiguità è apparente[20].
Alla immortalità vuota, pneumatica,
viene dunque contrapposta da Benjamin una restitutio in integrum mondana
che però non è veramente tale, ossia non restituisce o ripristina nulla –
niente si può in-
fatti
effettivamente restituire – non è la brutta copia di nulla ma solo
l’affermazione dell’eternità della natura. Per la coscienza individuale non si
tratta ora di contrapporre la società e la storia alla immortalità promessa dal
Messia: ma contrapporre la propria mortalità individuale, scoprire in essa un carattere
eterno. Benjamin contrappone eternità a immortalità, facendo forza sulla lingua
comune che le intende come sinonimi.
«La vita del principe Myškin [l’idiota di Dostoevskij] si
configura come episodio solo per rendere simbolicamente visibile l’immortalità
di questa vita. La sua vita di fatto non si può estinguere, altrettanto poco –
anzi, meno ancora della stessa vita naturale, con cui ha nondimeno un profondo
rapporto. La natura è forse eterna, ma la vita del principe è certamente
immortale – e ciò deve essere inteso in senso interiore e spirituale. La sua
vita come la vita di tutti nel suo gravitare verso di lui. La vita immortale
non è quella eterna della natura, anche se pare assai prossima ad essa, poiché
nel concetto di eternità [Ewigkeit] l’infinitezza [Unendlichkeit]
è superata e soppressa [aufgehoben], mentre nell’immortalità [Unsterblichkeit]
essa giunge al suo sommo splendore. La vita immortale di cui testimonia questo
romanzo non ha nulla a che fare con l’immortalità nel senso abituale. Poiché in
questo secondo caso mortale è proprio la vita, mentre immortale è la carne, la
forza, la persona, lo spirito, secondo le diverse versioni. Così Goethe ha
parlato, con Eckermann, di un’immortalità di coloro che agiscono, per cui la
natura è tenuta a darci un nuovo spazio in cui agire, quando questo qui ci è
tolto. Tutto ciò è molto lontano dall’immortalità della vita, dalla vita che fa
vibrare infinitamente la propria immortalità nel significato e a cui
l’immortalità dà forma. Poiché qui non si tratta di durata. Ma quale vita è
quella immortale, se non è quella della natura, e neanche della persona? Del
principe Myškin si può dire, al contrario, che la sua persona resta indietro
rispetto alla sua vita, come il fiore rispetto al suo profumo o la stella
rispetto al suo scintillio. La vita immortale è indimenticabile, è questo il
segno da cui la riconosciamo. È la vita che dovrebbe essere indimenticata senza
bisogno di monumenti e di ricordi, anzi, forse senza bisogno di testimonianze.
Non può essere dimenticata. Questa vita resta imperitura per così dire senza
recipiente né forma. E « indimenticabile » non significa solo che noi non
possiamo dimenticarla, vuol dire qualcosa di più: allude a qualcosa
nell’essenza stessa dell’indimenticabile, per cui è indimenticabile. La stessa
perdita della memoria del principe nella sua successiva malattia e simbolo
della indimenticabilità della sua vita; poiché essa giace ora sprofondata, in
apparenza, nell’abisso della sua memoria di sé, da cui non risale più »[21].
Questo passo, veramente notevole, di
Benjamin offre forse la chiave per cogliere i significati e le contraddizioni
inerenti alla antitesi eternità-immortalità, di per sé non poco esoterica[22]. L’occasione che getta luce
sul rapporto tra l’uomo e l’infinito è offerta dal mito ossia dalla
interpretazione della figura dell’Idiota, l’individuo che è « rimasto indietro
rispetto alla sua vita » e si è quindi fissato in una dimensione di purezza
originaria, naturale e nello stesso tempo lontana, poiché una lontananza astrale
separa, a ben vedere, il fiore dal suo profumo, la stella dal suo scintillio:
la contiguità non è per l’appunto continuità, non realizza la compenetrazione
di causa ed effetto o di tutta una vita con i suoi momenti. Chi o cosa
interviene ad unire allora per noi la causa al suo effetto, se non il ricordo,
che conferisce alla vita il suo significato profondo? Ma il ricordo non è
evidentemente natura e la natura non ricorda. L’immortalità, come significato
universale della vita, deve essere distinta dal significato universale della
natura, che è quello di essere eterna. La premessa del ragionamento che conduce
alla definizione dell’immortale, vuol essere allora una premessa teoretica,
capace di fondare concettualmente la distinzione, che altrimenti sarebbe solo
verbale e quindi incomprensibile. Nel concetto dell’eternità si ha, per
Benjamin, l’estinzione di ciò che è finito: il finito, l’uomo viene superato
nell’eternità della natura, ma in modo da scomparire in essa. Infatti, non si
può certo dire che la natura onnipotente e arcana conservi la sua individualità
al singolo, al soggetto che, morendo, è scomparso in essa. Nell’eternità
naturale, ovvero nella natura considerata come materia infinita, l’individuo
trova il suo abisso: l’eternità lo inghiotte e non può costituire essa stessa
la dimensione in cui egli venga ricordato.
L’individuo è invece immortale, ossia vive dopo la morte, non in
sé ma nel ricordo, che conserva il soggetto allo spirito della posterità. Il
ricordo è la categoria ermeneutica principale di Benjamin, anche se ha poco o
nulla a che vedere con il suo antecedente platonico. L’individualità giunge al
suo « splendore » non in sé ma nel ricordo, nel conservarsi dell’elemento
spiritualmente indimenticabile che essa contiene. L’immortalità di una vita
dipende perciò dalla sua qualità, non si tratta di durata: è qualcosa che è
sottratto al tempo. Infatti, non ogni individuo realizza nella vita qualcosa di
indimenticabile: e allora questo individuo non è immortale. L’idea
comune di immortalità (che Benjamin critica) è connessa alla durata: nonostante
la morte del corpo, si pensa e crede che la vita dell’anima duri per
sempre; la vita di ciascuno. anche di chi non avrebbe alcun desiderio
particolare di continuare a vivere dopo la morte. L’immortalità è allora
sottratta alla disponibilità del soggetto, come il tempo, ed è nonostante
il ricordo. È anzi un errore dire – da questo punto di vista – che l’uomo è
mortale poiché già per il fatto di nascere è stato posto in una vita immortale,
della quale la vicenda del corpo è solo la prima fase. Se però tutti sono
immortali, tutti devono poter essere ricordati, cosa impossibile dal punto di
vista dell’uomo, della posterità che estrae l’indimenticabile dalle macerie di
un mondo anteriore. Ma la fede non si preoccupa di questo poiché essa vede nel
Salvatore l’artefice del ricordo: in Lui saremo tutti ricordati alla fine dei
tempi. Il protagonista del ricordo è Dio, il Demiurgo universale della memoria:
nessuno sarà dimenticato come è vero che tutti i nostri capelli sono stati
contati: « Quand’anche le madri dimenticassero, / non io dimenticherò te » (Isaia,
49,15).
Ma se il ricordo, che conferisce
immortalità ad una vita, è invece opera dell’uomo, è ricordo profano,
l’immortalità è allora essa stessa profana, è una qualità della vita che non
scalfisce la durata eterna della stessa e la lascia in balia della natura. E la
vita resa così immortale non ha «recipiente né forma» ovvero è, per così dire,
la pura indimenticabilità: non solo la pura essenza della vita conservata
dal ricordo, ma il ricordo come pura essenza, poiché la vita supera se stessa,
il carattere finito, la morte, se la sua essenza sa essere indimenticabile, sa
contenere il ricordo come necessità interiore, che non potrà non impadronirsi
dei posteri e tramite loro della vita stessa. Il ricordo fissa allora la vita,
rendendola immortale, sottraendola all’eternità annichilante della natura.
L’ideale dell’immortalità profana, terrena, si connette allora al mito della
gioventù. « Ma la pura parola che esprime la vita nella sua immortalità è:
gioventù. È questo il grande lamento di Dostoevskij in questo libro: il
fallimento del movimento della gioventù [der Bewegung der Jugend]. La
sua vita resta immortale, ma si perde nella propria luce: “ l’Idiota ”. Dostoevskij
lamenta il fatto che la Russia non possa serbare presso di sé la sua vita
immortale – poiché questi uomini portano in sé il cuore giovane della Russia –,
assorbirla in sé. Essa va a cadere su un terreno straniero, va oltre il suo
confine e si arena in Europa, “ in questa vana Europa ”... » (op. cit.,
p. 77; GS, I, cit., p. 240). La gioventù non è più una fase della vita ma « la
vita nella sua immortalità »: è nella gioventù, una gioventù spirituale ma
terrena (e quindi non sottratta alla problematica della felicità), che la vita
trova allora la sua dimensione universale, trova la spiritualità necessaria al
ricordo. Il mondo profano, il mondo che sa darsi l’immortalità senza
consegnarsi alla durata su cui speculano i credenti, è un mondo giovane
e che concepisce la gioventù come mito liberatore: dalla gioventù dovrà
scaturire la liberazione morale e politica di un mondo[23].
Tuttavia Benjamin non può dimenticare
che per l’uomo morto, l’esser-ricordato è solo una probabilità. Noi infatti
ricordiamo l’Idiota, ma quanti sono stati e saranno come lui? (L’Idiota è stato
creato dal genio; per esser ricordati occorre allora la creazione, un
creatore?). Il carattere indimenticabile della vita sembra inerire alla vita
singola, di colui che ha saputo renderla degna di ricordo, non alla vita di
tutti: la vita del principe Myškin non è, per così dire, alla portata di tutti.
Se l’immortalità è quindi solo ipotetica, perché aristocratica, affidata alla ἀρετή che si fa ricordare e quindi alla giovinezza poiché in essa è la
virtù suprema; sicura è invece l’eternità, ossia l’assorbimento
dell’uomo nel divenire cosmico della natura. L’eternità, separata
concettualmente dall’idea dell’immortalità e posta in posizione subordinata –
perché non esalta il finito – si prende, nel frammento teologico-politico, la
sua rivincita. Ché, dovendo contrapporre una immortalità integralmente profana
a quella « spirituale » della fede, si dovrà ricorrere allora all’elemento più
sicuro: la natura eterna, l’eterna materia, che conta anch’essa i suoi morti
uno per uno. Da questo punto di vista, il soggetto potrà allora liberarsi anche
del peso del ricordo, della sua necessità. Nella natura appare la liberazione
totale, nel movimento che tutto crea e tutto distrugge, come il fuoco cosmico
dei Presocratici: il mortale deve allora affidarsi all’eternità, alla quale non
occorre contrapporre il ricordo, l’immortalità profana che vive nel ricordo,
poiché è essa stessa profana in sommo grado, sino al punto da essere
messianica. Solo il carattere eterno della natura sembra capace, per Benjamin,
di svelare un messianesimo in grado di contrapporsi a quello del Regno di Dio.
Si tratta quindi di capire come si possa vedere nell’eternità il messianesimo,
come la natura possa infine esser considerata messianica.
Sappiamo dunque che l’uomo mortale,
finito scompare ma è eterno; il suo esser-stato, anche se trascorso per sempre,
è ormai qualcosa di eterno, inserito in un ciclo naturale, in un « ritmo » di
ampiezza cosmica che lo ha inghiottito. La restitutio in integrum
mondana non ha carattere compensativo, non si surroga a nulla: È un’immagine
usata per assonanza stilistica. Tanto poco c’è una restituzione di qualcosa,
nell’aldilà dell’ateo, che il soggetto è dissolto nella totalità naturale e
diventa eterno – non immortale – proprio per opera di questa dissoluzione: egli
compie un balzo nell’eternità della sua materia, nel gorgo privo di forma. La
morte di ogni singolo è ciò che conduce quest’ultimo « nell’eternità di un
tramonto ». Il tramonto è eterno perché c’è in ogni vita e la felicità è già il
tramonto del mondo terreno: non ci sono crepuscoli celesti. Il mondo (la «
mondanità ») ha perciò il carattere di ciò che muta e trapassa continuamente. È
un tramonto eterno ma, meglio ancora, È: un « ritmo » (non armonia, distrutta
dalla musica atonale degli amici di Benjamin), ritmo dell’eterno essere e
trapassare, finire del mondo con tutto il suo spazio e tutto il suo tempo. Ma
questo « ritmo » grandioso e colossale è ovviamente il ritmo della natura, che
è al di là del mondo, ed è l’unico solido piedestallo della « mondanità ».
L’ateo per elezione, il profano che sa cosa vuole, deve sapere, secondo
Benjamin, che il suo proprio tramonto è inscritto nel movimento generale della
natura, nel ritmo che distrugge, rendendoli già da ora infimi, gli spazi e i
tempi del mondo, nel ritmo che trasforma in eternità vissuta la sua propria
accidentale presenza nella vita, il ritmo in cui anch’egli risuona, come nota
sperduta nel battito colossale della materia.
Ma questo ritmo è ora « natura
messianica », è « felicità ». Con un colpo di mano tipico dello scrittore
epigrammatico, ma anche delle illuminazioni del mistico, Benjamin ci svela alla
fine chi sia per lui il vero Messia: la natura, che è felicità in quanto ritmo
cosmico, progredire della materia che redime, oltre i tempi della mondanità
appassita nelle sue miserie. Ma in tal modo, non solo la divinità fa posto alla
natura ma anche la storia: soluzione inevitabile se la storia era stata
concepita come il prodotto di una sorta di Dynamis primigenia. La felicità cui
l’uomo deve aspirare, se da un lato costituisce il tramonto dell’uomo,
dall’altro lo supera: la felicità trascende l’ordinamento profano poiché coincide
addirittura con il ritmo della natura messianica. Ma questa felicità è allora
felicità della natura non dell’uomo: la natura è la divinità che presiede
al destino dell’uomo e lo fa coincidere con il suo. La felicità in questo
destino è solo un frammento della felicità universale, della gioia che la
materia prova di se stessa. Benjamin ha evidentemente bisogno di ricreare una
forma di trascendenza divinizzando la natura, affermando nell’eternità della
materia una componente messianica, redentrice: il suo averroismo si colora di
un entusiasmo per così dire orgiastico, tramite il quale la natura è sentita
come puro movimento senza forma, autentico caos nel quale la materia ritorna
sempre e gioiosamente a se stessa, al di là dello spazio e del tempo. L’ateismo
tedesco, nella sua componente nietzschiano-francofortese, non disdegna di far
concorrenza alla vecchia mistica tedesca e sfocia in un naturalismo che
riabilita la natura degli alchimisti e dei maghi.
Ma da che punto di vista la natura può
essere definita messianica in senso proprio? Per Benjamin il carattere
messianico della natura sembra risultare dal suo « totale ed eterno atto di
trapasso, tramontare: aus ihrer ewigen und totalen Vergängnis ». La
natura è il vivente per eccellenza, còlto nella sua immediatezza più completa,
è la vita che c’è, ed è spontaneamente. Ma la natura non è persona, quindi non
si può dire, a rigore, che sia essa stessa il Messia. Tuttavia la natura sembra
personificare, per Benjamin, il suo proprio divenire, come se lo facesse
apparire manifestazione di una sua volontà: la natura ha personalità e capacità
per imprimere un significato naturalistico, in senso descrittivamente cosmico,
al divenire delle cose. In tal modo essa rapporta – sul piano della figurazione
– ciò che è umano a ciò che è naturale, fa vedere come l’uomo abbia il suo
senso solo nella dimensione naturale che lo trascende. Se la natura è «
messianica »; se la definizione di Messia è ancora quella enunciata in apertura
del frammento da Benjamin, la similitudine da lui instaurata è dunque la
seguente: come il Messia svela il rapporto dell’uomo con il Regno così la
natura svela il rapporto dell’uomo con la natura. Ché in questo caso il regno è
la natura stessa: il movimento, nell’ambito del quale l’uomo è inserito nella
natura, non esce da se stesso, è, per così dire, un processo senza soggetto,
poiché il processo stesso – la Natura saturnina – è il Soggetto.
Il messianesimo della natura sarebbe
quindi ricavato da Benjamin per analogia da quello trascendente della religione.
Alla restitutio in integrum spirituale va contrapposta quella mondana,
che rivendica un suo messianesimo: la riproduzione in negativo del mondo
ultraterreno è compiuta. Tuttavia la secolarizzazione è qui necessariamente
imperfetta, come in fondo ogni secolarizzazione, perché il messianesimo della
natura – proprio perché manca la persona, il soggetto autentico, l’Artefice –
non apre gli orizzonti a nuove dimensioni, non implica un trapasso qualitativo
(per l’appunto l’immortalità dei credenti) ma solo l’accettazione eterna del
mondo sensibile come unica realtà eterna e immutabile. Il messianesimo è
qui stravolto
nella sua brutta copia profana e per conseguenza definito in una prospettiva
diversa da quella iniziale. Infatti, esso consiste ora del carattere « eterno »
e « totale » del trapasso continuo di cui si alimenta la natura. Il
messianesimo non è perciò nella prospettiva della dimensione nuova, della Vita
Nuova, raggiungibile tramite l’intervento di un Salvatore, prospettiva che il
pensiero immanentista e profano dichiara fallace, imputabile solo
all’intervento esterno di un Messia sulla storia, alla fede in questo
intervento. Il messianesimo è ora nella cosa stessa, ossia nella natura,
che non fa cambiare qualità all’uomo, non può dargliene una diversa da quella
della materia: per definizione, l’uomo, l’uomo còlto nella sua immediatezza, è
natura ed è nella natura.
Ma la natura non contiene una promessa di vita ultraterrena, che
si realizza necessariamente al di là e contro la natura; la natura può
rappresentare infatti solo la fine spazio-temporale dell’uomo, la sua fine
sensibile ossia il puro nulla, se si crede che oltre quella fine non ci sia
altro. Il salto di qualità che la natura-messia fa operare al soggetto è un
salto nel nulla ossia nell’assenza di qualità: dov’è qui l’intervento di un
Messia, se il nulla è la nuova qualità del soggetto? Il messianesimo della
natura si conclude quindi nella affermazione del nichilismo: il
nichilismo diventa così, per Benjamin, una sorta di messianesimo profano. Da un
lato bisogna quindi dire che la natura non può appartenere a ciò che è
messianico, se quest’ultimo per realizzarsi ha bisogno della persona di un
Messia, la persona che esprime l’unione misteriosa e indissolubile di spirito e
corpo. Dall’altro, la dichiarazione di un contenuto messianico del Naturale,
pervicacemente inseguita da Benjamin, esprime l’esigenza che il Profano sente
di costruirsi un mondo suo ma contrapposto, come luce ad ombra ed ombra a luce,
a quello trascendente, tanto da arrivare a concepire una nuova qualità della
vita addirittura nel salto nel nulla che la morte produce, quindi nella
negazione totale contrapposta all’affermazione totale rappresentata dal Regno
di Dio.
Questo viene alla fine proclamato da Benjamin: il Messia deve
esser sentito nel corso, ritmo universale di una natura la cui felicità sia la
nostra felicità, la cui continua necessità di tramonto, di distruzione fisica,
sia ugualmente gioia e felicità per la creatura che scompare. L’eterna
immensità della natura contiene in sé la felicità della
materia, è per noi la promessa del nulla eterno, che può esser rappresentata
come la gioia più alta, la perfezione più ambita. Poiché questo sembra
all’interprete essere il pensiero segreto di Benjamin: nessuna perfezione è più
completa di quella del nulla in cui tutto si è risolto, tutto è scomparso. Il
mondo è, ma quando non sarà più, sarà come non fosse mai stato: il mondo
contiene il suo proprio nichilismo, poiché si lascerà alle spalle uno spazio
interamente vuoto, ossia nessuno spazio, come l’uomo che muore tutti i giorni.
Nessuno infatti si ricorda del ricordo; i pronipoti hanno dimenticato gli avi;
la materia dimenticherà il mondo e questo, dal punto di vista di un Benjamin,
sarà bene,
il pensiero di questa fine deve già essere percepito in termini di felicità
profana, di appagamento per le opere che il giorno presente offre con dovizia.
La felicità deve essere allora nel massimo di infelicità, nel pensiero del
nulla cosmico o meglio del caos esplodente all’infinito, distruzione galattica.
Nel sapere che la morte ci offre per sempre alla natura, che però non muore,
dovrebbe quindi affermarsi la consapevolezza di una eternità dell’uomo, che è
una forma di permanenza. Se la natura non è in se stessa il nulla, non è essa
stessa il nichilismo, tuttavia lo contiene e lo sviluppa perché si presenta a
noi come un messia che trova nel nostro annullamento, a tempo e luogo debiti,
il suo proprio appagamento: trova il suo e completa il nostro. Ma così,
esaltando la natura nullificante, identificandola con la materia, confondendo
natura e materia, Benjamin non propugna un nichilismo che alla fine distrugge
la stessa natura, trasformata in un messia che vive della sua propria
distruzione, come se la vita non dovesse concludersi che in una sorta di
suicidio universale?
IV.
Nella prospettiva del messianesimo
profano e naturalistico, dello pseudo-messianesimo di Benjamin, cosa resta
allora dell’aspirazione dell’uomo alla felicità e dell’esigenza di salvezza,
che è alla base della fede dell’uomo nel Messia? Se, per restare nell’immagine,
la Natura è l’inviata dell’Eterno, in che modo essa può redimere l’uomo dal suo
proprio male e renderlo felice? In nessun modo. Tutto ciò che Benjamin sa
offrire, dopo aver negato il trascendente e aver fatto l’apologia del mondo
profano e della natura messianica, è l’immagine della morte come festa,
in nome della felicità – non nostra, ma della natura: in questa festa e in
quella gioia è il nichilismo più superbo, che supera anche l’esigenza profana
dell’immortalità terrena, data dal ricordo.
C’è un frammento postumo di Nietzsche che sembra scritto apposta
per il suo epigono teologico-politico. « Essere liberato dalla vita e ritornare
morta natura, può essere sentito come una festa – da coloro che vogliono
morire. Amare la natura! Rimettere in onore ciò che è morto! Non l’opposto,
bensì la matrice, la regola, ha più senso dell’eccezione: infatti irrazionalità
e dolore si trovano soltanto nel cosiddetto mondo finalistico, nell’elemento
vivente » (Gaia Scienza, cit., p. 341, 11 [194]). Ritornare alla natura,
non al modo di Rousseau o dei Romantici, che hanno sentito la natura come il
vivente contrapposto alla società, nella quale era la maschera, la morte
spirituale; ritornarci con una violenza diversa da quella che – si crede –
ricondurrà l’uomo a nuova vita, dato che la natura in cui credono i
rivoluzionari purifica, ricrea e ci sarà accanto nella costruzione di una nuova
società; ritornare invece alla natura tramite la morte, ritornare « morta natura
» ossia scomparire nella natura. Questo ritorno è effettivamente eterno poiché
esso stesso non ritorna mai più: la morte non restituisce, ci fa passare nella
vita della natura, nel caos del suo movimento, non ci ricrea a nuova vita. Ma
proprio nel ritorno definitivo alla natura che un tempo ci ha creati, è la
festa, che è nella morte ed è la festa per coloro « che vogliono morire ». Se
si lascia la vita liberandosene è perché la natura ci ha creato quasi
allontanandoci da se stessa con dolore; e allora ritornare « morta natura » è
la vera festa per colui che vuole morire, dal momento che nella vita non è
alcuna festa. L’apologia nietzschiana della natura è in realtà una apologia
della morte o meglio del desiderio di morte, del suicidio spirituale, prima ancora
che fisico, di chi, solo tramite la sua fine nella natura, pensa di poter
superare « irrazionalità e dolore », che sono di casa nella vita normale, nel
mondo umano, che non è natura. L’idea della festa rappresenta
emblematicamente la felicità: la felicità vera è nella festa ma
quest’ultima si può celebrare solo con il trapasso nella natura, nel nulla che
ci inghiotte per sempre.
Il pensiero di Benjamin sembra
indubbiamente aver accolto e sviluppato la volontà di autodistruzione, che
costituisce una delle tendenze principali della speculazione di Nietzsche. La
natura diviene il luogo o lo scenario dove il sacrificio umano si consuma. Del
resto, una volta che l’uomo abbia respinto Dio e tuttavia si senta ancora
addosso la febbre del trascendente, quella vocazione dell’assoluto che solo la
fede può placare senza catastrofi morali, non è forse inevitabile che egli si
rivolga alla natura, invocandola come un Messia; che chieda alla natura, nuova
divinità, di dargli con la morte la felicità che si era da ogni lato preclusa
in questo mondo? Il rifugio nel nichilismo sembra essere l’alternativa finale
alla fede o meglio la conseguenza ultima del suo ripudio. Ed è nichilismo che
finisce con il distruggere anche la natura, facendola apparire come l’eternità
che per noi si realizza tramite la morte: alla natura si attribuisce un
carattere omicida, poiché si vede in essa una capacità di essere festa, di
darci gioia, solo quando ci fa morire.
Si sarebbe tentati di
attribuire al senso della festa e della felicità affermati da Benjamin un
carattere ironico, ma è evidente, da quanto visto, che il suo pensiero è
del tutto impenetrabile all’ironia, anche intesa in senso eterodosso. La
serietà mortale delle intenzioni speculative benjaminiane è la espressione di
quella melanconia di carattere che tanto colpiva Scholem, e viceversa[24]. La mancanza di ogni ironia
è del resto confermata dal desiderio di Benjamin di collegare la natura
messianica alla politica, poiché nella politica come l’intende il nostro tempo,
quale prassi creatrice di un mondo e un uomo nuovi, attuazione di una
palingenesi finale dell’umanità, tutto è improntato alla massima serietà. Chi
crede nella politica come salvezza non è portato all’ironia: quando la
esercita, e ciò avviene solo nei confronti dell’avversario, è mera derisione.
Nella « politica mondiale » deve tradursi con la massima serietà il
messianesimo della natura. Esso non resta un’idea astratta, una vuota
aspirazione del misticismo ateo: se la natura è il Messia essa non può non
esigere che la politica adegui il suo metodo alle sue esigenze. Il nichilismo
diviene cosi il « metodo », il modo di essere anche della politica.
Il frammento di Benjamin si chiude
senza venir meno al suo angoscioso ermetismo, con un ultimo balenio, una sorta
di fosca visione. Tutto dovrebbe chiarirsi, nell’accenno finale alla politica,
invece aumentano le tenebre, si ha la sensazione di una caduta definitiva
dell’uomo nella tomba della propria disperazione. Se mi è lecito un paragone, è
un’oscurità dantesca ossia che ricorda quella delle atmosfere infernali, come
Dante ha saputo rendercele. Che vorrà dire, infatti, che il trapassare
messianico della natura deve costituire ora il compito della politica mondiale,
la quale, proprio per questo, deve esser concepita come Nihilismus? La
politica non è evidentemente per Benjamin ordinaria amministrazione ma ha un «
compito » universale; la politica che interessa il visionario del mondo profano
può essere solo la Weltpolitik. La politica mondiale non può perciò
essere qui intesa, a mio avviso, nel senso descrittivo di situazione politica
mondiale, dominata da una o più potenze, da una o più concezioni del mondo,
confusamente consapevoli delle proprie aspirazioni e direzioni. La « politica
mondiale » è invece la politica come modo di essere del mondo, politica nel
senso universale del termine, perché dimensione nella quale si attua alla fine
l’aspirazione dell’uomo a un mondo del tutto profano e quindi esclusivamente
politico, finalmente liberato dalle pretese e dai miti della
«
teocrazia ». Se la politica viene assunta come qualcosa di universale,
universale dovrà essere anche il suo « compito ». In esso dovrà apparire e
realizzarsi quella « aspirazione » dell’uomo che è alla base della sua ricerca
di un mondo tutto terreno e che sfocia alla fine nell’esaltazione della natura
messianica: la politica mondiale, ossia la prassi come valore universale
dell’uomo, dovrà realizzare un rapporto nuovo tra politica e natura,
dovrà far apparire, a livello della politica mondiale in senso stretto, quel
rapporto tra uomo e natura che trova nella felicità nichilistica la sua acme:
una politica naturalistica, ossia il vero nichilismo, dovrà dominare nel mondo.
Il contenuto della politica è dunque
la natura. Se questa interpretazione è esatta, ognuno può notare di quanto si
siano stravolti i termini di quel rapporto natura-società, le cui
contraddizioni il pensiero del Settecento (e di Rousseau in particolare) aveva
creduto di risolvere nell’affermazione della politica come valore universale,
etico e perfino estetico. Ora la natura deve ancora ispirare la politica, ma
nel senso che quest’ultima deve erstreben, anelare a risolversi in una
natura il cui Messia è il Nulla eterno: la politica deve aspirare all’eternità,
deve diventare il metodo che garantisce, su scala universale, l’immortalità
profana ossia l’eternità nella natura nullificante. Il compito della politica è
percio dato dall’aspirazione consapevole alla Vergängnis che appare
nella natura, quel divenire del trapassare, quel mutare continuo, quell’apparire
e scomparire che, per Benjamin, è l’unico momento compiuto dell’esistenza: la
dissoluzione è l’unica cosa compiuta. Il nichilismo che la politica deve
realizzare non va quindi inteso – a mio avviso – nel senso ristretto che gli
individui politici, artefici del Profano devono respingere nel nulla il
trascendente e le seduzioni del Regno. Il nichilismo è il « metodo » della
politica non semplicemente perché essa, come suo scopo, deve mirare a
distruggere sistematicamente le vestigia del vecchio mondo ma perche è nello
stesso tempo il contenuto della politica. Se quest’ultimo è in funzione
della redenzione messianica dell’umanità e se il Messia è la natura
nullificante allora il contenuto della politica è necessariamente il
nichilismo.
La politica mondiale, se vuol essere tale, deve, per Benjamin,
porre in essere un nichilismo mondiale, deve cioè essere integralmente
rivoluzionaria. Nella visione della politica che redime il mondo nel
nichilismo, che annuncia la natura messianica, « anche per quegli stadi
dell’umano che sono natura », vale a dire, (il riferimento mi sembra comunque
oscuro), anche per quel modo di essere meramente naturale dell’uomo, immediato,
non riflesso, che non percepisce il carattere di trapasso della vita e
messianico della natura caos-cosmica, ed è quindi semplice naturalità, vita
all’insegna del carpe diem; in questa visione finale, sorta di
corruzione della visione finale di Faust morente, sarebbe mantenuta (e anzi si
realizzerebbe) l’esigenza di redenzione. Una felicità che all’uomo può giungere
solo da un Messia profano, ed essere quindi il prodotto di una redenzione che,
per forza di cose, distrugge tutto un mondo (la redenzione non può mai essere
parziale). Una redenzione che pone perciò in essere la totalità e nel massimo della
distruzione realizza il massimo di perfezione: e questo estremo, che è il
Nulla, si può avere solo nella natura poiché solo la natura annichila il
finito; allora quella felicità, che è essa stessa messianica perché
fatta balenare nella promessa del messia profano, nell’attesa dell’attuarsi del
mondo profano che tutto deve rinnovare, si realizza nella politica che, sola,
deve realizzare per Benjamin la natura: un triplice cerchio, un triste
connubio, ove natura e politica danno corpo alle aspettative di avvento
dell’individuo che non crede più né alla possibilità di una felicità autentica
né alla possibilità di una redenzione autentica, ossia religiosa.
Lo stravolgimento che l’uomo nuovo Benjamin fa dell’aspirazione
umana alla felicità e dell’esigenza umana di una salvezza morale, trova quindi
il suo compimento – dopo che l’esigenza di salvezza è stata assimilata
all’aspirazione alla felicità – nella riduzione finale della politica al puro
nichilismo. Aver voluto prendere le mosse dal supposto nesso tra teologia e
politica, aver voluto superare la prima nella seconda, aver creato infine una
teologia della politica, tutto ciò conduce al dominio del Nulla sul mondo. Né
serve opporre istintivamente il pensiero che il nulla, se è tale, non esiste:
il nulla infatti per Benjamin più che essenza è scopo, traguardo finale della
storia, è un nulla teleologico più che ontologico. Allora: la politica in cui
crede l’ateo rivoluzionario mantiene il mondo ma contemporaneamente lo dissolve
poiché essa aspira al nulla, alla morte cui il mondo deve giungere per
redimersi. Ma una filosofia del nulla, come quella di Benjamin, non è forse una
malattia del pensiero, il cui carattere il pensiero stesso non riesce più a
spiegare[25]?
Quella filosofia non risolve le domande che pone, poiché le stravolge in
paradossi cui essa stessa è paradossale risposta: e i paradossi, al pari delle
buone intenzioni, lastricano evidentemente le vie dell’inferno filosofico, nel
quale anche noi siamo stati rinchiusi, noi che vogliamo essere migliori e ci
crediamo liberi. Altrimenti, perché il nostro secolo sembra il tramonto di
tutto?
* Professore
incaricato nell’Università di Perugia. [Questo saggio è apparso sulla ‘Rivista
Internazionale di Filosofia del Diritto’, LV, Fasc. 3, 1978, pp. 583-629. Ringrazio la Direzione della Rivista per aver
gentilmente acconsentito alla presente riproduzione su internet. All’epoca ero professore incaricato di
Filosofia del Diritto nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di
Perugia. Avrei vinto il concorso a cattedra nell’estate del 1980].
[1] Cfr. Th.
W. Adorno, Einleitung zu Benjamins ‘Schriften’, 1955, ora in Id., Ueber Walter Benjamin,
Francoforte/M., 1970, pp. 33-51; pp. 37-38. Il volume raccoglie tutti gli
scritti commemorativi di Adorno su Benjamin, tra i quali il primo e più
importante è la Charakteristik Walter Benjamins, 1950, op. cit., pp.
11-29. Tra la letteratura che si occupa di Benjamin in generale, e che in
Germania comincia ad essere cospicua, ho tenuto presente: R. Tiedemann, Studien
zur Philosophie Walter Benjamins, Francoforte/M., 1965, specialmente la
parte III, pp. 103-136; lo studio di H. Arendt,
Walter Benjamin, apparso nella annata 1968 del ‘Merkur’; dal volume
collettaneo Zur Aktualität Walter Benjamins, Francoforte/M., 1972, i
contributi: H. Schweppenhäuser, Physiognomie
einer Physiognomikers, pp. 139-171; I. Habermas,
Bewusstmachende oder rettende Kritik – die Aktualität Walter Benjamins,
pp. 175-221. Inoltre, i due brevi studi di G. Scholem, che citerò nella
traduzione italiana, apparsa mentre stavo ultimando questo lavoro: G. Scholem, Walter Benjamin e il suo
angelo, Milano, 1978, tr. it. M.T. Mandalari, che comprende il
saggio-commemorazione del 1968 dal titolo Walter Benjamin. Infine: H. Guenther, Walter Benjamin. Zwischen
Marxismus und Theologie, Olten, 1974, sp. pp. 21-90; il volume collettaneo Materialen
zu Benjamins Thesen ‘Ueber den Begriff der Geschichte’. Beiträge and
Interpretationen, a cura di P. Bulthaup, Francoforte/M., 1975; P. Szondi, Hoffnung im Vergangenen.
Ueber Walter Benjamin, 1963, in Satz und Gegensatz. Sechs Essays, Francoforte/M.,
1976, pp. 79-97. Per ciò che riguarda il
« frammento teologico-politico » oggetto specifico del mio lavoro, se ne
trovano pochissimi cenni presso gli autori citati: per un elenco puntuale cfr.
la successiva nota n. 6. Per gli autori italiani, che si occupano però
prevalentemente del Benjamin critico letterario, cfr. M. Cacciari, Di alcuni motivi in Walter
Benjamin, in Nuova Corrente, 67º, 1975, pp. 209-423; F. Masini, Per una genealogia dei
significati e Melancholia illa allegorica, rist. in Brecht e Benjamin.
Scienza della letteratura e ermeneutica materialistica, Bari, 1977, pp.
107-112, 113-131. A titolo informativo, per porre in evidenza l’allargarsi
dell’interesse odierno su Benjamin, segnalo lo studio di S. Buck-Morss, The origin of negative
dialectics: Theodor W. Adorno, Walter Benjamin and The Frankfurt Institute,
Hassocks, Harvester, 1977 (§ 20.20).
[2] Il parallelo è tratto da Th. W. Adorno, Dialettica negativa,
tr. it., C.A. Donolo, Torino, 1970, Introduzione, p. 15. Nella citata Einleitung
alle Schriften di Benjamin, Adorno sostiene comunque che la filosofia di
Benjamin deve paragonarsi alla Neue Musik, per il suo carattere «
atematico » e « frammentario »: Ueber W. B., cit., p. 46. Risulta meno
chiaro allora il nesso, affermato da Adorno, tra Benjamin e romantici come
Novalis, Schlegel, ossia con il modo di fare filosofia per frammenti da parte
dei romantici: la musica romantica non è infatti atonale. In realtà lo stesso
Benjamin ha cercato di dare un fondamento teoretico al suo modo di pensare,
dichiarando che il « sistema » conserva al suo interno l’ordito di « mosaico »:
per cui anche i « trattati » devono rivelare l’intima tessitura molecolare del
pensiero. « Il valore dei frammenti di pensiero è tanto più decisivo quanto
meno essi sanno commisurarsi immediatamente con la concezione di fondo, e da
esso dipende lo splendore della rappresentazione nella stessa misura in cui
quello del mosaico dipende dalla qualità del vetro fuso. La relazione
dell’elaborazione micrologica con l’entità del tutto figurativa e intellettuale
esprime il fatto che il contenuto di verità può essere colto soltanto
penetrando con estrema precisione i particolari di un certo stato di cose » (Premessa
gnoseologica a W. Benjamin, Il
dramma barocco tedesco, tr. it., E. Filippini, Torino, 1971, p. 9 (Gesammelte
Schriften [=GS], a cura di Tiedemann e Schweppenhäuser, Francoforte/M., I,
1, pp. 208-209. Le GS hanno cominciato ad uscire negli anni Settanta).
Inoppugnabile mi sembra ad ogni modo l’affermazione di Scholem, secondo la
quale la personalità di Benjamin è tale da conferire « anche a suoi brevi
lavori o scritti un carattere frammentario e nel contempo definitivo » (Scholem, op. cit., p. 81). Forse
per questo Adorno dice che « Der Blick
seiner Philosophie ist medusisch » (op. cit., p. 17).
[3] Ciò che per gli antenati in filosofia, ossia
gli Hoelderlin, gli Hegel, è lavoro preparatorio, meditazione giovanile, ancora
sparsa, diviene poi forma definitiva del pensiero presso i discendenti. Si
paragonino, p.e., i manoscritti filosofici di Hoelderlin noti come Ueber das
Gesetz der Freiheit e Das Werden im Vergehen (Sämtlicbe Werke,
ed. Mieth, rist. Darmstadt, 1970, I, pp. 835-6; 900-5), con il modo di scrivere
di Adorno, di Benjamin. Il fiammeggiare isolato dell’intuizione di Hoelderlin
sembra costituire l’archetipo della monade speculativa della « costellazione » dei teorici critici. Il
processo stilistico di cui Nietzsche è stato il grande mediatore, ma in senso
negativo, dirompente, è ora finalmente compiuto all’inizio del XX secolo.
L’incapacità di pensare sistematicamente da parte dei discendenti ultimi si
nasconde però dietro l’alibi politico, l’ideologia, le cui virtù sono
evidentemente innumerevoli, come quelle delle erbe magiche.
[4] Quello stesso desiderio che si trova
espresso con grande chiarezza, determinazione e violenza intellettuale nelle
pagine del Marx degli anni Quaranta, impregnate di spirito antireligioso, di
titanismo prometeico, alla ricerca di una palingenesi totale e definitiva,
insomma di valori rivoluzionari intesi messianicamente, per i quali Marx non ha
ancora costruito il piedestallo « scientifico » e che comunque non ha poi certo
rinnegato, in nome di una più pacata, perché scientifica, visione della
rivoluzione. Nel numero 264 del 5 aprile 1849 della Neue Rheinische Zeitung,
egli scrive, ripensando all’esperienza del ’48, le note parole, ossia « che
ogni sollevazione rivoluzionaria, per quanto il suo scopo possa sembrare ancora
remoto dalla lotta di classe, deve naufragare fino a che la classe operaia
rivoluzionaria non riporti la vittoria, e che ogni riforma sociale resta
un’utopia, fino a che la rivoluzione proletaria e la controrivoluzione feudale
non si misurino con le armi in una guerra mondiale » (Lohnarbeit und
Kapital, in K. Marx, Werke,
ed. Lieher e B. Kautsky, Darmstad, 19753, VI, pp. 758-759).
[5] Circa il nesso tra Benjamin e C. Schmitt,
cfr. H. Günther, op. cit.,
p. 61, per l’uso che Benjamin fa, in chiave ermeneutica, della categoria
schmittiana della sovranità intesa dal punto di vista della « teologia politica
» nel cit. Il dramma barocco tedesco (tr. it., p. 51 ss.; GS, I, l, p.
245 ss). Interessante mi sembra l’osservazione di Fr.-A. Hausen-LöWe, Zwischen Gestern und Heute. Zu den
Schriften Walter Benjamins, recensione in Hochland, 49º, 1956-7, pp.
268-273, secondo la quale il frammento del Nostro intitolato Der destruktive
Charakter (GS, IV, 1, pp. 396-8; il testo è degli anni Trenta), non sarebbe
dispiaciuto ad uno Ernst Jünger (e magari, aggiungo, ad uno Ernst von Salomon).
Il giudizio di Scholem su questo frammento è invece diverso. Non ci vede
ovviamente un Benjamin per così dire « fascista » ma solo l’espressione di una
fase ulteriore della sua sensibilità per « l’elemento sovversivo »
presente nell’opera e nella individualità creatrici, elemento la cui scoperta
sarebbe pur sempre frutto della rielaborazione benjaminiana del messianesimo
ebraico, con la visione di distruzione creatrice che contiene (Scholem, op. cit., p. 106). In
ogni modo, nel frammento c’è una apologia della gioventù, della distruzione,
del movimento, del superomismo, tali da conferire al testo un’aura di tipo
futurista. « Il carattere distruttivo conosce una sola parola d’ordine: fare
largo; solo un’attività: far piazza pulita (räumen). Il suo bisogno di
aria fresca e spazio libero è più forte di ogni odio. Il carattere distruttivo
è giovane e allegro. Infatti il distruggere ringiovanisce poiché elimina dal
cammino le tracce della nostra propria età e si rasserena poiché il far piazza
pulita esprime una riduzione perfetta, un radicarsi della sua propria
condizione Il carattere distruttivo è
sempre alacre al lavoro (…) non ha immagini davanti agli occhi (…) è un segnale
(…) non si cura di essere capito (…) sta nel fronte dei tradizionalisti (…) non vede nulla di stabile e durevole (…).
Poiché vede sentieri dappertutto sta egli stesso sempre all’incrocio. Nessun
attimo può sapere cosa porterà il successivo. [Infine] il carattere distruttivo
non vive perché convinto che la vita abbia valore, bensi che non valga la pena
suicidarsi ». Simili affermazioni non hanno ovviamente impedito a Benjamin di
essere canonizzato tra i profeti della c.d. « Nuova Sinistra » tedesca. « La
fama postuma di Benjamin, iniziatasi con l’edizione degli Scritti curata da
Adorno [1955] e rafforzatasi sempre più negli anni Sessanta, rappresenta anche
un momento della politicizzazione dell’opposizione studentesca. Quest’ultima,
una volta restaurati nella Repubblica Federale Tedesca il capitalismo,
l’anticomunismo e le scienze dello spirito, si legò a Bloch e alla « teoria
critica », prima di riscoprire Marx, Lenin e le lotte di classe.
Provvisoriamente e non senza distorcimenti, Benjamin sembrò esser stato quasi
l’unico ad aver creato prospettive sovrastrutturali di tipo marxista, senza ipostatizzare
l’arte borghese e tradire la rivoluzione » (dalla. Vorbemerkung di B. Lindner al numero di ‘Text+Kritik’
dedicato a Benjamin nell’ottobre 1971: H. 31-32, pp. 1-2).
[6] Theologisch-politisches Fragment, GS, II, 1, pp. 203-204. ll manoscritto originale è privo di titolo
che, nella sua forma spinoziana, è dovuto ad Adorno, già nelle Schriften
di Benjamin. Incerta anche la data. Scholem, seguito da Tiedemann, la situa
all’inizio degli anni venti, quando Benjamin era verosimilmente sotto
l’inffusso del Geist der Utopie di Bloch, apparso nel 1918. Secondo
Adorno invece il testo potrebbe risalire al 1938, quando Benjamin era già
completamente comunista. Per ulteriori dettagli, cfr. l’apparato critico delle
GS, II, 3, pp. 946-949. Circa interpretazioni specifiche di questo, che è forse
uno dei testi più difficili di Benjamin, ho tenuto presente G. Kaiser, Benjamin. Adorno. Zwei
Studien, (1972 e 1973), Francoforte/M., 1974. Nel saggio Walter Benjamin; ‘
Geschichtsphilosophische Thesen ’, op. cit., pp. 1-77, l’autore tenta
un’analisi puntuale del frammento teologico-politico alle pp. 58-63,
dichiarando priva di valore, dal punto di vista puramente concettuale, la
disputa sulla sua datazione: il frammento si inquadrerebbe infatti
perfettamente nella problematica benjaminiana, così come è dato vederla
nell’ultima opera, le note « tesi » sul concetto della storia (op. cit.,
pp. 1-5). Riferimenti a concetti espressi nel frammento, ho trovato in: Adorno, Einleitung, cit., pp.
42-43; Tiedemann, op. cit.,
p. 135; H. Salzinger, Walter
Benjamin – Theologie der Revolution, in Kürbiskern, 4/68, pp.
629-647, sp. pp. 639-641; Schweppenhäuser,
op. cit., p. 151; Habermas,
op. cit., p. 135; Guenther,
op. cit., p. 51; H.-D. Kittsteiner,
Die ‘ Geschichtsphilosophische Thesen ’, in Materialen, cit., pp.
28-42, sp. nota a p. 41.
[7] La « mentalità teologica » di Benjamin,
assai pronunciata nei suoi anni giovanili (…) era – quasi d’istinto, avrei
detto – orientata su concetti ebraici. Le idee cristiane non hanno mai
esercitato un’attrazione su di lui. Era anzi scoperta la sua antipatia per il
neocattolicesimo, che imperversava allora in Germania e Francia tra gli
intellettuali ebrei » (Scholem, op.
cit., p. 103). Secondo Guenther,
determinante è stata l’influenza dell’ex-hegeliano e mistico ebreo Franz
Rosenzweig su Benjamin: op. cit., pp. 45-53. In Rosenzweig, ci sarebbe
già, tra l’altro, una negazione anarcoide e nichilistica dello Stato e
l’equazione, cara a Benjamin, diritto=violenza. (Sulla personalità di
Rosenzweig, cfr. la Introduzione all’edizione italiana di Remo Bodei,
all’opera di F. Rosenzweig, Hegel
e lo Stato, Bologna, 1976, tr. it., Künkler-Giavotto e Curino-Cerrato, pp.
IX-XXXIX. con un riferimento a Benjamin a p. XXXI).
[8] Circa la familiarità di Benjamin con
Hoelderlin, cfr. lo studio giovanile Zwei Gedichte von Friedrich
Hölderlin. « Dichtermut » - «
Blödigkeit », (1914-1915), GS, pp. l05-126, sp. p. 112 ss., p. 118 per
l’analisi del rapporto tra le due Ordnungen divina e umana e la
impossibilità di una loro autentica mediazione (secondo Benjamin), quella
mediazione cui aspirava invece Hoelderlin. Circa la sua conoscenza del primo
Hegel, Adorno nota come ne avesse avuto un’infarinatura (« den er kaum kannte
»: Charakteristik, cit., p. 22).
[9] In antitesi a questa mancanza
di distinzione, cfr. I. Donoso Cortes,
che è stato uno dei più attenti indagatori del nesso tra teologia e politica: «
Come la sottomissione ai precetti divini non porta con sé, né esplicitamente né
implicitamente l’istituzione di un Governo teocratico, così il riconoscimento,
in teoria e in pratica, delle verità fondamentali di cui è depositaria la
Chiesa, non porta con sé, né esplicitamente né implicitamente, la sua
dominazione negli affari temporali. La Chiesa giammai ha confuso queste due
cose, cosi differenti tra loro » (Risposta al Signor de Broglie, del
15.XI.1852, in Id., Il potere
cristiano, antologia, a cura di G. De Rosa, tr. L. Cipriani-Panunzio,
Brescia, 1964, p. 152). ll Cattolicesimo intende il « Regno di Dio » in senso
prettamente spirituale, realtà che è « dentro di noi »; e sarà quel
Regno a realizzarsi tramite il Messia. Benjamin, che esaspera la prospettiva
del messianesimo ebraico, intende l’avvento del Regno in termini di teocrazia,
una dimensione di governo e potere, di liberazione del Popolo, non
escatologica. Per il Cristiano invece la liberazione è concettualmente già
avvenuta nel momento in cui crede e vive in Cristo, che realizza il miracolo
del Regno già dentro di noi, in modo puramente spirituale. L’ebraismo di
Benjamin favorisce quindi la confusione tra teologia e teocrazia, aiuta a
concepire la seconda come sbocco ultimo e necessario della prima, che, del
resto, esprime un modo distorto di intendere la fede da parte dei non-credenti.
(Per un confronto tra Donoso e Benjamin, cfr. G. Mensching, Zeit und Fortschritt in den
geschichtsphilosophischen Thesen Walter Benjamins, in Materialien,
cit., pp. 170-190, 188-190, che nota in Benjamin l’uso di motivi del pensiero
della Restaurazione a fini rivoluzionari, il capovolgimento in senso rivoluzionario
del rapporto tra teologia e politica).
[10] Op. cit., p, 205. La via per giungere al vero Regno, all’umanità nuova, si
realizza in modo estatico, liberando la soggettività sommersa dalle nubi del
passato, della religione, del presente in generale, in primo luogo mediante la
musica. Bloch si affida ad un elemento dionisiaco, ad un neo-paganesimo non
propriamente nuovo, mediato dalle categorie dell’ineffabile pseudo-cristiano,
ossia blochiano: il gotico, l’interiorità, la caligine, la chiaroveggenza, la
luce-sole, ai limiti del feuilleton teoretico. « Se noi potessimo conoscerci,
verrebbe il nostro Capo e la musica è l’unica teurgia soggettiva. Essa ci
conduce nella stanza calda, profonda e gotica dell’interiorità, l’unica che
ancora riluce nella oscurità non chiara [in dem unklaren Dunkel]. E solo
da quella stanza può venire la luce che manda in rovina e fa esplodere tra di
loro il groviglio, l’arida potenza del semplice esistente, il crudo e
persecutorio brancolare della cecità demiurgica, quando non addirittura la bara
dell’essere stesso, abbandonato da Dio. Il Regno infatti è stato promesso non
ai morti ma ai vivi: e proprio questa nostra interiorità gotica, a mala pena
conosciuta, ma calda e profonda, si rivelerà al levar del sole come il regno celeste
rivelato » (op. cit., p. 208).
[11] Das Glück des antiken Menschen, 1916, GS, II, 1, pp. 126-129. Per il concetto della festa, cfr. però
l’articolo scritto nel 1913 per Der Anfang, pubblicazione del «
movimento della gioventù » di Gustav Wyneken, intitolato Gedanken ueber
Gerhart Hauptmanns Festspiel. « Nella battaglia non si guadagna combattendo
altro che la libertà, che è la necessità primaria nel mondo delle potenze.
Nella festa il giorno e l’attività inconsapevole possono giungere a coscienza
dello spirito, La festa celebra la pace come significato riposto della
lotta. La pace guadagnata combattendo conduce la cultura » (GS, II, 1, p. 59).
[12] Parco centrale, in W. Benjamin, Angelus
Novus. Saggi e frammenti, tr. it., A. Solmi, Torino, 1962, p. 136 (GS, I,
2, pp. 682-683). Per il rifemento a Nietzsche, cfr. quanto Benjamin scrive nel
giovanile dialogo Ueber die Religiosität dcr Gegenwart, 1913: « Credo
inoltre che abbiamo già avuto dei profeti: Tolstoi, Nietzsche, Strindberg, che
alla fine la nostra epoca, gravida d’avvenire, troverà un uomo nuovo» (GS, II,
1, p. 34).
[13] F. Nietzsche, Opere, ed. Colli-Montinari, V, II, La
gaia scienza, aforisma n. 337, p. 197. Cfr. anche l’aforisma n. 56, pp.
76-77 (Werke, ed. Kröner, V, pp. 259-260; p. 90).
[14] Tesi di filosofia della storia,
tesi II, in Angelus Novus, cit., pp. 72-73; GS,
I, 2, pp. 69-1-704. 693, Il tema della felicità è ovviamente ricorrente nel
pensiero di Beniamin. sin dall’epoca giovanile. Nello scritto Das
Dornröschen, 1911, impregnato della mistica della gioventù, egli nota come
« felicità e ideale siano spesso in contraddizione » (GS, II, 1, p. 11). Però,
scrive nel già citato dialogo sulla religiosità del presente, i tempi aspirano
« audacemente » alla felicità o meglio ad una nuova forma di « gioiosità » (ivi,
p. 18), che ha messo in crisi la religiosità tradizionale o « romantica ». La
religione del resto non ha nulla a che vedere con la felicità: « le religioni
sono prodotte dalla necessità e non dalla felicità » (ivi, p. 25; anche
p. 31). Una definizione della felicità in linea con il passo della Tesi, si
trova nei manoscritti del lavoro sui Passages parigini, « Was die
Wissenschaft ‘festgestellt’ hat, kann das Eingedenken modifizieren. Das
Eingedenken kann das Unabgeschlossene (das Glück) zu einem Abgeschlossenen und
das Abgescholssene (das Leid) zu einem Unabgeschlossenen machen. Das ist
Theologie; aber im Eingedenken machen wir eine Erfahrung, die uns verbietet,
die Geschichte grundsätzlich atheologisch zu begreifen, so wenig wir sie in
unmittelbar theologischen Begriffen zu schreiben versuchen würden » (cit. da Tiedermann, Studien, cit., p,
118). Cfr. anche la riffessione sulla « dialettica della felicità » in GS, III,
p. 357 (citata da Guenther, op.
cit., pp. 155-156) nonché la definizione in Einbahnstrasse: « Esser
felici significa potersi render conto di se stessi senza timore » (GS, IV, p.
113). Questa definizione, tutto sommato abbastanza anodina, non svincola
comunque la problematica della felicità da quella del mondo profano da
realizzare: infatti, come può l’uomo sapere chi veramente è se non nella
affermazione del senso (solo) profano della sua vita? (Per l’infelicità cfr.
invece una notazione di Zentralpark: « Man kann sagen: das Glück
durchschauerte ihm; vom Unglück kann man Analoges nicht sagen. Unglück kann im
Naturzustand nicht in uns eingehen » (GS, I, 2, pp. 658-659). Sul concetto di
felicità in Benjamin: Adorno, Charakteristik,
cit., p. 13; Tiedemann, op.
cit., p. 118 ss., 135 ss.; Scholem,
op. cit., p. 51 ss.; Habermas,
op. cit., pp. 199-200, 217-219; Kaiser,
op. cit., pp. 43 ss., 60 ss.; Guenther,
op. cit., pp. 155-156; K.R. Greffrath,
Der historische Materialist als dialektischer Historischer, in Materialien,
cit., pp. 193-230, 209 ss.
[15] Sul concetto, non meramente
letterario, dello « inespresso », cfr. il saggio su Goethe, Le affinità
elettive, in Angelus Novus, cit., pp. 212-213; GS, I, 1, pp.
180-181; e su quello affine dello « incomunieabile », cfr. Sulla lingua in
generale e sulla lingua degli uomini, in Angelus Novus, cit., pp.
51-67; GS, II, 1, p. 156, per la lingua come « Symbol des Nichtmitteilbaren ».
La felicità, una volta realizzatasi, dovrà render esplicito ciò che è rimasto
finora inespresso e incomunicabile, cui la lingua non è riuscita a dar corpo.
La lingua come la vita, la lingua non sorretta da pensieri o dominata da
pensieri che non possono esprimersi, inondare la prassi. Si profila così in
Benjamin, a mio avviso, una mistica dell’inesprimibile, una eterna scontentezza
che nessuna realtà potrà mai soddisfare. Se si crede, con Benjamin, che solo
ciò che non si è potuto esprimere, per colpa di altri, potrà dare un giorno
senso alla vita, allora bisogna per l’appunto pensare una redenzione totale e
profana del vivente come unica possibilità per l’inespresso e l’incomunicabile
di farsi valere: come a dire, distruggiamo tutto e chi finora ha taciuto si
metterà di colpo a parlare (o a uccidere?). La redenzione redimerà il silenzio,
non ci sarà più il silenzio che tutto consuma. (Il nesso tra silenzio e dialogo
è analizzato da Benjamin già nello scritto giovanile Methaphysik der Jugend,
GS, II, 1, pp. 91-104, nella parte intitolata Das Gespräch, pp. 91-96).
Evidentemente, anche per Benjamin vale la massima conclusiva del Tractatus
di Wittgestein: « Wovon man nicht sprechen kann, darüber muss man schweigen »,
ma solo fino al momento della redenzione profana. Nell’attesa, felicità non c’è
mai e la vita non è mai bella. Anche Aleksandr Blok – erano quelli anni fatali
– esprime un’aspettativa universale, la convinzione che l’inespresso e il
non-accaduto avranno luogo, sullo slancio della rivoluzione, ma con quanta
maggior semplicità, bontà e ingenua freschezza rispetto a Benjamin: « Val la
pena di vivere solo per pretendere dalla vita smisurate esigenze: tutto o
niente; attendere l’inatteso; credere non in ‘ ciò che non esiste al mondo ’,
ma in ciò che dovrebbe esistervi, anche se per ora non c’è e per lungo tempo
non ei sarà. Ma la vita ce lo renderà, perché è bella » (Intelligencja
e rivoluzione, 1918, tr. it. Olsufieva e Michaelles, nell’antologia dallo
stesso titolo, Milano, 1978, p. 64).
[16] Cfr. le Tesi sul concetto
della storia (o di filosofia della storia). Oltre all’ampia letteratura
tedesca, raccolta nel volume dei Materialien, cit., mi permetto rinviare
al mio saggio: P. Pasqualucci, La
rivoluzione come messia. Considerazioni sulla filosofia politica di Benjamin,
in Trimestre, X, 1-2, 1977, pp. 67-112.
[17] Il passo di Shakespeare recita:
« But thought’s the slave of life, / and life time’s fool; / And time, that
takes survey of all the world, / Must have a stop » (Henry IV, Pt I, act
V).
[18] Circa questo essere categoria
del Profano come « seines leisesten Nahens » del Regno, cfr. Bloch per un
accostamento formale, quando scrive che nel passato imperava una
rappresentazione mitica delle « cose esteriori », impregnate di spiriti,
angeli: dominarono « die bunte Wolken des nächtlichen Himmels und die ganze
Nähe der anderen Welt » (Geist der Utopie, cit., p. 202). Per
l’interpretazione della categoria della vicinanza, cfr. Schweppenhäuser, op. cit., pp. 151-152; Guenther, op. cit., p. 51 (che
sostiene l’origine rosenzweighiana dell’immagine); Kaiser, op. cit., p. 65. Tuttavia, la « vicinanza »
del profano al Regno può essere intesa secondo un’ulteriore sfumatura, se si
interpreta in un certo modo l’affermazione sopra vista secondo la quale « l’ordinamento profano …
può promuovere la venuta del regno mcssianico ». Se ci si attiene rigidamente
al concetto che il regno messianico « è promosso » da quello profano, il primo
non è quindi una forza reale. A maggior ragione bisogna allora evitare che la
liberazione profana corra il rischio di essere intesa in senso « religioso »,
come è avvenuto e può avvenire nei movimenti politici popolari (questo è
successo anche nella Rivoluzione Russa). La sua « vicinanza » alla prospettiva
della liberazione religiosa non deve quindi trarre in inganno, bisogna sapere
che si tratta solo di una vicinanza, una prossimità che non incide sulla
natura di ciò che è prossimo, non lo muta. Forse anche per questo, Benjamin,
riprendendo Nietzsche, si preoccupa poi di affermare che la natura, con il suo
« ritmo di eterno tramontare » è la sola e vera realtà « messianica ». In ogni
caso, l’ateismo di Benjamin appare sempre radicale, perché sembra preoccuparsi
di eliminare anche l’aura «religiosa » in senso «messianico », che può
rivestire l’impresa di liberazione profana. Quest’ultima dovrà comprendere la
felicità anche nel momento del suo tramontare ciclico, senza commettere
l’errore di attribuire al « tramonto » caratteri di infelicità e sofferenza che
riconducono fatalmente all’idea del Regno, a negare il senso della visione
profana della storia.
[19] Cfr. Hegel, Die Vernunft in der Geschichte, ed.
Hoffmeister, Amburgo, l970³: « So ist der Geist seiner Natur nach bei sich
selbst, oder es ist frei »; «Frei bin ich, wenn ich bei mir selbst bin » (pp.
54 e 55; traduzione italiana: Lezioni sulla filosofia della storia,
Firenze, 1963, I, pp. 37 e 38).
[20] Sul simbolo di se stesso come
Angelus Satana (= Agesilaus Santander), cfr. la decrittazione del simbolo in Scholem, op. cit., p. 17 ss. Per
una collocazione del pensiero di Benjamin nell’ambito del discorso
contemporaneo sulla violenza, cfr. S. Cotta,
Perché la violenza? Una interpretazione filosofica, L’Aquila, 1978, p.
105 ss.
[21] L’Idiota di Dostoevskij, 1920, in Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura,
tr. A. Marietti, Torino, 1973, pp. 76-77; GS, II, 1, pp. 239-241.
[22] Circa l’idea di eternità è da
notare un riferimento a Valéry. « Valéry conclude la sua riflessione con queste
parole: ‘ È come se il venir meno negli spiriti dell’idea di eternità
coincidesse con la crescente avversione per i lavori lunghi e pazienti ’. Il
pensiero dell’eternità ha sempre avuto la sua fonte essenziale nella morte. Se
quell’idea sparisce, possiamo inferirne una trasformazione nell’aspetto della
morte » (Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Angelus
Novus, cit., p. 245; GS, II, 2, p. 449). Secondo Adorno, la mitologia
dell’eternità-natura può essere venuta a Benjamin da Blanqui, che in prigione
aveva cominciato a scrivere un libro intitolato L’éternité par les astres,
che anticiperebbe la dottrina nietzschiana dell’eterno ritorno dell’uguale:
cfr. Charakteristik, cit., p. 25. Sul punto, cfr. anche Tiedemann, Studien, cit., p. 105.
Cfr. del resto l’accostamento di Benjamin fra Blanqui, Baudelaire e Nietzsche
nella note sparse di Zentralpark, GS, I, 2, p. 673.
[23] Verso la fine di questo scritto
Benjamin afferma che « tutto il movimento del libro assomiglia a un immane
inabissarsi in un cratere. Poiché mancano la natura e l’infanzia, l’umanità può
essere raggiunta solo nella catastrofe, con l’autodistruzione» (op. cit.,
p. 77; GS, cit., p. 240). Natura e infanzia, ovvero la gioventù. Benjamin
riafferma qui il mito della gioventù, liberata e liberatrice, che lo aveva
affascinato all’epoca della sua appartenenza alla Jugendbewegung, quando
scriveva: « Wir leben im Zeitalter des Sozialismus, der Frauenbewegung, des
Verkehrs, des Individualismus. Gehen wir nicht dem Zeitalter der Jugend
entgegen? » (GS, II, 1, p. 9). Il concetto della gioventù come categoria
rivoluzionaria dcll’esistenza, elemento apportatore di nuovi valori, si trova
espresso in modo impressionante nello scritto del 1913-1914: Romantik. Eine
nicht gehaltene Rede an die Schuljugend, GS, II, l, pp. 42-47, apparso
sullo Anfang. Benjamin rigetta in esso il « romanticismo » insegnato a
scuola ossia la cultura tradizionale, classica e idealistica, da « scienza
dello spirito ». A questa cultura, Benjamin contrappone l’insegnamento di
Nietzsche, la cui « Mission unter der Schuljugend » è stata certamente quella
di richiamare i giovani a se stessi, al vero spirito, alla sincerità. « Noi,
noi che con Nietzsche volemmo essere aristocratici, diversi, veri, belli; per
noi la verità non fu ordinamento, non ci fu una scuola della verità »
(...). « Nessuno Schiller e nessun Hoelderlin ci sono di aiuto. Nessuna
gioventù ci è d’aiuto quando perde tempo con i suoi amati poeti e lascia che la
scuola sia solo scuola ». Per cui vero « Romanticismo vuol dire allora: volontà
attuale di realizzare una nuova gioventù e una nuova scuola » (lo scritto Metaphysik
der Jugend, cit., non tratta in realtà del concetto della gioventù o della
sua missione, ampiamente esposta negli articoli e scritti raccolti in GS, II,
1, pp. 9-87, tutti anteriori alla I g.m. Però ancora nel 1920, come dimostra lo
scritto sull’Idiota, Benjamin è in linea con i suoi ideali anteguerra).
[24] Tra gli interpreti, Scholem
insiste più di ogni altro sulla melanconia come componente determinante
della spiritualità di Benjamin e quindi di alcuni suoi concetti base: cfr. op.
cit., pp. 52 ss., 63.
[25] Gli elementi che confluiscono
nel nichilismo di Benjamin sono indubbiamente molteplici: Nietzsche; il
surrealismo (Tiedemann, op.
cit., p. 120); il materialismo; una certa lettura del Tao-te-king.
Circa quest’ultimo confrontare il riferimento al Tao come « quel nulla che
rende servibile il qualcosa » (Franz Kafka, in Angelus Novus,
cit., p. 286; GS, II, 2, p. 435). I capitoli del Tao-te-king che
autorizzano, sia pure con molte riserve, una filosofia del non-essere e del
nulla, possono essere a mio avviso i seguenti: I, II, IV, XI (cfr. tr. it. a
cura di Paolo Siao Sci-Yi, Bari, 1947²). Sull’affermazione del nichilismo nel
frammento teologico-politico, cfr. Kaiser,
op. cit., p. 63.
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